I SETTE VIZI CAPITALI

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00martedì 19 dicembre 2017 12:07
In altre occasioni abbiamo accennato a questi vizi che possono paralizzare o tenere comunque in scacco le nostre anime quando non reagiamo adeguatamente con l'aiuto della Grazia. Siccome sono tanto pericolosi, ne riprendiamo qui la trattazione in maniera più particolareggiata.

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00martedì 19 dicembre 2017 12:08

I VIZI CAPITALI


Di don Giuseppe Tomaselli


 


INTRODUZIONE


Uno scritto sui « Vizi capitali » è di grande utilità. Ordinariamente quando si scrive, si rivolge la parola a qualche categoria di anime. Il presente lavoro invece riguarda tutti, perché non c'è per­sona che possa dire: Io sono esente da ogni miseria morale! ... Non sento gli incentivi al male!


Benedica il buon Dio questo umile scritto!


 


PRELUDIO


Nell'anima umana, per effetto della colpa originale, ci sono i germi dell'i­niquità.


Tra i vizi che albergano nel cuore, i più importanti sono quelli chiamati capitali. Essi sono sette e cioè: super­bia, avarizia, lussuria, ira, gola, invidia ed accidia. Si dicono capitali perché danno origine a tutti gli altri vizi.


Si rileva il male che producono nell'a­nima e si suggeriscono i mezzi per com­batterli con le virtù opposte.


E’ bene notare che le mancanze che si commettono in forza dei vizi capitali, non sempre sono peccati gravi o mortali; ma lo possono essere, purtroppo non ra­ramente.


 


SUPERBIA


Dicesi superbia il desiderio disordi­nato della propria eccellenza. È un vizio molto radicato in noi, il quale è causa di una grande quantità di peccati.


Iddio odia la superbia e la punisce. Il primo peccato di superbia fu com­messo dagli Angeli in Cielo, allorché si ribellarono a Dio con a capo Lucifero. La punizione fu tremenda, poiché subito fu creato l'inferno e vi precipitarono tutti i ribelli, per starvi eternamente. Un altro grave peccato di superbia fecero i nostri progenitori Adamo ed Eva nel Paradiso Terrestre, quando fu­rono tentati dal demonio a mangiare il frutto proibito da Dio. - Perché non mangiate di questo frutto? – domandò il tentatore. - Non possiamo, risposero, perché Iddio ce l'ha proibito! - Se lo mangerete, continuò il demonio, diven­terete simili a Dio! - Adamo ed Eva prestarono fede e, mossi dal desiderio di diventare simili al Creatore, colsero il frutto e lo mangiarono. Il peccato fu grave, non solo per la disubbidienza, ma anche per la superbia. Iddio, fortemente sdegnato, tolse ai due peccatori i doni soprannaturali, già dati gratuitamente, li condannò a morire e li cacciò dal Pa­radiso Terrestre.


 


Il Redentore.


Dio, giusto punitore della colpa, non tralascia però di compatire l'uomo im­pastato di debolezza e gli dà un rimedio efficace contro la superbia. Infatti la se­conda Persona della Santissima Trinità, il Figlio Eterno di Dio, lascia lo splen­dore del Cielo e si riveste di umana car­ne. Lo scopo dell'Incarnazione è di ria­prire il Paradiso agli uomini e di dare un meraviglioso esempio di umiltà, in opposizione all'innata superbia.


La vita terrena di Gesù Cristo fu una lotta continua al vizio della super­bia. Avrebbe egli potuto nascere in un palazzo reale e farsi ricoprire di gloria dagli uomini; ed invece nacque in una stalla, visse in una bottega facendo il fa­legname e mori ignudo sulla Croce, tra due ladroni, come un malfattore.


 


Gl'insegnamenti di Gesù.


Il Vangelo è ricco di massime e di parabole, che hanno per scopo di abbat­tere la superbia e d'insegnare l'umiltà. Gli Apostoli domandarono a Gesù: Maestro, chi è il più grande nel regno dei Cieli? -


Egli prese un bambino, lo pose in mezzo a loro e poi disse: Chi si umilie­rà, facendosi piccolo come questo bam­bino, costui sarà il più grande nel re­gno dei Cieli. -


E vedendo che gli Apostoli tende­vano alla superiorità, disse loro: I prin­cipi di questo mondo signoreggiano i loro sudditi; per voi non sia così. Chi di voi vuole essere il primo, sia l'ul­timo. -


Trovandosi in un convito Gesù ed osservando che gl'invitati brigavano per avere i primi posti, parlò in questo mo­do: Quando tu sei invitato a pranzo, non andare a metterti al primo posto, poiché potrà darsi che sia stato invi­tato uno superiore a te ed allora il pa­drone dovrà dirti: Amico, lascia questo posto e mettiti in fondo! - Allora ne avrai vergogna presso tutti i commen­sali. Quando invece sei invitato a tavola, mettiti nell'ultimo posto, affinché chi ti ha invitato abbia a dirti: Amico, vieni avanti! Così ne avrai onore presso tutti i convitati. Poichè chi s'innalza sarà u­miliato e chi si umilia sarà esaltato. -


Essendo la superbia come una feb­bre che spossa ed anche il motivo dell'in­quietudine del cuore umano, Gesù Cristo si dà quale modello a tutti, dicen­do: Imparate da me che sono mite ed umile di cuore e troverete il riposo per le anime vostre! -


Fortunati coloro che vivono in con­formità a questi divini insegnamenti!


 


Lo spirito di superbia.


L'amor proprio, o l'alta stima che cia­scuno sente di sé, fa sempre capolino e bisogna vigilare per non restarne vit­tima.


S. Giovanni Bosco confessa lui stesso di aver sentito nell'animo fin dalla fan­ciullezza una forte inclinazione allo spi­rito di superbia. Subito però si mise all'opera e riuscì vittorioso. Una volta potè dire in maniera lepida: Ho dovuto propormi di prendere per il collo la mia superbia, metterla sotto i piedi e cal­pestarla. -


Lo spirito di superbia porta ad es­sere ambiziosi, presuntuosi, vanitosi e rende ribelli all'autorità, per cui non si sopporta di stare soggetti ad altri e, quando lo si è costretti, internamente ci si rode. Veniamo ora alle particolari manife­stazioni della superbia.


 


I pensieri.


Il superbo nella sua mente ingran­disce i propri meriti e si gonfia come un pallone. Crede di essere qualche cosa di grande e perciò guarda dall'alto in basso, studiando i mezzi per eccellere sempre.


Se il superbo riceve un'offesa o una mancanza di riguardo, non sa darsi pace. Pensa e ripensa il torto ricevuto e con­cepisce desideri di vendetta. - A me fare questo affronto? ... Trattare in tal modo me, che ho tanti meriti? ... Ah! questo è troppo! - In preda a tali sen­timenti, perde la pace del cuore.


 


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00martedì 19 dicembre 2017 12:09

 


Le parole.


Il superbo non si contenta di pen­sare altamente di se, ma sente il biso­gno di esternare con le parole i suoi sentimenti. Si loda facilmente, metten­do in mostra i titoli di onore, dicendo di appartenere a nobile famiglia, par­lando con entusiasmo delle proprie cose e mettendo sempre avanti il proprio « io ». - Io faccio così ... Io in quel­l'occasione mi comportai in tal modo ... Io sono salutato sempre ... Io sono sti­mato assai ... Io porto abiti di lusso ...


Insomma s'incensa di continuo e non ricorda il proverbio: Chi si loda, s'im­broda! -


Chi ha il vizio della superbia, non si limita a lodarsi; è anche portato natu­ralmente a disprezzare gli altri.


Il parlare del superbo suole essere impastato di critica, di mormorazione e di bugia.


Coloro che assistono a simili conver­sazioni, esternamente dimostrano di approvare, per non irritare il superbo, ma appena questi si allontana, cominciano a ridere alle sue spalle, dicendo: Che superba persona! . .. Oh, quanto è scioc­ca! ... Ma cosa crede di essere?... -


E così si avvera il detto di Gesù: Chi s'innalza, sarà umiliato! -


 


Il volere comparire.


Il superbo è smanioso di comparire e fa di tutto per apparire in società qualche cosa di più degli altri. Se è ric­co, spende grosse somme per avere un'a­bitazione più bella degli altri ricchi, compra gioielli di grande valore ed in­dossa abiti lussuosi.


Se il superbo non è ricco, fa grande economia pur di comparire davanti agli altri; perciò limita le spese giornaliere, va forse in prestito di denaro e tutto spende in abiti eleganti ed in pro­fumi.


La persona superba e vanitosa ama di stare lungamente davanti allo specchio e studia la conciatura dei capelli e l'abbellimento del volto; studia anche il sorriso ed i movimenti del corpo, per apparire sempre più attraente. Esce di casa, non tanto per sbrigare faccende, quanto per mettersi in mostra. Lungo le vie cammina con affettazione e pare voglia dire a tutti: Guardatemi! ... Chi c'è simile a me? ... Desidera ricevere saluti e gode nel suo cuore ad ogni pic­cola dimostrazione di stima.


Poveri superbi vanitosi! ... Ma credete che tutti abbiano a pensare a voi?... Ognuno ha i propri fastidi e tira per la sua strada! ... Vale dunque la pena sprecare tanto tempo e denaro per la voglia di comparire? ... Cosa ne resta a voi di utile? Vanità della vanità!…


 


Le opere del superbo.


Le nostre opere devono essere diret­te alla gloria di Dio ed al bene del pros­simo; soltanto così sono meritorie per l'altra vita. Ma il superbo non bada a ciò, anzi agisce in senso contrario; il fi­ne del suo operare è l'appagamento del­l'orgoglio, con la ricerca della stima e dell'approvazione altrui.


È bene qui ricordare gli Scribi ed i Farisei, uomini superbi, i quali fu­rono riprovati da Gesù Cristo. Costoro facevano elemosina, pregavano a lungo, digiunavano ed erano osservanti scru­polosi della legge di Mosè. Tuttavia non erano accetti a Dio, perchè le loro opere erano fatte per riscuotere la lode degli uomini. Gesù perciò disse ai suoi disce­poli: Se la vostra giustizia non sarà più abbondante di quella degli Scribi e dei Farisei, non entrerete nel regno dei Cieli. -


Il superbo, quando non è visto, si astiene dal far la carità o ne fa assai poca; se invece sa di essere osservato, fa elemosina ed anche abbondante­mente, affinché possa sentirsi dire: Oh, com'è caritatevole e di buon cuore! -


Quello che si dice per la carità, si dica per tutto il resto.


Quale ricompensa può sperare il su­perbo da Dio in questa o nell'altra vita? Nessuna!


 


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00martedì 19 dicembre 2017 12:10

 


La superbia spirituale.


E’ superbia spirituale il credersi buono, anzi più buono degli altri ed il disprezzare il prossimo perchè peccatore. Questo ge­nere di superbia dispiace moltissimo a Dio, il quale conosce la miseria di ciascu­no e sa che senza il suo aiuto non può farsi niente di buono.


Il Signore suole abbandonare questi superbi, lasciandoli in balia di se stessi, permette che poco per cadano in nei peccati e specialmente in quelli più ver­gognosi, affinchè imparino a conoscere la propria miseria spirituale.


Bisogna perciò guardarsi da un vizio così funesto; e per riuscirvi, ci si umili tanto più, quanto maggiore è il progresso che si fa nella via della perfezione.


 


UMILTA


L'umiltà è la virtù opposta alla su­perbia e consiste nello stimarci per quello che siamo, cioè un impasto di miseria, e nell'attribuire a Dio l'onore di qualche bene che in noi riscontria­mo. Non dovremmo faticare molto a praticare l'umiltà, se fossimo davvero convinti di ciò che siamo.


Facciamo delle brevi considerazioni sopra l'umana miseria, per invogliarci sempre più dell'umiltà.


 


Il corpo umano.


Quanti vanno superbi del proprio corpo! C'è chi va orgoglioso per la bel­lezza del volto, chi per il colore dei capelli, chi per la freschezza della carna­gione, chi per la robustezza delle mem­bra, chi per la voce, ecc. Eppure, che cosa è il corpo umano, anche il più bello? E’ un pugno di fango.


Basta un po' di febbre per abbattere una forte corporatura; un foruncolo può deturpare in breve il viso più avve­nente; da ogni parte del corpo umano emanano odori nauseanti, per cui si ha da ricorrere alle ciprie ed ai profumi.


Appena avvenuta la morte, il corpo diventa freddo cadavere e presto ha principio la putrefazione. Si è costretti a chiuderlo in una cassa, ben saldata, e dopo lo si affida alla terra. Guai a tro­varsi vicino al corpo umano quando la dissoluzione è avanzata! La carne puru­lenta si stacca dallo scheletro e serve di pasto ai rettili più schifosi del sotto­suolo.


O uomini, o donne, che tanto vanto menate del vostro corpo e tanta cura ponete nel comparire, pensate a ciò che vi ridurrà presto o tardi la morte!


 


I beni di fortuna.


Cosa sono le ricchezze e la nobiltà del casato? Sono delle semplici vanità. Che merito ne hai tu, o uomo, se sei nato da nobili genitori e ne hai ereditato il nome, il denaro, il palazzo e le altre proprietà? Il merito, al massimo, sarebbe di chi ha faticato per procurar­ti tali beni. Quale differenza c'è tra te nobile e l'ultimo dei poveri? Tutti e due siete figli di Adamo e soggetti en­trambi ad un cumulo di miserie. Come tu non hai avuto merito a nascere ricco, così l'altro non ha avuto colpa a nascere povero. E dunque, perché disprezzare il povero, aver vergogna di stargli vicino e pretendere da lui atti di umiliazio­ne? ...


Si pensi che i beni di fortuna oggi ci sono e domani potrebbero non esser­ci. Un terremoto, un'inondazione, un furto, un fallimento... e scompaiono le ricchezze! Quanti nobili decaduti ricor­da la storia! Vale dunque la pena d'insuperbirsi per i beni di fortuna? ...


 


Le doti mentali.


Taluni hanno sortito da natura una memoria prodigiosa, oppure una intel­ligenza superiore, per cui ritengono quanto vedono e sentono e con facilità riescono in diversi rami della scienza. Altri, pur non avendo memoria ed in­telligenza straordinaria, hanno tuttavia un'attitudine particolare alla musica, alla poesia, alla pittura o ad altra arte bella.


Costoro hanno diritto d'insuperbir­si? Niente affatto! Le doti intellettuali sono doni di natura e si possono perde­re o in parte o completamente. Basta visitare un manicomio, per convincersi di ciò. Quanti professori valenti, medici di grido, avvocati celebri, ecc.... hanno perduto l'uso della ragione e sono rico­verati tra gli scemi!


 


Il bene spirituale.


Oltre alla memoria ed all'intelligen­za, noi abbiamo la volontà, che é la fa­coltà più nobile dell'anima nostra. La volontà è fatta per il bene e tende ad esso.


Molti vanno in cerca di beni falsi e passeggeri e trascurano i veri beni, che si acquistano con l'esercizio delle virtù cristiane.


Ci sono invece anime ricche di beni spirituali, che moltiplicano gli sforzi quotidiani e che hanno già raggiunto un buon grado di perfezione. Possono que­ste insuperbirsi della propria virtù? No! L'anima può fare il bene, perchè è sorretta dalla grazia di Dio; se manca quest'aiuto, la volontà non può fare niente. La volontà umana è tanto de­bole: oggi vuole il bene e domani si ap­piglia al male; oggi ama e domani odia.


Come possono insuperbirsi i virtuosi, pensando alla debolezza della loro volontà? Basta pensare al principe degli Apostoli, S. Pietro, che disse a Gesù Cristo: Io sono pronto a morire con Te! Non ti abbandonerò! - La stessa notte invece Lo rinnegò tre volte.


Quanti, che prima erano virtuosi e modello agli altri di vita cristiana, si pervertirono e divennero di scandalo! Dunque, si stia sempre umili e diffidenti di sè.


 


La parabola dei talenti.


Un tempo noi non esístevamo; quin­di eravamo nulla. Il Signore per sua in­finita bontà ci ha creati, dotandoci di beni nell'anima e nel corpo. Nel fare ciò, ha avuto dei fini particolari. Ascol­tiamo la parabola dei talenti, che Gesù narrò per il nostro ammaestramento:


« Un uomo, dovendo andare lontano, chiamò i suoi servi e diede loro i suoi beni. Ad uno consegnò cinque talenti, ad un altro due e ad un altro uno solo, a ciascuno secondo la propria capacità; e subito dopo partì.


Colui che aveva ricevuto cinque ta­lenti, andò a trafficarli e ne guadagnò altri cinque. Similmente colui che ne aveva ricevuto due. Il servo però che ne aveva ricevuto uno, andò a scavare in terra e nascose il denaro del suo pa­drone.


Dopo molto tempo venne il padrone di quei servi e fece i conti con essi. E fattosi avanti chi aveva ricevuto cinque talenti, ne consegnò altri cinque di­cendo: Padrone, mi hai dato cinque ta­lenti; ecco ne ho guadagnati altri cin­que. - Gli rispose il padrone: Ben ti sta, servo buono e fedele; poichè sei stato fedele nel poco, ti costituirò a capo di molto; entra nel gaudio del tuo pa­drone! -


Si fece avanti poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: Padrone, mi hai dato due talenti; ecco ne ho gua­dagnati altri due. Gli disse il padrone: Ben ti sta, servo buono e fedele, poiché sei stato fedele nel poco, ti costituirò a capo di molto; entra nel gaudio del tuo padrone. -


Dopo venne avanti anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: Padrone, so che sei uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; avendo io timore, sono andato a nascondere sotto terra il tuo talento. Eccoti ciò che è tuo! - Gli ri­spose il padrone: Servo cattivo e infin­gardo, sapevi che mieto dove non ho seminato e che raccolgo dove non ho sparso; bisognava dunque che tu affi­dassi il mio denaro alle banche e così ritornando io avrei percepito il mio de­naro con il frutto. Perciò, sia tolto a lui il talento e sia dato a chi ne ha dieci; imperocché a chi ha, sarà dato ed ab­bonderà; a colui che non ha, sarà tolto anche quello che crede di avere. E que­sto servo inutile sia gettato nelle tene­bre esteriori; ivi sarà pianto a stridor di denti».


Questa parabola c'insegna che Iddio dà a ciascuno dei beni, ma a chi dà più ed a chi meno. Ad uno dà molta ric­chezza, ad un altro il puro necessario; a chi offre un corpo vigoroso e bello, a chi dà un corpo debole e difettoso; ad uno largisce un'intelligenza vasta e pro­fonda, ad un altro una mente mediocre oppure incapace.


Alla fine della vita, quando si ha da comparire davanti a Cristo Giudice, ciascuno dovrà dar conto dei doni rice­vuti e sarà domandato più a colui al quale più è stato dato.


Quando perciò si hanno doni parti­colari, materiali o spirituali, invece di montare in superbia, si pensi ad essere grati a Dio ed a corrispondere alle sue mire divine.


Per conservare l'umiltà, giova il con­siderare il seguente paragone.


Un ricco signore vuol cambiare di­mora e stabilisce di trasportare tutto alla nuova abitazione servendosi di al­cuni asini.


Sul primo asino mette la cassaforte, con il denaro ed i gioielli; sul secondo colloca dei quadri, capolavori di arte; sul terzo mette i drappi preziosi, sul quarto gli intensili di poco valore; sul quinto infine depone gli stracci ed altri oggetti di basso uso.


Supponiamo che questi asini possano parlare e lungo il tragitto tengano una conversazione:


- State lontani da me, dice il primo asino ai compagni; io sono il più nobile, perché ho tanta ricchezza; mi vergogno di stare accanto a voi! - Gli altri potreb­bero rispondere: Sciocco e superbo! So­no forse tuoi i tesori che porti? Non sono del padrone? Non avrebbe potuto metterli sulla nostra groppa? Del resto, appena arrivati alla nuova dimora, tutto ti sarà tolto e resterai un povero asino come noi! Pensa dunque che asino sei ed asino rimarrai! -


Quanto insegnamento dà questo pa­ragone! ... Dovrebbero tenerlo presente i superbi!


L'umiltà è verità; come tale, se ci fa riconoscere la nostra miseria, non c'im­pedisce di riconoscere quanto in noi ci sia di buono, purchè tutto si riferisca a Dio.


Perciò non manca d'umiltà chi ri­conosce di essere ricco o intelligente o di bell'aspetto o arricchito di doni spiri­tuali. Quando però si riceve qualche lode per le buone qualità, si dica in cuore: Non a me, o Signore, ma sia glo­ria a te, datore d'ogni bene! -


È tanto facile però rubare a Dio la gloria! Questo si fa quando volontaria­mente noi godiamo delle nostre belle doti, quasi fosse merito nostro l'averle.


