Credente
00venerdì 12 luglio 2013 19:45
da Famiglia cristiana dell'1/09/02
di D.A.
SINGOLARE PROPOSTA DI DUE CONIUGI, CHE CANTANO
"FUORI DEL CORO"
MATRIMONIO E CELIBATO DEI PRETI
Prima di dire che i preti non devono sposarsi, bisogna affermare che chi si sposa non può fare il prete. Anche il matrimonio – secondo i due coniugi – è incompatibile col sacerdozio.
Caro padre, c’è una questione che spesso ritorna sulle pagine di Famiglia Cristiana, ma che non è stata trattata esaurientemente. Ci riferiamo al celibato dei preti e al suo rapporto con gli sposi e la comunità. Infatti, quando si ipotizza la possibilità che il prete possa sposarsi, si invia anche un messaggio agli sposi. Per cui non possiamo non chiederci come e se il matrimonio cristiano si concili con il ministero sacerdotale. Non tanto per questioni pratiche, quanto piuttosto per il significato proprio di ciascuna vocazione che si è chiamati a incarnare.
Spesso, infatti, il discorso si esaurisce rapidamente dicendo che matrimonio e sacerdozio non sono affatto incompatibili, ma solo tenuti separati dalla tradizione della Chiesa. Che, da un certo periodo in poi, ha optato per questa scelta per ragioni di opportunità. Noi, invece, siamo convinti che matrimonio e sacerdozio incompatibili lo siano veramente. E lo diciamo alla luce di quegli studi che, negli ultimi trentacinque anni, hanno fatto molta luce sul significato e sulla spiritualità del matrimonio.
Non si sfugge, forse, a questa prospettiva storica quando sul celibato dei preti si continua ad attribuire la posizione della Chiesa cattolica a pura tradizione e opportunità? O al fatto che i tempi non sono ancora maturi per un passo così innovativo? Ora, non sarebbe invece il caso di riconoscere nuove motivazioni a una scelta, che è di valore? Il matrimonio cristiano è uno stato di vita che intende testimoniare, al massimo delle possibilità umane e con l’aiuto della Grazia, la fedeltà e l’amore totale e indiviso tra i coniugi. Che è poi segno dell’amore fedele e totale di Dio per l’uomo. E di Gesù per la Chiesa.
Se questo è il cuore della vocazione al matrimonio cristiano, non pensa padre che, almeno per la dimensione della "totalità", esso sia incompatibile con il sacerdozio? In esso l’uomo mette a disposizione i talenti, l’intelligenza, il tempo e il proprio corpo per testimoniare l’amore universale di Dio per l’umanità attraverso la predicazione e l’amministrazione dei Sacramenti. In particolare dell’Eucaristia e della Riconciliazione, dove è più evidente la consacrazione dell’uomo-sacerdote a un Dio che, tramite lui, raggiunge l’umanità.
Come può una persona consacrarsi contemporaneamente al coniuge e alla comunità? E come può rispondere alle esigenze di due vocazioni che chiedono entrambe totalità? Quando un sacerdote ha trascorso del tempo in confessionale non esce uguale a come ci è entrato: questa è sicuramente una parte di sé che non potrà essere "coniugalizzata". È per questo che crediamo che il celibato sia una condizione indispensabile per il ministero sacerdotale. E irrinunciabile per la dignità stessa del sacerdozio. E anche del matrimonio.
Comprendiamo la difficoltà – e talvolta il dramma – di sacerdoti che desiderano profondamente rimanere tali, ma che sentono anche forte il bisogno di incrociare la propria esistenza con quella di una donna. A loro vorremmo dire: non confondete il bisogno di relazione con la vocazione matrimoniale. La quale, per essere seguita seriamente, chiede il prezzo dell’abbandono dell’esercizio sacerdotale.
Spesso i nostri sacerdoti sono costretti a fare i burocrati dietro a carte e conti per la gestione della parrocchia. Sono più impiegati e manager che pastori: indaffaratissimi ma profondamente soli. Spesso in attrito con i confratelli, abituati fin dal seminario a bastare a sé stessi, col rischio di ritrovarsi con rapporti aridi anche dove dovrebbe esserci vera fraternità. In condizioni simili, anche la più forte vocazione vacilla sotto il peso di un’esistenza umanamente poco appagante. E la prima "tentazione" a svegliarsi è il bisogno di condividere la propria vita con un’altra persona.
Tutto ciò è comprensibile, ma la soluzione non può essere quella di consentire il matrimonio al sacerdote, quanto piuttosto creare delle relazioni significative che vincano la solitudine. Fin dagli anni del seminario.
Se poi, invece, si rende necessaria la scelta di imboccare la via del matrimonio, si ricorra alla dispensa. Ma non si preferisca mai l’ambiguità e la non chiarezza. Prima di tutto, per il rispetto dovuto al partner, a sé stessi e alla comunità. E poi, ma è nella precedenza, anche a Dio Padre, che accetta il nostro limite, ma che sempre ci chiede di amare nella verità.
