CORSO BIBLICO SULLE LETTERE DI S.PAOLO

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Coordin.
00domenica 18 novembre 2012 20:57

Appunti delle lezioni di un corso biblico tenuto nell'anno 1999/2000 da Don Roberto Pandolfi in una parrocchia di Sondrio. Appunti non rivisti dall'autore.

 

 I lezione

 INDICE

 

SAN PAOLO 1

Le lettere di Paolo 3

Prima lettera ai Tessalonicesi 13

Seconda lettera ai Tessalonicesi 20

Prima lettera ai Corinzi. 23

Lettera ai Galati 40

BREVE INTRODUZIONE 43

ALLA LETTERA AI ROMANI 43

La lettera ai Colossesi 62

Lettera agli Efesini 65

Lettera a Filemone 68

Lettera ai Filippesi 70

 

Coordin.
00domenica 18 novembre 2012 21:02

Non tutti hanno un'opinione positiva di S.Paolo. Per esempio, in un libro che ha per titolo "L'Anticristo", Friedrich Nietzsche, un filosofo ateo definito uno dei maestri del sospetto, che aveva una grande ammirazione per Cristo (da lui considerato un vero superuomo) dice che l'ebreo Saulo ha "rovinato" tutto il messaggio di Cristo. Paolo ha manipolato il messaggio che liberava l'uomo e ha nuovamente ingabbiato l'uomo. Il rivoluzionario Gesù è stato riportato da Paolo nell'istituzione Chiesa.

 

Lettura di un brano tratto da "L'Anticristo":

"La "buona novella" fu seguita subito dalla peggiore di tutte, quella di Paolo. In Paolo si incarna il tipo opposto dell'annuncio della "lieta novella"; il genio dell'odio, nella visione dell'odio, nella logica implacabile dell'odio. Che cosa non ha sacrificato all'odio questo disvangelista? Prima di tutto il Salvatore: l'inchiodò sulla sua croce. La vita, l'esempio, l'insegnamento, la morte, il senso e il diritto di tutto il Vangelo - null'altro esisteva più che ciò che intendeva nel suo odio questo coniatore di monete false, null'altro che quel che poteva essergli utile non la realtà, non la verità storica!...... E ancora una volta l'istinto sacerdotale del giudeo commise lo stesso grande delitto contro la storia - cancellò semplicemente l'ieri e l'avanti ieri del cristianesimo, e inventò per sé una storia del cristianesimo primitivo. V'è di più: Paolo falsificò nuovamente la storia d'Israele, per farla apparire come la preparazione dei suoi atti: tutti i profeti hanno parlato del suo "Salvatore". La Chiesa falsò più tardi perfino la storia dell'umanità, per farla divenire preludio del Cristianesimo...".

Per Nietzsche, Paolo è il falsificatore del messaggio di Cristo. Egli aveva un suo progetto di religione per realizzare il quale ha usato quanto detto e fatto da Gesù.

Per combattere i dubbi, come quelli insinuati da F. Nietzsche, si deve andare alla fonte ed è ciò che noi ci accingiamo a fare.

 

Lettura di Atti 9, 1-9 ("La vocazione di Saulo").

Qui è narrata l'esperienza sconvolgente di Saulo-Paolo.

Ora non mi dilungo sulla biografia e sul rapporto tra gli Atti degli Apostoli, le lettere e la vita di Paolo la cui personalità appare molto complessa e tutt'altro che facile. L'esperienza che abbiamo ora ascoltato è come una boa attorno alla quale ruota tutta la vita di Paolo. Noi siamo soliti intitolare il brano appena letto "La vocazione di Paolo". Potremmo anche parlare di conversione, ma dovremmo allora vedere se Paolo è veramente un convertito. Infatti secondo alcuni studiosi egli ha semplicemente portato alle estreme conseguenze l'ebraismo diventando cristiano; non si è per nulla convertito ma si è soltanto evoluto. Altri sostengono che Paolo sia semplicemente un uomo che a un certo punto mette Cristo al centro della sua vita.

In questo senso cambia la prospettiva: Paolo fa un'esperienza che è preceduta da quel "chiamato per nome: Saulo".

 

Uno dei momenti della "lectio divina" consiste nel ricordare tutti gli avvenimenti che nella Bibbia si riferiscono all'episodio sul quale noi stiamo pregando e meditando. Tutto il testo Sacro è disseminato di "chiamati per nome". Pensiamo solo al Vangelo in cui la prima "chiamata per nome" è Maria, seguita poi dagli apostoli e da altri ancora.

Ecco, la vocazione (chiamata per nome) che ti fa scoprire chi sei.

Al contrario di quanto scrive Nietzsche, Paolo nelle sue Lettere si definisce sempre apòstolos e dulos, cioè "inviato" e "servo" di Cristo. E Paolo non ha discepoli ma solo collaboratori (sünerghés), ossia dei discepoli di Cristo che con lui collaborano per la diffusione del Vangelo. Ecco il punto di vista subordinato: al centro c'è Gesù.

 

Saulo viene afferrato da Cristo e quindi per lui cambia tutto. Paolo era un uomo entusiasta prima della vocazione nel perseguitare i cristiani e rimane entusiasta anche dopo, tanto è vero che viaggia per annunciare Cristo.

Paolo cambia non se stesso ma la prospettiva di vita. Questo è importante anche per noi, perché il Signore ci vuole a suo totale servizio. E ci accetta con tutti i nostri difetti.

Io mi sto convincendo che anche i difetti più marcati - se impiegati per il Signore - possono diventare positivi. Ad esempio, una persona che tende a stare al centro dell'attenzione quanto bene puo' fare per Cristo se parla di Lui e se riesce a portargli qualcuno! Egualmente un timido può fare tanto bene con la sua sensibilità nel momento in cui comincia a parlare di Dio. Teniamo presente che siamo tutti capolavori del Signore ma non lo sappiamo.

 

Lettura della lettera ai Filippesi 3,7-9

Questo brano autobiografico ci aiuta a comprendere quanto si diceva prima a proposito della conversione (in greco metànoia). Notiamo che per capire il significato esatto delle parole dei testi scritti in lingua greca dobbiamo riferirci ai termini originali. E quest'anno lo faremo spesso. Allora, la "metànoia" è il "cambiamento della mente" che possiamo anche tradurre con "cambiamento della mentalità".

Esattamente questa è stata l'esperienza di Paolo: quando è stato chiamato per nome tutto il resto per lui è diventato "come spazzatura". Ecco la sublimità della conoscenza di Gesù Cristo. Vi raccomando di tenere ben presente questo concetto perché si tratta di un'esperienza alla quale siamo chiamati anche noi.

 

Lettura della Lettera ai Filippesi 3,11-14.

Troviamo in questi versetti un'intuizione molto bella. Nella frase contenuta nel v.14 c'è tutto un programma: la vita come pellegrinaggio, come cammino e come lotta; c'è una fede che è dono ma che deve essere continuamente alimentata e conquistata; c'è una risposta nostra a fronte della chiamata del Signore Gesù. Ecco l'esperienza che dovrebbe fare ciascuno di noi: Cristo è tutto. Ne consegue che Paolo sia uno dei discepoli di Cristo perché ha posto Cristo al centro. E allora egli non puo' avere che sünerghés (collaboratori) e adelfoi (fratelli). E Paolo non puo' essere che apostolos e dulos (inviato e servo).

 

 

 

Le lettere di Paolo

 

Secondo la comune opinione le Lettere di Paolo sono da considerarsi i documenti più antichi del cristianesimo in quanto sarebbero state scritte prima dei Vangeli.

Da qualche anno, però, un gruppo di esegeti sostiene un'ipotesi (che costituisce un ritorno alle origini e che sembrava definitivamente accantonata con l'avvento del metodo critico) in base alla quale i Vangeli sarebbero stati scritti e redatti nella stesura in nostro possesso nei primissimi anni seguiti alla morte di Gesù, tanto è vero che si può fare risalire all'anno 40 il Vangelo di Marco.

Il più famoso degli studiosi che hanno avvalorato questa ipotesi era Jean Carmignac sulla base della scoperta - negli anni attorno al 1950 - dei rotoli di Qumran. In questa località del deserto vicino al Mar Morto si era ritirato, probabilmente un secolo e mezzo prima di Cristo, un gruppo ebraico di circa cinquemila Esseni che ritenevano di avere il Sommo Sacerdote legittimo in contrapposizione alla figura del re e del sacerdote che si erano identificati nella medesima persona con la dinastia degli Asmonei. Tale comunità, oltre alla Bibbia, possedeva - come la tradizione farisaica - i propri testi sacri che, perfettamente conservati dal clima secco del deserto, furono trovati casualmente circa cinquant'anni fa.

Sono stati rinvenuti nelle grotte di Qumran - contenuti in alcuni rotoli - molti versetti sparsi, scritti in ebraico e in greco e a tutt'oggi non classificati, che hanno suscitato molto scalpore. In particolare, è stato ritrovato un versetto in lingua greca, che ha un unico riferimento nella Bibbia e nei testi collegati: il Vangelo di Marco..

Allora la comunità essena, eliminata dai romani intorno agli anni 60, possedeva già un versetto di Marco?

Questa ipotesi ha provocato una serie di studi sulla datazione dei Vangeli che potrebbero conseguentemente essere retrodatati di almeno vent'anni.

 

Leggiamo in Marco 13 il versetto 14 di capitale importanza, nella sua interpretazione, per la datazione del Vangelo in quanto parla di "abominio della desolazione", espressione che abbiamo già sottolineato lo scorso anno leggendo il libro di Daniele (9,27).

Il profeta si riferiva al re empio Antioco IV Epifane che voleva collocare la statua di Zeus nel tempio di Gerusalemme (nel quale, invece, non doveva entrare nessuna effigie umana).

Che significa, allora, nel Vangelo di Marco questa citazione per di più al futuro ("...vedrete l'abominio della desolazione stare là...")?

Sappiamo che un tentativo analogo a quello di Antioco IV Epifane era stato compiuto dall'imperatore romano Caligola che aveva ordinato di porre una propria grande statua nel tempio di Gerusalemme nonostante la vivace reazione degli ebrei. Questo disegno non si attuò in quanto, durante il trasporto della statua, Caligola - nell'anno 41 - venne ucciso. Perché, allora, Marco nel versetto 14 cita Daniele usando la sua stessa espressione ("abominio della desolazione"). Secondo alcuni studiosi ciò è dovuto al fatto che il Vangelo di Marco sarebbe stato redatto prima dell'anno 41 quando si era certi che la statua di Caligola stava per arrivare a Gerusalemme.

 

(Seguono alcune indicazioni bibliografiche)

 

 

 

 

Coordin.
00domenica 18 novembre 2012 21:04

Introduzione alle "Lettere" di S. Paolo

 

Nel precedente incontro in una introduzione molto breve alle Lettere avevamo posto il problema della loro datazione, cioè ci eravamo chiesti se veramente siano i documenti più antichi del cristianesimo, come si ritiene comunemente. Avevamo, inoltre, preso in considerazione una teoria secondo la quale alcuni Vangeli sono precedenti, anche come stesura definitiva, alle Lettere di S. Paolo. Ricordate in proposito il v.14 di Mc 13 di cui abbiamo ampiamente parlato nella lezione della scorsa settimana?

 

Le "Lettere" ci forniscono delle notizie preziose sulle prime comunità cristiane. A ben vedere anche i Vangeli - leggendo tra le righe - ci possono dare un'immagine delle comunità per la quale sono stati scritti. Ma le "Lettere" contengono delle annotazioni, delle considerazioni decisamente molto più complete.

Sappiamo, per esempio, attraverso questi documenti come erano strutturate le comunità alle quali erano indirizzati; sappiamo che vi erano presenti gli episcopi e i presbiteri. Possiamo affermare che conosciamo la struttura primitiva della Chiesa principalmente attraverso le Lettere di S. Paolo e - in secondo piano - attraverso gli Atti degli Apostoli. Si tratta di notizie preziose, quindi, sull'organizzazione della Chiesa, sulla condizione sociale delle primitive comunità cristiane, sulla loro composizione, su quali persone ne entravano a far parte, su come si svolgeva l'apostolato, sui luoghi in cui ci si trovava per pregare e per celebrare l'Eucarestia e, anche, su come veniva celebrata.

Le lettere di S. Paolo sono perciò una miniera da tutti i punti di vista. Inoltre notiamo che ci dicono tantissimo sulla società pagana (o non cristiana). Ad esempio, noi conosciamo bene i problemi che la Chiesa di Corinto viveva in quanto inserita in un particolare contesto sociale determinato dal fatto che ivi ci fosse uno dei più grandi porti del Mediterraneo.