 


L'insegnamento della Madonna.


Maria Santissima, scelta a diventare Madre del Figlio di Dio, si umiliò davanti all'Arcangelo Gabriele, che la salutava « Piena di grazia ». Quanta umiltà in que­ste parole: « Ecco la serva del Signore! Si faccia di me secondo la tua parola! »


Iddio la sceglieva per Madre e lei si di­chiarava serva! Quantunque umilissima, la Vergine sciolse un inno d'amore e di gratitudine al Signore riconoscendo la propria dignità.


Allorché S. Elisabetta le disse: E don­de a me quest'onore, che la Madre del mio Signore viene a me! - le rispose: L'anima mia magnifica il Signore ed esul­ta il mio spirito in Dio, mia salvezza! Poi­che Egli guardò l'umiltà della sua ser­va; da questo momento tutte le gene­razioni mi chiameranno beata! Impe­rocche ha fatto a me cose grandi Colui che è potente ed il cui nome è Santo! -


La Madonna c'insegna che anche nell'umiltà possiamo riconoscere in noi i doni di Dio e gioire di ciò, purché di tutto si dia gloria al Signore.


 


Umiltà davanti a Dio.


Non dobbiamo mai confidare in noi stessi, come se fossimo qualche cosa davanti a Dio, stimandoci giusti. Ecco la parabola che fa al caso nostro.


- Due uomini, dice Gesù Cristo, anda­rono al Tempio per pregare; uno era fariseo e l'altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così: Ti ringra­zio, o Dio, che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri; e nean­che sono come quel pubblicano. Io digiu­no due volte nel sabato; do decime di tutto ciò che possiedo.


Il pubblicano invece stando in fondo al Tempio, non osava neanche alzare gli occhi al cielo; ma batteva il petto dicendo: O Dio, siate propizio a me pec­catore! -


Io vi dico, conclude Gesù, che que­sto pubblicano ritornò a casa giustifica­to, a differenza dell'altro; perché chiun­que si esalta sarà umiliato e chiunque si umilia sarà esaltato. -


La parabola é molto eloquente. Se vogliamo che Iddio ci perdoni i peccati, umiliamoci sinceramente davanti a Lui, riconoscendo la nostra miseria.


Se fossimo realmente buoni, se cioè osservassimo bene la legge di Dio, non potremmo allora pensare altamente di noi? Neppure questo è lecito. Infatti Ge­sù ci dice: Quando voi avrete fatto tutto ciò che vi è stato comandato, dite: Sia­mo servi inutili! Abbiamo fatto ciò che dovevamo fare! -


Ora, se chi adempie bene i comanda­menti di Dio, deve dirsi servo inutile, che cosa pensare di chi ha fatto, oppure fa qualche peccato? ... E chi è sulla ter­ra che non pecca? ...


 


I patimenti.


Il Signore non lascia mancare la cro­ce ne’ ai cattivi ne’ ai buoni. Ai primi il soffrire serve a castigo dei peccati ed a mezzo di richiamo sulla buona via; ai secondi è fonte di merito per il Paradiso.


Il vero umile quando riceve una cro­ce, sia una malattia, sia una disgrazia o una contrarietà, non si ribella a Dio, ma tutto facilmente abbraccia, dicendo: Signore, ho peccato! ... Merito questa cro­ce, a motivo dei miei peccati! Abbiate pietà di me e datemi la forza di soffri­re! - Chi può dire quali tesori per il Cielo guadagna, facendo così l'anima umi­le?...


Il superbo invece, se si trova nella sofferenza, si arrabbia e dice: Ma che co­sa ho fatto a Dio, perché abbia a trattar­mi così? Ho fatto bene nella mia vita! - Povero superbo, come si sbaglia davan­ti a Dio! ...


 


Umiltà col prossimo.


L'umiltà con gli altri si pratica pen­sando bene di tutti e scusando quelli che sbagliano; non mormorando dei difetti altrui, anzi sopportandoli con pazienza; trattando con rispetto e cortesia tutti, anche i poveri, i rozzi e gl'ignoranti; non usando parole sprezzanti coi dipendenti e persone di servizio; non disprezzando la compagnia di chi è di bassa condizione; finalmente, aiutando i bisognosi.


Facendo così, si diventa amici di tut­ti e naturalmente si è stimati e lodati con disinteresse.


 


Umiltà con se stessi.


Si pratica l'umiltà con se stessi, non soltanto riconoscendo la propria miseria, ma anche accettando con calma le umilia­zioni. Un insulto, una mancanza di ri­guardo, un merito non riconosciuto, un favore ricambiato in male ... son cose che feriscono la superbia umana. L'u­miltà ci fa scoprire tutto ciò con corag­gio cristiano, pensando che per i nostri peccati siamo meritevoli di ogni umilia­zione.


L'umiltà c'insegna anche a pregare per chi ci ha umiliati.


Ma come avere la forza di praticare l'umiltà in tal guisa? Tenendo presen­te l'esempio di Gesù Cristo!


Nelle umiliazioni pensiamo a Gesù quando era insultato, ingiuriato, sputacchiato e preso a schiaffi dai perfidi Giu­dei. Se Gesù, Figlio di Dio, innocentis­simo, sopportò tante e sì gravi umilia­zioni, noi Cristiani, essendo suoi segua­ci, sforziamoci d'imitarlo come facevano i Santi e così troveremo il riposo per le anime nostre.


Credente
00martedì 19 dicembre 2017 12:12

AVARIZIA


Il secondo vizio capitale è l'avarizia, cioè l'amore disordinato dei beni terreni, chiamati comunemente « beni di fortu­na ».


L'avarizia è peccato più o meno gra­ve, secondo che offende più o meno gra­vemente la carità o la giustizia.


Se il cuore umano è dominato da que­sto vizio, ad altro non pensa e non mira che alla ricchezza; diventa schiavo del denaro, sino ad adorare come Dio la mo­neta.


Gli avari, propriamente detti, non so­no molti; costoro si privano del neces­sario pur di accumulare denaro. Però gli attaccati alle ricchezze più del giusto, so­no in gran numero. Per convincersi di ciò, basta vedere con quale avidità si compera e si vende, quante liti si sosten­gono ed a quanti sacrifici si va incontro per accrescere il proprio guadagno.


Non è da confondersi con l'avarizia il giusto desiderio di guadagnare del de­naro, per sovvenire ai propri bisogni ed a quelli della famiglia; neppure è avarizia quel senso di economia, per cui si limi­tano le spese non necessarie, allo scopo di mettere da parte qualche cosa per gl'im­previsti della vita.


 


Conseguenze.


Il desiderio di arricchire suole spin­gere all'usura.


Il bisognoso si rivolge al benestante per avere in prestito denaro. Bisognereb­be immedesimarsi della necessità del pros­simo e dare in prestito generosamente, senza domandare interesse, oppure chie­dere il minimo. Chi però è attaccato alla ricchezza, o non dà in prestito o, se dà, richiede molto interesse. Quanti usurai fanno piangere intiere famiglie, spillando denaro a più non posso! Giustamente questi miserabili sono chiamati strozzini, perché strozzano il prossimo, prendendolo per la gola.


L'amore sregolato al denaro fa froda­re anche la giusta mercede all'operaio. Il lavoro dev'essere retribuito come si conviene, cioè la paga dev'essere in rap­porto alla fatica ed all'abilità.


L'avaro invece esige molto lavoro e re­tribuisce poco, dando così motivo di be­stemmiare e d'imprecare.


L'amore al denaro mette a tacere anche la voce del sangue. Perché tra genitori e figli, tra fratelli e sorelle, tra zii e ni­poti, non si mantiene la dovuta cordia­lità? ... Perché spesso costoro non si vi­sitano, non si salutano, anzi si calunniano, augurandosi ogni male? È la conseguen­za dell'attacco al denaro.


E quanti delitti non si commettono per appropriarsi della roba altrui! Ed a quanti parenti si desidera la morte pre­matura, nella speranza di aver presto l'ere­dità o qualche lascito!


Giuda tradì Gesù Cristo per trenta de­nari; e chiunque si lascia vincere dall'amo­re ai beni di questo mondo, non c'è ma­le che non possa commettere, davanti alla possibilità di arricchire ancora.


 


IL NECESSARIO


L'esempio di Gesù.


I beni di questo mondo ci sono stati dati da Dio come mezzo di sostenimento; non bisogna dunque attaccarvi troppo il cuore e cambiare così il mezzo col fine. Gesù diede al mondo l'esempio del più completo distacco dai beni terreni, per far comprendere che le vere ricchezze sono quelle celesti. Egli perciò volle una Ma­dre povera ed un Padre Putativo povero; nacque nella massima povertà; lavorò e visse da povero, sino a dire ad un tale che voleva seguirlo: Gli uccelli dell'aria hanno i loro nidi e le volpi le loro tane, ma il Figlio dell'uomo non ha neppure dove posare il capo. -


 


L'insegnamento divino.


Gesù amava i poveri, sino a chiamarli beati, e proclamò questo solennemente quando disse alla moltitudine dall'alto di una montagna: Beati i poveri di spirito,. cioè i distaccati dalle ricchezze, perché di essi è il regno dei Cieli! -


Ma mentre il Divin Maestro ai poveri dice questo, ai ricchi rivolge parole terri­bili: Guai ai ricchi! E’ più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, anziché un ricco entrare in Paradiso! - Ciò significa che chi è ricco ed è molto legato ai beni, difficilmente potrà salvare l'anima sua.


 


I bisogni della vita.


Finché si sta sulla terra, si ha biso­gno di cibo, di vestiti e di altre cose accessorie. Dunque si ha da brigare af­finché niente venga a mancarci.


Dice S. Paolo: Avendo di che nutrir­ci e di che coprirci, di ciò dobbiamo es­sere contenti. -


Perciò non è male cercare quello che è necessario. Il Signore però vuole che non si abbia troppa preoccupazione del cibo e del vestito; desidera invece che si viva con maggiore fiducia nella sua prov­videnza.


 


Gli uccelli ed i fiori.


« Guardate, - dice Gesù Cristo, - gli uccelli dell'aria; non seminano, non mietono e non raccolgono nei granai; ep­pure il vostro Padre Celeste li nutrisce. Non valete voi più di molti uccelli? E chi di voi, pensando, può aggiungere alla sua statura un solo cubito? E del vesti­mento perché vi preoccupate? Conside­rate come crescono i gigli del campo; non lavorano e non tessono. Ed io vi dico che neppure Salomone nella sua glo­ria fu coperto come uno di essi. Se adun­que l'erba del campo, che oggi c'è e do­mani si getta nel fuoco, Iddio veste in tale modo, quanto più vestirà voi, uo­mini di poca fede? Non vogliate perciò essere troppo solleciti, dicendo: Che co­sa mangeremo o che cosa berremo o come ci copriremo? - Tutte queste cose infatti cercano i pagani. Sa il vostro Padre Ce­leste che voi abbisognate di tutte queste cose ».


Queste parole sono uscite dalla boc­ca di Dio e quindi sono verissime. Ma come si spiega che tanti mancano del necessario?


La ragione la dà lo stesso Gesù, con­cludendo il discorso precedente: Cercate prima il regno di Dio e la sua giusti­zia e tutte queste cose vi saranno date per giunta. Non vogliate dunque essere preoccupati soverchiamente del doma­ni. -


Se si osserva la legge di Dio, come si deve, il Signore non ci farà mancare il necessario.


Il più datelo ai poveri! Gesù c'insegna a pensare anche al pros­simo bisognoso e dice: Quello che avete di più, datelo ai poveri! -


Oh! se si mettesse in pratica questo divino precetto, come si solleverebbe l'u­manità! Non avremmo i ricconi e neppure i miserabili.


 


I veri tesori.


La virtù opposta all'avarizia è la li­beralità e consiste nell'avere il cuore stac­cato dalla ricchezza e nel beneficare gli altri, nel limite della propria possibilità.


« Non vogliate, - dice il Signore; - affaticarvi per guadagnare tesori sulla ter­ra, tesori che la ruggine e la tignola di­struggono e che i ladri dissotterrano e rubano. Procuratevi invece tesori per il Cielo ... Fatevi degli amici col Mam­mona d'iniquità, (cioè col denaro,) affin­ché quando verrete meno, possiate esse­re ricevuti negli eterni tabernacoli ».


Il Signore in tal modo ci esorta a te­soreggiare per il Paradiso e ci dice di servirci del denaro per assicurarci la feli­cità eterna. Chi infatti fa buon uso del denaro, esercitando la cristiana carità, sconta i peccati e si arricchisce di tesori, che troverà in Cielo quando verrà meno con la morte.


Ma mentre è promesso il Paradiso a chi fa buon uso delle ricchezze, è minac­ciato il fuoco dell'inferno a chi non fa carità, avendone la possibilità.


 


Il ricco epulone.


Leggiamo nel Vangelo: C'era un uo­mo ricco, che vestiva porpora e tutti i giorni dava grandi banchetti. C'era an­che un mendicante, di nome Lazzaro, il quale pieno di piaghe giaceva alla porta di lui, bramoso dl sfamarsi con le bri­ciole che cadevano dalla tavola del ricco, ma nessuno gliene dava; soltanto i cani andavano a leccargli le piaghe. Il mendi­cante mori’ e fu portato dagli Angeli in seno ad Abramo; mori’ anche il ricco e fu sepolto nell'inferno. Alzando costui gli occhi, mentre era nei tormenti, vide da lungi Abramo e Lazzaro nel suo seno. Allora ad alta voce esclamò: Padre Abra­mo, abbi pietà di me e manda Lazzaro ad intingere nell'acqua la punta del dito per rinfrescare la mia lingua, perché io spasi­mo in questa fiamma! - Ma Abramo gli rispose: Ricordati che tu avesti la tua parte di beni durante la vita, mentre Laz­zaro ebbe nel medesimo tempo la sua parte di mali; perciò ora egli è consolato e tu sei tormentato. Oltre a questo, una grande voragine è posta tra noi e voi. -


Quegli replicò: Io ti prego adunque che tu lo mandi a casa di mio padre, perchè ho cinque fratelli, per avvertirli di queste cose, affinché non abbiano anch'essi a venire in questo luogo di tor­mento. - Abramo rispose. Hanno Mosè ed i Profeti; ascoltino quelli. - E l'altro replicò: No, Padre Abramo, se un morto andrà a loro, faranno penitenza. - Ma Abramo rispose: Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non crederanno neppure ad un uomo risuscitato. -


Il ricco epulone fu condannato al fuoco eterno per il solo fatto che aveva tanti beni e non si dava pensiero di farne partecipe il povero mendicante.


 


Credente
00martedì 19 dicembre 2017 12:14

LUSSURIA


Uno dei vizi che fa più strage morale in mezzo all'umanità, è la lussuria, cioè il piacere sensuale. Questo vizio si suole anche chiamare disonestà, immoralità o impurità.


Iddio ci ha dato un corpo fornito di sensi ed un'anima intelligente e volitiva. Il corpo ha delle funzioni particolari, stabilite dal Creatore, funzioni che se si compiono contrariamente all'ordine vo­luto da Dio, sono un male molto grande.


Per la qual cosa il Signore ha mes­so nel Decalogo due comandamenti espli­citi, uno che riguarda le azioni: « Non commettere atti impuri » e l'altro che ri­guarda i pensieri: « Non desiderare la persona degli altri ». Chiunque manca volontariamente contro questi comanda­menti, commette sempre peccato mortale, non ammettendo la lussuria parvità di materia.


 


Funeste conseguenze.


La lussuria è un vizio così potente, che guai a lasciarsene dominare! La schiavitù delle impure passioni è infatti la più vergognosa ed umiliante.


Davanti a questo vizio si sacrifica la propria dignità e si diventa simili alle bestie senza ragione; si sacrifica la salute, per cui si va a finire al manicomio, op­pure si va alla tomba prima del tempo. Si sacrifica il denaro, la pace della famiglia, la pace del cuore; e più che tutto si sacri­fica l'anima rendendola un tizzone d'in­ferno.


Al tempo di Noè il Signore punì questo brutto vizio con il diluvio universale; ed al tempo di Abramo punì le città delle Pentapoli mandando il fuoco dal cielo, che incenerì tutti gli abitanti. Se riflet­tiamo bene, possiamo convincerci che buona parte dei mali che oggi affliggono l'umanità, sono dovuti, al dilagare della disonestà.


 


PUREZZA


Alla disonestà si oppone la purezza, che è chiamata « la bella virtù » per ec­cellenza; essa è detta anche virtù angelica, virtù sublime, compendio di ogni virtù.


Il simbolo di questa virtù è il giglio, fiore candido e profumato; infatti l'anima che possiede la purezza, è come un giglio che attira sopra di se gli occhi di Dio.


 


Gesù Cristo.


Nella Sacra Scrittura Gesù è chiamato l'Agnello che si pasce tra i gigli. Pren­dendo Egli forma umana, volle un corpo purissimo e lo prese da Maria Vergine, la più pura delle creature. Volle un custode o Padre Putativo e lo scelse nella persona di Giuseppe, il fabbro di Nazaret, uomo oltremodo puro, degno di stare a fianco di Maria Santissima.


Volle un Precursore, cioè uno che gli preparasse la via in mezzo al popolo ebreo, e lo trovò in Giovanni Battista, uomo austero, di costumi illibati, e che mori’ poi martire della purezza.


Gesù si circondò degli Apostoli, uomini ben costumati, ed amò stare tra i piccoli perchè innocenti e puri, dicendo con en­fasi: Lasciate che i pargoli vengano a me! -


Davanti alla moltitudine che lo ascol­tava estasiata, esclamò: Beati i puri di cuore, perché essi vedranno Dio! -


Il Signore permise che i suoi nemici invidiosi lo chiamassero impostore, be­stemmiatore, indemoniato ... ma non permise che lo tacciassero riguardo alla purezza, tanto che potè sfidare pubblica­mente i suoi avversari, dicendo: Chi di voi può accusarmi di peccato? - e tutti tacquero.


 


Purezza matrimoniale.


Tutti abbiamo il dovere di essere puri, ciascuno secondo il proprio stato. C'è la purezza matrimoniale e quella verginale. Coloro che sono uniti col vincolo ma­trimoniale, hanno degli obblighi gravi, ai quali non devono mancare. Si ricordino che anche per essi c'è il sesto e il nono Comandamento. Per gli sposati il mancare contro la virtù della purezza importa una gravità maggiore che non per i celibi. Purtroppo la santità matrimoniale è profanata con tanta facilità. Iddio vede tutto e darà a suo tempo a ciascuno il dovuto castigo.


Nella vita di S. Caterina da Siena si legge che il Signore in una rivelazione le disse essere molto offeso per i peccati che si commettono dai coniugati.


È bene perciò che gli sposati esami­nino la propria coscienza, per vedere se c'è da correggere qualche cosa.


 


Purezza verginale.


Chiamasi purezza verginale quella che devono osservare tutti coloro che sono liberi dal vincolo matrimoniale.


Per praticare bene questa virtù ci vuole buona volontà; il premio però è gran­dissimo.


Un'anima vergine dà a Dio molta gloria e si arricchisce continuamente di meriti per il Cielo.


Non mancano nel mondo queste ani­me generose, che sacrificano ogni umano diletto per amore del regno dei Cieli. Co­storo godono in terra le gioie pure dello spirito ed avranno nell'altra vita un premio particolare.


San Giovanni Evangelista in una vi­sione vide il Paradiso ed i Beati vicino al trono di Dio. Scorse una schiera di anime che seguivano festanti l'Agnello Immacolato, Gesù Cristo, dovunque Egli andasse, e cantavano un inno, che sola­mente a loro era permesso di cantare. San Giovanni chiese: - Chi sono costoro? - Gli fu risposto: Sono le ani­me vergini, che hanno lavato la loro stola nel Sangue dell'Agnello. -


Attratti dalla sublimità di questa virtù, tante anime fanno il voto di purezza, o temporanea o perpetua. Prima però di emettere un tal voto, si domandi il pa­rere al proprio Confessore, poiché è fa­cile in un momento di fervore offrirsi al Signore, ma non è sempre facile essere puri come si deve. Si sappia che chiunque fa il voto di purezza, guadagna doppio me­rito delle opere buone che compie riguar­do a questa virtù. Però se manca volonta­riamente contro la purità, o nei pensieri o nelle parole o nelle opere, commette allora doppio peccato grave, uno contro il Comandamento di Dio e l'altro contro il voto emesso. In Confessione si deve dire: Padre, ho peccato contro la purità; però ho anche il voto. -


Dal voto di purezza temporanea, cioè per mesi o per anni, si può ottenere la dispensa dal Vescovo o da altro Sacerdo­te che ne abbia facoltà. Dal voto di purezza perpetua, cioè di tutta la vita, si può ottenere la dispensa solamente dalla Santa Sede. Però, se il voto perpetuo è stato fatto prima dei diciotto anni, non occorre rivolgersi alla Santa Sede per la dispensa.