Una coppia di sposi
segue la Risposta di Famiglia Cristiana
Ecco un proposta geniale e stupefacente intorno al problema, sempre dibattuto con passione, del celibato dei preti. Cantando "fuori del coro", i nostri due sposi non si schierano contro l’obbligo del celibato, ma neppure si impegnano più di tanto a dimostrarne la necessità per chi intende ricevere l’ordine sacro. Lo invocano, invece, con forza dalla sponda opposta: non è il ministero del prete a esigere la rinuncia al matrimonio, ma è la condizione sacramentale degli sposi a esigere la rinuncia al sacerdozio. Prima di dire che i preti non devono sposarsi, bisogna affermare che chi si sposa non può fare il prete. Solo a un lettore superficiale potrà sembrare che sia la stessa cosa.
Il ragionamento è limpido: il sacramento del matrimonio e i carismi dello Spirito che animano la vita degli sposi li coinvolgono in una vocazione totalizzante. La consacrazione a Dio della propria esistenza assume nel matrimonio la sua forma concreta nella completa dedizione di sé al proprio sposo, alla propria sposa, alla propria famiglia. Se gli sposi vogliono vivere all’altezza di questa vocazione e di questa grazia, non possono far determinare la propria esistenza da un’altra vocazione ugualmente totalizzante.
Che il sacramento del matrimonio e la grazia che ne deriva coinvolgano l’uomo e la donna in una dimensione di totalità, nessuno potrebbe dubitare. Fra l’altro, la stessa esperienza della vita comune, al di là della visione di fede, ci dimostra quanto sia distruttiva dell’amore l’incapacità di scegliere fra la dedizione alla famiglia e l’inseguimento di altri ideali che impegnano l’animo nel profondo. Non sono rari i casi in cui non c’è salvezza se non in un taglio radicale: o l’amore sponsale occupa il primo posto nel cuore o è destinato a infrangersi.
L’esclusività dell’amore qui non è frutto di insensate gelosie o di deviazioni possessive, bensì del coinvolgimento delle persone nello strato più profondo del loro essere, per cui lo stesso rapporto con Dio ne resta indelebilmente segnato. Quella degli sposi non è un’amicizia: di amici ne posso avere quanti ne voglio. Non c’è adulterio nella pluralità delle amicizie. C’è adulterio – che è ferita e colpa profonda – contro l’amore sponsale.
E non si commette adulterio solo amando un’altra persona, ma anche amando la propria carriera, la ricerca del successo, il denaro, il proprio sport preferito o qualsiasi altra cosa in misura tale da mettere in secondo piano la persona che si ama. (Gesù dice (Lc 14, 26-27): «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria stessa vita, non può essere mio discepolo. Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me non può essere mio discepolo». )
Sarebbe allora un inaccettabile rivale dell’esclusività dell’amore coniugale anche il ministero pastorale, per la totalità di dedizione che anch’esso esige? Sì e no. Certamente lo sarebbe, qualora non fosse fondato sul previo e libero consenso a una dedizione che, comunque, dovrebbe essere condivisa. In senso assoluto è più difficile dirlo, perché si tratta pur sempre di dedizione all’altro e a Dio, non di una ricerca di sé, del proprio successo e del proprio piacere.
(Senza nulla togliere alla volontà ed alla dedizione di molti Pastori Protestanti che invece rincorrono ad una propaganda per il matrimonio....ne deriva che un pastore sposato, non potrà trascurare di certo la moglie, tanto meno i figli e le loro necessità; e diventerebbe un problema educativo se tali pastori dovessero avere soltanto un figlio, potendo invece avere la possibilità di averne, o si scoprisse l'uso di anticoncezionali come purtroppo è accaduto!)
È vero che fare il prete chiede una dedizione assoluta: la Chiesa infatti, nella sua tradizione occidentale, ne ha ricavato l’idea di una così alta opportunità del celibato per i suoi preti da averlo reso obbligatorio sin dai primi secoli quando era all'inizio solo un consiglio che via via che le comunità si espandevano, diventava sempre più un esigenza. C’è però una differenza da considerare: è che la Chiesa può imporre una simile disciplina ai suoi ministri, perché il ministero dell’ordine sacro ha la sua sola ragion d’essere nel servizio da rendere alla comunità. Il sacramento dell’ordine non è dato al cristiano per il bene di chi lo riceve: essere preti nella Chiesa è solo un servizio da rendere alla comunità. E le norme che lo regolano non sono misurate sulle esigenze della persona (giacché nessuno è obbligato a farsi prete né alcuno ha il diritto di diventarlo), ma su quelle del servizio da rendere. Da qui deriva che la Chiesa possa porre le sue condizioni, come è avvenuto per il celibato, per il divieto della militanza politica, per l’imposizione di un faticoso e lungo curriculum formativo.
Ma la Chiesa non potrebbe, in alcun modo, porre condizioni analoghe per la celebrazione del matrimonio: sposarsi è un diritto naturale della persona umana, che non può essere sottoposto ad altre condizioni che non siano quelle intrinseche al matrimonio stesso, come lo sono la condizione monogamica o l’accettazione della indissolubilità.