Anche dal punto di vista storico noteremo come le "Lettere" siano stupende.

Da questi testi dovremmo dedurre un altro elemento: il rapporto con il mondo pagano. Infatti il cristianesimo nasce in un ambiente molto connotato religiosamente e, a parer mio, anche tanto aperto e si trova ad affrontare con Paolo non solo la cultura degli ellenisti (cioè di quegli ebrei che ormai lontani da generazioni dalla Palestina parlavano soltanto greco, ma avevano mantenuto le leggi e le tradizioni dei loro antenati) e a confrontarsi con un mondo che dalla Palestina era culturalmente assai lontano, con tutti i problemi connessi. Uno di questi - notevole e vivo ancora oggi - consisteva nel fatto che la cultura ebraica non aveva il concetto della persona intesa come anima e corpo, ma quello del medesh secondo cui non si possono separare l'anima e il corpo che costituiscono un insieme indistinto. Pensate che cosa puo' aver significato l'introdurre questo concetto nella mentalità di una società che non l'aveva minimamente presente, anzi ne conosceva uno esattamente opposto, cioè il concetto del dualismo che abbiamo ancora oggi. Noi, infatti, non ragioniamo in termini biblici perché restiamo influenzati dalla concezione filosofica che distingue l'anima dal corpo. Ci vorranno decenni ancora per giungere -almeno noi cattolici - a questo cambiamento di cultura.

Quindi pensiamo a quanto può essere successo - almeno da questo punto di vista - quando S. Paolo nelle "Lettere" cercava di esporre concetti difficili a persone che non li avrebbero potuti comprendere se non cambiando il modo di esporli.

 

Oggi si parla di inculturazione a proposito dell'annunzio del Vangelo da parte della Chiesa nelle varie parti del mondo. Si puo' forse annunciare il Vangelo in Africa adoperando lo stesso linguaggio che si una in Europa? Certamente no, perché la cultura africana ha dei contenuti e dei concetti molto diversi dai nostri. E, allora, il Vangelo si deve adattare alla cultura africana perché sia compreso dagli africani.

I nostri missionari quando andavano a diffondere la buona novella fuori dall'Europa traducevano il Cristo in termini comprensibili alle diverse culture locali.

Abbiamo un esempio storico in Matteo Ricci che quattrocento anni fa diffuse il Vangelo in Cina, dopo averlo tradotto in lingua cinese e avere adottato anche il modo di vestire di quei luoghi.

Come notiamo, si tratta di un'opera difficile che anche S. Paolo si è sforzato di compiere.

 

Abbiamo già conosciuto un caso di inculturazione (in uno dei corsi precedenti) nel Vangelo di Giovanni, il quale usa il concetto di lògos (Verbo) mutuato dagli stoici in un tentativo di dialogo con gli ebrei lontani - come il filosofo Filone Alessandrino - e, appunto, con gli stoici (il lògos infatti, era uno dei principi a cui essi si appellavano).

 

Nelle Lettere troveremo, poi, le problematiche teologiche in quanto in questi testi si pongono i fondamenti del cristianesimo: chi è Gesù Cristo. Qual è il rapporto fra noi cristiani e gli ebrei? e tra l'Antico Testamento e il Vangelo annunciato da Gesù?

 

Inoltre, nelle lettere di Paolo evidenzieremo notevoli problemi di natura etica come l'incesto (ad es. nella "Lettera ai Corinti") e situazioni di morale spicciola, come il rapporto con l'autorità statale.

 

Appare chiaro che le Lettere sono una sfida, che noi raccogliamo, tante volte anche a livello di interpretazione. Ad esempio, abbiamo sentito affermare che S. Paolo era un po' misogino, come risulta dai suoi accenni alle donne. Ma anche questo atteggiamento va interpretato correttamente per non stravolgere il messaggio paolino.

 

Per comprendere bene il contenuto delle Lettere dobbiamo fare alcuni riferimenti che sono un po' impegnativi: si tratta, cioè, di sapere in quale contesto storico Paolo opera e con quale ambiente filosofico e culturale si incontra e si scontra.

Secondo l'interpretazione di alcuni storici, S. Paolo non avrebbe detto nulla di nuovo ma avrebbe attinto dallo stoicismo e dal neoplatonismo. A tale proposito ricordiamo che è in corso a Milano un convegno sul rapporto tra l'apostolo e Seneca, il filosofo romano maggiore esponente dello stoicismo.

In base a recenti studi, delle quattordici lettere tra Paolo e Seneca (ritenute tutte fino a poco tempo fa non autentiche) due sarebbero certamente false, mentre per le altre vi sarebbero validi motivi per un approfondimento sulla questione della loro autenticità.

Alcuni studiosi ritengono che Paolo avrebbe inquinato tutto il cristianesimo introducendo concetti stoici e noeplatonici, così togliendo allo stesso cristianesimo la sua originalità e riducendolo alla stregua di una delle tante correnti filosofiche della sua epoca. Ecco perché Tacito puo' scrivere che a Roma, dove giungevano i "rifiuti" da tutto l'impero, il peggiore rifiuto che potesse arrivare fosse costituito dai cristiani.

 

Iniziamo ora il nostro cammino nella storia e nella cultura dell'epoca di Paolo, terminato il quale esamineremo le singole Lettere seguendo il loro ordine cronologico.

Vi invito alla necessaria lettura degli Atti degli Apostoli che tracciano a grandi linee quella che è stata la missione di S.Paolo.

 

 

Per poter comprendere il periodo storico in cui operò Paolo di Tarso occorre risalire per sommi capi alle vicende della Palestina successive alla fine della dominazione siriana. Questa dominazione era stata la conseguenza del costituirsi nel Mediterraneo orientale e nel medio oriente dei regni ellenistici derivati dalla dissoluzione dell'impero di Alessandro Magno.

Quanti fra i presenti hanno seguito le lezioni degli anni precedenti troveranno la ripetizione di alcune notizie sull'ellenismo.

Vorrei ricordare che alcune date che indicherò sono la considerarsi relativamente esatte, perché su di esse non concordano le fonti che ho consultato.

Già in uno dei precedenti corsi avevamo visto che la Palestina, nei secoli che precedettero la nascita di Cristo (cioè dall'ottavo al primo), era stata oggetto di conquista da parte di grandi Stati (come l'Assiria, il regno babilonese e l'Egitto) che confinavano con il suo territorio e di quelle che si espandevano nel Mediterraneo orientale (come la Grecia di Alessandro Magno e Roma).

Dopo la rivolta contro la Siria guidata da Giuda Maccabeo negli anni 167-164 a.C., la Palestina riconquistò per un breve periodo (circa un secolo) l'indipendenza con la dinastia degli Amonei, iniziata nel 143 a.C. con Simone, che fu proclamato sommo sacerdote ed etnarca (capo del popolo, cioè re).

In quell'epoca presero consistenza le correnti principali del giudaismo, i Farisei e i Sadducei, delle quali si parla nel Nuovo Testamento. Il contrasto tra queste due correnti e le lotte fratricide fra gli appartenenti alla dinastia degli Armonei diedero spunto all'intervento dei romani, i quali occuparono la Palestina (con Pompeo nel 63 a.C.) e la inglobarono nei loro possedimenti, appoggiandosi al partito sadduceo capeggiato da Ircano. Costui venne proclamato sommo sacerdote, ma non etnarca.

Così la Palestina tornò ad essere suddita di un altro Stato, avendo perso l'indipendenza riconquistata un secolo prima.

Contro il nuovo oppressore che, tra l'altro, imponeva gravosi tributi, si manifestò subito una forte opposizione.

Gli stessi Esseni, setta religiosa aliena da ogni tipo di violenza, sorta nel II secolo a.C., accusavano l'impero romano di divorare i popoli come l'aquila.

 

Prima di continuare con i cenni storici è opportuno soffermarci sull'ellenismo.

L'ellenismo, definito come la civiltà e la storia in genere del bacino del Mediterraneo medio e orientale, inizia a partire dal 333 a.C. (anno della partenza di Alessandro il Macedone alla conquista dell'oriente) e viene fatto concludere convenzionalmente con il 31 a.C. (anno della battaglia navale di Azio). Ma anche successivamente l'ellenismo continuò ad improntare per più di un secolo la cultura e le consuetudini dei popoli tra i quali si era esteso e perfino quelle della stessa Roma.

L'ellenismo si formò nel contatto tra la civiltà greca classica ormai matura e le civiltà orientali (iranico-babilonese, ebraica, egiziana). I successori di Alessandro Magno nei vari regni ellenistici favorivano sempre i greci e la fondazione di città e di colonie greche. La lingua greca ("koiné")anche dopo la conquista romana, divenne la lingua franca cioè di uso comune (koiné significa "comune") e la più diffusa del bacino del Mediterraneo orientale, in sostituzione dell'aramaico, del fenicio e dell'egiziano. Chiaramente le varie culture di quella zona furono fortemente influenzate da quella greca.

Gli orientali furono colpiti dalla diversa concezione dell'uomo portata dai greci, i quali lo consideravano libero e non servo del re o di Dio. Si diffuse una nuova concezione del rapporto tra uomo e Stato, inteso questo non più come comunità di sangue, ma come comunità di partecipazione ai diritti e ai doveri comuni sulle stesso territorio. In quel periodo ebbe grande diffusione il fenomeno della diaspora degli ebrei, che costituirono comunità molto importanti ad Alessandria e a Leontopoli in Egitto e ad Antiochia in Siria e si insediarono perfino a Roma.

Gli ebrei della diaspora parlavano greco e raccoglievano numerosi proseliti e i soldati giudei che avevano prestato servizio presso altri re al ritorno in patria portavano la lingua greca, nuove abitudini e una visione del mondo molto diversa da quella del giudaismo. Molte persone delle classi più elevate cominciarono ad assumere nomi greci a partire dal II secolo a.C.

 

Dopo la battaglia di Azio ebbe fine la repubblica romana e si costituì l'impero con Cesare Ottaviano Augusto che visse fino al 14 d.C. Proprio durante il suo regno, in piena "pax romana", avvenne la nascita di Cristo. Ad Augusto successe Tiberio, che regnò dal 14 al 37 d.C., quindi durante gli anni della predicazione, della morte e della resurrezione di Gesù e della fondazione della Chiesa. Dopo Tiberio regnarono Caligola (dal 37 al 41), Claudio (dal 41 al 54) e Nerone (dal 54 al 68).

All'epoca di Claudio nella numerosa comunità giudaica di Roma iniziò l'evangelizzazione, che era stata estesa anche ai pagani, probabilmente ad opera dello stesso Pietro il quale, secondo Eusebio ("Storia ecclesiastica") si recò nella capitale dell'impero intorno al 44.

I contrasti tra i giudei osservanti e giudei convertiti al cristianesimo (seguaci di Cristo) provocarono l'espulsione di questi ultimi da Roma nel 49. Qualche anno dopo e principalmente in Roma avvenne con Nerone (dal 64 al 67) la grande persecuzione dei cristiani accusati di odio del genere umano e di avere causato l'incendio della capitale.

Negli ultimi anni del regno di Nerone, proprio in coincidenza con la persecuzione, viene collocata l'epoca del martirio in Roma di Pietro (per crocefissione) e di Paolo (per decapitazione).

Il primo incontro fra la fede cristiana e il mondo romano è indicato negli Atti degli Apostoli (At 2,10) dove si dice che al discorso di Pietro subito dopo l'evento della Pentecoste in Gerusalemme assistettero anche alcuni "stranieri di Roma".

Al momento della morte di Gesù la Palestina faceva parte della provincia della Siria governata dal legato di Roma. Il potere, nonostante la presenza di un etnarca (o re) giudeo, era saldamente nelle mani dei romani i quali avevano lasciato al sinedrio alcune competenze politiche, religiose e sociali riguardanti la vita e gli affari dei giudei, riservandosi i gradi più elevati della giustizia, ivi compresa la comminazione della pena di morte. Il sinedrio, in ebraico sanhedrin e in greco synedrion era il supremo consesso politico, religioso e giudiziario ebraico. attivo in Palestina fino alla distruzione del tempio, fu trasferito a Jahvne nel 70 d.C. dopo aver perso i poteri politici ed essere diventato completamente fariseo.

L'insofferenza dei giudei per il dominio romano si manifestò con sommosse e ribellioni più volte represse. Queste ribellioni culminarono la prima volta con la guerra insurrezionale dal 66 al 70 terminata con la distruzione del tempio e di parte della città di Gerusalemme, il massacro di molti cittadini e la riduzione in schiavitù dei superstiti; la seconda volta con la guerra giudaica dal 131 al 134 conclusasi nuovamente con la vittoria dei romani i quali distrussero Gerusalemme e la riedificarono come colonia romana interdetta agli ebrei.