 


Il corpo.


Se vogliamo essere puri, dobbiamo custodire il corpo, il quale è il più gran­de nemico della purezza.


Pur dando al corpo quanto gli spetta, non gli si conceda troppa libertà. Chi non riesce a dominare con facilità i pro­pri sensi, presto o tardi perderà la bella virtù.


Iddio ci ha dato gli occhi affinché po­tessimo servircene in bene. Essi però sono chiamati le finestre dell'impurità; difatti guardare, pensare e peccare, sono spesso indivisibili.


Non è lecito guardare ciò che non è lecito desiderare. Si custodiscano dunque gli occhi e non si posino maliziosamente nè sopra oggetti nè sopra persone. Uno sguardo cattivo può dare la morte al­l'anima. Eppure, con quanta facilità si profa­nano gli occhi! ...


Dovremmo essere tanto grati a Dio per il dono della lingua; invece la maggior parte delle persone se ne serve in male. Quante parolacce triviali e libere si pro­nunziano nella rabbia, oppure nello scherzo! Quante frasi equivoche si met­tono fuori per fare dello spirito!


Tuttavia ciò che costituisce un gran­de male, è il discorso disonesto o vergo­gnoso. Il parlare scandalosamente è la rovina della propria purezza e dell'al­trui e costituisce per lo più un grande male.


Bisognerebbe fare una lotta spietata al parlare immorale, rimproverando senza tanto riserbo chi ha la sfacciataggine d'intavolare certi discorsi ... che fan­no vergogna.


È necessario mortificare la curiosità di sapere e di sentire ciò che non è con­veniente.


Siccome le orecchie non si possono chiudere, come si fa per gli occhi, la mi­glior cosa è allontanarsi da chi tiene cat­tivi discorsi. Nè si pensi che l'ascoltare chi parla scandalosamente sia cosa insi­gnificante, poiché si comporta male chi fa il discorso disonesto e chi l'ascolta volentieri.


Il corpo è tempio dello Spirito Santo; si rispetti perciò come una cosa sacra. Il senso del tatto sia delicatamente custodito e si porti grande rispetto alla propria ed all'altrui persona, evitando ogni libertà illecita con se e con gli altri. Il cuore è fatto per amare; perciò non tutti gli amori sono leciti.


Quando ci si accorge che il cuore tende ad un amore non buono, bisogna subito troncare gli affetti, diversamente le fiam­me amorose aumenteranno sempre più e si svilupperà un incendio inestinguibile. Il cuore umano non tenuto a freno, porta nell'abisso della impurità e poi nell'abis­so infernale.


Pensino a custodire bene il cuore specialmente le donne, le quali sono tan­to facili ad amare!


 


I pensieri.


Ad una certa età, quando cioè si esce dalla fanciullezza, i pensieri cattivi co­minciano a disturbar la mente. Non è il caso di preoccuparsi per tali pensieri, perchè non sono mai peccato quando la volontà è contraria.


Chi ha nella mente cattivi pensieri ed impure immaginazioni, ma senza ba­dare al male che fa, unicamente per di­strazione ed inavvertitamente, non com­mette peccato alcuno.


Chi si ferma nei brutti pensieri con poca avvertenza, oppure senza la piena volontà, commette un semplice peccato leggero.


Chi invece si pasce di pensieri e desi­deri illeciti e fa ciò con piena conoscen­za e con piena volontà, è colpevole di grave peccato contro la purezza.


Coloro che si accorgono del cattivo pensiero e subito lo scacciano, o fanno ad esso l'atto contrario, non peccano, ma guadagnano merito davanti a Dio. Si confortino perciò le anime tentate, pen­sando che neppure i più grandi Santi sono stati esenti da simili assalti.


 


La cattiva abitudine.


Tutte le abitudini cattive sono fu­neste; ma l'abitudine del peccato impu­ro è la più disastrosa. Infelice chi cade e ricade con frequenza in questo pec­cato! O l'anima si rimette sulla buona via o andrà inesorabilmente perduta.


Ci sono dei mezzi efficaci per tron­care l'abitudine dell'impurità. Il primo è la buona volontà. Il demonio sugge­risce che è impossibile rompere la cate­na della cattiva abitudine; ma ciò non è vero. Chi vuole può. Quanti infatti, già schiavi del brutto vizio, si sono cor­retti ed hanno fatto penitenza! Mad­dalena, la Samaritana, Sant'Agostino, Santa Taide, Santa Maria Egiziaca, ecc.... furono anime grandemente peccatrici e scandalose, ruppero però la catena della rea abitudine ed ora sono degne di pubbli­ca venerazione sugli Altari.


Il secondo mezzo è la preghiera. Pre­gando, si rafforza la volontà ed aumenta l'energia spirituale. E’ bene anche far celebrare qualche Santa Messa.


Un mezzo potente assai è la Confes­sione frequente e ben fatta, unita alla Santa Comunione. Se è il caso, ci si con­fessi ogni giorno. Commesso un peccato impuro, non si aspetti che se ne faccia un altro prima di andare a confessarsi. Se si ritarda a mettersi in grazia di Dio, il demonio farà moltiplicare i peccati e sarà poi più difficile il rialzarsi. La Con­fessione sia fatta bene, cioè sincera e col dovuto dolore. Purtroppo, chi cade nel­l'impurità, non di raro per vergogna tace in Confessione ciò che è tenuto a mani­festare al Ministro di Dio e così commet­te il sacrilegio. Altri invece, pur confes­sando tutto, non hanno il vero dolore per detestare il peccato impuro e così non ri­cavano utilità dalla Confessione. Ripor­to una visione di San Giovanni Bosco.


 


La corda limacciosa.


Dice il Santo: Mi trovai in una gran­de sala illuminata, ed ecco comparire una schiera di bellissimi giovanetti come An­geli, che tenevano nelle mani dei gigli e li distribuivano qua e là, e coloro che li ricevevano si sollevavano da terra. Doman­dai alla mia guida che cosa significassero quei giovani che portavàno il giglio e mi fu risposto: Sono quelli che seppero con­servare la virtù della purità. -


Scomparve la bellissima luce ed io ri­masi al buio. Di poi vedevo facce rosse, quasi infuocate. Vidi alcuni giovani che si affaticavano attorno ad una corda li­macciosa, pendente dall'alto, e si sfor­zavano di arrampicarsi ed andare in alto; ma la corda cedeva sempre e veniva giù un poco, di modo che quei poverini erano sempre a terra con le mani e la persona infangate. Meravigliato di ciò, domandai cosa volesse significare quello che vedevo. Mi fu risposto: La corda è la Confessione; chi sa bene attaccarvisi, arriverà al Cielo, e questi sono quei giovani che vanno so­vente a confessarsi e si attaccano a questa corda per potersi innalzare; ma vanno a confessarsi senza le dovute disposizioni, con poco dolore e poco proponimento. -


Vidi in seguito un altro spettacolo più desolante. Certi giovani di aspetto tetro avevano attorcigliato al collo un gran serpentaccio, che con la coda an­dava al cuore e sporgeva innanzi la te­sta e la posava vicino alla bocca del me­schino, come per mordergli la lingua, se mai aprisse le labbra. La faccia di quei giovani era così brutta che mi faceva paura; gli occhi erano stravolti; la loro bocca era torta ed essi erano in una po­sizione da mettere spavento. Domandai il significato di ciò e mi fu detto: Il ser­pente stringe la gola a quegl'infelici e, per non lasciarli parlare in Confessione, sta attento se aprono la bocca per morderli. Poveretti! Se parlassero, farebbero una buona Confessione ed il demonio non potrebbe più niente contro di loro. Ma per rispetto umano non parlano, tengono i loro peccati nella coscienza, tornano più e più volte a confessarsi, senza mai osare di mettere fuori il ve­leno che racchiudono nel cuore. Va' a dire ai tuoi giovani che stiano attenti e racconta loro quello che hai visto. -


 


La penitenza.


Tra i rimedi per vincere la cattiva abitudine del peccato impuro, è da met­tere la mortificazione o penitenza. Il cor­po è come un cavallo furioso e bizzarro, che ha bisogno della frusta e degli spe­roni per essere tenuto a bada.


Chi vuol correggersi, si privi di tanto in tanto di piaceri anche leciti, faccia qualche penitenza speciale, come sarebbe un digiuno, il battere il corpo con qualche strumento, il portare un piccolo cilizio ... Se facevano questo i Santi, i quali non ne avevano tanto bi­sogno, perchè non hanno da farlo coloro che facilmente cadono nell'impurità? ... Si è provato che la penitenza del corpo mette in fuga la disonestà.


In conclusione, chi vuol correggersi davvero, ogni qual volta ha la disgrazia di cadere nel brutto peccato, s'imponga una qualche penitenza corporale. Ad ogni nuova caduta, una nuova peni­tenza. E’ impossibile non correggersi con tale rimedio.


 


Consigli per custodire la purezza.


Per custodire il giglio della purezza si procuri di tenere occupata la mente in buoni pensieri. Si stia sempre occu­pati, perchè l'ozio è il padre dei vizi. Si pensi che vicino a noi c'è l'Angelo Custode, notte e giorno, e perciò non deve farsi mai cosa alcuna che sia in­degna della sua presenza.


Si pensi spesso che Iddio vede tutto, anche i pensieri più nascosti, e non si abbia la spudoratezza di fare alla pre­senza del Signore, quel male che non si farebbe alla presenza dei genitori o di persona riguardevole. Quando la ten­tazione assale e minaccia di aumentare l'energia, è bene interrompere l'occu­pazione che si ha per mano, mettersi a passeggiare, lasciare la solitudine cer­cando un poco di onesta compagnia, cantare lodi sacre, ecc....


Se con tutto ciò la tentazione ingi­gantisce, il che è molto raro, non ri­mane altro che gettarsi in ginocchio, baciare il Crocifisso o la medaglia, fare la Croce possibilmente con l'acqua be­nedetta e dire con fede: Prima la morte, o Signore, anzichè peccare!


 


Fuga delle occasioni.


E’ occasione di peccato tutto ciò che esternamente sollecita la volontà a pec­care, sia persona, sia oggetto, sia luogo. L'occasione può essere remota e prossima. Si dice remota, quando non è ta­le da spingere fortemente la volontà alla colpa grave; è prossima, quando ordinariamente trascina al peccato mor­tale.


Chi si mette in una data occasione, ad esempio, dieci volte, e sempre o la maggior parte delle volte cade nella col­pa grave, allora si trova nella vera oc­casione prossima di peccato. Si tenga bene in mente questo: Chiunque si mette nell'occasione prossima di grave peccato volontariamente e senza una forte ragione, commette peccato mortale volta per volta, anche se casualmente non acconsentisse alla tentazione!


 


Attenzione a certe persone.


Occasione di peccato contro la pu­rezza sogliono essere le persone di ses­so differente. Si eviti dunque la compa­gnia di coloro che sono poco timorati di Dio e che non hanno stima della purezza.


Le donne si guardino anche dai pa­renti e specialmente dai cognati e dai cugini.


Un'occasione grave, ma necessaria, è il fidanzamento; si abbia perciò la massima vigilanza per non deturpare il giglio della purezza. I fidanzati non stiano mai soli, abbiano un grande ri­spetto vicendevole e siano disposti a dispiacere alla creatura anziché offen­dere il Creatore. I fidanzati tengano lontano il pensiero della fuga vergogno­sa, perché è peccato mortale contro la purezza. Commettono anche grave pec­cato coloro che hanno il dovere e la possibilità d'impedire questa fuga e non lo fanno, coloro che in qualche modo l'aiutano e quelli che la consi­gliano oppure l'approvano.


 


Scuola e laboratorio.


La compagnia dei buoni aiuta a di­ventare migliori; quella dei cattivi tra­scina al male.


Non manca la cattiva compagnia nel­le pubbliche scuole e nei laboratori. La gioventù bramosa di conservarsi pura, stia più lontano che sia possibile dagli appestati morali e, pur frequentando la scuola o il laboratorio, usi tutti i mez­zi necessari per non lasciarsi contami­nare. Per riuscire, conosciuti gli esseri pericolosi, si fugga la loro compagnia, si facciano conoscere a chi fa da superiore e, se sarà necessario, si cambi labora­torio.


Chi ha la responsabilità di un labo­ratorio, specialmente di giovani, vigili e mandi via chi può seminare l'immora­lità e non lasci mai soli i giovani lavo­ranti, perchè quando manca il capo, or­dinariamente il demonio impuro semi­na il male.


 


I divertimenti mondani.


Il divertirsi onestamente è lecito. Ma i divertimenti che oggi il mondo appre­sta, sono un'insidia continua alla vir­tù della purezza. Bisogna sapersi guardare. Si dovrebbero meditare bene que­ste tremende parole di Gesù Cristo: Guai al mondo per gli scandali!


Quando il cinema ed i teatri sono buo­ni, non si fa male ad andarvi; quando sono cattivi, non si vada assolutamen­te; quando si è in dubbio sulla mora­lità di qualche rappresentazione, è pru­denza cristiana non andarvi.


Allorché si ci trova davanti a certe scene poco castigate, non sempre basta abbassare gli occhi, ma è necessario al­zarsi ed andare via. Questo dovere è chiesto dalla dignità personale, dalla re­sponsabilità verso coloro che forse ivi si sono condotti e dal buon esempio che deve darsi al prossimo. - Ma facendo così, si perde il denaro del biglietto! - È meglio perdere un po' di denaro, an­zichè il candore della purezza.


Quanti, dopo aver pascolato la mente tra scene immorali, escono dal cinema morti alla grazia di Dio, col rimorso e con le durature conseguenze delle brut­te impressioni!


Facciano un buon esame di coscienza i genitori, che fossero facili ad accon­tentare i figli con questi divertimenti e si esaminino pure tutti coloro che ac­corrono con frequenza a tali spettacoli.


 


Il ballo.


Di per se stesso il ballo non sareb­be un male, però la malvagità umana l'ha ridotto ad una scuola d'immoralità. I vari balli moderni, eseguiti special­mente tra persone di diverso sesso, co­stituiscono un vero pericolo per la pu­rezza.


Si faccia di tutto per impedire si­mili balli e non si permettano nelle fa­miglie che si dicono cristiane; anzi, non vi si assista neppure, per non approva­re colla propria presenza il male che al­tri commette.


I genitori, desiderosi di custodire la purezza delle figliuole, siano molto vi­gilanti su questo spasso mondano, che giustamente è chiamato il divertimento del diavolo.


 


La spiaggia.


Anche la vita di spiaggia è conside­rata oggi come rovina della purezza. Il costume molto ridotto, l'ozio, la pre­senza di giovani dissoluti, tutto ciò con­corre alla rovina delle anime.


È necessario quindi prendere le do­vute cautele, diversamente, mentre si va al mare per pulire il corpo e rafforzarlo, si macchia l'anima e la si potrebbe per­dere eternamente.


 


La moda.


Le donne son portate naturalmente a seguire la moda. Se la moda è modesta, la purezza ne avvantaggia; se è troppo libera, i buoni costumi ne risentono assai.


Al presente l'abito femminile lascia molto a desiderare, tanto che si può chiamare la provocazione delle umane passioni. Ordinariamente le donne non pensano al male che fanno col vestire immodesto; esse cercano di appagare la vanità; il demonio invece si serve di ciò per tendere insidie agl'incauti e farli cadere nel male.


Coloro che confezionano abiti femmi­nili, siano prudenti e delicati nell'eser­cizio della loro professione per non coo­perare alla rovina delle anime. Prefe­riscano perdere certi clieti, anzichè macchiare la propria coscienza.


I genitori cristiani s'impongano ener­gicamente sulle figliuole e non permet­tano di vestire immodestamente. Si ri­cordi che il migliore ornamento di una giovane è la serietà del vestire e la mo­destia del portamento.


 


Altri pericoli.


Libri cattivi ce n'è molti e si trovano anche presso famiglie cristiane. Si leg­gono con la scusa d'istruirsi o con la falsa idea di non ricavarne del male. Quando un libro è cattivo, non solo si fa male a leggerlo, ma si fa male pure a prestarlo, a consigliarlo ed a tenerlo conservato. Non resta dunque che di­struggere subito i libri cattivi o pericolosi.


Quello che si dice per i libri, valga anche per i giornali, le riviste ed i perio­dici cattivi.


Il televisore costituisce un pericolo per la moralità; si trasmettono opere, films e dialoghi che lasciano assai a desiderare in fatto di purezza.


In ultimo, si considerino come veri pericoli i quadri e le statuette indecen­ti, esposte senza riserbo nelle villette, lungo le scale e sulle pareti delle ca­mere. Quanto male non fanno certi la­vori, chiamati artistici, ma che in realtà si dovrebbero chiamare scandalosi!


Si distruggano anche certe cartoline indecenti, che persone senza timore di Dio mettono in circolazione.


 


Custodire i piccoli.


Ad una certa età, conosciuto il valore della purezza, ciascuno è in grado di vi­gilare sopra di se e sopra degli altri. I piccoli però non possono fare questo, in quanto non conoscono il male.


I genitori ed i superiori hanno il do­vere grave di vigilare affinché i piccoli non vengano scandalizzati.


I ragazzini e le ragazzine sogliono es­sere facilmente vittime delle umane passioni. Ma guai a chi compie quest'o­pera diabolica! Dice Gesù: Guai a chi dà scandalo ad uno di questi piccoli che credono in me! -


In pratica, si sia prudenti a non fare riposare, ad una certa età, nello stesso letto parecchi figliuoli. Non si la­scino senza sorveglianza i piccoli quan­do attendono al giuoco, specialmente se cercano di nascondersi per non essere visti. Non ci si fidi troppo delle persone di servizio, in modo particolare se sono poco timorate di Dio.


 


Credente
00martedì 19 dicembre 2017 12:17

IRA


Il quarto vizio capitale è l'ira o col­lera, che può definirsi, in senso stretto, come il desiderio disordinato della ven­detta. Considerata in senso largo, la col­lera è una viva commozione dell'animo, che ci fa respingere con forza e sdegno ciò che ci dispiace.


Qualche volta la collera non è pec­cato; questo avviene quando è conforme alla retta ragione. Un esempio l'abbia­mo nel Vangelo. Gesù trovò nel Tempio i profanatori; allora prese il cingolo, ne fece come un flagello e con esso battè i profanatori, mandandoli fuori dalla Casa di Dio.


Anche quando la collera è conforme alla retta ragione, potrebbe divenire peccato, più o meno grave, per quello che si fa durante l'ira o per il modo con cui si fa. Nella collera infatti si può pec­care o perché si punisce chi non merita, o perché si punisce più gravemente che non comporti la colpa, o perché si ha di mira più la vendetta anzichè la cor­rezione del colpevole, o perchè si esage­ra nella maniera di adirarsi.


Da ciò ne segue che è meglio non arrabbiarsi mai, piuttosto che arrab­biarsi giustamente, poichè è difficile mantenersi nei giusti limiti.


 


Simile alla pazzia.


Chi è pazzo, parla ed opera senza ri­flettere; può recare del male a se ed agli altri. Non è però responsabile del suo agire. Chi si lascia dominare dalla collera, finché è in preda alla passione, è come un pazzo: non sa ciò che dice o fa. Quante stranezze si commettono nella rabbia! Si battono i piedi, si tira­no i capelli, si mordono le mani, si bestemmia, s'impreca, si getta addosso al primo che capita ciò che si ha fra le mani, sì ferisce il prossimo e si può an­che dargli la morte. Cessata la rabbia, il collerico suole restare umiliato e dice a se stesso: Ma cosa ho fatto?... Guarda un po' a che estremi sono arrivato!... Ah! questi nervi! Invece di pentirsi dopo, è meglio pensarci prima e non montare in col­lera.


Il collerico è di tormento agli altri ed a se. Guai a contrastarlo! Ne sanno qualche cosa le spose ed i figli, quando hanno da fare con il capo di famiglia assai nervoso. Sono ingiurie, minacce e botte! La presenza del collerico in casa tronca il sorriso dei familiari.


Chi facilmente monta sulle furie, vive nell'inquietudine, credendo che tutte le cose avverse capitino proprio a lui; pensa e ripensa i torti ricevuti, torti che a volte sono immaginari; suole avere la mente eccitata, per cui si rende inquieto lo stesso sonno.