Il diritto canonico non potrebbe quindi vietare a chi intende sposarsi di esercitare alcune professioni che, pure, sembrano contraddire la possibilità di un’armoniosa vita familiare. C’è quindi una reale asimmetria fra le due prospettive, nonostante l’analogia fra il carattere di dedizione totale proprio del ministero ordinato e quello che accompagna il sacramento del matrimonio.
Con questo non voglio dire che gli sposi non debbano prendere sul serio, con la massima determinatezza, il problema di alcune incompatibilità fra un certo tipo di aspirazioni, di professioni, di carriere, di interessi e il loro amore sacramentalmente consacrato. Ma sono problemi che trovano la loro soluzione non nella creazione di statuti giuridico-sacramentali, bensì nella ricerca sincera della fedeltà alla propria vocazione.
D.A.
Credente
00giovedì 29 ottobre 2015 23:01
Il fondamento biblico del celibato sacerdotale
di Ignace de la Potterie
Fin dal IV secolo esiste una documentazione esaustiva sulla pratica del celibato. Ma prima?
Da diversi secoli viene discussa la questione se l'obbligo del celibato per i chierici degli Ordini maggiori (o almeno quello di vivere nella continenza per quanti erano sposati) sia di origine biblica oppure risalga soltanto a una tradizione ecclesiastica, dal IV secolo in poi, perché fin da quel periodo, indubbiamente, esiste al riguardo una legislazione irrecusabile. La prima soluzione è stata recentemente presentata di nuovo con una straordinaria dovizia di materiali da C. Cochini: “Origini apostoliche del celibato sacerdotale”. La posizione dell'autore, chiaramente espressa nel titolo, sembra che si possa e si debba mantenere, purché si tenga attentamente conto con lui, meglio forse che nel passato, della crescita della tradizione antica, punto sul quale hanno insistito anche A. M. Stickler nella sua prefazione e H. Crouzel in una recensione.
Un principio di origine apostolica
In altri termini, si deve dire che l'obbligo della continenza (o del celibato) è diventato legge canonica soltanto nel IV secolo, ma che anteriormente, fin dal tempo apostolico, veniva già proposto ai ministri della Chiesa l'ideale di vivere nella continenza (o nel celibato); e che quell'ideale era già profondamente sentito e vissuto come una esigenza da parecchi (per esempio Tertulliano e Origene), ma che non era ancora imposto a tutti i chierici degli Ordini maggiori: era un principio vitale, una semente, chiaramente presente fin dal tempo degli apostoli, ma che doveva poi progressivamente svilupparsi fino alla legislazione ecclesiastica del IV secolo.
Il Catechismo e il Magistero
In questa medesima linea sembra orientarsi anche il recente Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 1579), il quale, prudentemente, non menziona nemmeno la legge canonica del celibato, che pur esiste sempre nel diritto attuale della Chiesa (CIC 277, § 1), ma indica soltanto le sue motivazioni bibliche: però, anche qui, non rimanda più (come spesso nel passato) all'Antico Testamento, cita solo due passi del Nuovo Testamento: quello di Mt 19,12, sul celibato “ per il Regno dei cieli ”, poi il testo paolino di 1 Cor 7,32, dove si parla di coloro che sono “chiamati a consacrarsi con cuore indiviso al Signore e alle "sue cose" ”; e si aggiunge infine che, “abbracciato con cuore gioioso, esso (il celibato) annuncia in modo radioso il Regno di Dio”. Certo, si potrebbero ancora citare qui altri passi del Nuovo Testamento a cui rimandava, per esempio, Paolo VI nella sua Enciclica Sacerdotalis coelibatus (nn. 17 35), per indicare le ragioni del sacro celibato (il suo significato cristologico, ecclesiologico ed escatologico). Ma il problema è che questi diversi testi descrivono, come un ideale tipicamente cristiano, il valore teologico e spirituale del celibato in genere; questo ideale, però, vale anche per i religiosi e per le persone consacrate nel mondo; non indicano una connessione speciale con i ministeri nella Chiesa.
Esistono nella Sacra Scrittura testi che legano celibato e sacerdozio
La domanda precisa che si pone quindi è questa: esistono nella Sacra Scrittura dei testi che indichino un nesso specifico tra celibato e sacerdozio? Sembra di sì. Ma si dovrebbero a questo scopo meglio valutare certi passi neotestamentari che stranamente non vengono quasi più presi in considerazione nelle discussioni recenti: sono i testi in cui viene proposta la norma paolina (molto controversa, è vero) dell'“unius uxoris vir ”, per l'analisi della quale anche C. Cochini ha portato recentemente materiali nuovi.