Paolo operò dal 34/35 al 67 in un'epoca in cui era sempre viva la cultura ellenistica ed erano presenti, in contrapposizione con il giudaismo e il movimento cristiano, in particolare due correnti di pensiero: l'epicureismo e lo stoicismo.

Degli stoici e degli epicurei si parla negli Atti degli Apostoli (At 17,18 e segg.) quando costoro disputarono in Atene con Paolo durante il secondo viaggio missionario.

 

 

L'epicureismo

Gli epicurei traevano il loro nome dal fondatore della scuola, Epicuro, vissuto tra il 314 e il 270 a.C. Secondo costoro l'anima esiste ma non è immortale perché svolge la sua funzione solo quando è contenuta nel corpo e, separandosene alla morte, si dissolve. Le divinità esistono, vivono negli spazi che separano un mondo dall'altro, sono perfette, autosufficienti dal mondo e ad esso indifferenti. Le divinità non provvedono quindi alle cose del mondo. In polemica con gli stoici, Epicuro considerava l'uomo libero da ogni costrizione esterna da parte di un fato o di una divinità che guidasse le azioni umane. Questo filosofo riteneva perciò che l'uomo dovesse ricercare in se stesso la causa fondamentale della propria felicità o infelicità. La felicità consisteva nel piacere che è uno stato di equilibrio e di armonia e di assenza del dolore. E nella scelta del piacere consisteva la vera salvezza. A differenza degli stoici, gli epicurei non ammettevano un vero e proprio diritto naturale con un sistema di leggi sempre comunque valide. E allora ciò che è giusto non vale per se stesso, ma solo in quanto conforme all'utilità.

 

 

 

Gli stoici

Gli stoici prendono il nome da stoà (il portico) in cui aveva sede la scuola filosofica fondata da Zenone in Atene intorno al 300 a.C.

La filosofia degli stoici era chiaramente orientata, a differenza di quella degli epicurei, al conseguimento della virtù e alla realizzazione dell'ideale del saggio. Al centro di quella filosofia era posto il concetto di lògos inteso come "ragione", principio organizzativo della vita cosmica e della vita morale. Per gli stoici tutta la realtà, compresa la divinità, è corporea e tutto il mondo è pervaso da un'unica forza vivente. E la divinità non è distinta dal mondo ma è il principio interno che lo regge lo ordina (panteismo). Gli stoici sostenevano la separazione dell'anima al corpo dopo la morte ed avevano elaborato il concetto di dovere. Per loro il bene supremo era la virtù e quattro erano le virtù fondamentali: la prudenza, la temperanza, la fortezza e la giustizia. E' facile qui vedere delle analogie con il cristianesimo.

Gli stoici puntavano a una nuova purezza dei cuori e a una ripresa morale di tipo spirituale, che apriva la strada verso nuovi orizzonti religiosi. Alcuni di essi credevano in un Dio unico, in una volontà razionale capace di essere tutt'uno con il mondo.

Il filosofo Seneca, il più noto esponente della corrente stoica, fu contemporaneo di Gesù e dei suoi apostoli e morì suicida nel 65 d.C. durante la persecuzione di Nerone. Viene considerato da molti come il pensatore dell'epoca più vicino al cristianesimo.

Nonostante le notevoli differenze tra le due scuole, il fine a cui mira la saggezza stoica è analogo a quello epicureo e cioè l'autosufficienza dell'uomo, la sua libertà interiore che lo rende capace di bastare a se stesso in ogni situazione.

 

I SADDUCEI erano un antico partito religioso e politico ebraico e derivavano il loro nome da Zedoq, sommo sacerdote all'epoca di Salomone. Costituivano l'aristocrazia ebraica rappresentata dalla classe sacerdotale e dalle famiglie ad essa legate, e si caratterizzavano per conservatorismo, distacco dal popolo e simpatia per l'ellenismo. Si consideravano custodi autentici della legge e respingevano le dottrine dei Farisei non esplicitamente contenute nella Torah, come la resurrezione dei morti, l'esistenza degli angeli, la tradizione orale e l'universalismo. I Sadducei scomparvero dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme.

 

I FARISEI erano sorti all'epoca dei Maccabei (II secolo a.C.) e derivavano dal movimento degli Assidei. Erano il partito della tradizione e dell'ortodossia ebraica e credevano nella resurrezione dei morti, nel giudizio finale e nella retribuzione, nell'avvento del messia, nell'esistenza degli angeli, nella provvidenza, nella libertà del volere e quindi nella responsabilità delle azioni.

Il termine "fariseo" trae origine dalla parolaparùsh (pluraleparusim ) che significa "il separato" ed è sinonimo di qaddish (consacrato).

I Farisei osservavano con zelo le prescrizioni della Legge, il riposo del sabato e le norme di purità e pregavano tre volte al giorno. Nel Talmud sono descritte con una certa ironia sette categorie di Farisei:

1- Il gruppo delle "spalle larghe" che scrivevano le loro

buone azioni sulla schiena perché fossero note a tutti gli uomini;

2- i "vacillanti" che andavano per strada strusciando i

piedi per terra e urtando contro i ciotoli per farsi notare;

3- gli "sbattitesta" che chiudevano gli occhi per non vedere le donne e sbattevano la testa contro i muri;

4- gli "umili perfetti" che camminavano piegati in due;

5- i "Farisei di calcolo" che praticavano la Legge per godere delle possibili ricompense;

6- i "Farisei della paura" che facevano il bene perché temevano il castigo;

7- i "Farisei del dovere", cioè i buoni Farisei.

 

I farisei si consideravano gli eredi del riformatore Esdra, che veneravano come il secondo fondatore dell'ebraismo dopo Mosè e l'iniziatore del giudaismo. Attendevano il riscatto del popolo senza il ricorso alla violenza nei confronti degli occupanti romani e forse per questo sopravvissero alla rovina del Tempio e alla distruzione di Gerusalemme che travolsero invece sadducei, esseni, zeloti e sicari.

L'imperatore Tito concesse dopo il 70 d.C. al rabbino fariseo Iohanan Ben Zakkai di trasferire e mantenere a Jahvne il sinedrio, per cui i farisei rimasero l'elemento determinante di tutto il giudaismo posteriore

 

 

Gli ESSENI. Questo nome deriva forse dall'aramaico Assajja (silenziosi o puri) da cui il greco essenòi. Costituivano una setta ascetica ebraica sorta nel II secolo a.C. dagli Assidei e durata fino al I secolo d.C. . Gli esseni vivevano segretamente tra il Mar Morto e il deserto di Giuda sotto la guida di un "maestro di giustizia". Avevano vita comunitaria ed erano divisi per classi secondo il grado di perfezione e secondo una struttura piramidale, praticavano obbligatoriamente il celibato e mettevano in comune tutti i beni personali. Si consideravano l'unico vero popolo di Dio opponendosi alla classe ebraica dominante, e attendevano tre portatori della salvezza:

1- un messia legislatore profetico;

2- un messia di Aronne (quale sommo sacerdote);

3- un messia d'Israele (quale re).

Ritenevano sacri i pasti consumati in comune e le abluzioni che procuravano la remissione dei peccati. Alcuni ritengono che Gesù abbia celebrato la Pasqua secondo il calendario solare esseno di 364 giorni (diverso da quello lunisolare in uso nell'ambiente farisaico), avendo egli agito insieme a Giovanni il Battista e ai suoi primi seguaci fianco a fianco con le comunità essene.

 

Gli ZELOTI. Questo nome deriva dal greco zelotes (fanatici). Erano un partito politico e religioso ebraico attivo nel I secolo d.C. fondato da Giuda il Galileo all'epoca del censimento di Quirino (6-7 d.C.). Si opposero presto ai farisei che rifiutavano la lotta armata contro i romani. Non accettavano di sottostare agli stranieri pagani e idolatri, di pagare i tributi e rifiutavano il censimento romano. Avevano viva l'attesa del messia liberatore e miravano alla ribellione contro lo straniero. Una loro frangia estrema fu quella dei sicari (dal latino "sica" il pugnale, che portavano nascosto sotto le vesti per colpire a tradimento).

Gli zeloti ebbero larga parte nell'insurrezione degli anni 66-70 d.C. e un migliaio di essi resistette nella fortezza di Masada fino al 73 e si suicidò in massa piuttosto che arrendersi. Parteciparono anche all'insurrezione degli anni 131-134 che segnò la loro fine.

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00domenica 18 novembre 2012 21:05

S A U L O

 

Il nome deriva da Shaul (richiesto). Era nato a Tarso da famiglia ebraica e aveva ricevuto una formazione ellenistica, era fariseo, buon conoscitore delle Legge e discepolo di Gamaliele a Gerusalemme.

Era cittadino romano (con doppia cittadinanza) perché Tarso, capitale della Cilicia, aveva ottenuto dopo la battaglia di Filippi (42 a.C.) lo status di città libera, il che consentiva l'acquisto della cittadinanza romana. Tale diritto in età imperiale si poteva ottenere con il pagamento di 500 dracme.

Nelle Lettere compare sempre il nome di Paolo, mentre negli Atti Saulo diventa Paolo solo dopo la conversione e, precisamente, in At 13,9 e 13.

Saulo rimane però sempre orgoglioso delle sue origini ebraiche, come si puo' rilevare da alcuni passi delle Lettere:

Gal. 2,15 "Noi per nascita siamo giudei e non pagani peccatori...";

2 Cor. 11,21 e 22 "Però in quello in cui qualcuno osa vantarsi, lo dico da stolto, oso vantarmi anch'io. Sono ebrei? Anch'io! Sono israeliti? Anch'io! Sono stirpe di Abramo? Anch'io!";

Rom. 9,3-5 "Vorrei infatti essere io stesso anatema, separato da Cristo a vantaggio dai miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne. Essi sono israeliti e possiedono l'adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi: da essi proviene Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa.";

Rom. 11,1-2 "Anch'io sono infatti israelita della discendenza di Abramo, della tribù di Beniamino. Dio non ha ripudiato il suo popolo che Egli ha scelto fin dal principio".

 

 

La risurrezione

 

Nel mondo ebraico l'idea della risurrezione si fondava principalmente sui versetti di Isaia (Is 26,19 " Ma di nuovo verranno i tuoi morti, risorgeranno i loro cadaveri. SI sveglieranno ed esulteranno quelli che giacciono nella polvere..") e di Daniele (Dn 12,2 "molti di quelli che dormono nella polvere della terra si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l'infamia eterna.").

La resurrezione corporale era un'idea molto diffusa nel I secolo a.C e la concezione farisaica prevedeva che tutti i corpi si sarebbero decomposti nella terra finché non fosse rimasto di loro che un pugno di materia. Ma nel futuro il Santo (Dio) avrebbe ordinato alla terra di restituire tutti i corpi e tutto quello che si era mescolato alla polvere si sarebbe messo a crescere come lievito nella pasta e si sarebbe levato come un corpo intero senz'acqua. La risurrezione in cui credevano i farisei era fatta di carne e di sangue.

Nel mondo futuro, però, non si sarebbe né mangiato né bevuto, non vi sarebbero state nessuna attività e nessuna passione e i giusti avrebbero goduto dello splendore luminoso della presenza divina (shekinàh).

E nella prima lettera ai Corinti (I Cor. 15,35-41) Paolo secondo alcuni sembra accettare in parte questa idea farisea della risurrezione della carne.

 

 

III lezione

 

Inquadramento storico - continuazione

 

Riepilogo di quanto detto nel precedente incontro sul contesto storico in cui si svolsero le vicende narrate nel Vangelo e negli Atti degli Apostoli e, in particolare, sulla sequenza degli imperatori romani che regnarono dalla nascita di Gesù fino alla morte di Paolo, sui movimenti religiosi ebraici e sulle scuole filosofiche degli epicurei e degli stoici.

Sulla figura di Paolo, che compare sulla scena degli Atti a circa trent'anni, abbiamo una breve descrizione, tolta dal libro apocrifo "Atti di Paolo e Tecla" della fine del II secolo, secondo la quale l'Apostolo sarebbe stato "...un uomo di bassa statura, la testa calva, le gambe arcuate, il corpo vigoroso, le sopracciglia congiunte, il naso alquanto sporgente, pieno di amabilità; a volte aveva sembianze di uomo, a volte di angelo.".