Questi caratteri sono simili alle pen­tole in ebollizione; basta un poco più di calore ed ecco saltare il coperchio e riversarsi l'acqua; è necessario togliere legna dal fuoco, oppure aggiungere nella pentola un poco d'acqua fresca.


Al collerico si devono togliere le oc­casioni che possano eccitarlo; gli si fa così un vero atto di carità.


Quando si mantiene il dominio di se, si vede meglio la situazione delle cose e si possono prendere delle decisio­ni prudenti.


Invece il nervoso, alterandosi, non può vedere chiaramente, non è in gra­do di valutare le circostanze e facilmente può sbagliare negli affari d'importanza.


La nervosità è madre della precipi­tazione. Si sa per esperienza che la preci­pitazione è causa di tanti e tanti sbagli.


Il danno maggiore che arreca questo vizio, è quello spirituale, perché duran­te la collera si sogliono commettere di­versi peccati, con i pensieri, con le pa­role e con le azioni.


 


PAZIENZA


La virtù della pazienza è molto ma­gnificata dal Signore. Infatti Gesù dice: Beati i mansueti, poichè essi possederan­no la terra!


Queste parole significano che chi è paziente può divenire padrone del cuore degli uomini, è stimato dagli altri e bene­detto da Dio.


Inoltre Gesù vuole mettersi a model­lo della pazienza e proclama a tutti gli uomini: Imparate da me, che sono mite!


 


Pazienza con se stessi.


La pazienza è necessaria a tutti e sempre. Non mancano le occasioni in cui essa viene messa alla prova. Si deve esercitare questa virtù prima di tutto con noi stessi. Essere pa­zienti significa frenare la commozione dell'animo o mantenere in calma le po­tenze spirituali e sensitive. Non è sem­pre facile conservare il dominio di se stessi e mostrarsi sereni quando avvie­ne qualche contrarietà. La padronanza di se si acquista con un continuo eser­cizio e con l'aiuto della preghiera.


San Francesco di Sales aveva un'in­dole rabbiosa; sin da fanciullo si propo­se di correggersi e riuscì ad avere un grande dominio di se.


La pazienza deve farci sopportare i nostri stessi difetti. Tutti abbiamo del­le deficienze e per conseguenza cadia­mo in molti mancamenti. Anche quan­do commettiamo uno sbaglio, non dob­biamo arrabbiarci. Del resto, cosa giova adirarci quando lo sbaglio è avvenuto? Invece, dopo un mancamento, dobbiamo con calma dirci: Questa volta ho sba­gliato; starò più attento in seguito. -


E’ bene comportarsi così anche quan­do si commettono gravi colpe morali, poiché taluni, facendo il proposito di non cadere più in un dato vizio, si ri­tengono sicuri di sé, e, se per casa mancano, s'indispettiscono, perdono il coraggio e forse depongono il pensiero di migliorarsi.


 


Pazienza. col prossimo.


Il pretendere che nessuno manchi verso di noi, è assurdo. Coloro con i qua­li abbiamo da trattare, sono come noi ri­pieni di difetti e conseguentemente ci dispiacciono in molte cose. Ognuno ha i propri gusti e le proprie vedute, ed è difficile trovare due che se la inten­dano perfettamente. A questo si ag­giunge anche l'antipatia, che suole in­grandire i difetti del prossimo.


Dato questo, è necessario avere una buona dose di pazienza, per vivere in discreta armonia in famiglia ed in so­cietà. Per riuscire, è bene partire da questo principio di carità cristiana: Co­me voglio essere io sopportato e compatito nei miei difetti, così devo sop­portare e compatire il prossimo.


 


I pensieri.


Giova fare qualche riflessione d'in­dole pratica.


Tu, ad esempio, provi risentimento e rabbia interna verso una persona per il suo fare scortese e nervoso. Per compatirla, tieni conto dell'indole sua forse irascibile, dei dispiaceri, che forse avrà avuto in famiglia per cui è esaspe­rata; tieni conto pure della sua età, per­chè ad un certo periodo della vita l'orga­nismo è logoro ed il sistema nervoso ne risente gli effetti; tieni ancora conto dell'educazione che avrà avuto nell'in­fanzia. Insomma hai da tenere presenti tante cose, per non arrabbiarti nella tua mente contro il prossimo.


 


Le parole.


Quando si perde la pazienza, è la lin­gua a prendere il sopravvento. E’ necessario perciò frenarla, tenendo, se fa bi­sogno, la bocca chiusa quando si è trat­tati male e si sente già la fiamma della collera. Di certo questo è ottimo rime­dio! Si cominci a parlare quando, passa­ta la prima eccitazione interna, si rico­nosce di poter conservare la calma nelle parole e nelle opere.


L'Imperatore Augusto era d'indole collerica; avendo da trattare con ogni categoria di persone, era sovente nell'oc­casione di perdere la pazienza. Conosce­va la necessità di dominare i nervi, ma non sempre vi riusciva. Domandò con­siglio al filosofo Atenodoro. Questi gli rispose: Imperatore, se tu senti la rab­bia e vuoi subito parlare, comincia a recitare le lettere dell'alfabeto greco; quando avrai finito, comincerai a par­lare; ti troverai bene. -


Il rimedio era molto buono, poiché recitando lentamente le lettere dell'al­fabeto, la mente si distraeva un poco, il sangue circolava con più regolarità, i nervi si calmavano e così dopo era facile dominare la lingua e parlare con serenità e prudenza.


A tutti sarebbe utile questo rimedio. Però i Cristiani, invece di recitare le lettere dell'alfabeto, farebbero bene a dire lentamente il « Padre Nostro » o « 1'Ave Maria »; in questo modo, oltre a calmarsi prima di parlare, si può pre­gare per chi ha mancato.


 


Un Parroco.


Celebrandosi qualche Matrimonio, era solito un Parroco rivolgere la parola ai novelli sposi, raccomandando l'accordo ed il compatimento vicendevole. In par­ticolare diceva: Ogni volta che tra voi due sta per avvenire qualche contesa o diver­bio dovete subito dire: « Rimandiamo la contesa a domani! Per ora non ne par­liamo affatto! ». La mattina seguente, o sposi, voi non penserete più alla contesa, oppure se vi penserete, farete tutto con calma. -


Non solo gli sposi, ma tutti dovrebbero seguire questa norma. Quanti di­spiaceri e quanti peccati si potrebbero evitare!


 


La risposta dolce.


La risposta dolce rompe l'ira. Par­lando aspramente a chi è in collera, non si ottiene niente, anzi lo si irrita di più. Se gli si parla dolcemente e con garbo, naturalmente il collerico resta disarmato. Viene a proposito il prover­bio: Si prendono più mosche con una goccia di miele, anziché con un barile di aceto.


Il Santo Curato d'Ars aveva conver­tito alla fede cattolica una donna ebrea. Il marito di essa, pure ebreo, montò sul­le furie e si presentò al Santo con un col­tello in mano, minacciando:


- Siete voi, gli disse, colui che ha pervertito mia moglie? - Sono stato io a convertirla! ... Cosa volete adesso? - Son venuto per strapparvi un occhio con questo coltello! - Quale volete strapparmi, il destro o il sinistro? - Vi strappo l'occhio destro. - Allora mi resterà il sinistro per guardarvi ed amarvi! - Vi strapperò anche il sini­stro! - Mi resterà il cuore per amarvi e vi aiuterò in ciò che potrò! -


A queste parole, improntate a calma e dolcezza, l'ebreo da leone diventò agnello e sentì il bisogno d'inginocchiar­si davanti al Santo Sacerdote per chie­dergli perdono.


La pazienza cristiana non solo mo­dera la lingua, ma tiene a freno tutti i sensi del corpo. Cosa vale non aprire bocca quando si è arrabbiati, se poi si alzano le mani, oppure si scaraventano a terra sedie, bottiglie od altro?


Bisogna sforzarsi di non apparire arrabbiati, anche quando l'animo è tur­bato assai. Il fare certi gesti sgarbati e sprezzanti, il guardare con occhio bieco, il sorridere sarcasticamente ... so­no cose contrarie alla virtù della pazienza.


 


Norme pratiche.


Credo di fare cosa utile ai lettori, presentando norme pratiche da seguire in famiglia e fuori. Metterò sott'occhio alcune categorie di persone. Voglio spe­rare di contribuire in tal modo alla pace domestica di certe famiglie ed al loro bene spirituale.


 


Gli sposi.


La convivenza dell'uomo con la don­na nei primi mesi dopo la celebrazione del Matrimonio, non è difficile; il loro affetto in quel primo tempo suole es­sere grande e quindi facilmente si com­patiscono. Coll'andare del tempo, gli sposi manifestano apertamente il loro carattere e per conseguenza cominciano le dolenti note; l'uomo vuole coman­dare e la donna pure; l'uno vuol sem­pre ragione e l'altra non vuole mai torto; lo sposo alza la voce e la sposa grida; lui minaccia e lei si avventa.


Se non c'è pazienza, la vita degli sposi diviene un purgatorio e qualche volta un vero inferno. I fiori dei novelli sposi di­ventano spine e forse anche chiodi. Que­sta è la ragione per cui si domanda da taluni la separazione legale.


Perchè ci sia la pace, è necessario che gli sposi conoscano il vicendevole carat­tere; conosciutolo, facciano di tutto per non toccare i lati deboli.


Tu, o donna, sai che il marito non vuole essere contrariato? Cedi subito, anche con tuo sacrificio! Sai che egli ha un dato gusto e gli piace quel modo di pensare e di agire? Fa' di tutto per accontentarlo, prevenendo anche i suoi desideri! Se tu agisci così, lo sposo ti apprezzerà di più ed anch'eglí si sforzerà di fare altrettan­to con te.


Tu, o sposo, ti accorgi che la con­sorte qualche giorno ha la luna a tra­verso? Sai che quando si altera non vede più dagli occhi? Compatiscila in quel gior­no, non irritarla di più, togli ogni occa­sione di contrasto! Tu forse dici: Ma io sono il capo di casa! Io devo coman­dare ... e la donna mi deve stare sogget­ta! - Hai ragione; però non dimenticare che la sposa è compagna e non serva e tanto meno schiava. Ama la tua donna come te stesso e perciò compatiscila!


Ci vuole lo spirito di sacrificio e l'aiuto del Signore. È bene quindi che gli sposi, dicendo le preghiere del mattino o della sera, recitino anche un Padre Nostro con questa intenzione: « Per la pace in fami­glia ». Chi persevera in tale preghiera, presto ne vedrà i buoni frutti.


 


Correzione fruttuosa.


Un operaio aveva il vizio di bere trop­po, specialmente il sabato sera. La moglie era stanca di convivere con lui. A vederlo ritornare barcollante in casa, a sentirlo bestemmiare e vomitare ingiurie e paro­lacce ... provava i brividi. Questo non era tutto. Sovente il marito nell'ubria­chezza rompeva qualche cosa e rovesciava le sedie; alla fine si sdraiava e si addor­mentava a terra.


La sposa sopportava sino ad un certo punto; ma dopo montava sulle furie e lo rimproverava aspramente. Finita la tempesta, quando cioè il marito si era addormentato a terra, con grande fatica lo prendeva di peso e lo metteva a letto; dopo rassettava la camera e finalmente si coricava. L'indomani riprendeva i rimpro­veri contro il marito per quello che aveva fatto la sera precedente. L'uomo, non ri­cordando niente perchè la sera era in ba­lia del vino, non faceva caso dei rimpro­veri, anzi rispondeva con una risatina. La cosa non poteva più durare.


Un giorno la donna ebbe la felice idea di chiedere consiglio ad un Sacerdote; ebbe un buon suggerimento e si affrettò ad attuarlo.


La prima sera che il marito era rinca­sato ubriaco, non gli rivolse la parola, anzi lo lasciò libero di fare. Nel bollore del vino, il misero uomo afferrò il lume e lo buttò a terra; rovesciò il piccolo tavolo su cui era la cena e tutto andò a male, minestra, piatti e bicchieri; in ultimo, come al solito, si addormentò sul pavimen­to. Questa volta la moglie si contentò di guardare; subito dopo andò a letto, senza rassettare la camera e lasciando il marito a terra. L'indomani mattina si sve­gliò l'uomo ed a vedersi in quello stato, chiamò la donna; questa con calma gli disse: Dunque cosa desideri? - Come mai mi trovo qui a terra?... Ho le ossa rotte! ... E questo tavolo perché è rove­sciato? E questi, piatti ed i bicchieri?... Guarda quanta minestra per terra!... - La moglie rispose: Sono i miracoli che fai tu quando ritorni a casa ubriaco! - Sono stato io a fare questo? - Proprio tu! ... Se vuoi continuare ad ubriacarti, continua pure; ma ti lascerò tutta la notte a terra. -


Quando il marito constatò con i pro­pri occhi il male che proveniva dall'u­briachezza. propose fermamente di cor­reggersi e poco per volta ci riuscì.


Questo episodio insegna che tra gli sposi è necessaria la mutua correzione; questa però si deve fare con calma e prudenza; soltanto allora è fruttuosa.


 


I genitori.


Hanno i genitori la missione di educa­re i figlioli. Il compito dell'educazione è delicato e non tutti i genitori sono all'altez­za di soddisfarlo. Tuttavia, chi desidera avere dei figli docili e virtuosi, faccia di tutto per bene educarli.


Taluni credono di educare bene i figliuo­li rimproverandoli per ogni piccola cosa, alzando spesso la voce in atto di minaccia ed adoperando con frequenza la verga. Con i figliuoli, specialmente di tenera età, ci vogliono piccoli richiami; quando ciò non basta, si dà loro un piccolo castigo, consistente nel privarli di un atto di be­nevolenza o nel negare loro un piccolo piacere.


Quando ciò non fosse sufficiente, si ricorra a qualche piccola minaccia; in casi estremi si ricorra alla verga. Ma anche in questo caso procurino i genitori di essere giusti, cioe’ proporzionino il castigo al grado di colpevolezza dei figli.


Molte mancanze dai bambini si commettono per irriflessione o per leggerezza. Dice San Paolo: Voi, o genitori, non provocate all’ira i vostri figliuoli! – Quando un figliuolo si vede punito piu’ del giusto, si arrabbia contro i genitori, dice loro parole ingiuriose e qualche volta si avventa.


Dunque i genitori siano pazienti, frenino la lingua non pronunziando ingiurie ed imprecazioni e moderino l’uso della verga o delle mani.


Non dimentichino che anche loro un tempo furono fanciulli e che forse mancanze ne fecero piu’ dei loro figliuoli.


 


I figli


Iddio ha dato un comandamento> “Onora il padre e la madre”. I figli hanno percio’ il dovere di amare, ubbidire e amare i genitori.


Quando i figli sono piccoli, danno pic­coli dispiaceri; divenuti grandi, danno grandi dispiaceri. Facciano di tutto per alleggerire al padre ed alla madre il peso della famiglia; usino con loro modi deli­cati e parole dolci.


Fanno tanto male quei figli che ri­spondono con insolenza ai genitori, o li trattano da uguali e peggio ancora.


La pazienza maggiore si deve avere con i genitori avanzati in età. Quando comincia la vecchiaia, sogliono essi di­venire ciarlieri ed irrequieti; quando la vecchiaia è inoltrata, diventano alle volte come i bambini, per il modo di fare e di pensare; vogliono essere subito acconten­tati nei loro piccoli desideri e fanno anche dei capricci. In queste circostanze si rico­noscono i buoni figliuoli, se cioè trattano con pazienza ed amore le due creature che rappresentano Iddio nella famiglia.


Pazienza molto grande devono avere i figli, allorchè il padre e la madre si am­malano. I genitori sogliono assistere i fi­gli ammalati con un amore particolare, sino all'eroismo; i figli invece perdono la pazienza, se hanno da assistere i geni­tori infermi e possono arrivare al punto di desiderare ad essi la morte.


 


I fratelli.


- Amor di fratelli, dice un prover­bio, amor di coltelli. - Questo può av­venire quando si tratta di dividere i be­ni dei genitori. - Tra fratelli e sorelle d'ordinario c'è la benevolenza, ma diffi­cilmente c'è la pazienza. Si paragonano infatti i fratelli e le sorelle ai cani ed ai gatti, che si bisticciano di frequente.


Si dovrebbe fare di tutto perchè tra loro regni la pace, tenendo lontane le parole ingiuriose ed impedendo che al­zino le mani.


 


Parenti e vicini.


La pazienza si suole perdere con le persone con cui si ha più da fare. Le relazioni tra parenti e vicini sogliono essere frequenti e per conseguenza si pre­sentano spesso le occasioni di dissensi. Per conservare l'armonia, si stia atten­ti a non far conoscere le faccende intime della propria famiglia e nello stesso tem­po non si metta il naso negli affari inti­mi altrui.


Quando sorge un contrasto, si faccia morire subito, non parlandone più. Ricevuto uno sgarbo oppure un'offesa, si ricambi il male con un favore, per fare comprendere che si perdona generosa­mente, vincendo il male con il bene. Questo sistema è fonte di merito e di pace.


 


Padroni e servi.


Grande carità e pazienza dovrebbe re­gnare tra padroni e persone di servizio. I padroni, pur esigendo il giusto ser­vizio, trattino con garbo i dipendenti. È già un'umiliazione grande il dovere servire gli altri; non si aggravi quest'u­miliazione con le maniere superbe e con le parole irritanti. Pensino i padroni: Se per un rovescio di fortuna dovessi anda­re io a servizio, come vorrei essere trat­tato? Dunque, è giusto che io tratti bene il personale dipendente! - Quanti pa­droni purtroppo maltrattano i servi, stra­pazzandoli come se fossero delle bestie o degli stracci!


I servi siano sottomessi ai padroni per amore di Dio e si mantengano umi­li in tale stato, anche per scontare i pec­cati. Sopportino i difetti dei padroni spe­cialmente se nervosi o vecchi, e siano loro di esempio nell'esercizio della pa­zienza. Una persona di servizio paziente è un rimprovero continuo ai padroni collerici e superbi; essa per la sua virtù vale molto di più dei suoi padroni, ai quali è inferiore solamente per il portafoglio.


 


Gl'insegnanti


Una particolare pazienza si richiede ne­gli insegnanti. Se chi insegna è pazien­te, non si guasta il sangue, è più stimato dagli alunni e riesce con più frutto nel­l'istruzione. Se al contrario non sa domi­nare i nervi, è di cattivo esempio per le parole offensive che dice e fa progredire poco nello studio o nell'arte.


Per lo più gl'insegnanti sono nervosi, per effetto di stanchezza mentale; è per­ciò necessario che si facciano molta vio­lenza per non perdere la pazienza. Per istruire i piccoli si richiede una pazien­za superiore; con essi si adoperi il si­stema della madre, che è sistema di a­more, di comprensione e di grande com­patimento.


 


Pazienza in tutti gli eventi.


Quando capita una disgrazia, una ma­lattia, una perdita, ecc.... è inutile ar­rabbiarsi. Anche quando si desse libero sfogo alla collera, con bestemmie, paro­lacce ed imprecazioni, non si aggiuste­rebbe niente. Come comportarsi in simi­li eventi? Fare di necessità virtù! Dire subito con calma: La disgrazia è avvenuta; la croce l'ho addosso. Se mi arrab­bio, la croce rimane lo stesso, anzi si fa più pesante; è meglio prendere tutto in pazienza ed a penitenza dei peccati. Signo­re, sia fatta la vostra volontà! -


Si smarrisce un oggetto. Perché mon­tare in collera? Forse facendo cosi’, si troverà più presto? E’ ridicolo il pen­sarlo. Cosa fare allora? Senza inquietar­si, fare di tutto per rinvenirlo e rivolgersi a Dio per aiuto. Un Padre Nostro recitato con devozione e con fede a Sant'Anto­nio spesso toglie dall'imbarazzo.


S'inciampa e si cade; ci pestano un piede; ci urtano per inavvertenza ... È il caso di arrabbiarsi? Cosa se ne guadagna? È meglio sopportare con merito quel po­co di molestia.


Il sole dardeggia; un giorno piove a dirotto; il vento soffia con furia; le mo­sche od altri insetti ci danno noia ... Conviene perdere la pazienza? Forse im­precando contro il vento o le mosche, si riesce ad accomodare la partita? Oh, no certamente!


 


Credente
00martedì 19 dicembre 2017 12:18

GOLA


Il vizio della gola consiste nell'abuso del mangiare e del bere.