Il principio "unius uxoris vir"
Questo principio, enunciato più volte nelle Lettere Pastorali, ha nel nostro caso un'importanza unica per due ragioni. La prima é, come hanno mostrato bene tanto A. M. Stickler quanto C. Cochini, che la clausola è una delle formule principali sulle quali si basava la Tradizione antica per rivendicare proprio l'origine apostolica della legge del celibato sacerdotale. Questo però era senza dubbio un enorme paradosso: come è possibile fondare il celibato dei sacerdoti partendo da testi che parlano di ministri sposati? Un tale ragionamento può avere qualche senso soltanto se si trova tra i due estremi (il matrimonio dei ministri e il celibato) un termine medio: è quello della continenza a cui si obbligavano proprio i ministri sposati. E probabilmente perché questo valore di mediazione della continenza non è stato più capito in seguito, che in tempi recenti la formula “ unius uxoris vir ” non è più stata usata nelle discussioni sul celibato. E’ molto opportuno oggi riesaminare attentamente quell'argomento tradizionale. L'altra ragione per cui questi testi sono specialmente importanti dal punto di vista strettamente biblico sta nel fatto che sono gli unici passi del Nuovo Testamento in cui viene emanata una norma identica per i tre gruppi dei ministri ordinati, e solo per loro: infatti, secondo le Lettere Pastorali, deve essere “ unius uxoris vir” sia l'episcopo (1 Tm 3,2), sia il presbitero (Tt 1,6), sia il diacono (1 Tm 3,12), mentre quella formula (tecnica a quanto sembra) non viene mai adoperata per gli altri cristiani. C'è qui dunque una esigenza specifica per l'esercizio del sacerdozio ministeriale in quanto tale. D'altra parte, si deve osservare anche che la formula complementare “ unius viri uxor” (1Tm 5,9) viene usata soltanto per una vedova di almeno sessant'anni, ossia, non per una cristiana qualsiasi, ma per una donna anziana che esercitava anch'essa un ministero nella comunità (possiamo paragonarlo a quello delle diaconesse nella tradizione antica). Il carattere stereotipato di questa formula delle Pastorali fa sospettare che doveva essere già radicata in una lunga tradizione biblica.
Che cosa significa dunque il fatto che il ministro della Chiesa doveva essere “l'uomo di una sola donna”?
La formula “unius uxoris vir” fin dal IV secolo era intesa, come lo spiega bene A. M. Stickler, “ (nel) senso di un argomento biblico in favore del celibato d'ispirazione apostolica: si interpretava infatti la norma paolina nel senso di una garanzia che permetteva di assicurare l’osservanza effettiva della continenza presso i ministri sposati prima della loro ordinazione”. Nella seconda parte faremo un passo in avanti: proporremo un approfondimento teologico della clausola paolina stessa, per mostrare che, già al livello del Nuovo Testamento, essa propone infatti, per il sacerdozio ministeriale, il modello del rapporto sponsale tra Cristo - Sposo e Chiesa - Sposa, sulla base della mistica del matrimonio di cui Paolo parla più volte nelle sue lettere (cfr. 2Cor 11,2; Ef 5,22 32); partendo da lì, apparirà abbastanza chiaro che, per i ministri sposati, la loro ordinazione implicava l'invito a vivere in seguito nella continenza.
La legislazione ecclesiastica a partire dal IV secolo
C’è un accordo generale tra gli studiosi per dire che l'obbligo del celibato o almeno della continenza è diventato legge canonica fin dal IV secolo. Ripetutamente vengono citati qui diversi testi inconfutabili: tre decretali pontificie attorno al 385 (“ Decreta” e “ Cum in unum ” del papa Siricio, “ Dominus inter” di Siricio o di Damaso) e un canone del concilio di Cartagine del 390.
La legislazione faceva riferimento alla tadizione apostolica
Ma è importante osservare che i legislatori del IV o V secolo affermavano che questa disposizione canonica era fondata su una tradizione apostolica. Diceva per esempio il concilio di Cartagine: conviene che quelli che sono al servizio dei divini sacramenti siano perfettamente continenti (continentes esse in omnibus), “ affinché ciò che hanno insegnato gli apostoli e ha mantenuto l'antichità stessa, lo osserviamo anche noi”. Fu poi votato all'unanimità il decreto stesso sull'obbligo della continenza: “Piace a tutti che il vescovo, il presbitero e il diacono, custodi della purezza, si astengano dall'unione coniugale con le loro spose (ab uxoribus se abstineant), affinché venga custodita la purezza perfetta di coloro che servono all'altare”.