Gli Atti degli Apostoli narrano la storia della Chiesa delle origini, dall'Ascensione e dalle Pentecoste fino all'anno 61 in cui Paolo giunge a Roma al termine del quarto viaggio. Sono opere dell'evangelista Luca e risultano scritte intorno agli anni 70.

A Gerusalemme si costituì la prima comunità cristiana composta all'origine da giudei di lingua ebraica e da giudei ellenisti. I primi grandi eventi narrati sono l'Ascensione e la Pentecoste, da collocarsi nel maggio-giugno dell'anno 30.

La missione degli apostoli fu contraddistinta fin dall'inizio da prodigi e da miracoli e Pietro assunse subito la preminenza su tutti gli apostoli e su tutti i discepoli.

La reazione dei sacerdoti e dei sadducei contro la nuova dottrina e contro gli apostoli portò a un primo arresto di Pietro e di Giovanni e al loro giudizio davanti al sinedrio.

 

Dopo un discorso di autodifesa i due apostoli vengono liberati (At 4). Aumentano la conversioni e le guarigioni miracolose e gli apostoli sono nuovamente arrestati, ma sono liberati di notte da un angelo. Nel nuovo processo davanti al sinedrio gli apostoli sono difesi dal fariseo Gamaliele "dottore della Legge, stimato presso tutto il popolo" (At. 5).

Nella prima comunità cristiana in Gerusalemme vigeva la comunione dei beni (At 4), che venivano affidati agli apostoli per la distribuzione a ciascun membro secondo i suoi bisogni. Nacque però presto un contrasto tra i giudei cristiani di lingua ebraica e quelli di lingua greca (gli ellenisti) circa l'assistenza quotidiana e quella alle vedove. I dodici (dove Mattia aveva preso il posto di Giuda) decisero allora di riservarsi l'apostolato, mentre affidarono il servizio delle mense e l'assistenza a "sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di sapienza" di origine ellenistica (come risulta dai loro nomi) tra i quali Stefano e Filippo (At 6). Siamo intorno all'anno 33.

 

Arresto e lapidazione di Stefano e dispersione degli ellenisti cacciati da Gerusalemme

Stefano si distingueva per la sua predicazione e compiva molti prodigi. Condotto in giudizio davanti al sinedrio con l'accusa, da parte di falsi testimoni, di bestemmie contro Mosè e contro Dio e di sostenere che Gesù avrebbe distrutto il Tempio, pronuncia un discorso in cui, partendo da Abramo, narra per sommi capi le vicende del popolo eletto citando i profeti e accusa Israele di ostinazione nell'infedeltà al Signore, di praticare un culto eccessivamente formale e di avere tradito e ucciso Gesù. Lasciato in mano al popolo viene lapidato nell'anno 34 e a questa lapidazione assiste un "giovane chiamato Saulo" (At 7).

Subito dopo questo fatto scoppiò una violenta persecuzione contro la Chiesa di Gerusalemme e tutti i cristiani, ad eccezione degli apostoli, furono cacciati dalla città. Tra i persecutori più accaniti troviamo Saulo (At 8).

I cristiani ellenisti disperdendosi per i territori vicini iniziarono l'opera di evangelizzazione fuori di Gerusalemme. Filippo (uno dei sette) diffonderà il Vangelo in Samaria, regione abitata da gente considerata eretica dai giudei e sarà protagonista della conversione e del battesimo di un ministro etiope (At 8).

 

La conversione di Saulo - Paolo e l'inizio della sua missione

Saulo sulla via di Damasco, dove si recava per arrestare cristiani, ebbe il famoso incontro che cambiò il corso della sua vita. L'episodio va collocato intorno al 34-35 ed è, quindi, successivo all'inizio dell'evangelizzazione fuori Gerusalemme ad opera degli ellenisti.

Ricordiamo che Saulo si era distinto nella persecuzione dei cristiani a Gerusalemme per il suo impegno, tanto da sollecitare l'incarico scritto dal sommo sacerdote per essere autorizzato a continuare la sua opera a Damasco (At 9,1-9: lettura).

Riparato in quella città privo della vista, perché era stato accecato cadendo dal cavallo, venne battezzato da Anania. A Damasco Paolo iniziò la sua predicazione ma fu costretto a fuggire e riparò a Gerusalemme dove Barnaba lo presentò a Pietro e agli altri apostoli, i quali lo accettarono fra loro dopo una prima perplessità a causa dei suoi precedenti di persecutore.

Paolo riprese la predicazione a Gerusalemme fra gli ebrei ellenisti (perché parlava greco) ma anche qui, minacciato di morte, fuggì a Cesarea e da qui a Tarso. Tra la vocazione di Paolo e il suo primo viaggio apostolico insieme a Barnaba intercorrono vari anni (cioè dal 34-35 circa al 45). Di questo periodo narra l'apostolo nella Lettera ai Galati in cui dice di essere stato prima in Arabia, poi a Gerusalemme (per consultare Cefa) e quindi nella regione della Siria e della Cilicia dove svolse attività di apostolato. Intanto Pietro aveva iniziato ad evangelizzare i pagani con la nota conversione del centurione Cornelio (..."timorato di Dio") e della sua famiglia a Cesarea (At 10).

Ad Antiochia gli ellenisti dispersi da Gerusalemme dopo la morte di Stefano iniziarono a convertire non solo i giudei, ma anche i pagani e lì fondarono la chiesa locale intorno all'anno 37. In quella città per la prima volta i seguaci della nuova fede saranno chiamati cristiani (At. 11,26).

Intorno all'anno 45 Agapo, un profeta venuto da Gerusalemme in Antiochia, predisse una grande carestia (probabilmente quella avvenuta negli anni 45-46) e chiese di inviare soccorsi che furono portati in Gerusalemme da Barnaba e Paolo.

Nell'anno 44 il re Erode Agrippa I conduce una violenta persecuzione contro i cristiani e fa decapitare l'apostolo Giacomo, fratello di Giovanni, e arrestare Pietro durante le celebrazioni pasquali. L'apostolo viene liberato miracolosamente da un angelo e si rifugia altrove. Fino all'anno 49 Pietro non è più citato negli Atti e ricompare a Gerusalemme in occasione della controversia sulla circoncisione e del Concilio che prese il nome di quella città. Si tratta del I Concilio della Chiesa che definì le condizioni per la conversione dei pagani senza l'obbligo di transitare attraverso il giudaismo.

 

 

 

Primo viaggio apostolico di Paolo

Paolo e Barnaba, ricevuto il mandato dello Spirito da parte dei capi della Chiesa di Antiochia, compirono una missione di evangelizzazione in Asia minore assieme a Giovanni Marco (loro aiutante) tra il 45 e il 48. Prima tappa è l'isola di Cipro dove inizia la predicazione nelle sinagoghe e dove avviene la conversione del proconsole romano Sergio Paolo. Sbarcano poi in Panfilia e operano a Perge. Qui Giovanni Marco li lascia e torna a Gerusalemme. Da Perge il viaggio prosegue per Antiochia di Pisidia dove Paolo pronuncia nella sinagoga il più lungo dei discorsi a lui attribuiti negli Atti. La violenta reazione dei giudei alla predicazione a alle molte conversioni fa decidere a Paolo e a Barnaba, che lo dichiarano apertamente, di voler privilegiare per l'avvenire la evangelizzazione dei gentili (At 13,44-46: lettura).

Scacciati da Antiochia, i due si recano ad Iconio dove operano altre conversioni tra giudei e pagani. Anche qui sfuggono alla reazione dei giudei e alla morte e si recano ad evangelizzare Listra e Derbe. Curioso è l'episodio accaduto a Listra (At 14) dove Paolo e Barnaba, dopo la miracolosa guarigione di uno storpio operata da Paolo sono scambiati dalla folla per degli dei e faticano molto ad impedire che venga loro offerto un sacrificio. Ritornano, quindi, ad Antiochia di Siria dopo aver costituito in varie città gruppi di anziani, organi collegiali di guida delle nuove comunità (at. 14,23).

 

Controversia sulla circoncisione e Concilio di Gerusalemme ( 49 d.C. )

Alcuni giudei recatisi ad Antiochia sostenevano che per diversi cristiani si dovesse prima sottostare alla circoncisione, all'osservanza del sabato e alle prescrizioni alimentari della Legge. Paolo e Barnaba si oppongono a questa opinione e vengono allora convocati con altri a Gerusalemme dove si dibatte il problema con gli apostoli e con gli anziani della comunità cristiana. Al termine del dibattito e della riunione, ai quali partecipa anche Pietro, che prendono appunto il nome di "Concilio di Gerusalemme", su proposta di Giacomo, fratello del Signore e nuovo capo della Chiesa locale, si decide che i pagani per essere convertiti non debbano sottoporsi alla circoncisione ma siano tenuti soltanto ad astenersi dalle carni offerte agli idoli, dal sangue, dagli animali soffocati e dall'impudicizia.

Questa decisione segna una totale apertura al mondo non giudaico e fa cadere un importante ostacolo alla conversione dei gentili, evidentemente non disposti ad accettare come prezzo per l'accesso al cristianesimo la circoncisione e altri obblighi estranei allo loro mentalità. (At 15,13-21).

 

Il Concilio di Gerusalemme può considerarsi l'atto conclusivo di un contrasto sorto tra i primi cristiani e principalmente nella chiesa madre di Gerusalemme, costituita dai giudei convertiti più tradizionalisti. A questo proposito dobbiamo risalire all'epoca della conversione del centurione Cornelio, operata da Pietro in Cesarea. L'apostolo prima di recarsi in Cesarea aveva avuto una visione in cui era invitato a superare le rigide norme della purità rituale dell'alimentazione (At 10,9 e segg.) e in cui cadevano le barriere tra il sacro e il profano, cioè tra Dio e i pagani. Questo è un primo elemento di rottura con il passato che induce Pietro ad orientarsi verso il superamento della separazione tra il mondo giudeo e quello dei gentili e ad accettare la conversione al cristianesimo anche dei pagani (At. 10,9 e segg.).

Ma Pietro ha dei momenti di incertezza dovuti proprio alla sua origine e ai forti legami con la comunità tradizionalista di Gerusalemme. Ed è costretto a giustificarsi davanti ai giudei convertiti di Gerusalemme, che gli rimproverano di essere entrato in casa dei pagani e di avere mangiato con loro.

Negli Atti (At 11,1-18) viene narrato l'episodio della giustificazione che Pietro dà del suo comportamento, tale da fare accettare ai presenti l'idea che anche i pagani possano convertirsi al cristianesimo. Ricordiamo anche un episodio che non è riportato negli Atti ma che ci viene descritto da Paolo nella Lettera ai Galati (Gal. 2,11-14: lettura) quando l'Apostolo accenna, in una sua nota autobiografica, al contrasto verificatosi tra lui e Pietro in occasione di una visita di quest'ultimo ad Antiochia. Qui Paolo dice: "Ma quando Cefa venne ad Antiochia, mi opposi a lui a viso aperto perché aveva torto. Infatti, prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo, egli prendeva cibo insieme ai pagani, ma dopo la venuta cominciò ad evitarli e a tenersi in disparte per timore dei circoncisi.E anche altri giudei lo imitavano nella simulazione, al punto che perfino Barnaba si lasciò attrarre nella loro ipocrisia. Ora, quando vidi che non si comportavano rettamente secondo la verità del Vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: "Se tu, che sei giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei giudei, come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei giudei?"". Paolo ricorda infatti a Pietro che egli in passato era stato senza imbarazzo a contatto con i pagani convertiti.

A proposito della circoncisione possiamo ricordare che questa pratica di carattere sostanzialmente igienico nei primi tempi del giudaismo era piuttosto diffusa tra i popoli mediorientali e non distingueva il popolo ebraico dai suoi vicini. Soltanto dai greci fu considerata un'usanza strana e piuttosto disgustosa, tanto che sotto Antioco IV Epifane (II secolo a.C.) fu duramente avversata e le madri che avevano fatto circoncidere i loro figli venivano messe a morte. Fu allora che la reazione dei Maccabei e la loro ribellione (negli anni dal 167 al 164 a.C.) conferirono a questo simbolo un nuovo significato, facendone un fatto fondamentale per chi desiderasse riconoscersi come ebreo.

 

Tornati ad Antiochia dopo il Concilio del 49, Paolo e Barnaba continuano la loro predicazione fino a quando Paolo decide di compiere il secondo viaggio missionario senza Barnaba perché questi voleva prendere con loro quel Giovanni Marco che li aveva lasciati durante il primo viaggio. A questo punto le strade dei due si dividono e Paolo prende con sé Sila (Silvano), mentre Barnaba con Giovanni Marco si reca a Cipro.