Il corpo ha bisogno di riparare di con­tinuo le perdite che necessariamente de­ve subire; il nutrirlo quindi è un dovere. Se è un bene dare l'alimento al corpo, è però un male l'esagèrare nella quantità ed anche nella qualità. Questa esagera­zione è causata dal piacere che sente la gola. Il Creatore ha disposto che si provas­se gusto nel palato e nella gola, affinchè fa­cilmente il corpo potesse assumere i cibi e le bevande; ma quando la gola prende il sopravvento, si va contro la disposizione di Dio, perchè allora si mangia e si beve più del bisogno unicamente per saziare l'avidità della gola.


Di per sè il peccato di gola è leggero; diventa peccato grave quando l'abuso del mangiare e del bere pregiudica gravemen­te la salute del corpo e quando si beve si­no ad ubriacarsi, perdendo del tutto la ragione.


Il troppo mangiare ed il troppo bere arreca al corpo tanto male. Non poten­do l'organismo assimilare la quantità su­periore dei cibi, si sforza di riuscirvi; questo sforzo se è continuo porta all'esau­rimento. Inoltre, il cibo che non può as­similarsi, si converte in veleno per l'or­ganismo; da ciò hanno origine certe malat­tie, che presto o tardi portano al sepolcro. Le vittime della gola sono molte, tanto che c'è la frase proverbiale: Ne uccide più la gola che la spada.


L'esagerazione nel bere il vino od altre sostanze alcooliche, porta alle malattie del cervello.


L'intemperanza della gola è sorgente di molti gravi peccati.


Innanzi tutto, quando lo stomaco è troppo pieno, la volontà resta snervata e non sente la forza di operare il bene, anzi prova noia e disgusto delle cose spiri­tuali.


Quando il corpo è bene nutrito, facil­mente insorgono le passioni e specialmen­te la passione dell'impurità. Chi non sa fre­nare la gola, difficilmente è in grado di frenare gli altri sensi, per cui si può affer­mare che spesso chi cede alla gola, diven­ta debole in fatto di purezza.


Dall'ubriachezza hanno origine le be­stemmie, le parole indecenti, le percosse, i ferimenti e gli omicidi.


 


TEMPERANZA


Chiamasi temperanza la virtù che mo­dera e frena i sensi del corpo, specialmen­te la gola.


La temperanza è di grande utilità al­l'anima ed al corpo. I medici la raccoman­dano. Noi però dobbiamo praticare que­sta virtù in vista della nostra salvezza eterna.


Parte integrale della temperanza è la mortificazione cristiana, tanto inculcata da Gesù Cristo e dalla Santa Chiesa.


 


L'esempio di Gesù.


Gesù Cristo è perfetto Dio e perfetto uomo. Come tale, aveva un corpo simile al nostro, soggetto cioè al bisogno della nutrizione. Egli però era molto frugale. Durante le peregrinazioni della sua vita pubblica, veniva alimentato dalla carità di pie persone; qualche volta si conten­tava di nutrirsi con alcune spighe di grano raccolto nei campi.


Gesù volle dare inoltre un grande esempio di penitenza corporale, restan­do digiuno per quaranta giorni e quaran­ta notti. In tutto questo tempo non prese ne cibo ne bevanda; alla fine ebbe fame, tanto che il demonio colse l'occasione per tentarlo. - Se sei Figlio di Dio, gli disse, fa' che queste pietre diventino pane.


Gli rispose Gesù: Non di solo pane vive l'uomo, ma di ogni parola che pro­cede dalla bocca di Dio. -


L'esempio dei Santi.


Persuasi i Santi della necessità di se­guire le orme di Gesù, erano molto li­mitati nel cibo e per lo più si contenta­vano dello stretto necessario.


Sappiamo di alcuni Santi che s'indu­striavano di rendere disgustosi i cibi e le bevande, mettendovi sostanze amare o nauseanti.


Gli eremiti vivevano nel deserto e si nutrivano di erbe, di qualche frutto e di un po' di acqua; con tutto ciò, sappiamo che buon numero di essi raggiunse un'età avanzata, anzi parecchi oltrepassarono i cento anni, come Sant'Antonio Abate e San Paolo, primo eremita.


Si sa di altri Santi che arrivarono a tale grado di mortificazione della gola, da su­perare la naturale ripugnanza assumendo cibi disgustosi. Un esempio lo troviamo nella vita di San Giovanni Bosco.


Questo Santo lavorava molto e man­giava poco, tanto da recare meraviglia ai commensali.


Una sera, dopo una giornata fatico­sissima, rincasò ad ora tarda; nell'Ora­torio tutti erano a riposo. Per non mo­lestare alcuno, entrò in cucina, speran­do trovare qualche boccone, fosse anche freddo. Scorse in un cantuccio un pentolino, con qualche cosa dentro. Si cibò di quella sostanza. L'indomani mattina la madre sua cercava la colla e non poteva darsi pace avendo trovato il pentolino vuoto. - Non datevi pensiero, disse tran­quillamente Don Bosco; mi servì di cena ieri sera. - Ma come potesti mangiare quella roba? - Eh, madre mia, l'appe­tito condisce ogni cosa! E poi non ci si vedeva bene in cucina; del resto il fatto è fatto. -


L'esempio dei Santi è un forte rim­provero a quelli che trattano troppo de­licatamente la gola.


Quanto tempo s'impiega nella prepa­razione di cibi prelibati! Quanto dena­ro si spreca in dolciumi ed in bibite non necessarie, e forse anche dannose!


Quanti lamenti, se un cibo non in­contra il proprio gusto! ...


Coloro che assecondano il vizio della gola, invertono l'ordine voluto da Dio, cioè non mangiano per vivere, ma vivo­no per mangiare. Il loro Dio è lo sto­maco; ad esso rivolgono le cure principali della giornata; imitano in qualche modo le bestie, le quali non hanno al­tra preoccupazione.


 


La pratica della Chiesa.


Data l'importanza della mortificazione della gola, la Santa Chiesa prescrive delle penitenze.


È bene conoscere le norme per l'a­dempimento del precetto ecclesiastico. La Santa Chiesa prescrive che al ve­nerdì non si mangi la carne, per un sen­so di gratitudine e di rispetto verso Gesù Cristo, che in detto giorno morì in Croce. Il venerdì non si mangia la carne (o il sanguinaccio o le interiora degli ani­mali a sangue caldo). Però si può sup­plire in questo giorno con qualche altra opera buona.


In Quaresima non si mangia la carne in tutti i venerdì e nel giorno delle Ce­neri, cioè, l'indomani di carnevale, che è primo giorno di Quaresima.


Sino ai quattordici anni compiuti non si è tenuti ad osservare questa legge ec­clesiastica. Dopo i quattordici anni que­sto Precetto non ha limite di età.


Sono esenti gli ammalati e quelli che hanno qualche grave motivo. Ma in que­sto caso si può soltanto consigliare di fare qualche altra opera buona.


Il digiuno è prescritto due volte l'an­no: il giorno delle Ceneri ed il Venerdì Santo.


È tenuto al digiuno chi ha compiuti i ventuno anni di età, sino ai cinquanta­nove anni compiuti. Ne sono dispensati gli ammalati, chi è troppo debole e chi fa lavori molto faticosi. A costoro si può soltanto consigliare di fare qualche altra opera buona.


Può digiunarsi così: a colazione è per­messo, a chi ne sentisse il bisogno, un leggerissimo cibo. Il caffè non rompe il digiuno. A pranzo, che può iniziare alle ore undici, è permesso tutto, in quantità ed in qualità, tranne la carne. La cena sia molto moderata. Si può invertire il pranzo con la cena.


 


La mortificazione della gola.


La mortificazione della gola non so­lo fa evitare l'eccesso del mangiare e del bere, ma anche priva la gola di qualche piacere lecito. Ecco un piccolo elenco di mortificazioni, che potrà essere utile alle anime di buona volontà.


1) Sentendo la sete, non bere subito, ma aspettare alquanto; oppure bere in quantità minore di quanto si vorrebbe, cioè senza saziarsi.


2) Fuori dei pasti ordinari, non pren­dere alcun cibo o bevanda, tranne il caso di vera necessità o di convenienza sociale.


3) Avendo desiderio di mangiare un frutto, una caramella oppure qualche dol­ce, rimandare ad altro orario; meglio an­cora se ci si priva del tutto e se ne fa dono a un bambino o ad un poverello.


4) Tenere in bocca qualche sostanza amara o disgustosa, unicamente per con­trariare il gusto.


5) Privarsi dello zucchero nel pren­dere il caffè oppure il latte.


6) Stando à tavola, mangiare e bere senza avidità, anzi scegliere le porzioni meno appetitose.


7) Non lamentarsi se i cibi sono in poca quantità o se sono mal preparati.


8) Non parlare dei cibi che piaccio­no di più e non brigare per averli.


9) Dare ai poverelli il denaro che si vorrebbe destinare ai gelati, alle bibite o ai dolciumi.


10) Prendere le medicine senza lamen­tarsi e senza lasciare trasparire la natu­rale ripugnanza.


Chi si esercita nelle piccole mortifi­cazioni di gola, arreca grande bene al­l'anima sua.


Ecco l'utilità di queste mortificazioni: Si acquista il dominio di se stessi, per cui con facilità si possono tenere a freno gli altri sensi del corpo; si scontano i peccati commessi col corpo; si acquista un grado di gloria maggiore per il Paradiso; nel­l'anima scende di continuo la rugiada della grazia divina, per cui si è sempre più disposti ad operare il bene; più che tutto si dà piacere a Dio, perchè gli si offrono dei sacrifici.


 


Venerdì e sabato.


Alle persone pie sono tanto cari i ve­nerdì ed i sabati, perchè tali giorni sono dedicati al Sacro Cuore di Gesù ed a Maria Santissima.


Ovunque si va diffondendo la pratica dei fioretti spirituali al venerdì ed al sa­bato, fioretti che consistono nel fare qual­che opera buona particolare o nell'impor­si qualche sacrificio volontario.


Vorrei suggerire, a proposito di gola, qualche mortificazione da farsi in detti giorni. Un fioretto potrebbe essere: Non mangiare nel venerdì e nel sabato frut­ta fresca oppure dolci; ovvero non bere fuori dell'orario dei pasti.


Ho trovato tanto bello il fioretto di un'anima di mia conoscenza, la quale il venerdì prepara il pranzo ed invita un povero a consumare il pasto bene ap­parecchiato; essa non solo serve il pove­ro, ma per mortificazione di gola si li­mita a mangiare soltanto pane con scar­so companatico.


Non tutti sono nella possibilità di fare ciò; ma chi potesse e volesse farlo, quanta gloria darebbe a Dio e quanto merito acquisterebbe!


 


Credente
00martedì 19 dicembre 2017 12:20

INVIDIA


L'invidia è il rincrescimento o tri­stezza del bene altrui, in quanto lo si riguarda come dannoso al bene nostro.


Sembrerebbe l'invidia un piccolo vi­zio, eppure tra i vizi capitali occupa un posto eminente, in quanto è comune e dà origine a molti peccati.


Giustamente si dice che se l'invidia facesse divenire gobbi, nel mondo diffi­cilmente si vedrebbe un uomo od una donna senza gobba.


L'invidia è un vizio tutto interno, na­scosto nell'intima del cuore umano; è un vizio vile, perciò tenta di nascondersi; ma per quanto faccia l'invidioso a celare la sua malignità, non sempre vi riesce.


Dobbiamo amare il prossimo come noi stessi; è questo il comando datoci da Dio; dobbiamo cioè rallegrarci del bene altrui come del bene nostro e dobbiamo rattri­starci del male altrui come del nostro male.


L'invidioso fa al contrario; gode del male della persona che invidia e soffre del bene suo. Come tale, l'invidia è un vero peccato, opponendosi al comando di Dio.


Un pittore dipinse un quadro raffi­gurante l'invidia. Vi era rappresentata una vecchia, stecchita e corrucciata, che guardava attraverso una lente d'ingran­dimento; era circondata da serpenti, che le mordevano il cuore. Questo ritratto riproduce a meraviglia l'invidioso.


Il ladro, rubando, si procura del de­naro e con esso può godere la vita; il goloso prova il diletto del gusto ed il sensuale gode nei sensi; ma l'invidioso non riceve alcuna utilità dal suo vizio.


È indovinato il detto: Chi d'invidia campa, disperato muore!


 


Peggiore dei demoni.


I demoni tentano al peccato gli uo­mini per l'invidia che provano verso di loro, sapendo che potranno andare in Paradiso.


Tuttavia, pur sfogando l'ira e l'invi­dia sugli uomini, si risparmiano tra loro stessi.


L'invidioso è peggiore dei demoni, perchè non risparmia il suo simile.


Non ha rispetto a vincolo di sangue o di amicizia; cosicchè troviamo il fra­tello che per invidia lotta il fratello; la sorella che perseguita la sorella, l'amico che fa guerra all'amico.


 


La madre dei peccati.


La superbia è la vera madre dei peccati; l'invidia ne è figlia; però l'invidia diventa subito madre di tanti peccati, che l'enu­merarli non sarebbe facile: desideri del male altrui, giudizi temerari, sentimenti di avversione e di odio, parole mordaci, discorsi di mormorazione e di calunnia, in­sidie, crudeltà e delitti inauditi ... Abele offriva a Dio le primizie della campagna e del gregge; attirò così sopra di sè lo sguardo amoroso del Creatore. Il fratello Caino ne senti’ invidia e gli tolse la vita, fracassandogli la testa. Ne ebbe però il meritato castigo, facendo una fine molto misera.


Giuseppe, figlio del Patriarca Giacob­be, fu oggetto d'invidia da parte dei fra­telli, perchè il padre lo prediligeva. In conseguenza di ciò, prima fu calato in una cisterna secca, per trovarvi la mor­te, e dopo fu venduto ad un mercante, in qualità di schiavo. Iddio, che veglia sugli innocenti, fece sl che Giuseppe diventasse il Vice Re d'Egitto e che i suoi stessi fratelli in tempo di carestia andassero a domandargli frumento. Quan­ta vergogna allorchè Giuseppe si manife­stò! - Io sono il vostro fratello ... colui che per invidia volevate uccidere e poi vendeste! ...


Il Re Saul sentì invidia di David, suo suddito, e lo perseguitò spietatamente. Più volte gli gettò la lancia addosso, per conficcarlo al muro; non riuscì nel mal­vagio intento, perchè la mano del Si­gnore era sopra David.


E Gesù non fu condannato a morte per invidia? Gli Scribi, i Farisei ed i capi del popolo, si rodevano di rabbia a vedere Gesù, che credevano il Figlio del fabbro di Nazaret, circondato di gloria e di stima.


Adunque, chi può enumerare gli ese­crandi delitti. che ovunque e sempre l'in­vidia ha compiuto?


 


COMPIACENZA


La virtù opposta all'invidia è la com­piacenza del bene altrui.


Come si è detto innanzi, la carità, o amore del prossimo, esige che amiamo il nostro simile come noi stessi. Noi ci au­guriamo sempre il bene e godiamo di quanto di buono ci possa accadere. Per il comando di Dio, dovendo amare il prossimo, dobbiamo augurargli il bene.


L'egoismo individuale trascina al la­to opposto; ma è dovere di ognuno re­primere le cattive tendenze e sforzarsi di nobilitare i propri sentimenti nei ri­guardi del prossimo.


 


Come reprimersi.


Appena ci accorgiamo che una per­sona eccita la nostra invidia, dobbiamo stare sull'attenti per non assecondare la passione e per reprimere subito i primi assalti.


La preghiera è utile a tutto; pre­ghiamo perciò per colui contro il quale siamo tentati d'invidia, domandando a Dio ogni benedizione per lui.


Parliamo sempre in bene della per­sona che siamo tentati ad invidiare; non opponiamoci quando sentiamo dirne bene dagli atri, anzi cerchiamo le, occasioni per lodarla.


Se possiamo fare un bene a chi muove la nostra invidia, prestiamoci volentieri. Agendo in tal modo, noi mettiamo del­l'acqua fredda sul fuoco dell'invidia e il nostro cuore godrà la pace dei figli di Dio.


 


La madre.


La madre è tutta per il bene dei figli; quando però viene a conoscere che i figli di altre donne, specialmente se parenti o amiche, hanno ottenuto un posto in socie­tà, hanno superato un esame ed eccellono per buone qualità, allora naturalmente, ac­cecata dall'amore dei propri figli, comincia a soffrirne internamente a motivo dell'in­vidia. Il marciume interno presto va alla bocca e così questa donna semina lamenti e calunnie.


- Già, i figli di quella signora riescono sempre! È naturale! Hanno denaro e col denaro possono fare qualunque imbro­glio! ... I miei figli invece sono onesti e restano indietro! ... Non c'è più giu­stizia in questo mondo! -


O donna, cosa ne guadagni dicendo così? Piuttosto educa meglio i tuoi figliuo­li, inculca loro il timore di Dio, esigi che si applichino allo studio o all'arte e poi prega il Signore affinchè prepari ad essi un buon avvenire!


 


L'eterna lotta!


La suocera e la nuora!... L'eterna lotta familiare! La suocera spesso ha invidia della nuora, perchè pensa: Mio figlio l'ama assai! Io sono la madre, ho fatto tanto per il figlio ed ora ecco mia nuora a goderselo! - Spesso avviene il contrario: Mio ma­rito, dice la nuora, appartiene a me, do­vrebbe essere tutto mio ed intanto pen­sa a sua madre! Va a trovarla spesso, le porta dei regali... ; io invece sono l'ul­tima ad essere pensata! -


Chi non vede la forte gelosia in tutto ciò? La madre dovrebbe essere contenta che il figlio ami la sposa, perchè da que­sto amore nasce l'armonia nella famiglia.


La sposa dovrebbe essere anche lieta che il marito ami la propria madre pen­sando che un giorno essa pure avrà da di­venire suocera e vorrà certamente essere amata e rispettata dai figli sposati.


 


Tra sorelle ed amiche.


Non è difficile trovare sì brutto vizio anche tra sorelle.


Una giovane è stata chiesta per fi­danzata. Dovrebbero in famiglia goderne tutti, quando il partito si presenta bene; qualche sorella invece sente gelosia.


- Hanno scelto mia sorella!... Io so­no stata posposta! Eppure sono più gran­de, più giudiziosa; ho il viso più grazio­so! - Questi e simili sentimenti sorgono dal cuore invidioso e superbo, e presto co­minciano in famiglia i malumori e le rabbie.


Non è raro il caso in cui la sorella metta in cattiva luce la sorella presso il fidanzato e solo allora è contenta quan­do ha tirato dalla sua parte il giovane, oppure questi si è allontanato definitiva­mente dalla famiglia. Lo stesso e peggio ancora suole av­venire tra amiche.


Quando la gelosia ha preso piede nel cuore di una giovane, perché l'amica ha trovato un buon fidanzato, subito comin­ciano le parole mordaci, le critiche e le mormorazioni.


Si mettono alla luce i difetti occulti dell'amica, le magagne segrete della sua famiglia e, quando ciò non basta, si ri­corre alle lettere anonime calunniose.


Non sempre, ma spesso l'invidiosa ami­ca raggiunge lo scopo di far perdere al­l'amica il fidanzato.


Quante lacrime ha fatto versare l'in­vidia a schiere di signorine!


Quante giovani si sono ammalate o suicidate in seguito a simili calunnie!


E quante altre sono state rinchiuse nel manicomio in conseguenza di un amore fallito!


Grande responsabilità davanti a Dio hanno le sorelle e le amiche invidiose! In questa categoria di persone, cioè tra sorelle e tra amiche, non solo trovasi l'invidia per il fidanzato, ma per tante altre cose: per la casa, per la mobilia, per le vesti, per la bellezza, ecc.


In questo campo la gelosia fa conimettere un gran numero di piccinerie, di ridicolaggini, le quali dovrebbero far vergogna a persona che abbia un po' di dignità!


 


La simpatia.


Quando due si amano troppo e si sviluppa il sentimento della così detta simpatia, facilmente sorge la gelosia.


Guai se una terza persona si avvicina a chi si ama o se costoro parlano in confidenza e peggio ancora se si fanno regali o dimostrano in altro modo l'af­fetto!


Chi prova questa forma di gelosia, soffre molto nel cuore e dà in smanie. Da ciò cominciano i sospetti, le rotture, gli odi e forse le risse.


Chi ha questa debolezza morale, si faccia violenza e non assecondi la gelo­sia! Pensi piuttosto a legare il proprio cuore a Gesù e non lo dia facilmente alle creature!


 


La clientela.


Tutti hanno diritto a vivere; di con­seguenza si è ingiusti allorché per gelo­sia si fa di tutto per togliere la clientela al prossimo.


Tu fai scuola; hai un discreto nume­ro di allievi. Perchè tenti di allontanare da quell'altro insegnante i suoi alunni? Anche lui ha diritto a vivere!