Dalla monogamia alla fedeltà assoluta nel celibato
Non viene esplicitamente citato qui l'“ unius uxoris vir ” paolino; ma il riferimento a quella clausola è implicito, perché vengono menzionati, come nelle Pastorali, i vescovi, i sacerdoti e i diaconi. Del resto, la citazione di 1Tm 3,2 è perfettamente esplicita in un testo un po' anteriore, la decretale “Cum in unum” di Siricio stesso, che presentava le norme del concilio di Roma del 386; qui, il papa formula prima una obiezione: l'espressione “unius uxoris vir” di 1Tm 3,2, dicevano alcuni, esprimerebbe per il vescovo proprio il diritto di usare del matrimonio dopo l'ordinazione sacra; Siricio risponde presentando la propria interpretazione della clausola: “Egli (Paolo) non ha parlato di un uomo che persisterebbe nel desiderio di generare (non permanentem in desiderio generandi dixit); ha parlato in vista della continenza che avrebbero da osservare in futuro (propter continentiam futuram)”. Questo testo fondamentale è stato ripetuto diverse volte in seguito; viene commentato cosi da C. Cochini: “ La monogamia, [ossia la legge dell`unius uxoris vir] è una condizione per accedere agli Ordini, perché la fedeltà [finora osservata] a una sola donna è la garanzia per verificare che il candidato sarà capace [in futuro] di praticare la continenza perfetta che verrà chiesta da lui dopo l'ordinazione”. E l'autore prosegue: “Questa esegesi delle prescrizioni di san Paolo a Timoteo e a Tito è un anello essenziale col quale i vescovi del sinodo romano del 386 e il papa Siricio si situano in continuità con l'età “ apostolica”.
Motivazioni teologiche della continenza e del celibato dei sacerdoti
Dal tempo dei Padri fino a oggi ci troviamo confrontati con due interpretazioni diverse della formula paolina: per gli uni, la norma “unius uxoris vir ” proibisce la poligamia successiva; per gli altri, soltanto la poligamia simultanea.
La prima soluzione è senz'altro la più tradizionale: l'espressione significa allora che i ministri sacri potevano, sì, essere uomini sposati. ma una volta soltanto; e se la moglie era morta. non potevano aver fatto un secondo matrimonio e non potevano risposarsi. Oggi ancora, questa interpretazione è la più comune tra gli esegeti cattolici. Secondo l'altra soluzione, invece, “ unius uxoris vir ” significa soltanto l'interdizione di vivere contemporaneamente con diverse donne: sarebbe semplicemente la raccomandazione di osservare la morale coniugale.
Perché la formula "uomo di una sola donna" viene usata solo per i ministri?
Ma nessuna delle due soluzioni è pienamente soddisfacente. Alla prima si obietta: se l'unione in cui viveva finora il ministro sposato era onesta, perché non avrebbe potuto esserlo un secondo matrimonio, dopo la morte della consorte? E' tanto più vero che l'Apostolo stesso da una parte richiedeva che la vedova anziana che serviva la comunità fosse stata “unius viri uxor” (1Tm 5,9), dall'altra consigliava alle giovani di risposarsi (1Tm 5,14).Ma l'altra soluzione fa ugualmente difficoltà: la fedeltà coniugale nella vita matrimoniale è certamente richiesta da tutti i cristiani. Per quale motivo allora l'espressione “ unius uxoris vir ” (e analogamente “ unius viri uxor ”) viene usata unicamente per coloro che esercitano un ministero nella comunità?
La monogamia era norma per tutti i battezzati
Aggiungiamo che la seconda interpretazione non va oltre il semplice livello della morale generale: applicata ai ministri della Chiesa ha qualcosa di banale, di riduttivo. La prima l'interdizione di un secondo matrimonio è piuttosto di carattere disciplinare e canonico, ma non viene indicato il suo fondamento teologico. La stessa lacuna, del resto, si notava già per la legislazione canonica del secolo IV: papa Siricio e tanti altri dopo di lui leggevano nella clausola paolina l'obbligo alla continenza per il clero sposato. Davano, è vero, un argomento: la purezza richiesta per avvicinarsi all'altare. Ma bisogna riconoscere che di quello non si parla affatto nel testo delle Pastorali.
Le motivazioni non erano giuridiche ma teologiche
Alla fine della sua indagine storica, anche A. M. Stickler riconosceva che, in tutto questo problema del celibato sacerdotale, si era rimasti troppo al livello giuridico; in quella lunga storia é mancata la riflessione teologica sul senso profondo del sacerdozio ministeriale, sulla motivazione del suo celibato e sul suo valore spirituale. Questo è particolarmente vero per l'uso canonico che si faceva della norma “ unius uxoris vir”, dal secolo IV in poi. Bisogna quindi cercare, nella tradizione patristica e canonica stessa, se venivano date talvolta delle motivazioni teologiche, per fondare sulla clausola paolina l'obbligo disciplinare della continenza del clero.
Tre testimonianze significative: Cristo aveva una sola sposa, la Chiesa
In primo luogo quella di Tertulliano, all'inizio del III secolo. Egli ricorda che la monogamia non è solo una disciplina ecclesiastica, ma anche un precetto dell'Apostolo. Risale quindi al tempo apostolico. D'altra parte, insiste sul fatto che parecchi credenti, nella Chiesa, non sono sposati, vivono nella continenza, e che diversi di loro appartengono agli “ Ordini, ecclesiastici ”; ora, gli uomini e le donne che vivono così, prosegue Tertulliano, “ hanno preferito sposare Dio ” (Deo nubere maluerunt; a proposito delle vergini, egli precisa che sono “ spose di Cristo”. Ma quale legame c'è tra il matrimonio monogamico da una parte e la continenza dall'altra? Tertulliano non lo dice, ma porta qui l'esempio di Cristo che, secondo la carne, non era sposato, viveva da celibe (non era quindi “un uomo di una sola donna”); però, nello spirito, “ aveva una sola sposa, la Chiesa ” (unam habens ecclesiam sponsam).