 

Coordin.
00domenica 18 novembre 2012 21:07

Il II viaggio

si svolge attorno agli anni 50-52 e attraverso la Cilicia, la Frigia, la Galazia e la Misia conduce Paolo al primo contatto con l'Europa, prima in Macedonia poi in Grecia. A Listra incontra Timoteo (pagano, ma figlio di una giudea e di un greco).

Per evitare polemiche con i giudei, poiché Timoteo per linea di discendenza materna era ebreo, lo fa circoncidere, lo battezza e lo costituisce suo stretto collaboratore.

Dall'Asia minore, dopo una visione, Paolo con i compagni si reca in Macedonia e raggiunge Filippi, città colonia romana dove il gruppo incontra una piccola comunità cristiana. A questo punto (At 16,10) inizia la narrazione al plurale, il che fa supporre che con Paolo vi fosse anche Luca autore degli Atti.

Arrestati, bastonati e rinchiusi in prigione, Paolo e compagni vengono liberati durante la notte per effetto di un terremoto e convertono il carceriere che viene battezzato con tutta la famiglia. Saputo che Paolo era cittadino romano e che la bastonatura inflittagli era illegittima perché non preceduta da un regolare processo, i magistrati del luogo liberarono l'apostolo e tutti i suoi compagni.

Il viaggio prosegue per Tessalonica (l'odierna Salonicco) e qui Paolo predica nella sinagoga e converte giudei e greci. Allontanatisi per timore di reazioni, l'apostolo e i compagni si rifugiano a Berea. Anche in questa città avviene una sollevazione che provoca la fuga di Paolo ad Atene, dove l'apostolo è raggiunto da Sila e Timoteo. In questa città Paolo discute nella sinagoga e nella piazza principale anche con filosofi stoici ed epicurei e tiene il famoso discorso dell'Areopago (collina di Ares, il dio della guerra, Marte per i romani).

Questo era il luogo più importante della città perché vi si radunava il consiglio supremo di Atene. Paolo apre il suo discorso facendo riferimento al Dio ignoto al quale gli ateniesi avevano dedicato un altare e dice: "Colui che adorate senza conoscere io ve lo annunzio" (At 17,23). Anche qui parla del giudizio finale e della risurrezione dei morti e ottiene la conversione di alcuni, ma provoca pure la derisione da parte di altri. Si reca poi a Corinto, fiorente città che si affaccia sui due mari, dove trova il giudeo cristiano Aquila e la moglie Priscilla, espulsi da Roma per effetto dell'editto di Claudio dell'anno 49, e presso di loro si ferma a lavorare come fabbricante di tende. Qui fonda la chiesa locale e opera molte conversioni trattenendosi per circa un anno e mezzo. Alcuni giudei lo accusano di predicare contro la loro religione; condotto in giudizio Paolo viene prosciolto dal proconsole di Acaia, Gallione. Da Corinto l'Apostolo raggiunge per via mare Efeso, poi Cesarea e, alla fine del viaggio, Antiochia di Siria.

 

 

Il terzo viaggio si svolge negli anni dal 53 alla primavera del 58.

Paolo attraverso la Galazia e la Frigia raggiunge Efeso. In quella città Paolo incontra anche dodici uomini che avevano ricevuto soltanto i battesimo di penitenza di Giovanni Battista, li battezza nel nome del Signore e impone loro le mani e"....scese su di loro lo Spirito Santo e parlavano in lingue e profetavano" (A 19,1-6)

L'apostolo si ferma a Efeso per circa due anni e mezzo svolgendo la sua missione scacciando gli spiriti maligni e operando guarigioni. Anche in questa città provoca la dura reazione dei giudei.

Efeso era un centro della magia, dove fioriva la vendita di libri magici e Paolo ne fa bruciare molti. Si inimica anche i fabbricanti delle statuette della dea Artemide, la vendita delle quali era molto diminuita per effetto della predicazione dell'apostolo. Ne consegue un grave tumulto di popolo e i compagni di Paolo, Gaio e Aristarco, vengono condotti in giudizio per profanazione del tempio di Artemide ma sono prosciolti. Paolo e compagni riprendono il viaggio per la Macedonia e successivamente per la Grecia, che l'apostolo è costretto a lasciare a seguito di un complotto dei giudei contro di lui.

Il viaggio di ritorno tocca la Macedonia e prosegue in Asia minore attraverso Troade dove resuscita un morto, Asso Militene e Mileto, con il programma di rientrare a Gerusalemme per il giorno di Pentecoste dell'anno 58. Paolo convoca gli anziani di Efeso e pronuncia il discorso di addio; sembra quasi consapevole della fine della sua attività missionaria e del destino che lo attenderà a Gerusalemme (At 20,17-36).

Il viaggio prosegue via mare per Cos, Rosi, Patara, Tiro e Tolemaide con approdo finale a Cesarea. A Tiro i discepoli tentano invano di dissuadere Paolo dal recarsi a Gerusalemme. A Cesarea l'apostolo incontra Filippo (uno dei sette ellenisti del gruppo di Stefano) e il profeta Agabo che gli predice quanto gli sarebbe avvenuto a Gerusalemme.

In questa città Paolo incontra Giacomo (fratello del Signore e capo della chiesa locale) e gli anziani della comunità, quali lo invitano a presentarsi in pubblico e a partecipare con altri giudei cristiani ai riti di purificazione per dimostrare la sua fedeltà alla Legge mosaica. Al termine dei sette giorni di questi riti alcuni giudei provenienti dall'Asia minore riconoscono l'apostolo e lo accusano di insegnare contro il popolo, la Legge e il tempio, e addirittura, di aver profanato il tempio stesso introducendovi alcuni greci.. Vi è un tentativo di linciaggio interrotto dai romani, che arrestano Paolo e gli consentono di parlare alla folla in aramaico e di narrare della sua conversione e della missione di evangelizzazione dei pagani affidatagli dal Signore. Alla violenta reazione degli uditori il tribuno fa condurre nella fortezza Antonia l'apostolo il quale, al momento della flagellazione, rivela la propria condizione di cittadino romano e chiede un regolare processo. Tradotto davanti al sinedrio, Paolo si dichiara fariseo e dice di essere stato "chiamato a giudizio a motivo della speranza nella risurrezione dei morti" (At 23,6). Questa affermazione è seguita da una disputa tra farisei e sadducei e provoca tra la folla un tumulto tale da indurre un tribuno a ricondurre Paolo nella fortezza. Qui all'apostolo appare il Signore che gli indica la necessità della sua testimonianza a Roma (At 23,10-11).

Poiché i giudei continuano a complottare per ucciderlo l'apostolo viene fatto condurre dal tribuno sotto buona scorta (addirittura 470 soldati) a Cesarea dal governatore Felice, con una lettera di accompagnamento. In questa città Paolo è sottoposto ad un nuovo interrogatorio davanti al governatore romano da parte del sommo sacerdote Anania e di alcuni anziani di Gerusalemme. Dalle solite accuse di profanazione del tempo e di sobillazione Paolo si difende molto efficacemente dimostrando di non essere colpevole dei fatti a lui imputati. Viene allora messo sotto custodia e in attesa di ulteriori decisioni, conservando una certa libertà di movimento.

Al governatore Felice subentra nell'anno 60 Porcio Festo e nel frattempo, per due anni (dal 58 al 60), l'apostolo rimane in prigione a Cesarea. I sommi sacerdoti e i capi dei giudei (At 25) tornano ad accusare Paolo e chiedono di sottoporlo ad un nuovo processo da celebrare a Gerusalemme, perché avevano intenzione di farlo uccidere durante il trasferimento da Cesarea, ma il governatore Festo fissa l'udienza in quella stessa città in cui Paolo era incarcerato. Di fronte alle solite accuse rivolte dai giudei giunti da Gerusalemme l'apostolo dichiara di non avere "commesso alcuna colpa né contro la Legge dei giudei, né contro il tempio, né contro Cesare (At 25,8), rifiuta di essere consegnato ai suoi accusatori e si appella a Cesare nella sua qualità di cittadino romano.

Festo, allora, decide di mandarlo a Roma per un nuovo processo. Prima della sua partenza per Roma Paolo viene ascoltato in giudizio anche dal re Agrippa e dalla moglie Berenice, ai quali Festo aveva esposto la situazione dell'apostolo. Ancora una volta Paolo nella autodifesa afferma la coerenza della sua fede di fariseo con quella dei padri e narra della propria conversione e dell'opera missionaria in modo così efficace che per poco non convince Agrippa a convertirsi.

 

 

 

Quarto viaggio

Nell'autunno dell'anno 60 Paolo parte per Roma imbarcato su una nave mercantile, affidato con altri prigionieri al centurione Giulio e a una scorta di soldati. Nello scalo a Sidone è autorizzato a incontrare alcuni amici. Nel porto di Misa il gruppo trasborda su una nave in partenza per l'Italia. La navigazione si fa difficile e viene effettuato uno scalo a Creta. Dagli Atti risulta che "era già passata la festa della Espiazione (Kippur)" (At 27) e che si va incontro a una tempesta e a un naufragio. Notiamo che la narrazione di Luca è molto efficace e precisa anche per la terminologia nautica. La nave incappa presto nel maltempo e a un certo punto va alla deriva. Paolo nel momento del pericolo esorta i compagni di viaggio a non perdere la speranza di salvarsi e rivela di avere avuto nel sonno l'apparizione di un angelo che gli assicura il suo arrivo a Roma per comparire davanti a Cesare. Dopo vari giorni di digiuno l'Apostolo esorta tutti i compagni di viaggio a prendere cibo e "Ciò detto, prese il pane, rese grazie a Dio davanti a tutti, lo spezzò e cominciò a mangiare. Tutti si sentirono rianimati e anch'essi presero cibo." (At 27,35-36).

Subito dopo la nave naufraga e Paolo e gli altri viaggiatori si salvano approdando all'isola di Malta dove gli abitanti li rifocillano. Ospitato da un certo Publio, definito negli Atti "il primo dell'isola", Paolo ne guarisce il padre e anche altri ammalati del luogo.

Ripartiti da Malta dopo tre anni, l'apostolo e i compagni proseguono il viaggio verso Roma con scali a Siracusa e a Reggio e, approdati a Pozzuoli, vengono ospitati per un certo periodo da alcuni cristiani del posto. Il viaggio prosegue per via terrestre e Paolo alle porte di Roma incontra alcuni cristiani al Foro Appio e alle Tre Taverne. Nella capitale gli vengono concessi gli arresti domiciliari con un soldato di guardia. Qui incontra i capi della comunità giudaica e spiega loro i motivi dell'arresto a Gerusalemme e del suo viaggio a Roma.

Nella città Paolo riprende quindi la sua missione operando molte conversioni e trascorre due anni (dal 61 al 63) nella casa in cui si trovava sotto custodia.

A questo punto cessa la narrazione degli Atti. Non è certo l'anno della morte di Paolo che secondo Tertulliano fu decapitato. Forse morì assassinato nel 63 o 64, ma secondo Eusebio di Cesarea (nella "Storia ecclesiastica") l'apostolo fu martirizzato nel 67/68 a Roma dopo aver fatto altri viaggi.

Si ritiene che in quest'ultimo periodo, che va appunto dal 63 al 67/68, Paolo si sia recato in Spagna, a Efeso, a Creta e in Macedonia e che abbia scritto la Prima Lettera a Timoteo, forse la Lettera a Tito, la Lettera agli Ebrei e la seconda Lettera a Timoteo.

Coordin.
00domenica 18 novembre 2012 21:09

Le lettere di San Paolo

 

 

Prima lettera ai Tessalonicesi

 

Prendiamo in considerazione le lettere di S.Paolo cominciando dalla prima lettera ai Tessalonicesi. Qualcuno dei presenti in uno dei libri da me proposti nella prima lezione, potrebbe trovare delle opinioni in parti discordanti da quelle che esporrò, poiché l'esegesi cattolica della Sacra Scrittura si presenta abbastanza variegata. Infatti, la Bibbia viene presa in considerazione da vari autori che appartengono a diverse scuole di pensiero. E ciò costituisce una sorta di preconcetto per molti che si accostano alla Sacra Scrittura. Per esempio, uno studioso della corrente strettamente storico-critica tenderà a considerare storicamente non fondato tutto ciò che non è chiaramente riconducibile ad una esperienza razionale. Di conseguenza i miracoli narrati nei Vangeli e negli Atti degli Apostoli verrebbero considerati delle "favolette" usate per dire che Dio è potente, che Dio Salva i suoi amici. Per questi autori l'episodio (il miracolo) sarebbe inventato, non corrisponderebbe necessariamente a un fatto storico.