Tu hai una rivendita e guadagni di­scretamente. Perchè sei geloso degli al­tri rivenditori e ti sforzi di far loro la concorrenza?


 


Credente
00martedì 19 dicembre 2017 12:23

ACCIDIA


L'ultimo dei vizi capitali è l'accidia. Consiste in una certa noia nel fare il bene e nel fuggire il male. In conse­guenza di ciò, si trascurano i doveri del­la vita cristiana, oppure si compiono ma­lamente.


Esempi d'accidia sono: il tralasciare la preghiera per pigrizia, il pregare sba­datamente, senza sforzo di stare rac­colti; il rimandare da un giorno all'al­tro un buon proponimento, senza poi attuarlo; il mettere da parte l'esercizio della virtù per non imporsi dei sacrifici; il darsi poco pensiero dell'anima pro­pria, ecc....


L'assecondare l'accidia è peccato. Se per accidia si tralascia, ad esempio, la Messa in giorno festivo, si pecca grave­mente; se invece si trascura qualche pre­ghiera, unicamente per noia, si manca leg­germente.


 


Pericolo di dannarsi.


La persona accidiosa dice: Io non vo­glio darmi fastidio di combattere le mie perverse tendenze! ... Mi piace vivere nella tranquillità! La vita è così breve e tanto cosparsa di spine! Perchè ama­reggiarsela di più?! ... Purchè in non am­mazzi alcuno ... non, rubi ... e non be­stemmi ... ciò mi basta! Tutte le altre attenzioni per custodire l'anima mia, mi seccano e non ci voglio pensare! ... Per­ché tante Comunioni? Basta quella di Pasqua! ... Perché andare spesso in Chiesa? ... Posso pensare a Dio anche stando in casa! Perché andare ad ascoltare le prediche? Ne so fin troppe cose di Re­ligione! Perché tante preghiere lungo il giorno? Mi è sufficiente il segno della Croce prima di coricarmi! ... A me non piacciono gli scrupoli! Questo ballo non si può fare ... quella pellicola non si deve vedere ... quel romanzo non si può leg­gere ... quell'amicizia non è ammes­sa! ... Queste cose le osservino i Frati e le Monache, ma non io, che devo saper stare in società ... Nell'altra vita spero di passarmela bene lo stesso; del resto, come fanno gli altri, faccio io! -


Facilmente si può comprendere co­me una tale anima accidiosa si metta in pericolo di perdersi eternamente. Ha più sollecitudine degli affari temporali e del benessere del corpo, che non della salvezza eterna. Se quest'anima non si risolverà una buona volta a cominciare una vita veramente cristiana, finirà con l'essere travolta dal torrente delle cat­tive inclinazioni.


Quante di queste anime neghittose ci sono nel mondo! Esse appartengono alla categoria di coloro di cui parla Gesù: La via che conduce all'eterna per- dizione è larga e sono molti quelli che s'incamminano per essa! -


 


Effetti dell'accidia.


Questo vizio capitale snerva poco per volta l'anima, come l'ozio snerva il corpo. Per l'accidia la volontà diviene debole; si decide e non si decide, vuole e non vuole.


Le opere buone sogliono produrre un certo gusto spirituale, il quale ap­paga il cuore, come il cibo appaga il palato. L'accidia fa perdere il gusto spi­rituale, sicché le opere buone diventa­no pesanti e noiose e per questo moti­vo si mettono da parte o si fanno di mala voglia.


Lo Spirito Santo paragona l'anima dell'accidioso ad una vigna affidata ad un contadino poltrone. Una tale vigna, poco curata, si ricopre di erbe cattive e di spine e non produce frutto; così l'anima accidiosa resta priva di virtù e di meriti e si riempe di passioni. Può piacere a Dio un'anima che sia do­minata dall'accidia?


 


DILIGENZA


La virtù che si oppone all'accidia è la diligenza spirituale, cioé il vero in­teressamento della salvezza dell'anima propria.


Gesù c'inculca questa virtù quando dice: Una sola cosa è necessaria: salvar­si l'anima! Che cosa giova all'uomo gua­dagnare il mondo intero, se poi perde­rà l'anima sua? Che cosa potrà dare in cambio di essa? -


I Santi ci sono maestri a questo ri­guardo; si misero di buona volontà, si diedero all'esercizio delle cristiane vir­tù, attinsero dalla preghiera e dalla fre­quenza ai Sacramenti la forza necessa­ria; così riuscirono ad avere la pace della coscienza in vita e conseguirono an­che il Paradiso.


Nè si pensi che i Santi siano nati Santi! Anch'essi erano come noi, fatti di carne e di ossa; avevano tutte le cat­tive tendenze che ha ogni figlio di Ada­mo; per riuscire a santificarsi, dovette­ro imporsi dei veri sacrifici, sino a per­dere taluni anche la vita. Quanti milio­ni di Martiri perdettero prima le ric­chezze e poi la vita tra tormenti! Quan­ti abbandonarono i piaceri della vita e si ritirarono nel _deserto a fare peniten­za! Quanti, rinunziando a cariche ono­rifiche, si chiusero nei conventi per pen­sare unicamente all'anima! E quanti, pur restando nel mondo, intrapresero una vita di mortificazione rigorosa!


Non solo i Santi propriamente detti, ma anche innumerevoli schiere di uo­mini e di donne attualmente ci sono mae­stri in proposito: i Missionari che vanno fra i selvaggi; le Suore di Carità che spen­dono l'esistenza negli ospedali; le anime vergini dell'uno e dell'altro sesso, le quali pur restando in famiglia, conducono una vita di continua mortificazione per con­servare immacolato il corpo ed il cuore. Costoro lottano contro l'accidia e supe­rano generosamente le difficoltà della pra­tica del bene.


 


Pia riflessione.


Chi vive nella pigrizia spirituale, ri­sorga dal suo stato compassionevole, ser­vendosi di una pia riflessione.


La vita è breve, molto breve; da un momento all'altro possiamo morire e tro­varci davanti a Dio per dargli conto del­l'anima nostra. Quale scusa potrà por­tare al tribunale di Dio l'accidioso, tro­vandosi con l'anima sprovvista di opere buone e carica di colpe? ...


 


L'etisia spirituale.


L'anima che è schiava dell'accidia, è come il corpo colpito dalla etisia. Il ti­sico cammina, ride, mangia e sembra che stia bene; invece si avvia alla tomba a grandi passi; ha bisogno di cura urgente e forte per resistere al microbo micidiale; se tralascia la cura, è segno che vuole perdere presto la vita.


Tu, o anima accidiosa, hai urgente bisogno di cura spirituale. Voglio sug­gerirti dei buoni rimedi per guarirti. Come l'ammalato ha bisogno di aria pu­ra e di sana nutrizione, così a te occor­re il tenere la mente occupata in buoni pensieri ed il pregare con frequenza e devozione. Leggi dunque qualche buon libro, recita mattina e sera le tue pre­ghiere, non lasciare mai la recita del Santo Rosario e lungo il giorno alza spes­so la mente a Dio con fervorose giacula­torie.


 


La Confessione.


Mezzo infallibile di risveglio spiri­tuale è la frequenza ai Sacramenti della Confessione e della Comunione.


. Comincia col fare una buona Confes­sione, la quale ti lasci la coscienza tran­quilla.


Discopri perciò al Ministro di Dio le píaghe dell'anima tua, senza nascon­dere volontariamente nessuna colpa grave e senza diminuirne la malizia.


Prendi dopo una magnanima risolu­zione di vita più cristiana. Ritorna in seguito con fede a questo Sacramento della Divina Misericordia, ogni qual volta ne sentissi il bisogno.


La Confessione mensile, e meglio an­cora settimanale, ti fornirà un valido aiuto per sollevarti spiritualmente.


Non è vero, o anima, che quando nella vita passata ricorrevi a questo Sacramento con le dovute disposizioni, ti sentivi lie­ta e più disposta a fare il bene? Pensaci con serietà! ...


 


La Comunione.


La Santissima Eucaristia è il Pane dei forti. L'anima accidiosa è molto de­bole; ricorra a questo Cibo Celeste e subito sentirà aumentare la forza spi­rituale.


Tu, o anima cristiana, desiderosa or­mai di lasciare la vita accidiosa, va' a ricevere la Santa Comunione con più frequenza che ti sarà possibile! Proverai tanta pace nel cuore, quanta da tempo non ne hai trovata nelle creature! Ogni giorno festivo sia per te una vera festa spirituale ricevendo Gesù Sacramentato.


L'esame di coscienza. Come lo specchio serve a vedere i difetti del volto, così l'esame di coscienza fa scoprire i difetti dell'anima. Chi de­sidera aver cura dell'anima sua, non la­sci passare giorno senza aver fatto alcu­ni minuti di questo esame.


Ogni sera, o anima cristiana, rientra in te stessa e pensa alle mancanze che avrai potuto commettere nella giornata; chiedi poi perdono a Dio con tutto il cuore, promettendo di essere più vigi­lante il giorno appresso.


Meditazione e lettura spirituale. Giova moltissimo al progresso spiri­tuale la pratica della meditazione e della lettura spirituale. Non è necessario im­piegarvi molto tempo; bastano alcuni mi­nuti al giorno. Volendo, il tempo si può trovare.


 


Si allega il file contenente il testo sin qui postato.


Credente
00martedì 19 dicembre 2017 12:25
Per approfondire l'argomento riguardante i vizi capitali, ecco un ulteriore contributo:

I SETTE PECCATI CAPITALI

1. AVARIZIA: L’amore smisurato per il denaro, radice di tutti i mali
di: Mons. Andrea Drigani*

«L’amore del denaro è la radice di tutti i mali». Così scrive San Paolo Apostolo nella Prima Lettera a Timoteo (6,10) ed è la migliore introduzione per riflettere sull’argomento dell’avarizia che, dalla dottrina cattolica, è stata definita come la cupidigia disordinata dei beni materiali. Questi beni infatti sono utili soltanto nella misura in cui giovano all’uomo per il raggiungimento del suo fine ultimo. Spiega San Tommaso d’Aquino: «Dunque la bontà dell’uomo nei loro riguardi consiste in una certa misura: e cioè consiste nel desiderare il possesso delle ricchezze in quanto necessarie alla vita, secondo le condizioni di ciascuno. Quindi nell’eccedere codesta misura si ha un peccato: quando si vuole acquistare o ritenere più del dovuto. E questo costituisce precisamente l’avarizia, che è un amore immoderato di possesso».

Come negli altri vizi capitali, anche nell’avarizia c’è una triplice offesa: al prossimo, a se stessi e a Dio. È contro il prossimo poiché nelle ricchezze materiali uno non può sovrabbondare senza che un altro rimanga nell’indigenza, perché i beni materiali non possono essere posseduti simultaneamente da più persone; è contro se stessi perché comporta una mancanza di moderazione negli affetti che uno prova per le ricchezze, cioè amore, compiacenze o desideri esagerati verso di esse, creando un disordine nella propria anima; è contro Dio perché per i beni materiali si disprezzano i beni eterni.

San Gregorio Magno osserva che l’avarizia si consuma, piuttosto che nel piacere o sensazione della carne, come la gola e la lussuria, nel piacere o percezione dell’anima e la pone tra i vizi capitali, da cui nascono altri peccati ed elenca le sette figlie dell’avarizia: la «obduratio contra misericordiam» (la durezza del cuore che impedisce di dare ai bisognosi), la «inquietudo mentis» ( la troppa ansia nel ricercare le ricchezze) la «violentia» (violenza), la «fallacia» (l’inganno), il «periurium» (lo spergiuro), la «fraus» (la frode), la «proditio» (il tradimento) cioè i mezzi illeciti per impossessarsi delle ricchezze.
Quanto si è ricordato non riguarda soltanto la storia dell’insegnamento tradizionale della Chiesa, ma vale pure per noi cristiani dell’inizio del Terzo Millennio, che viviamo in una società «sazia e disperata» che rischia di procedere verso una pericolosa deriva materialista. L’avaro, pertanto, non è il patetico protagonista della celebre commedia di Molière o qualche altro personaggio tirchio e spilorcio che la letteratura ed il cinema hanno illustrato e che dunque ci è estraneo per la sua goffaggine e ridicolezza, ma potrebbe, invece, essere anche dentro di noi.

La tentazione sottile e velenosa dell’avarizia è sempre in agguato, il richiamo di San Paolo è, soprattutto, per i nostri giorni dove le scorribande finanziarie, frutto perverso di una certa globalizzazione, sono tese al grande ed ingiusto accumulo di denaro, per l’opera di avventurieri senza etica, ma nel disinteresse o con l’ignoranza di risparmiatori desiderosi solo di ammucchiar soldi.
L’avarizia è vecchia quanto il mondo, già il poeta latino Virgilio diceva indignato: «Ahi de l’oro empia ed esecrabil fame!» («auri sacra fames»), perciò siamo in pericolo di invecchiare nei nostri peccati. Il tempo di Quaresima è anche un periodo di profonda revisione di vita e di attenta vigilanza dei comportamenti; non disperdiamo questa occasione per riflettere e meditare sul retto uso dei beni materiali.

2. SUPERBIA: quando la stima di se stessi diventa disprezzo degli altri
di Stefano Grossi*

Più che un singolo tipo di peccato la superbia appare come un’espressione che indica una costellazione di peccati: orgoglio, arroganza, arbitrio, tracotanza, apparenza esteriore, desiderio di abbassare gli altri per emergere.
Tuttavia se andiamo a ricercare nella Scrittura la parola che traduciamo con superbia, ci accorgiamo che questa ha anche un significato positivo: l’ebraico ga’on indica ciò che è alto ed elevato e, in senso figurato, ciò che eccelle e che per valore si distacca dalla media.

L’italiano conserva questo valore positivo attraverso l’aggettivo «superbo» come apprezzamento per tutto ciò che si distingue, che rappresenta una realizzazione eccellente e diventa punto di riferimento. Nella versione greca dei Settanta ga’on viene spesso tradotto con hybris esprimendone però solo il lato negativo di prepotenza, violenza, arroganza; nei libri sapienziali viene utilizzato anche hyperephania, quasi termine tecnico, per indicare l’atteggiamento che gli uomini pii debbono assolutamente evitare. Nel Nuovo Testamento al poco usato hybris si preferisce alazoneia e anche hyperephania per esprimere uno stile di vita basato sull’attribuire a se stessi più di quanto si ha o si è.

San Gregorio Magno sintetizza il peccato di superbia indicandone quattro manifestazioni: credere che il bene posseduto derivi esclusivamente da se stessi oppure di averlo ricevuto solo per i propri meriti; vantarsi di ciò che non si ha; cercare di far apparire uniche e singolari le proprie doti disprezzando gli altri.

Questa semplice nota linguistica ci aiuta a cogliere in cosa consiste la forza di seduzione tipica di questo peccato che, non a caso, S. Tommaso - riprendendo sia S. Agostino che S. Gregorio Magno - definisce come amore smodato della propria eccellenza. Esiste, infatti, in ciascuno di noi il legittimo desiderio di primeggiare, di migliorare noi stessi, di giungere alla perfezione fino al limite di quella divina; si tratta di uno stimolo positivo e potente a cercare di dare il meglio di sé nelle diverse situazioni e campi in cui siamo chiamati a operare. La capacità seducente della superbia, il suo fascino, consiste proprio nell’esaltare questo desiderio naturale di eccellere centrando in modo assoluto l’attenzione su se stessi, prescindendo da qualsiasi considerazione oggettiva, assumendo come criterio fondamentale del proprio agire una regola del tipo: «conta solo arrivare primi, perciò sii il numero uno a qualsiasi costo e con qualsiasi mezzo».

La superbia, così, mostra di essere un atteggiamento che cambia volto a seconda della situazione in cui si manifesta: in assoluto e fondamentalmente è la pretesa di essere come Dio in rapporto a tutto ciò (persone, viventi e cose) che ci circonda, ma si mostra anche come desiderio di essere «il più…» bello, forte, ricco, simpatico, intelligente, colto, raffinato, professionale, esperto, e potremmo continuare con tutte le caratteristiche positive della nostra umanità fino a comprendere le stesse dimensioni etiche e religiose: pio, buono, coerente, santo. Perciò per naturale propensione la superbia si nutre di menzogna e di violenza perché la ricerca ad ogni costo della propria superiorità costringe a svilire o a negare la positività delle doti altrui e a combatterle come se fossero pericolosi avversari con tanta più virulenza quanto più si percepisce che l’altro è effettivamente migliore di noi.

A questo punto viene spontaneo pensare che il miglior antidoto per la superbia sia coltivare l’umiltà, cosa senza dubbio vera purché non si scambi umiltà con ritrosia, timidezza o mediocrità; con la paura di impegnarsi, di confrontarsi alla pari, apertamente e lealmente con gli altri; con la vigliaccheria e l’incapacità di donare con le parole e i gesti il positivo di cui siamo portatori.
Credo che l’umiltà abbia bisogno di un percorso che inizia dai gesti semplici della cortesia: chiedere «per favore» e ringraziare; diviene capacità di gioire e utilizzare al meglio ciò che si ha; procede con lo sviluppo di una onestà intellettuale che sa di dover capire a fondo la posizione dell’altro prima di emettere un qualsiasi giudizio; trova il suo compimento nell’accettazione gioiosa che tutto il nostro essere è dono del Padre e il nostro operare è risposta all’iniziativa della grazia divina in Cristo. È, infine, coscienza ecclesiale come San Paolo ricordava ai fedeli di Corinto: «Queste cose, fratelli, le ho applicate a modo di esempio a me e ad Apollo per vostro profitto perché impariate nelle nostre persone a stare a ciò che è scritto e non vi gonfiate d’orgoglio a favore di uno contro un altro. Chi dunque ti ha dato questo privilegio? Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti come non l’avessi ricevuto?» (1Cor 4,6-7).


Don Stefano Grossi, docente di filosofia alla Facolta Teologica dell’Italia Centrale, tiene corsi di antropologia e di etica alla Facolta Teologica per l’Italia Centrale


3. IRA: Arrabbiarsi «a vanvera»: questo è il vero peccato

di Carlo Nardi

Perché anche l’ira tra i vizi capitali? E perché, invece, Giuseppe Giusti, tra il serio e il faceto, l’avrebbe messa, - se ben ricordo -, niente meno che «tra i sacramenti»? Un po’ d’ordine non nuoce.

La lista dei vizi capitali ha un perché. Per Platone, - Fedro, Repubblica, Timeo specialmente -, l’anima umana ha tre aspetti: quello razionale che dovrebbe regolare tutto, come l’auriga guida i cavalli. Nell’anima i «cavalli» sono due: c’è una parte oscura, la brama, con parola più tecnica «concupiscenza» (epithymía) nell’ambito degli «appetiti»; c’è la parte chiara, nel campo delle «repulsioni», lo «sdegno» (thymós) o irascibilità. Se vi s’installa un’abitudine cattiva, cattiva per il cattivo uso, ossia l’abuso, l’eccesso dello sdegno, quel vizio non è più l’«irascibilità» in sé, in latino ira, ma l’iracondia, ossia la smania di vendetta col far del male, la «libidine di vendicarsi», nel senso comune della parola (Agostino).

Insomma, dalla «irascibilità» di Platone vengono fuori non solo l’ira o meglio iracondia, ma anche l’accidia e l’invidia. Dal desiderio di avere deriva l’avarizia, intesa come avidità, da quello di piacere gola e lussuria, da quello di potere la superbia, talora considerata un oscuramento dell’intelletto, divenuto guida cieca.
Perciò, già in Platone e poi sopratutto in Aristotele (Etica a Nicomaco) fino a San Tommaso (Il male) e a Dante (Purgatorio), forse fino alla non banale buffonata del Giusti, si distingue tra lo sdegno come tendenza, impulso naturale, e il suo uso o esercizio, che può essere in modo giusto o sbagliato, debito o indebito, buono o cattivo nei fini e nei mezzi. In questo secondo caso l’irascibilità (ira) diventa peccaminosa e viziosa, iracondia (ira mala) che, per odio, nel suo desiderio di distruzione, mira comunque a produrre danno, nutrendosi di invidia, di occhio cattivo.

Le osservazioni di Aristotele sono state apprezzate dai cristiani. In fondo, che uomo sarebbe quello che non si sa sdegnare di fronte all’ingiustizia? Metterebbe a rischio la sua umanità. È significativa, anche se di sapore filosofico, l’aggiunta dell’avverbio «a vanvera» nel testo del discorso della montagna come lo leggiamo in Basilio nella sua predica Contro gli iracondi: «Chi si adira col fratello “a vanvera”, sarà sottoposto al giudizio».