Sant'Agostino: il sacerdote altro Cristo
Con sant'Agostino facciamo un passo avanti. Egli, che aveva preso parte ai lavori dei sinodi africani, conosceva certamente la legge ecclesiastica della “continenza dei chierici”. Ma come Agostino spiega allora la clausola “unius uxoris vir ” che viene usata da Paolo per i chierici sposati? Nel De bono coniugali (verso il 420) egli ne propone una spiegazione teologica, e si domanda perché la poligamia era accettata nell'Antico Testamento, mentre “nel nostro tempo, il sacramento è stato ridotto all'unione fra un solo uomo e una sola donna; e di conseguenza non è lecito ordinare ministro della Chiesa (Ecclesiae dispensatorem) se non un uomo che abbia avuto una sola moglie (unius uxoris virum) ”; ed ecco la risposta di Agostino: “Come le numerose mogli (plures uxores) degli antichi Padri simboleggiavano le nostre future chiese di tutte le genti soggette all'unico uomo Cristo (uni viro subditas Christo), così la guida dei fedeli (noster antistes, il nostro vescovo) che è l'uomo di una sola donna (unius uxoris vir) significa l'unità di tutte le genti soggette all'unico uomo Cristo (uni viro subditam. Christo)”. In questo testo, dove troviamo la formula “unius uxoris vir” applicata al vescovo. Tutto l'accento cade sul fatto che lui, “l'uomo ”, nelle relazioni con la sua “donna”, simboleggia il rapporto tra Cristo e la Chiesa. Un uso analogo dei termini uomo e donna si trova in un passo del De continentia: “L'Apostolo ci invita a osservare per così dire tre coppie (copulas): Cristo e la Chiesa, il marito e la moglie, lo spirito e la carne”. Il suggerimento fornitoci da questi testi per l'interpretazione della clausola “unius uxoris vir” applicata al ministro (sposato) del sacramento è che egli, come ministro, non rappresenta soltanto la seconda coppia (il marito e la moglie), ma anche la prima: egli impersona ormai Cristo nel suo rapporto sponsale con la Chiesa. Abbiamo qui il fondamento della dottrina che diventerà classica: “ Sacerdos alter Christus ”. Il sacerdote, come Cristo, è lo sposo della Chiesa.
Il sacerdote sposato a Cristo e alla Chiesa
Un’ultima parola ancora sulla legislazione canonica del Medioevo. Diverse volte, nei libri penitenziali, si dice che, per un chierico sposato, avere ancora, dopo l'ordinazione, dei rapporti coniugali con la propria moglie, rappresenterebbe un'infedeltà alla promessa fatta a Dio; anzi, sarebbe un adulterium, perché, essendo quel ministro ormai sposo della Chiesa, il suo rapporto con la propria sposa “ appare come una violazione di un legame matrimoniale”. Questa pesante accusa a un uomo legittimamente sposato e onesto può soltanto avere senso se si sottintende, come una cosa risaputa, che il ministro sacro, dal momento della sua ordinazione, vive ormai in un altro rapporto, anch'esso di tipo sponsale, quello che unisce Cristo e la Chiesa, nel quale egli, il ministro, l'uomo (vir), rappresenta Cristo Sposo; con la propria sposa (uxor), quindi, “ l'unione. carnale deve (ormai) diventare spirituale ”, come diceva san Leone Magno.
“uomo di una sola donna”: come Cristo nei confronti della Chiesa
Con queste diverse premesse storiche e teologiche, abbiamo raccolto abbastanza materiale per affrontare il proble¬ma esegetico, cioè per fare un'analisi precisa della formula stessa “unius uxoris vir” delle Lettere Pastorali.
Abbiamo visto precedentemente che, delle due interpretazioni tradizionali della clausola, l'una (la più diffusa) era di tipo disciplinare, l'altra esclusivamente morale. Ma non veniva quasi mai indicato perché un ministro della Chiesa doveva essere “l'uomo di una sola donna”.Vorremmo mostrare adesso che la ragione di questa norma, il suo senso profondo e le sue implicazioni sono già presenti nel testo stesso, s si riesce ad analizzarlo bene. Bisogna anzitutto chiarire il problema della provenienza di questa formula misteriosa, il cui carattere fisso, tecnico, stereotipato, è innegabile. Diciamo lo subito: la clausola è in realtà una formula di Alleanza Questo diventa chiaro quando si tiene presente il parallelismo tra la formula delle Lettere Pastorali con il passo di 2Cor 11,2, dove Paolo presenta la Chiesa di Corinto come una donna, come una sposa, che egli ha presentato a Cristo come una vergine casta: “ Io sono geloso di voi della gelosia di Dio, perché vi ho fidanzati ad un solo uomo (uni viro), per presentarvi a Cristo come una vergine pura”. Il contesto di questo brano è specialmente chiaro se connesso con 1Tm 5,9; la stessa formula “unus vir” viene usata per parlare dei rapporti sia della Chiesa, con Cristo, sia di quelli della vedova che ha avuto un solo uomo e che svolge un ministero nella comunità. In 2Cor 11,2, la sposa di Cristo e la Chiesa stessa. Rileggiamo più attentamente il testo. La gelosia di cui parla Paolo è una partecipazione alla “gelosia ” di Dio per il suo popolo: è lo zelo da cui è divorato l'Apostolo affinché i suoi cristiani rimangano fedeli all'Alleanza fatta con Cristo, che è il loro vero e unico Sposo. Un altro dettaglio conferma questa lettura: la Chiesa Sposa viene paradossalmente presentata a Cristo Sposo come “una vergine pura”; è un rimando alla Figlia di Síon, talvolta chiamata dai profeti “vergine Sion”, “vergine Israele”, specialmente quando viene invitata, dopo le infedeltà del passato, a essere di nuovo fedele all'Alleanza, al suo rapporto sponsale con il suo unico Sposo.