Secondo altri studiosi, invece, non è possibile sostenere che un fatto non sia avvenuto semplicemente perché non riconducibile alla nostra ragione.

Dico tutto questo come premessa al nostro studio perché puo' darsi che alcuni degli autori da me citati nella bibliografia propongano un suddivisione delle lettere di S. Paolo diversa da quella che indicherò.

 

Certi esegeti pensano che solo alcune delle "Lettere" riportate nella Bibbia e attribuite a S. Paolo siano state scritte da lui, mentre le altre farebbero parte della c.d. pseudo-epigrafia. Si tratterebbe, cioè, di lettere attribuite a un personaggio illustre (che non le ha scritte) per dare loro maggiore importanza.

Io credo si possa sostenere che tutte le lettere ritenute di S. Paolo siano effettivamente riconducibili a lui, salvo la lettera agli Ebrei. Notiamo che anche nella liturgia questa lettera non viene indicata come "Lettera agli Ebrei di S. Paolo apostolo", ma se semplicemente come "Lettera agli Ebrei".

Di conseguenza nella suddivisione che vi propongo prendiamo in considerazione tutte le lettere attribuite a S. Paolo escludendo quella agli Ebrei.

 

I ° gruppo: le c.d. "lettere maggiori", cioè la lettera ai Romani, le due lettere ai Corinzi, la lettera ai Galati e le due lettere ai Tessalonicesi

 

II° gruppo: le "lettere della prigionia", ossia le lettere ai Colossesi, agli Efesini, ai Filippesi e a Filemone

 

III° gruppo: le "lettere pastorali", ossia le due lettere a Timoteo e la lettera a Tito.

 

Tutte risultano scritte tra il 50-51 e il 65-66 e occupano, quindi, lo spazio di circa quindi anni nella vita dell'apostolo.

 

Potremmo chiederci: perché S. Paolo scrive? Perché, per una finalità essenzialmente apostolica, vuole comunicare a distanza con alcune comunità per aiutarle a risolvere i problemi sorti al loro interno.

Allora gli scritti di Paolo hanno uno scopo molto pratico e - a differenza di tante lettere dell'antichità - non sono né un esercizio letterario né uno sfoggio di bella scrittura e neppure la semplice espressione di pensieri nobili. E, per appartenendo a un genere letterario ben preciso (genere epistolare), non sono delle vere e proprie epistole (le quali erano una specie di trattazione in cui - ad esempio - un problema morale veniva affrontato in una forma quasi di esposizione dottrinale) e nemmeno vere e proprie lettere (che avevano una forma più confidenziale in quanto generalmente indirizzate a un amico). A questo secondo genere letterario appartiene un famoso scritto di S. Ambrogio a S. Felice, vescovo e fondatore della Chiesa di Como. E' il tipico esempio di una lettera fra amici.

In S. Paolo questi due generi (epistola e lettera) si mischiano, coesistono sempre. Le sue sono contemporaneamente lettere ed epistole che non scadono mai nella trattazione dottrinale fatta dal maestro, ma hanno sempre una notazione personale. In esse i riferimenti personali sono numerosi e sempre è presente il cuore di Paolo.

Quando l'apostolo parla di Cristo non fa mai un'esposizione dottrinale, ma parla di "qualcuno" che ha nel cuore e che conosce bene. In tutte le sue lettere S. Paolo mischia il "personale", cioè le sue vicende, con la trattazione di tipo morale e teologico. E notiamo che questi due aspetti sono presenti sempre nelle sue lettere, di solito già negli esordi, talvolta anche negli epiloghi.

 

Lettura: Lettera ai Romani 1,1-7, l'esordio della lettera.

In questo brano troviamo una cristologia completa e, insieme, una storia personale: l'apostolo - che è tale per vocazione - inizia subito con una trattazione completa - che sgorga dal cuore - su Gesù Cristo.

Una annotazione interessante: Paolo era ebreo e tale resta anche se parla il greco e inventa un nuovo modo di presentare il Vangelo.

 

Abbiamo detto negli anni precedenti che il saluto greco caire ("stai bene"), termine che nella Bibbia assume il significato di "rallegrati" (Lc 1,28). E' il saluto messianico per eccellenza.

Nel brano appena letto al v. 7 alla parola "grazia" ((caris) è unita la parola ebraica "pace" (shalom); "grazie e pace" (caris e eirene in greco). Allora, questo ebreo prende dalle due culture i due concetti più belli, cioè la "grazia", che è sovrabbondante amore di Dio che si riversa su di noi, e la "pace" che viene dal Signore. Ecco, uno stupendo saluto cristiano che è greco ed ebraico nello stesso tempo: grazia e pace.

 

S. Paolo nelle lettere ha uno stile personalissimo. Sapeva molto bene il greco ma non aveva interesse a scrivere un'opera letteraria in quanto i suoi scopi erano assai concreti. Egli adopera un modo di esprimersi talvolta contorto, cambiando spesso argomento. Per rendere meglio il suo pensiero sovente è costretto ad unire - secondo un suo criterio personale - delle preposizioni a sostantivi e a verbi, come ad esempio nell'espressione "con-morire con Cristo" per esprimere il senso dell'unione profonda che dobbiamo avere con Cristo.

E', quindi, un autore da affrontare con attenzione e con cautela, anche perché S. Paolo attribuisce a volte a dei vocaboli greci un significato diverso da quello loro proprio. Ad esempio la parola dicaiusüne che in greco vuol dire "giustizia" ed è usata come termine giuridico, per Paolo significa "la benevolenza di Dio".

 

Notiamo anche che nelle lettere sono presenti dei semitismi, cioè dei termini derivati dall'ebraico e dall'aramaico, la lingua in uso fra gli ebrei di Palestina.

 

Cominciamo l'esame delle lettere paoline con la prima lettera ai Tessalonicesi.

Come abbiamo già visto durante la studio dei Vangeli, un'opera di questo tipo è sempre contestualizzata in una certa comunità. Così Matteo nel suo Vangelo riporta molte citazioni vetero-testamentarie perché la sua opera era destinata ai giudeo-cristiani che avevano bisogno di considerare Gesù come senso ultimo delle profezie.

 

Tessalonica (l'odierna Salonicco), capitale della Macedonia, era una città notevole per importanza politica e, soprattutto, economica, in quanto possedeva uno dei porti più grandi del Mar Egeo. Era situata lungo la "Via Egnazia" che collegava - attraverso Durazzo - l'Italia con il Bosforo e l'Oriente. In quella città cosmopolita era presente una forte comunità ebraica. e, in particolare, una grande varietà di religioni, insieme a culti misterici legati alla magia e provenienti principalmente dall'Egitto e dall'Oriente.

 

Tessalonica era stata fondata nel 315 a.C. dal generale Cassandro in onore della moglie Tessaloniché, sorella dell'imperatore Alessandro Magno.

 

Paolo qui inizia a rivolgersi ai pagani, dopo aver predicato per alcuni giorni - inascoltato - nella sinagoga agli ebrei. Vedremo in seguito che la comunità cristiana di Tessalonica si qualificherà come la prima comunità formata esclusivamente da pagani convertiti o, se vogliamo, da cristiani provenienti dal paganesimo, con tutte le possibili conseguenze sui costumi e sulla moralità completamente diversa da quella dei giudei. A Tessalonica Paolo si ferma per un breve periodo (3-4 mesi) in quanto viene cacciato dal popolo sobillato dagli ebrei.

Immaginiamo la condizione psicologica dell'apostolo, il quale è costretto a fuggire abbandonando la comunità cristiana appena costituita proprio nel momento in cui inizia una persecuzione.

 

 

E' possibile dividere la lettera in quattro parti:

I vv. 1,1-10: l'esordio e un saluto;

II vv. 2,1-3,13: la rievocazione personale, in cui Paolo racconta le sue vicissitudini e i suoi spostamenti;

III vv. 4,1-5,22: le esortazioni e gli ammaestramenti, cioè la parte dottrinale vera e propria ;

IV vv. 5,23-28: l'epilogo, stupendo, della lettera.

 

Affido alla lettura personale la seconda parte.

 

 

Lettera di 1 Tessalonicesi 1,1-10

Vediamo subito che è necessario sottolineare alcuni elementi perché risultano espressi meglio nella lingua greca.

L'esordio della lettera ci rivela:

1 - chi è l'apostolo;

2 - quali sono le caratteristiche della comunità di Tessalonica.

 

1 - Notiamo innanzi tutto che Paolo si esprime al plurale indicando come apostoli se stesso, Silvano e Timoteo, uno dei primi vescovi.

L'apostolo è

a) un uomo di comunione, che sa - quindi - collaborare con gli altri;

b) colui che ringrazia Dio (v. 2) per la fede della comunità.

Ecco, anche noi dobbiamo ringraziare il Signore per la fede presente nella nostra comunità, per tutte le persone che vi si impegnano o che la frequentano anche solo saltuariamente;

c) colui che prega per la comunità perché sa che è necessario il sostegno di Dio (per chi nasce, per chi muore, per coloro che si avviano al matrimonio, per chi è nel dubbio...);

d) colui che ha dei fratelli. Infatti, Paolo non ha discepoli ma solo collaboratori e dei fratelli amati dal Signore;

e) colui che annuncia il Vangelo, da intendere in senso etimologico di "buona notizia"

E' diffuso un significato non esatto del termine "Vangelo". In proposito consiglio un testo molto valido del Segalla dal titolo "Il Vangelo e i Vangeli". Prima dei Vangeli c'è il Vangelo.

Secondo una interpretazione deformata della parola, si ritiene che il Vangelo coincida con i Vangeli, cioè con un insieme di norme soprattutto di comportamento. Ma non è così, perché il Vangelo è, prima di tutto, la buona notizia, l'annuncio che "qualcuno" ci ha salvato morendo per noi. E', cioè, l'annuncio della salvezza. E Paolo intende proprio questo;

f) un uomo che agisce disinteressatamente sempre e solo per il bene della comunità.

Nella seconda parte della lettera leggerete delle belle espressioni al riguardo, come in 2,5-7. Teniamo quindi presente che Paolo ricerca solo il bene della comunità anche, se necessario, con dei sacrifici.

 

 

La comunità

Viene nominata nel v. 1 del cap. 1: la chiesa di Tessalonica.

Qual è il significato della parola "chiesa" (ekklesía), quasi sconosciuta nei Vangeli?, quasi sconosciuta nei Vangeli?

Sappiamo che compare solo 3 volte nel Vangelo di Matteo; 20 volte nell'Apocalisse; 23 volte negli Atti degli Apostoli; 4 volte nelle lettere apostoliche e ben 62 volte nelle lettere di S. Paolo.

Ciò significa che l'apostolo quasi reinventa questo termine con un significato molto più ricco di quello attribuitogli nell'Antico Testamento, dove compare nella traduzione (dall'ebraico al greco) dei "settanta".

Sappiamo che quando gli ebrei si disperdono nel mondo greco la lingua ebraica rimane nell'uso liturgico, mentre la lingua greca viene adottata nell'uso sinagogale e normale con la conseguente necessità della traduzione, appunto in greco, dei testi biblici.

Vi ricordo che la traduzione ufficiale; quella a cui ci si riferisce nel mondo ellenistico, è la Bibbia dei " settanta" - studiosi che hanno, appunto, curato la versione dell'Antico Testamento dall'ebraico al greco -.

 

Ekklesía deriva da due termini greci, che poi formano una parola sola, ek kaléo che significa "chiamo fuori". E la Chiesa è "chiamata fuori" da qualcuno che l'ha scelta. Dai greci la parola Ekklesía era adoperata per definire l'assemblea popolare di uomini liberi. che avevano diritto di voto quando si trattavano gli affari della polis (città). E ciò costituisce un annuncio sconvolgente per gli schiavi.

Quando S. Paolo scrive: "Qui non c'è più greco o giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti (Col 3,11) è come se dicesse: tu povero schiavo, oppresso da tutti, adesso fai parte di una ekklesía di uomini liberi; liberi perché liberati da Cristo.

 

Ancora: la versione dei "settanta" traduceva con ekklesía ed anche con sünagoghé (la sinagoga) la parola ebraica ka-ahal-Yahve (il popolo di Dio). Quindi il significato, che S. Paolo ha mutuato dalla Bibbia in lingua greca, del termine ekklesía è certamente "il popolo di Dio".

 

Nella prima lettera ai Tessalonicesi leggiamo (2,14); "...siete diventati imitatori delle chiese di Dio...", e questa espressione torna spesso in S. Paolo. E ciò fa pensare agli interpreti che l'apostolo abbia assunto un concetto fondamentale dell'ebraismo apocalittico dell'epoca: ekklesía tu Zeù (la Chiesa di Dio) corrisponderebbe a ka-ahal-El (e sappiamo che El è un modo per indicare Dio).