Altri filosofi dell’antichità, gli stoici, intendevano piuttosto estirpare, sradicare ogni ribollimento fin dai suoi primi impulsi. Sulla loro scia, Seneca e Plutarco, stoici peraltro di assai larga osservanza, nelle loro trattazioni sull’ira, si soffermano sulla fenomenologia dell’iracondo. La valutazione morale è implicita, ma immediata, come nei nostri modi di dire: sangue al cervello, fumo al naso, perdita del lume degli occhi, andare in bestia, come un cane arrabbiato, trionfo dell’irrazionalità, fino all’irreparabile, l’omicidio, fino al non ritorno, tra umani la guerra, tra cristiani lo scisma.

Certo, San Basilio introduce un certo razionalismo morale nel suo testo evangelico con la limitazione imposta dall’avverbio «a vanvera». Eppure non intende affatto offrire speciosi motivi per «curare il male col male» nella vendetta, dove, paradossalmente, chi vince perde. Anzi, assumendo argomentazioni dagli antichi, propone rimedi pratici per superare l’ira: immaginarsi allo specchio in quella «breve follia», nello stesso tempo tremendi e ridicoli; tacere, il benedetto mordersi la lingua in quel momento, e, come retroterra, il ricordare esempi e coltivare pensieri di mitezza, bontà, perdono. Comunque, non intende metter su una collezione di modelli lontani o generici valori, ma indurre a lasciarsi plasmare dalla grazia di Cristo. Tanto più che Gesù indica felicità e pienezza di vita nella «mansuetudine» di «chi fa la pace», beatitudini (Mt 5,5.7.9) con cui Basilio (cap. 7), come Dante (Purgatorio), suggellano il loro trattare di ira.

Ma la capacità di «sdegnarsi» a volte è sacrosanta
Poco dopo il 313 un cristiano latino, Lattanzio, scriveva un libro sull’Ira di Dio. Succo dell’opera: Iddio vivo e vero, della Bibbia, vecchio come nuovo testamento, non è un Dio «pacioccone» come quello degli antichi, degli epicurei, che se ne sta lassù, senza voler beghe dalle cose umane. Banalizzando didatticamente, un Dio contento e beato nel suo «nirvana».

Facendo eco all’antico scrittore latino, con una riflessione del card. Carlo Maria Martini («L’ira di Dio e altri scritti» (1962-1994). A cura di S. Giacomini, Milano 1995) e un impegnativo libro di teologia fresco fresco (R. Miggelbrink, «L’ira di Dio. Il significato di una provocante tradizione biblica», Brescia 2005), si può dire che Dio non è insensibile al dolore di chi perde soprattutto per colpa degli uomini. Non è insensibile al grido del sangue di Abele, ma anche alle paure del fuggiasco Caino, che Dio segna perché «nessun tocchi Caino». E si potrebbe continuare con l’Esodo, con i profeti, con S. Giacomo nella sua Lettera.

Ira del Dio della Bibbia che ode il grido e conosce l’ira dei poveri, si direbbe con Paolo VI a quasi quarant’anni dalla «Populorum progressio», già commentata da La Pira. Perché un rischio c’è: quello di non domandarci più il senso di quelle ire e, semmai, misurarle con le nostre rabbie. E il rischio mi pare direttamente proporzionale al tempo passato, - perso? -, davanti alla televisione, perché per sopravvivere, - ora bambini rapiti per estrarre organi; dopo, l’Isola dei famosi o il Grande Fratello, che mi tocca scrivere anche con la lettera maiuscola -, è d’obbligo la perdita della capacità psicologica di sdegnarsi. Pena l’ipocondria. O arrabbiarsi solo se l’ingiustizia la subisco io nella mia vita, cose, idee, valori. Se la subiscono altri, poco importa.

A proposito, «ira di Dio» anche in Paolo, peraltro ingoiata dalla sua grazia sovrabbondante, ma perché con quell’ira è misteriosamente connessa la morte del Figlio. Forse anche nel nostro modo di dire «è costato l’ira di Dio» riecheggia la drammaticità sconcertante tra ira e misericordia nella pasqua di Cristo, per un grazie d’essere liberati dall’ira, trepidanti per non ritrovarsi tra «quelli che muoion nell’ira di Dio», in parole povere «in peccato mortale» nell’ora in cui ... «più panico o meno uccelli».
Don Carlo Nardi, docente di patrologia alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale, ha scritto numerosi saggi sui Padri della Chiesa, con particolare attenzione ai rapporti tra cultura classica e cristianesimo


4-5: IRA E LUSSURIA: Quando il piacere è fine a se stesso

di Carlo Nardi*

Gola e lussuria, come dire Bacco e Venere, e non di meno tabacco e cenere. È ovvia l’allusione al proverbio «Bacco tabacco e Venere \ riducon l’uomo in cenere». Gola e lussuria abbinate? Intanto, perché - è un altro proverbio, questa volta latino - «se Cerere manca», ossia pane e companatico, «anche Venere è fredda». Dunque, sopravvivenza dell’individuo e sopravvivenza della specie, di cui è spia una duplice fame, innanzi tutto quella di cibo, e poi, a pancia abbastanza piena, quella, non meno allupata, di sesso, tutte e due nell’ambito del «desiderio», in particolare della «concupiscenza della carne», secondo la tripartizione della Prima lettera di s. Giovanni (2,16).

Gola
Certo, «concupiscenza», secondo la definizione scolastica di «amore disordinato delle cose sensibili», si colora di negatività, di tendenziale peccaminosità: è un qualcosa che «deriva dal peccato» almeno quello originale, «ed inclina al peccato» (Concilio di Trento). Eppure, è difficile pensare che alla madre Eva, al vedere così appetitosa quella «benedetta» mela, non fosse venuta l’acquolina in bocca. Con tutto il rispetto per i fiumi d’inchiostro, tra il teologico e il faceto, versati su quella mela, in caso contrario si dovrebbe ammettere un’umanità biologicamente diversa da quella che è. In effetti, la concupiscenza. più che un male, è «una sfida» per una vita umana, che è come dire morale (ancora il Concilio di Trento). Del resto, istinti e impulsi di per sé sono un bene. Quindi: buon appetito, direi con la sensibilità fenomenologica dell’antico Aristotele, ma anche con la signorilità del Padreterno, che, quando si tratta di banchetto da lui imbadito, non fa a miccino: «vini eccellenti, cibi succulenti» (Is 25,6), proprio quelle cose che un’antica eresia, l’encratismo, condannava senza appello - tutti assolutamente astemi e vegetariani! - eresia fondata sull’idea che la materia, nata da uno sbaglio di Dio o fatta da un dio inferiore, è male, che il corpo anche, che le sue pulsioni pure. Figuriamoci, le sostanze inebrianti! Tant’è che c’era chi diceva messa con l’acqua! I cosiddetti aquarii. Certo, la Chiesa se ne accorse e condannò. Ma, come succede, l’eresia, fatta uscire dalla porta, rientrò, come mentalità, sempre ricorrente come tendenza, dalla finestra. Sicché, per non poca ascesi, lo stomaco ci sarebbe per digiunare e per fare a gara a chi mangia di meno, alla ricerca di una «santa» anoressia.

Ma oggi, per noi, che si può dire di sensato ed utile sulla gola, di umano, di cristiano? Che, - forse con l’antico Socrate -, si mangia per vivere e non si vive per mangiare. Parole sante, da sottolineare. Sennò madre natura, - notavano ancora gli antichi -, avrebbe dovuto farci la gola lunga come quella delle gru con tanto di papille gustative per un maggior godío. Il che non è poco per una morale della temperanza, nell’ambito d’una retta ragione che a una riflessione attenta non manca di dire qualcosa di sensato, che il lettore coscienzioso saprà applicare col suo cervello alle situazioni della vita. Anche a proposito di compensazioni, autoconsolazioni, autocommiserazioni, per cui ecco il cioccolatino e il pasticcino, il fiasco del vino e il bicchierino e il grondino. E, come si sa, non c’è due senza tre: e magari si restasse a tre! E con Bacco il tabacco, e d’erba in erba, e «in compagnia prese moglie un frate». Ma non voglio togliere il da fare ai figli d’Ippocrate e di Freud.

Ma non è detto tutto: perché mangiare non è un puro e semplice atto biologico di sopravvivenza. È la gioia di condividere un pezzo di pane, è la tristezza del caviale da soli. Mangiare è comunione, tant’è che la Comunione, con la ci maiuscola, è mangiare, uno dei verbi più ricorrenti nella Sacra Scrittura.

A proposito, perché la manna, da raccogliersi per la porzione di un giorno, se prelevata di più, bacava (Es 16,4-5.16-29)? Perché chi ne prendeva di più, è segno che non si fidava di quel Dio che insegnerà a chiedere «il pane quotidiano» (Mt 6,11) e ne pigliava al prossimo che rimaneva senza. Sicché quel ben di Dio andava a male, come «il lavoro per l’Ascensione», che «va tutto in perdizione», a quanto dicevano i nostri vecchi. Invece, lo stomaco, che, gorgogliando, reclama, fa capire quanto siamo fragili e deboli, dipendenti e bisognosi di Dio, e insegna a dirgli grazie. E poi, se «chi è a pancia piena, non pensa a chi l’ha vuota», - proverbio già in Giovanni Crisostomo (350 circa - 407) -, forse solo una pancia vuota fa capire, con Giobbe, la stoltezza umana di chi «mangia da solo il suo pane senza che ne mangi l’orfano» (Gb 31,17). A proposito di gola, digiuno, quaresima.

Lussuria
La lussuria, come si sa o si dovrebbe sapere, non riguarda il lusso, ma il sesso. Il quale, come la gola, garantisce la sopravvivenza, questa volta del genere umano: non senza un perché si chiamano «genitali». Ma la sessualità umana è una realtà molto complessa, enigmatica e interessante. Intanto, se l’attrazione fisica fosse solo il trucco di madre natura per far figliare, con strane attivazioni di membra che al solo rammentarle fanno ridere (Erasmo), Quello lassù poteva farci riprodurre come i lombrichi: da uno se ne fa due. Tant’è che ora c’è chi s’ingegna in intrugli del genere. O fare andare in caldo ogni cinque anni, come il panda.
D’altra parte, se scopo del sesso fosse esclusivamente il piacere, in una successione di desiderio, eccitazione, ricerca, sfogo, secondo una «concezione idraulica» del medesimo, sesso appunto a sciacquone (Fromm), perché così pochi momenti e centimetri per quest’altro godio, che invece, una volta assaggiato, tende all’infinito? Effetti dei pizzicori delle foglie di fico sui tristi progenitori? Ma poi perché il buon Dio ci avrebbe fatti «bambini» e «bambine», maschi e femmine, se si trattasse solo di dar lo sturo a un troppo pieno?

In realtà, il sesso tende all’unione di «tutto un corpo in un corpo» (Lucrezio). È il mistero della biblica «una sola carne» (Gen 2,23-24; Mc 10,8; Ef 5,29-30): immedesimazione in una distinzione, anzi opposizione, e perciò reciprocità, di lui per lei e lei per lui, di lui con lei e lei con lui, di lui in lei e lei in lui. È unione di persone: il coito, se umano, comincia di solito con un bacio. In quell’unione che vuol essere totale, come se fosse un pozzo (Prov 5,15) soffocato da tanti detriti, - quelli sedimentati dalla lussuria all’insegna dell’«ogni lasciata è persa» o «basta che respiri» -, si può riscontrare un desiderio, anzi una volontà di perennità e vitalità, per un sesso così unitivo ed espressivo da essere umanamente e serenamente procreativo. Certo, neppure nell’esercizio concreto del sesso c’è una unione totale di persone, che sarà data solo nel mondo dei corpi risorti, del cui anelito la verginità è segno particolare e «testimonianza dell’invisibile» (Paolo VI).

Eppure, la Chiesa contemporanea (da Pio XII a Benedetto XVI) e già patristica (Clemente di Alessandria, Metodio, Proba Faltona, il monaco Melezio), nella sua riflessione sull’eros, apprezza quell’atto, con espressivi e piacevoli annessi e connessi. E lo rispetta e stima di molto, a quelle condizioni di unità e fecondità coniugali. Tanto che verrebbe da dire: anche troppo, e troppa grazia in quel ben di Dio che richiede d’esser fatto e vissuto fin troppo bene!
Come si fa? Tanto più in un mondo afrodisiaco (Bergson) nei suoi richiami, stimoli, seduzioni, obblighi e illusioni. Non solo. Fino a quarant’anni or sono, quando ancora una puerpera si sentiva in dovere di «rientrare in santo», l’antico procreazionismo rigido (Agostino) del «non lo fo per amor mio ma per dare figli a Dio» faceva chiaramente capire dov’erano la virtù e il vizio, castità e lussuria. Ora, l’apprezzamento cordiale del valore dell’eros e nel contempo la dottrina del suo significato inscindibilmente unitivo e strutturalmente procreativo suscitano non pochi problemi, per chi, s’intende, vuole avere un po’ di coscienza. Eppure, per non lasciare che la vita di affetti, sentimenti, sensi vada a finire in cenere umanamente infeconda, frutto deludente di lussuria illusoria, è da rendersi dove l’impudicizia si annida, come egoismo, disperazione e rivalsa.

Ancora. Proprio lì, - innanzi tutto nel cervello e poi nel cuore, e anche … tra il bellico e i ginocchi -, per un eros vissuto umanamente, è da scegliere, senza demordere, la sfida morale di un arduo cammino verso la fresca «purità di cuore» evangelica (Mt 5,8). Insomma, consapevolezza vissuta della bontà del sesso e limpidezza che, sola, conosce gratitudine e beatitudine.

Don Carlo Nardi, docente di patrologia alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale, ha scritto numerosi saggi sui Padri della Chiesa, con particolare attenzione ai rapporti tra cultura classica e cristianesimo.

6. ACCIDIA: La tentazione di cedere allo scoraggiamento

di Stefano Grossi *

Accidia. Questa parola è probabilmente poco familiare alla maggior parte della cultura moderna, non così l’esperienza che descrive e sintetizza: il desiderio, accompagnato da una certa tristezza, di fuggire dal compito che in quel preciso momento siamo chiamati a svolgere. Ricordo una simpatica mattonella che, riportando il decalogo del pigro, al primo articolo recitava: «non fare oggi ciò che potresti fare domani» e «se ti viene voglia di fare qualcosa, fermati! Vedrai che ti passa». Ecco una semplice, anche se parziale, immagine dell’accidia.

Questo termine non proviene tanto dalla tradizione biblica quanto da quella monastica dei primi secoli del cristianesimo - tra i più importanti ricordo: Giovanni Cassiano ed Evagrio Pontico - per poi arricchirsi nelle successive riflessioni teologiche. Tuttavia anche se «accidia» non compare nella Scrittura non mancano riferimenti a questa difficoltà interiore; basti citare il Siracide: «Non abbandonarti alla tristezza, non tormentarti con i tuoi pensieri» (30,31) o anche s. Paolo che parla di una «tristezza secondo il mondo» che conduce alla morte (2Cor 7,10).

L’accidia appare prima di tutto come uno stato d’animo negativo intessuto di scoraggiamento, di noia, di pesantezza, in questo manifestarsi però essa non è ancora peccato, ma solo tentazione. Peccato vero e proprio è cedere a questo sentimento e fuggire, fisicamente o con la mente, dall’attività intrapresa o che si dovrebbe intraprendere di lì a poco. L’accidia dice la difficoltà di fare oggetto del nostro pensiero e della nostra volontà un bene che non è ancora presente; è un segno del conflitto che può nascere in noi per dover scegliere tra cercare una soddisfazione materiale immediata, pur piccola, e impegnarsi per raggiungerne una più grande, spirituale, ma posta nel futuro.

Sentimento per sua natura oscuro, confuso, sfuggente, l’accidia è capace di molteplici manifestazioni talvolta opposte nella loro apparenza, ma unite da una medesima radice: l’annebbiamento della gerarchia del valore delle diverse situazioni, per cui tutto sembra farsi grigio ed omogeneo. Da un lato, infatti, troviamo gli atteggiamenti caratterizzati dal rimandare scelte e azioni; dallo sminuire l’importanza dei compiti affidatici; dallo svalutare l’urgenza di affrontare le situazioni che ci si presentano; dal non prendere sul serio responsabilità e doveri; dalla leggerezza e superficialità nell’operare che non fa differenza tra il portare a compimento qualcosa o lasciarla a mezzo. Dall’altro lato - con un aspetto meno evidente da collegare all’accidia - stanno gli atteggiamenti opposti: l’attivismo che vuole riempire ogni momento del tempo con qualcosa per paura di doversi fermare a riflettere; la frenesia del consumare novità di ogni genere con la scusa che più esperienze si fanno - non importa quali - più la vita si arricchisce; il dilettantismo del passare da continuamente da un impegno all’altro per timore di coinvolgersi troppo con persone e situazioni; l’irrequietezza di cambiare sbandierando la pretesa di inseguire un mai precisato «meglio». In modo più sottile e ipocrita, perché si ammantano di dinamicità e apertura, anche questi ultimi in fondo dicono che non esiste nulla di realmente importante a parte se stessi e le proprie sensazioni, che nulla e nessuno è in se stesso degno di fedeltà, sacrificio e dedizione.

Accanto a queste forme individuali, il card. Martini, appena prima di iniziare il Giubileo, in un discorso nella vigilia di s. Ambrogio centrava l’attenzione sulla manifestazione sociale di questo male oscuro. Esiste anche una «accidia pubblica o politica» fatta di esaltazione della moderazione come mediocrità e di chi se ne fa ad ogni livello unico portabandiera; di una piatta neutralità; di un’incapacità timida e impaurita, ma elevata a virtù, di valutare oggettivamente ed eticamente le situazioni; di incapacità di proporre qualcosa di diverso da una convivenza fiacca, opaca, frammentata, che genera una società senza forma e tuttavia, attraverso l’adulazione dei media, capace di addormentare le coscienze dei singoli e dei gruppi.
Contro un nemico così sfuggente e multiforme, quasi fatto d’ombra, la tradizione spirituale cristiana individua le armi più efficaci nella resistenza e nella costanza amorosa - per dirla in una parola nella virtù della fortezza, dono dello Spirito Santo - applicate a tutti gli atti dell’esistenza: da quelli spirituali a quelli materiali.

Diviene così fondamentale imparare a mantenersi vigili e coscienti del presente; imporsi metodo e disciplina nelle azioni; esercitare con costanza ed esigenza la veracità verso se stessi e gli altri; vivere la speranza attiva e paziente del costruire giorno per giorno. Infine, visto che l’accidia pretende di prendersi troppo sul serio e ingigantisce l’importanza della propria tristezza, ottimo antidoto è una buona dose di autoironia che con una risata sappia farci riportare le cose che ci coinvolgono alla loro giusta proporzione.

Don Stefano Grossi, docente di filosofia alla Facolta Teologica dell’Italia Centrale, vi tiene corsi di antropologia e di etica

7. INVIDIA: Quel sentimento doloroso, figlio della frustrazione

di Guglielmo Borghetti *

«Per cosa sono da meno di lui? Per intelligenza? Per ricchezza interiore? Per sensibilità? Per forza? Per importanza? Perché devo subire la sua superiorità?» Così s’interroga Nicolaj Kavalerov, protagonista del romanzo Invidia (1928) di Jurij Olesa, scrittore sovietico, meditando rancore sul suo nemico personale Babicev, che rappresenta ai suoi occhi un concentrato di negatività assolute.

Come tutti i vizi capitali l’invidia è antica come l’uomo; a differenza della superbia, della gola della lussuria, l’invidia è forse l’unico vizio che non procura piacere; evidentemente le sue radici nascoste affondano nel nucleo profondo di noi stessi dove si raccoglie la nostra identità che per costituirsi e crescere ha bisogno del riconoscimento; quando questo manca, l’identità si fa più incerta, sbiadisce, si atrofizza ed entra in scena l’invidia che permette a chi è incapace di valorizzare se stesso una salvaguardia di sé nella demolizione dell’altro; oltre ad essere un vizio è un meccanismo di difesa, disperato tentativo maldestro di recuperare la fiducia e la stima di se stessi impedendo la caduta del proprio valore svalutando l’altro; questa è la strategia dell’invidioso: svalutare le persone percepite come «migliori» di sé non solo in pensieri e parole, ma anche danneggiando il malcapitato invidiato considerato colpevole di farsi apprezzare e stimare dagli altri più del dovuto, più di quanto non lo sia l’invidiante. Non confondiamo invidia e gelosia: la prima è risentimento verso qualcosa che qualcuno ha, ma che non mi appartiene; la seconda è la paura che qualcuno mi porti via ciò che già ho; l’invidia è figlia della frustrazione e di un senso di impossibilità a realizzarsi che si riflette in un odio distruttivo verso l’altro; l’invidioso «è un carnefice di se stesso» (S. Pier Crisologo) e di chi gli è vicino.