Il matrimonio è l'immagine del rapporto tra Cristo e la Chiesa
L'altro passo decisivo del Nuovo Testamento è il testo classico di Ef 5,22 33: l'uomo e la donna, uniti in matrimonio, sono l'immagine di Cristo e della Chiesa; ora il Cristo, lo Sposo, ha offerto se stesso per la Chiesa, al fine di farsene una sposa gloriosa, santa e immacolata (cfr. vv. 26 27). Ma il fatto che l'espressione “ unius uxoris vir ” non venga usata qui nella lettera agli Efesini per tutti gli sposi cristiani, e sia riservata nelle Pastorali al ministro sposato, mostra che la formula fa direttamente riferimento al ministero sacerdo¬tale e al rapporto Cristo Chiesa: il ministro deve essere come Cristo Sposo.
Il ministro del culto deve essere come Cristo Sposo
Sottolineiamo un’altra conseguenza importante del collegamento tra “unius uxoris vir” (o “unius viri uxor”) delle Pastorali con il passo di 2Cor 11,2: è il fatto che la Chiesa-Sposa è chiamata “vergine pura”. L'amore sponsale tra il Cristo Sposo e la Chiesa Sposa rimane sempre un amore verginale. Per la Chiesa di Corinto (dove ovviamente la grande maggioranza dei cristiani era sposata), si trattava direttamente di ciò che Agostino chiama la virginitas fidei, la virginitas cordis, la fede incontaminata , ben descritta anche da san Leone Magno: “ Discat Sponsa Verbi non alium virum nosse quam Christum”. Ma per i ministri sposati di cui parlano le Lettere Pastorali, è normale che in quella visione mistica del loro ministero l'appello radicale alla virginitas cordis sia stato vissuto da loro anche come un appello alla virginitas carnis verso la propria moglie, ossia, quale appello alla continenza, come è diventato chiaro nella Tradizione, almeno dal secolo IV in poi. Non si tratta più, allora, di una prescrizione ecclesiastica, esteriore, bensì di una percezione interiore del fatto che l'ordinazione fa di lui, come ministro, un rappresentante di Cristo Sposo, in relazione con la Chiesa, Sposa e Vergine, e che non può quindi vivere con un’altra sposa.
Una sola Sposa: la Chiesa
Il rapporto decisivo dell'“ unius uxoris vir ” delle Pastorali con la “vergine pura” di 2Cor 11, 2 è stato sottolineato anche molto bene da E. Tauzin: gli uomini che sono consacrati a Dio, dice, “devono rappresentare Cristo: ora, lui è soltanto lo Sposo di una sola Sposa, la Chiesa: "Virginem castam exhibere Christo"”. E applica poi questo principio alla parabola di Mt 25,1 13, dove le dieci “vergini”, che sono (al plurale) le spose di Cristo, rappresentano in realtà la sua unica sposa: “Esteriormente, c'è molteplicità, interiormente l'unità. La migliore immagine esteriore dell'unità interiore non è forse la verginità? ”.
Questa argomentazione sacramentale e spirituali dell'“unius uxoris vir”, fondata sulla teologia dell'Alleanza, emerge nella Tradizione occidentale già con Tertulliano, poi con sant'Agostino e san Leone Magno. La troviamo ben compendiata da san Tommaso, nel suo commento di 1Tm 3,2 (“Oportet ergo episcopum... esse, unius uxoris virum”): “Questo si fa, non solo per evitare l'incontinenza, ma per rappresentare il sacramento, perché lo Sposo della Chiesa è Cristo, e la Chiesa è una: "Una est columba mea" (Cant 6,9)”. Ma san Tommaso non fa ancora il confronto con il testo di 2Cor 11,2, che parla della Sposa Vergine; perciò non aggiunge che il valore di rappresentanza del sacerdozio monogamico comporta anche per il ministro sposato l'appello alla continenza e, conseguentemente, per coloro che non sono sposati, l'appello al celibato.