Questa espressione era usata nei filoni dell'apocalittica ebraica non per indicare il popolo di Dio, ma per definire la schiera dei salvati nel giorno del giudizio; cioè la Chiesa di Dio era costituita sa un gruppo più ristretto rispetto al popolo. Quindi, Ka-Ahal-El (ossia "il popolo di Dio") va inteso nel senso più restrittivo e significa "gli eletti", "i salvati".

 

 

Teniamo presenti tutte queste definizioni pur sapendo che nessuna di essere corrisponde pienamente al significato che S. Paolo attribuisce a ekklesía. La Chiesa è chiamata da Dio nel mondo ma fuori dal mondo.

 

La Chiesa per S. Paolo ha una dimensione universale che si riconduce necessariamente a una dimensione locale. Quelle che noi chiamiamo oggi "chiesa universale" e diocesi" (cioè la chiesa particolare che incarna l'universale) hanno un fondamento in S. Paolo. E la diocesi non è una realtà puramente organizzativa, ma fa parte dell'essere della Chiesa, in quanto non si ha Chiesa se questa non è collocata in un determinato luogo. E tutte le Chiesa di determinati luoghi formano la grande Chiesa di tutto il mondo.

Inoltre, la Chiesa - anche locale - diventa "Chiesa domestica". Per il nostro apostolo il radunarsi vero, autentico, fondante della Chiesa si ha nella liturgia. Quando si prega celebrando l'Eucarestia si è veramente Chiesa.

Sappiamo che l'Eucarestia nasce in una dimensione domestica, nella domus (la casa), nella casa di gente cristiana che ospita la comunità che si riunisce. Allora si comprende come mai in una comunità - ad es.. quella di Corinto - ci possano essere più chiese. Tutte, però, si riconducono all'unica Chiesa. E proprio la riunione della comunità per celebrare l'Eucarestia - e su questo insisto - costituisce il momento fondante della Chiesa.

 

 

 

V lezione

Prima lettera ai Tessalonicesi - continuazione

 

Nella lezione precedente abbiamo evidenziato alcune caratteristiche dell'apostolo; caratteristiche presenti anche al cap. 2 che avevo affidato alla vostra lettura.

 

Nella disamina del cap. 1 ci siamo soffermati sul termine qualificante ekklesía che noi usiamo tradurre con "chiesa", e abbiamo visto i diversi significati che questa parola puo' assumere, anche se nessuno di essi puo' considerarsi esauriente.

 

Lettura cap. 1,3

Qui compaiono tre virtù (che Paolo riprenderà altre volte), le virtù teologali: fede, speranza e carità. Chi ha partecipato la scorsa estate al viaggio ad Assisi ricorderà che nel Palazzo pubblico - il Comune - di Siena, nell'allegoria del buon governo sono rappresentate queste tre virtù, come a significare che il buon governo non ne puo' prescindere.

Il testo greco è più espressivo rispetto alla versione della "Bibbia di Gerusalemme" e, seguendo la traduzione letterale, il v. 3 va così letto: "...memori davanti a Dio e Padre nostro dell'opera della vostra fede, della fatica dell'amore e della pazienza della vostra speranza...".

Nessuno sostenga che amare è facile, perché, invece, amare è faticoso: qualche volta costa davvero tanta fatica. E, poi, sottolineamo la pazienza della speranza. Senza pazienza non si ottiene nulla. La pazienza è importante e consiste nel sapere attendere i frutti. Ricordiamo, ad esempio, il libro "La pazienza del contadino" di don Bruno Maggioni, che prende spunto da un brano del Vangelo di Marco in cui si parla del contadino che, dopo aver seminato, torna a casa ad attendere che dal seme cresca la pianta.

 

Lettura del v. 4, nel quale scopriamo che i fratelli (adelfoi) della comunità di Tessalonica sono "amati da Dio" ed "eletti (scelti) da lui".

Siamo ben lontani dal discorso della predestinazione in quanto noi non siamo scelti per andare automaticamente in paradiso, ma perché il Signore ci fa una proposta di santità. E noi ci guadagnamo la nostra santità in questa vita.

Ecco, allora, il senso delle opere secondo il quale le opere buone non costituiscono una presunzione di salvezza (è stato proprio ora scritto un documento congiunto fra protestanti e cattolici sulla giustificazione). Le opere buone non sono una pretesa per salvarci da soli ma semplicemente la risposta a una chiamata, a una scelta che Dio ha operato su di noi e per noi. Ci ha scelti perché noi diventiamo santi e portiamo la santità nel mondo. Di conseguenza le opere buone hanno un contesto molto più ampio e non sono fine a se stesse, come quelle compiute dai farisei. Allora noi siamo predestinati non alla gloria ma a una proposta di salvezza, che ci viene offerta lungo un cammino di santità.

Coordin.
00domenica 18 novembre 2012 21:10

Lettura cap. 1,6-7

Imitare il Signore e gli apostoli significa subire tribolazioni e persecuzioni anche quando si è accolta con qualche gioia (ecco l'obbedienza gioiosa) la "Parola", cioè la volontà di Dio (Vedremo nella lettera ai Galati che la gioia, secondo S. Paolo, è uno dei doni dello Spirito).

Lo Spirito Santo ci aiuta ad accettare con gioia la volontà del Signore. E ci ricordiamo subito della perfetta letizia di S. Francesco e soprattutto di quel "fioretto" che la descrive così bene.

Molti dei malati che visito mi stupiscono perché posseggono spesso una serenità che può essere definita come perfetta letizia. Si tratta dell'accettazione piena della volontà divina.

Allora, una comunità che mantiene la gioiosa adesione al Signore diventa modello per tutte le altre.

 

Lettura del v. 9

Una annotazione fondamentale di Paolo: la comunità di Tessalonica è formata interamente da greci pagani che si sono allontanati dagli idoli e sono arrivati al Dio vivo e vero, a Yahve (con tutte le conseguenze).

 

Lettura del v. 10

Appare importante per la comprensione delle parti successive della lettera.

Notiamo che in questa prima presentazione Gesù viene indicato come "l'atteso....che ci libera dall'ira ventura". Una sottolineatura particolare: quella di Cristo è un'attesa escatologica, cioè l'attesa di un futuro che sta per realizzarsi, in cui Gesù morto e risorto torna per liberarci..

 

Lettura cap. 4,1-8

Una prima annotazione: le norme che l'apostolo ribadisce provengono dal Signore e non sono, quindi, opera di S. Paolo.

Soffermiamoci sul termine "santificazione" - in greco,aghiasmòs - che coincide con la volontà di Dio che vuole per noi la santificazione. Ci si santifica facendo la volontà di Dio che è l'origine della santificazione. E, nello stesso tempo, è volontà divina tutto quell'insieme di norme, di proposte e di consigli ai quali aderiamo per aumentare la nostra santificazione.

Il fine della santificazione è il riposo in Dio.

 

In questa prima parte del capitolo Paolo si complimenta con la comunità di Tessalonica e afferma che può ancora migliorare. L'espressione "per distinguervi ancora di più" letteralmente andrebbe tradotta "per sovrabbondare ancora di più" dal termine greco perisseüo (sovrabbondo). Il Signore ci stimola continuamente affinché ciascuno di noi dia il massimo.

 

La volontà di Dio, ossia la santificazione, la si realizza attraverso due aspetti:

I - astenersi dall'impudicizia

S. Paolo usa il termine greco porneía che significa essenzialmente

1 - adulterio

2 - prostituzione

3 - lussuria.

Teniamo presente che l'apostolo scrive a una comunità di pagani convertiti da pochi mesi, che vive in una città portuale, cosmopolita, situata sull'importante via Egnàzia, i cui costumi non potevano essere certamente rigidi e nella quale era presente un'idea pagana della sessualità, sicuramente un po' diversa da quella ebraica e anche da quella cristiana.

 

Per quale motivo Paolo raccomanda di astenersi dalla porneía? Per un motivo bellissimo, e però ancora parziale, che sarà poi ripreso e sviluppato in altre lettere: "...che ciascuno sappia mantenere il proprio corpo con santità e rispetto, non come oggetto di passioni e di libidine, come i pagani che non conoscono Dio..." (vv. 4 e 5). L'apostolo non usa la parola greca sõma (corpo) ma skeüs che letteralmente significa "vaso".

Qualche studioso, come il Barbaglio, attraverso un parallelo con l'aramaico, ritiene che Paolo stia intendendo non il corpo di ciascuno, ma la donna, in quanto il termine greco in secondo significato può voler dire "attrezzo" o "strumento". E' un'affermazione che io non condivido.

Ritengo, invece, che sia molto bella l'intuizione del "vaso" per indicare il corpo e che ciò costituisca un primo momento di inculturazione. Il definire il corpo come un vaso si fonda sul presupposto che il vaso debba contenere qualcosa: l'anima e il corpo. Questo concetto costituisce un primo approccio all'idea (siamo in un ambiente culturale dualistico, da questo punto di vista) che l'uomo abbia un "contenitore" (nel quale c'è l'anima) che - ecco la novità cristiana - va mantenuto con "santità e rispetto".

In altre parole Paolo afferma che il corpo (il contenitore) è tempio dello Spirito Santo.

Vorrei farvi notare che ci troviamo in presenza di un approccio culturale adeguato ai destinatari della lettera.

E "...che nessuno offenda e inganni in questa materia il proprio fratello..." (v. 6) perché quanto scritto non proviene da una dottrina umana ma dal Signore. Pertanto si finirebbe inevitabilmente per disprezzare non l'uomo ma Dio stesso che - come recita il v. 8 - "...vi dona il suo Santo Spirito...". Potremo intendere che il dono dello Spirito serve a far comprendere meglio a dei pagani che il corpo è degno di rispetto; ma queste parole potrebbero anche costituire già un riferimento al nostro corpo in cui lo Spirito Santo abita.

Ecco la portata rivoluzionaria dell'invito di Paolo; invito che non è suo ma proviene da Dio stesso. In una situazione culturale e di fatto molto antitetica a questo precetto, i pagani convertiti sono chiamati ad astenersi dalla porneía.

 

E' facile trovare, a questo proposito, agganci con il presente: noi cristiani che stiamo a fare nel mondo? I nostri ragazzi che maestri hanno? Il primo maestro della porneía è la TV, seguita dalla stampa pornografica (vedi le edicole). Il significato del corpo inteso secondo S. Paolo viene del tutto a mancare. E, poi, ci si meraviglia della presenza così diffusa della prostituzione dietro la quale ruota un enorme giro di affari. E' triste annotare che tutto ciò avviene perché non ci sarebbe offerta se non ci fosse domanda;

 

II praticare l'amore fraterno, cioè la filadelfía - Lettura dei vv. 9-12

Appare significativo che Paolo ad un certo punto della lettera scriva: "voi stessi infatti avete imparato da Dio ad amarvi gli uni gli altri..." In altre parole: i Tessalonicesi sono stati istruiti da Dio stesso. La carità, quindi, è diretta infusione dello Spirito Santo senza necessità d'insegnamento.

A questo proposito ripensiamo a quei passi di Geremia e di altri profeti in cui si dice: Io inciderò una legge nuova nel vostro cuore e non più su tavole di pietra.

Lo Spirito vi infiamma con il suo fuoco - scrive l'apostolo - e, poiché il vostro primo istruttore è il Signore, diventa per voi una necessità l'amare.

 

Leggiamo al v. 11 "...lavorare con le vostre mani....", un'espressione che può sembrare strana che serve come passaggio alla parte successiva del brano. Alcune persone della comunità di Tessalonica non volevano lavorare. E ciò era un fatto grave.

 

Lettura cap. 4,13-18 e cap. 5,1-3

A Tessalonica probabilmente la predicazione di Paolo appariva piuttosto apocalittica, tale da fare ritenere che stessero arrivando i tempi ultimi.

Dopo la morte e la risurrezione di Gesù si credeva prossimo il tempo della salvezza e, quindi, bisognava essere pronti. Ecco, allora, che nella comunità tessalonicese alcuni pensavano che i tempi ultimi fossero così imminenti da ritenere non più necessario lavorare. Contava soltanto prepararsi alla fine. Si trattava evidentemente di un disimpegno totale fondato su una escatologia errata.

S. Paolo chiarisce le idee a costoro affermando che:

1 - nessuno conosce né il giorno né l'ora;

2 - quando questo fatto avverrà non saranno trascurati coloro che sono già morti in Cristo.