Nella società della competizione, del successo e della nuova ricchezza l’invidia cresce a dismisura, è proporzionale all’esibizione esagerata di pochi contro il disagio e la delusione di molti. Il sociologo Paolo De Nardis parla dell’invidia nel suo L’Invidia. Un rompicapo per le scienze sociali (2000) e avanza l’interrogativo se l’invidia non sia un peccato capitale della nostra società: così Helmut Schoeck nel suo L’invidia e la società (1974) dimostra che l’invidia è uno dei più importanti motori sociali sia nelle società comuniste, sia in quelle capitalistiche e c’è anche chi annota che l’invidia è stata considerata una pecca della democrazia già dal mondo greco, dalle Vespe di Aristofane fino alle acute analisi di Tocqueville. In una società in cui tutti sono uguali ci si chiede perché tizio è più ricco o più famoso di me. Anche per F. Nietzsche è tipico di tutti i movimenti egualitari - cristianesimo, socialismo, democrazia -, avere uno spirito gregario: il gregge si difende odiando e invidiando chi sta sopra e sostiene che l’inferno è un’invenzione dei cristiani che si trovano al fondo della classe sociale. Nelle società in cui la disuguaglianza è assunta come un dato naturale si è indotti ad accettare più facilmente la supremazia dell’altro e a tollerare il proprio limite. Mentre nelle società dove la disuguaglianza è ritenuta innaturale o prodotto dell’iniquità sociale, l’invidia veste i panni della virtù e si trasforma in istanza di giustizia.

L’invidia è un sentimento che non sopporta il limite naturale in forza di una pressione sociale, perché è la società a decidere il valore degli individui, e nella società contemporanea il criterio di decisione è il successo. Il sentirsi limitati e impotenti ha un carattere costitutivamente relazionale nel senso che dipende dalle relazioni sociali attraverso cui passa il riconoscimento individuale; quando la società fa mancare il riconoscimento produce la metamorfosi dell’impotenza in invidia e aumenta al suo interno la circolazione di questo sentimento che impoverisce il mondo senza riuscire a valorizzare chi lo prova; è proprio questa la ragione per cui l’invidioso è costretto a nascondere il suo sentimento e a non lasciarlo mai trasparire perché altrimenti darebbe a vedere la sua impotenza, la sua inferiorità e la sua sofferenza.
L’invidia in questa prospettiva oltre un vizio capitale è un indotto sociale, e, fatta salva l’istanza di giustizia che può promuovere, è un sentimento «inutile» perché non approda alla valorizzazione di sé, «doloroso» perché rabbuia e impoverisce il mondo e per giunta è un sentimento da tenere «nascosto» senza neppure il conforto che può venire dal parlarne con qualcuno; pochissimi, infatti, parlano chiaramente e volentieri dell’invidia che provano: parlarne apertamente inibisce perché è come mettersi a nudo, svelare la parte più meschina e vulnerabile di sé; parlare della persona che si invidia e spiegare il perché significa parlare della parte più profonda di se stessi, delle aspirazioni e dei fallimenti personali, delle difficoltà e dei limiti che si trovano in noi stessi.

Nel libro della Sapienza si ricorda che «la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo» (Sap. 2,24); il testo sacro collega il limite dell’umanità ad un peccato d’invidia e Satana è l’invidioso per eccellenza. Percorrendo la Sacra Scrittura emerge un filo sapienzale, da Caino a Saul che mostra come l’invidia nasca dalla grandezza dell’altro non accolta e diventata elemento di confronto e rivela un senso di sconfitta. Chesterton dice che l’uomo che non è invidioso vede le rose più rosse degli altri, l’erba più verde e il sole più abbagliante, mentre l’invidioso le vive con disperazione. Uno sguardo purificato aiuta a cogliere il valore delle cose, la loro intima bellezza e non riduce tutto all’oggetto da catturare e possedere ad ogni costo.

Don Guglielmo Borghetti è Preside dello Studio Teologico Interdiocesano «Mons. E. Bartoletti» di Camaiore. È docente di atropologia filosofica ed etica e di psicologia della religione.


Esiste ancora il senso del peccato?

Si conclude il nostro viaggio tra i «vizi capitali»

La nostra inchiesta di questa settimana sulla confessione e il senso del peccato conclude il «viaggio» che Toscanaoggi ha proposto ai suoi lettori durante le domeniche di Quaresima. Un percorso che ha avuto al centro quelli che la tradizione cristiana ha catalogato come i «sette peccati capitali»: i vizi a cui si possono ricondurre tutti i peccati umani.

Un elenco antico, ma ancora attuale: accompagnati da illustri teologi, canonisti e moralisti, abbiamo potuto sperimentarecome questi peccati sono stati interpretati nel corso della storia, ma soprattutto vedremo come ancora oggi tanti nostri comportamenti quotidiani possono essere giudicati secondo queste categorie.

Il percorso è iniziato sul numero 9 con una introduzione generale e la scheda sull’avarizia. Sul numero 10 gli articoli relativi a ira e superbia; sul numero 11 un unico articolo ha preso in esame insieme gola e lussuria. Sul numero 12, le ultime due schede su accidia e invidia. Tra gli autori don Carlo Nardi, docente di patristica; don Stefano Grossi, docente di antropologia e di etica; mons. Andrea Drigani, docente di diritto canonico; don Guglielmo Borghetti, docente di antropologia filosofica, etica e di psicologia della religione.

di Nicoletta Benini

«Il peccato è un’offesa a Dio»: così nel Catechismo della Chiesa Cattolica (1850). E ancora al Salmo 51: «Contro di te, contro te solo ho peccato. Quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto». Il problema del male e di conseguenza del peccato nasce insieme al mondo; Sant’Agostino si chiedeva: «Quaerebam unde malum et non erat exitus» («Mi chiedevo donde il male, e non sapevo darmi risposta»), e ancora nel Catechismo della Chiesa Cattolica leggiamo (412) «Ma perché Dio non ha impedito all’uomo di peccare?» Risponde, tra gli altri, San Tommaso d’Aquino: «Nulla si oppone al fatto che la natura umana sia destinata ad un fine più alto dopo il peccato. Dio permette, infatti, che ci siano i mali per trarne da essi un bene più grande. Da qui il detto di San Paolo: “Laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia”».

Nelle nostre giornate così rumorose, affogate tra fretta e ansie di ogni tipo dove trova posto il peccato? O meglio, ha ancora senso parlare di peccato, di colpa verso Dio? L’uomo di oggi ha voglia e tempo di soffermarsi a riflettere su questo, magari nell’ombra quieta di un confessionale? Voci unanimi dicono di no per la maggior parte, anche se per alcuni ci sono delle eccezioni. Abbiamo cercato di approfondire l’argomento con chi, in materia, se ne intende ed è tutti giorni a contatto con tante persone e con i loro problemi di vita.

Per don Leopoldo Genovesi, della Cattedrale di Pitigliano, «c’è una diminuzione del senso di Dio con un pericoloso smarrimento d’identità dell’uomo e di conseguenza una totale perdita di senso del peccato. Nel periodo del dopo-cresima si nota una diffusa disaffezione da parte dei giovani, con un rapido e massiccio allontanamento dai sacramenti. Le persone non si confessano, ma a volte è colpa anche di noi sacerdoti poco attenti alle loro vite stressanti; la tendenza del Cristianesimo è stata quella di ridursi ad un piano comunitario e sociale trascurando l’aspetto personale di una vita in Grazia di Dio. In passato s’insisteva su un Dio giudice che castiga l’uomo peccatore, oggi coloro che, per esempio, si recano a Collevalenza, alla Chiesa dell’Amore Misericordioso, hanno subito la certezza di trovarsi di fronte ad un Dio buono, compassionevole che cerca l’uomo con un amore instancabile. Dio è un Padre che perdona, che dimentica le offese, questo è quanto dico continuamente ai miei fedeli: il momento della confessione deve essere vissuto come un tempo di festa e di riconciliazione». «In questo tempo - aggiunge don Leopoldo - di “relativismo etico e soggettivismo morale” come ha sottolineato Papa Benedetto XVI ognuno crede di poter fare da solo, anche di giustificare un peccato come tale, mentre metro per giudicare quando un peccato è tale, sono i dieci Comandamenti, la Legge di Dio. Il peccato è il nostro no a questa Legge di Dio. C’è un abuso oggi della frase: “secondo la mia coscienza”, ma questa coscienza per essere usata come ago della bilancia, deve avere un punto di riferimento, dev’essere retta e guidata da Dio e dal Magistero della Chiesa; invece purtroppo oggi la gente è disorientata e nell’incertezza si preferisce non avvicinarsi al confessionale: comportamenti troppo sbagliati, situazioni troppo difficili portano le persone sempre più lontane dalla confessione vissuta solo come un ostacolo troppo grande da superare; non si è più attenti al peccato e al peccato verso Dio, ma solo verso gli altri il che non è sbagliato di per sé, ma non è tutto».

Per mons. Simone Giusti, Direttore dell’Ufficio Catechistico Regionale e parroco a Cascine di Buti: «Oggi il senso del peccato si radica in grandi sensi di colpa, preludio comunque di una ricerca spirituale. Le persone vivono grandi fallimenti e grandi desideri di riscatto. Durante il periodo della benedizione delle famiglie ho avuto modo di ascoltare tante persone, le quali desideravano molto dialogare e alleggerirsi di questi personali sensi di colpa. Da questo si può comunque partire per arrivare ad una riflessione più profonda sul significato del peccato, attraverso una maggiore conoscenza di Dio e della sua redenzione: penso a persone che si sentono in colpa perché hanno abortito, o perché il loro matrimonio è fallito, o a una madre il cui figlio ha scoperto essere una prostituta; queste persone hanno bisogno di essere cercate e di sapere di essere perdonate da Dio. Dobbiamo fare l’evangelizzazione del senso di colpa liberandocene, per far riscoprire l’autentico senso del peccato e della redenzione».

«Seguo da tempo coppie in crisi - racconta ancora mons. Giusti - e cerco insieme a loro di evangelizzare la rabbia, il dolore, la sofferenza per portarli a comprendere che attraverso il loro peccato, può iniziare un percorso nuovo di fede che li porti a Dio. Certo quando nel Vangelo di Giovanni leggiamo le parole che Gesù disse alla donna adultera: “Va e non peccare più” ,capiamo anche che non si tratta di un Dio superficiale, ma di un Dio che comunque chiede una conversione. La confessione allora dev’essere vissuta come un’opportunità e sono contento di poter dire che da quando nella mia parrocchia ho rimesso la figura del ’confessore straordinario’, per una volta la settimana, e che chiaramente non è il parroco, sono molte le persone che si confessano; inoltre, una volta al mese, nell’incontro per i giovani c’è da parte loro una ripresa fortissima di questo sacramento. Si devono quindi anche creare le occasioni, le opportunità; per esempio io, non molto favorevole ai pellegrinaggi, mi sono ricreduto e durante degli Esercizi Spirituali itineranti a Fatima ho potuto notare quanto, in questo tempo particolare, le persone si siano avvicinate alla confessione e quindi alla riconciliazione con Dio».

Anche per padre Massimo Maria, Priore della Fraternità Monastica di Gerusalemme, presso la Badia Fiorentina a Firenze: «Oggi è molto più diffuso il senso di colpa, ma non il senso del peccato; non si può però avere il senso del peccato se non si è incontrato Dio. Il senso di colpa tipico della società contemporanea evidenzia un ripiegamento dell’uomo su stesso, mentre il senso del peccato è una mancanza di amore verso Dio. Dobbiamo aiutare la gente ad entrare con fiducia nel sacramento della confessione, molti oggi confondono la confessione come l’incontro da uno psicologo, ma la vita spirituale è molto più profonda di un colloquio di analisi psicologica. C’è un forte bisogno di ascolto e noi attraverso questi tempi dedicati agli altri, possiamo portare la gente a scoprire il vero volto di Dio, volto di amore e di perdono».

«Verso i 45 /50 anni - conclude padre Massimo Maria - noto che le persone s’interrogano di più sulla vita e su cosa veramente è importante, su dov’è l’essenziale, dobbiamo quindi cercare di distogliere il loro sguardo da se stessi e dai loro sensi di colpa per aiutarli a volgere lo sguardo verso il Signore sperimentando la sua misericordia. Troppo spesso il Cristianesimo viene visto sotto una luce puramente moralistica, come un insieme di cose che si possono o non possono fare, invece il Cristianesimo è prima di tutto un incontro, un incontro con Dio e con il suo Amore».
Credente
00martedì 19 dicembre 2017 12:29

Soffri di accidia? Scoprilo e segui i rimedi di un monaco del IV secolo




 




Quando non si ha voglia di fare nulla, ci si sente irrequieti e preoccupati,
allora potrebbe nascondersi una forma depressiva

Una malattia della vita spirituale. Che ci domandiamo come affrontarla, anche se poi rispunta sempre. E’ una dimensione negativa che troviamo, ma che va affrontata. La tradizione della Chiesa la chiama l’“accidia”.

Un’interessante meditazione di don Angelo De Donatis, parroco della parrocchia di San Marco Evangelista in Roma, pubblicata su www.gliscritti.it, riporta le indicazioni di Evagrio Pontico, un maestro del IV secolo – ed, insieme, del Bunge, un autore moderno che ha affrontato lo stesso tema, studiando Evagrio, per capire se si è affetti da questa malattia e come combattere contro i sintomi.

Demone del Mezzogiorno

Evagrio chiama l’accidia il “demone del mezzogiorno”, perché è la tentazione che assale il monaco a metà della giornata, quando l’entusiasmo viene meno, quando l’ardore si è spento.

Questo “mezzogiorno” che è anche il mezzogiorno della vita, quando ad un certo punto, l’entusiasmo viene meno, quando non c’è più la gioia profonda di fare una cosa, la gioia di vivere. Ecco perché Evagrio Pontico dice che questo è un demone pericolosissimo.

Non è la pigrizia!

Noi tante volte traduciamo “accidia” con “pigrizia”. Ma non è la pigrizia, è proprio un disgusto, quando non ti va di fare più niente, quando sei svogliato perché ti è passata proprio la voglia di impegnarti, di andare a fondo alle cose.

I sintomi

1) Evagrio dice: “A volte si ha una paura esagerata degli ostacoli che si possono incontrare”. C’è quasi una paralisi: mi spavento, ho paura di questi ostacoli e mi paralizzo.

2) Oppure c’è un’avversione a tutto ciò che costa fatica. Sento proprio una repulsione; non mi va perché so che una cosa mi impegna nella fatica e quindi la rifiuto.

3) Andando avanti, Evagrio dice ancora che c’è una negligenza nell’osservare l’ordine, le regole, mi ribello a questo.

Oppure un’instabilità nel bene. Magari ho scelto di fare delle cose buone però non sono costante, non sono fedele a questo. C’è un’instabilità continua.

4) Ancora, l’incapacità di resistere alle tentazioni. L’avversione verso quelle persone che sono veramente zelanti e che diventano odiose proprio perché fanno sempre le cose per bene, sanno osservare le regole.

5) Un altro sintomo di questa malattia è la perdita di tempo prezioso oppure la libertà che viene concessa ai sensi, alla curiosità, al piacere di divertirsi, di usare di tutto.

6) A volte l’accidia si manifesta con una preoccupazione eccessiva per la salute fisica. Diventa quasi un’ossessione.

L’immagine del verme

San Bernardo definiva questa accidia, che lui chiamava tiepidezza, l’ombra della morte. Il tiepido assomiglia ad una vigna non coltivata, una vigna che è stata abbandonata. Il tiepido è così: è una casa senza porta, senza chiusura. Qualcun altro ha detto: “E’ un verme che nella radice divora dal di dentro”.

Divora soprattutto le virtù principali anche se esternamente la vita continua apparentemente come prima.

La ricerca di capri espiatori: il lavoro

Assodata la malattia, l’accidioso cerca cause esterne per il suo malessere.

La tentazione di considerare il lavoro improvvisamente come la causa del proprio malessere. Questo può capitare a volte. La professione svolta con tanta serenità fino al giorno prima diventa un peso opprimente. Non lo sopporto più, mi costa tantissimo andare la mattina a lavorare.

Contro i suoi superiori

A volte sento che colpevoli della mia infelicità possono essere considerati i superiori o i colleghi che diventano odiosi; non li sopporto più.

L’accidioso si ricorda improvvisamente – questo aspetto è tremendo – con dolorosa precisione, di tutte le ingiustizie che ha subito da parte degli altri, o che pensa di aver subito, perché non sempre sono oggettive. Però l’accidioso le richiama tutte perché lui crede di aver subito questi torti o magari oggettivamente li ha anche subiti, però è puntiglioso nel ricordarli tutti, con grande precisione.

La ricerca di capri espiatori: l’amore finito

Evagrio dice che l’accidioso è addolorato dal pensiero che l’amore sia sparito fra i fratelli e che non ci sia nessuno per consolarlo. E’ tipico questo, quando uno vive questo stato d’animo. Tutto crolla, nessuno riesce a manifestare un amore. A volte anche nelle comunità parrocchiali diciamo: “Mi ero avvicinato pensando di trovare chissà quale ambiente, ma qui non c’è nulla”.

Gli ammalati per calmare l’irrequietezza

Evagrio dice che l’accidioso adduce come pretesto visite ad ammalati. Di fatto soddisfa solo la sua intenzione. Il monaco accidioso è pronto a servire, a donarsi, a fare qualcosa per l’altro e considera la propria soddisfazione come un dovere.

Cosa avviene quindi? Siccome sono in questa situazione difficile di vuoto, di pesantezza, questa irrequietezza deve trovare uno sbocco e quindi mi butto nell’attivismo. Devo trovare un canale e allora mi illudo che questa sia la virtù cristiana dell’amore, ma non ha niente a che fare con l’amore.


I rimedi

Se ne possono enumerare cinque.

1) L’intenzione – Quali i rimedi contro questa pericolosa forma depressiva? Evagrio pone un criterio di discernimento che è l’intenzione. Vedere quale intenzione c’è alla base di ciò che facciamo o tralasciamo. Si tratta di vedere se facciamo il bene per se stesso oppure se lo strumentalizziamo in vista di scopi egoistici.

L’egoismo in tutte le sue forme altro non è che l’innamoramento di noi stessi che sta alla radice di ogni male. Quale frutto viene quando si va avanti su questa strada? Lo scoraggiamento, che è una cosa tremenda. E’ perdere la speranza. Nascono i dubbi. A volte, anche sulla vocazione che si vive, uno si chiede: “Forse non era la mia strada, ho sbagliato tutto”.

Sono dubbi che si insinuano lentamente e, se non vengono bloccati, cercano di corrodere la nostra fiducia come una goccia che scava una roccia.

2) La pazienza – Intesa come capacità di resistenza. Siccome l’irrequietezza porta a cambiare luogo, situazione, io devo mettere qualcosa che va contro quello stato d’animo che si crea. E’ importante che ci sia questa virtù della pietra, il rimanere. Io lo racchiudo in una parola che nella Bibbia è fondamentale: l’ “eccomi”. “Eccomi” significa ci sono: io non scappo, non desidero una situazione diversa da quella che sto vivendo. Non posso dire: “Se avessi un’altra famiglia, un’altra parrocchia, altri amici, altre relazioni, chissà cosa potrei fare”. Questo è un inganno, un’illusione. La cosa principale è quindi rimanere in quella situazione. Dire “eccomi” vuol dire dunque che io non sto fuggendo nei miei deliri, nella mia illusione.

3) La stabilità – Intesa come diceva S.Benedetto, questo rimanere stabili dentro soprattutto. Anche se poi richiede una stabilità nel tempo e traduce in fondo la pazienza. Rimanere stabile è già una risposta.

4) La preghiera – Che deve esser vissuta soprattutto come preghiera semplice: la preghiera fatta nell’attesa deve essere semplice, a volte fatta con le lacrime. Evagrio dice: “Invoca il Signore nella notte con lacrime e nessuno si accorga che stai pregando, e troverai grazia”. Qui il richiamo alle lacrime è fondamentale perché le lacrime sono l’espressione di un passaggio da una tristezza negativa ad una tristezza secondo Dio.

Ci sono due tipi di tristezza. Uno può essere veramente scoraggiato, senza speranza, nella depressione più nera, oppure triste perché consapevole dei propri limiti ma fiducioso al massimo della misericordia e dell’amore di Dio. Le lacrime segnano questo passaggio da una tristezza senza Dio a una tristezza secondo Dio. E’ la famosa contrizione del cuore, che è un’esperienza spirituale fortissima.


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