La differenza tra celibato e continenza
Per comprendere bene il modo in cui abbiamo cercato di indicare il fondamento biblico del celibato sacerdotale, è importante distinguere celibato e continenza. Nella Chiesa antica molti sacerdoti erano sposati. Questo spiega il fatto che, proprio per parlare dei ministri della Chiesa, venisse usata la formula “unius uxoris vir”; spiega inoltre il grande interesse dei Padri per il matrimonio monogamico (cfr. per esempio Tertulliano: De monogamia). Ma è diventato sempre più chiaro nella Tradizione che per un ministro della Chiesa, unito una sola volta in matrimonio con una donna, l'accettazione del ministero portasse come conseguenza che egli in seguito avrebbe dovuto vivere nella continenza.
"unius uxoris vir" collegamento con le nozze spirituali tra Cristo e la Chiesa
In tempi più recenti è stata introdotta la separazione tra sacerdozio e matrimonio. Pertanto la formula “ unius uxoris vir ”, intesa alla lettera e materialmente, non è più di applicazione immediata per i sacerdoti di oggi, i quali non sono sposati. Ma, proprio qui, paradossalmente, sta ancora l'interesse della formula. Bisogna partire dal fatto che, nella Chiesa apostolica, veniva usata solo per i chierici; prendeva cosi, oltre il senso immediato dei rapporti coniugali, un senso nuovo, mistico, un collegamento diretto con le nozze spirituali di Cristo e della Chiesa questo lo insinuava già Paolo; per lui, “unius uxoris vir” era una formula di Alleanza: introduceva il ministro sposato nella relazione sponsale tra Cristo e la Chiesa; per Paolo, la Chiesa era una “vergine pura”, era la “Sposa” di Cristo. Ma questo collegamento tra il ministro e Cristo, essendo dovuto al sacramento dell'ordinazione, non richiede più oggi, come supporto umano del simbolismo, un vero matrimonio del ministro; perciò la formula vale tuttora per i sacerdoti della Chiesa, benché non siano sposati; quindi, ciò che nel passato era la continenza per i ministri sposati diventa nel nostro tempo il celibato di quelli che non lo sono. Però il senso simbolico e spirituale dell'espressione “ unius uxoris vir ” rimane sempre lo stesso. Anzi, poiché contiene un riferimento diretto all'Alleanza, ossia al rapporto sponsale tra Cristo e la Chiesa, ci invita a dare oggi, molto più che nel passato, una grande importanza al fatto che il ministro della Chiesa rappresenta Cristo Sposo di fronte alla Chiesa Sposa. In questo senso, il sacerdote deve essere “l'uomo di una sola donna”; ma quell'unica donna, la sua sposa, è per lui la Chiesa che, come Maria la sposa di Cristo.
Giovanni Paolo Il nella sua lettera post sinodale Pastores dabo vobis.
A mo' di conclusione, ne citiamo alcuni passi più significativi.
Al n. 12, dopo aver ricordato che, per l'identità del presbitero, non è prioritario il riferimento alla Chiesa, bensì i riferimento a Cristo, il papa continua: “ In quanto mistero infatti, la Chiesa è essenzialmente relativa a Gesù Cristo: Lui, infatti, è la pienezza, il corpo, la sposa ( ... ). Il presbitero trova la verità piena della sua identità nell'essere una derivazione, una partecipazione specifica e una continuazione di Cristo stesso, sommo e unico sacerdote della nuova ed eterna Alleanza: egli è un'immagine viva e trasparente di Cristo sacerdote. Il sacerdozio di Cristo, espressione della sua assoluta "novità" nella storia della salvezza, costituisce la fonte unica e il paradigma insostituibile del sacerdozio del cristiano e, in specie, del presbitero. Il riferimento a Cristo è allora la chiave assolutamente necessaria per la comprensione delle realtà sacerdotali ”.
Sulla base di questa strettissima unità tra il presbitero e Cristo, si comprende meglio la ragione teologica profonda del celibato.
Il n. 22 è intitolato: “Testimone dell'amore sponsale di Cristo”. Più avanti: “Il sacerdote è chiamato a essere immagine viva di Gesù Cristo Sposo della Chiesa ”. Cita poi una proposizione del sinodo: “ In quanto ripresenta Cristo capo, pastore e sposo della Chiesa, il sacerdote si pone non solo nella Chiesa ma anche di fronte alla Chiesa ”.
Al n. 29, proprio nel paragrafo dove parla della verginità e del celibato, il Santo Padre cita per intero la propositio 11 del sinodo su questo argomento; poi, per spiegare la “ motivazione teologica della legge ecclesiastica sul celibato ”, scrive: “ La volontà della Chiesa trova la sua ultima motivazione nel legame che il celibato ha con l'Ordinazione sacra, che configura il sacerdote e Gesù Cristo Capo e Sposo della Chiesa. La Chiesa, come Sposa di Gesù Cristo, vuole essere amata dal sacerdote nel modo totale ed esclusivo con cui Gesù Cristo Capo e Sposo l'ha amata ”.