Appare chiaro che si tratta di una comunità che non ha ancora ben sviluppata l'idea della risurrezione dei morti.

In questo brano San Paolo comincia a mettere a punto la dottrina della risurrezione: prima risorgeranno i morti in Cristo che non saranno, quindi, esclusi dall'incontro con il Signore; poi toccherà ai vivi.

 

Ma era proprio convinto l'apostolo che fossero ormai prossimi i tempi ultimi?

Inizia quindi un grande dibattito. S. Paolo che scrive al plurale e afferma: "...noi che viviamo e che saremo ancora in vita..." era proprio convinto che mancasse poco tempo all'arrivo del Signore? Oppure, usando una figura retorica, si chiedeva, tanto per fare un esempio: saremo ancora vivi in quel giorno?.

Certamente dalla lettura delle altre lettere si desume che Paolo non aveva alcuna intenzione di incontrare il Cristo mentre era ancora in vita. Lo scopo delle sue parole è un altro: l'apostolo vuole tenere desta nella comunità di Tessalonica la vigilanza. Il Signore può venire da un momento all'altro, ma non ha senso smettere di lavorare e di svolgere le normali attività perché - tra l'altro - ciò costituirebbe una pessima testimonianza per i non cristiani.

 

Qualche volta, a ragione, la nostra religione è stata vista un po' come fautrice di un disimpegno terreno. Anche oggi, ad esempio, alcune sette e certi gruppi protestanti, quando sentenziano sull'arrivo imminente del Signore, inducono al disimpegno. Quando si sottolinea troppo la felicità futura a scapito di quella terrena si può indurre ugualmente al disimpegno. Probabilmente quando S. Paolo afferma tutto questo ha già fatto l'esperienza di Atene.

 

Lettura del cap. 5,4-11

L'arrivo del giorno del Signore non può arrecare alcun danno a chi vive nella luce e ha capito chi è il Dio vivo e vero. E noi abbiamo la possibilità di difenderci con la fede, la speranza e la carità.

Notiamo che S. Paolo raggruppa la fede e la carità usando un ardito paragone militare (v. 8), ma pienamente iscritto nel mondo romano e, soprattutto, greco perché cita due armi difensive dei soldati di allora, la corazza (la fede e la carità) e l'elmo (la speranza).

Ci si può chiedere: ma le armi difensive dei soldati di questo tempo non erano tre, comprendendo anche lo scudo?. Ma quest'ultimo era usato anche come arma offensiva dalle fanterie pesanti greche, perché la parte superiore dello scudo (che era affilata) in caso di necessità serviva per tagliare la testa al nemico. L'apostolo adopera queste espressioni in quanto si rivolge ai Tessalonicesi, abituati a battaglie in cui si usavano sia armi difensive che armi offensive e difensive assieme.

 

 

Lettura vv. 12 e segg.

I "preposti" di cui si parla nel v. 12 erano persone istituite per aiutare i neo-convertiti con una specie di catechesi.

Dal v. 14 si evince che la comunità di Tessalonica era costituita anche da fratelli indisciplinati, pusillanimi e deboli (come nelle nostre comunità). E questa era la chiesa degli Atti degli Apostoli che non va assolutamente idealizzata.

 

L'ultimo brano che leggiamo questa sera sarebbe da scrivere a lettere d'oro nelle nostre case:

"Guardatevi dal rendere male per male ad alcuno; ma cercate sempre il bene tra voi e con tutti. Siate sempre lieti, pregate incessantemente, in ogni cosa rendete grazie; questa infatti è la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi.... Il Dio della pace vi santifichi fino alla perfezione.... Colui che vi chiama è fedele...." (vv.15-28).

 

Probabilmente fra i cristiani di Tessalonica erano presenti certe manifestazioni che poi rivedremo nella chiesa di Corinto. Il parlare le lingue e i carismi - anche un po' strani - suscitati dallo Spirito non erano ben accetti. Inoltre non erano tenuti nella dovuta considerazione i profeti, persone che non predicevano il futuro ma aiutavano a leggere correttamente il presente (il Nuovo Testamento).

E, allora, San Paolo invita ad esaminare "ogni cosa" con attenzione e a ritenere solo "ciò che è buono". Ecco, la prudenza nella quale la Chiesa è maestra ancora oggi. 

Coordin.
00domenica 18 novembre 2012 21:12

Seconda lettera ai Tessalonicesi

 

Lettura del cap. 1 vv.1-2. Indirizzo.

Questa lettera è stata scritta pochissimo tempo dopo la prima (ca. 3-4 mesi) e non sembra proprio che sia stata redatta - come sostiene qualche studioso - dopo la morte di S. Paolo. Secondo costoro ci troveremmo di fronte a un classico caso di pseudo-epigrafia, cioè al lavoro di un autore anonimo che firma il proprio scritto con il nome di un altro, come l'apostolo, per conferirigli autorità.

Questa opinione si fonderebbe, ad esempio, sulla constatazione che la seconda lettera, a differenza della precedente, contiene poche annotazioni personali.

E' facile obiettare che rientra nella normalità il fatto che una persona possa usare uno stile diverso nella stesura delle varie lettere, a seconda delle differenti circostanze in cui esse sono scritte o delle persone alle quali vengono indirizzate.

 

Io ritengo che la seconda lettera sia stata scritta pochi mesi dopo la prima che aveva suscitato un po' di scalpore, in quanto Paolo vi aveva sostenuto che l'arrivo del Signore andrebbe potuto sorprendere i fratelli come un ladro di notte. Di conseguenza si era diffusa l'idea che il Signore sarebbe potuto arrivare anche in quei giorni.

Nella comunità di Tessalonica era presente qualcuno - che non sappiano identificare - che fomentava l'opinione dell'imminente fine del mondo con scritti falsi attribuiti allo stesso apostolo. Ecco, il motivo per cui il tono della seconda lettera è molto più deciso rispetto a quello della precedente, in quanto si trattava per Paolo di recuperare con energia una situazione che stava degenerando. Infatti, in pochi mesi il volto della comunità tessalonicese era cambiato. Molti cristiani sembravano degli invasati.

Nella seconda lettera l'apostolo riprende con vigore a sostenere la necessità del lavoro, anche in considerazione del fatto che probabilmente i nulla-facenti erano i fomentatori del disimpegno legato all'idea dell'imminente fine dei tempi. E con costoro Paolo usa espressioni durissime.

La calunnia, specialmente contro le persone, è un'erba che, purtroppo, attecchisce quasi sempre nella comunità in cui circolano lettere false e in cui viene diffusa l'idea della fine del mondo ormai vicina; è "piegato" a questo intento perfino lo Spirito Santo (i carismi). Abbiamo ricordato che a Tessalonica erano presenti persone che parlavano "in lingue" (fenomeno esistente anche oggi), che possedevano, cioè, il dono di parlare lingue sconosciute, le lingue dello Spirito. In questo caso occorreva che nella comunità fossero disponibili altre persone che avessero il "controdono" di tradurre queste lingue ai fratelli. E su tale necessità probabilmente speculavano gli invasati, i quali, fingendo di parlare per bocca dello Spirito, proclamavano l'imminente fine del mondo.

Certe manifestazioni che compaiono ancora ai nostri giorni, come le profezie formulate dai Testimoni di Geova - e non avveratesi - , sono esempi del millenarismo ancora diffuso. Ricordiamo come attuale anche la profezia attribuita falsamente a Padre Pio e che circolava la scorsa estate anche a Sondrio, secondo la quale nel luglio di quest'anno sarebbe avvenuta la fine del mondo. Tra l'altro era proprio il momento in cui il presidente degli Stati Uniti, Clinton, aveva dato al presidente yugoslavo, Milòsevic, come termineultimo per arrendersi il mese di luglio, perché in caso contrario la guerra sarebbe stata totale. Per smentire ufficialmente l'infondatezza della notizia era dovuto intervenire il Postulatore della causa di beatificazione dichiarando che nel testamento di Padre Pio non era contenuta alcuna profezia di quel tipo.

 

Considerato che la situazione della comunità di Tessalonica era molto grave, San Paolo interviene come correttore e come difensore della fede dei "deboli", cioè di coloro che potevano essere facilmente irretiti.

E la difesa dei deboli nella fede costituisce un compito fondamentale anche nostro.

Quando Gesù nel Vangelo dice di non dare scandalo ai "piccoli" non si riferisce ai bambini, ma ai "piccoli nella fede", ai deboli nella fede, i quali di fronte a un cristiano che si comporta male si scandalizzano e perdono la propria fede. Quindi, l'apostolo vuole correggere ma, soprattutto, salvaguardare la fede proponendo, tra l'altro, la solita grande pedagogia dell'"ora et labora", che significa "prega e opera". In tal modo la nostra fede sarà autentica. In pratica si tratta della traduzione nella vita quotidiana del precetto "ama Dio e il prossimo".

 

 

Suddivisione della lettera

a) 1,1 - 12 : introduzione

b) 2,1 - 12 : parte dogmatica

c) 2,13 - 3,15 : parte parenetica (cioè esortativa)

d) 3,16 - 18 : epilogo.

 

Abbiamo letto prima l'indirizzo perché vi ritornano le parole "grazia e pace" già sottolineate all'inizio e alla fonte della prima lettera ai Tessalonicesi. Abbiamo anche notato che nell'espressione usata da Paolo compaiono insieme due saluti, l'ebreo shalom (pace) e il greco caris (grazia), che vengono fusi nel saluto cristiano "grazia e pace".

Proprio al v. 2 della seconda lettera leggiamo la stessa formula, "grazia a voi e pace".

 

Soffermiamoci, ora, sul concetto di pace.

Noi, forviati da tanti anni di conflitti e di pacifismo, siamo inclini a pensare che la pace coincida con l'assenza di guerra. Invece, un ebreo quando diceva "shalom" intendeva tutta un'altra cosa.

Nella Bibbia - e soprattuto in S. Paolo - la pace è il bene escatologico, potremmo dire il paradiso già conseguito o che inizia ad essere conseguito. Allora, pace equivale a salvezza che comprende uno stato interiore e comunitario con una prospettiva divina. E' salvezza; è dono di Dio. Quindi risulta inconcepibile nella Bibbia la pace senza Dio. Teniamo presente questo concetto anche per valutare alla luce della Sacra Scrittura tanti movimenti c.d. "pacifisti" che predicano la pace e gettano le bombe "Molotov" contro la Polizia.

La pace, che è salvezza, è una situazione di gioia assoluta e di serenità che trova l'origine e il compimento in Dio. Questa è shalom e eirene secondo S. Paolo. E l'uomo ha un ruolo di annunciatore e di collaboratore nella realizzazione della salvezza e della pace.

Ecco, allora, il lavorio continuo dell'uomo per costruire ovunque la pace favorendo il perdono, la riconciliazione e la mitezza, che sono atteggiamenti tipici dei forti e non dei deboli.

Nel concetto biblico la pace è inscindibile dall'unità che costruiamo fra noi. Di conseguenza la pace diventa l'essere tutt'uno col Padre, come lo è stato Gesù. Inoltre noi diventiamo un'unica cosa con i nostri fratelli e con le nostre sorelle.

 

Abbiamo presente il capitolo eucaristico (cap. 6) del Vangelo di Giovanni - "La moltiplicazione dei pani" - nel quale è contenuta un'annotazione splendida (v. 56): "Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui". La pace si sviluppa con l'Eucarestia.

Notiamo in Paolo una connotazione particolare: la pace è, prima di tutto, la riconciliazione tra Dio e l'uomo salvato dalla morte di Gesù. Vediamo, però, che il Signore compie sempre il primo passo. E questa situazione di "salvati" realizza la vera libertà. Infatti colui che ha la pace nel cuore, perché l'ha ricevuta da Dio, è l'uomo libero davvero. Certo, si tratta di una pace che va perseguita, mantenuta e curata come un bene prezioso che proviene dal Signore.

 

Lettura 2,1-12 - La parte dogmatica.

Si tratta di un brano molto forte e, per certi versi, misterioso.

Abbiamo già evidenziato le difficoltà della comunità cristiana di Tessalonica (come le lettere false, l'uso improprio di carismi, ecc.). Ora, San Paolo afferma nella sua lettera che prima dell'arrivo del Signore compariranno dei segni premonitori. E noi sappiamo che tutti i vangeli sinottici hanno una parte apocalittica. Noi scegliamo di leggere un brano di Luca che ci pare il più affine alla teologia di Paolo.

 

Lettura di Luca 21,5-28

L'arrivo del Figlio dell'uomo non dovrà costituire un momento di terrore per i discepoli di Gesù, perché a loro è detto: "...alzatevi e levate il capo perché la vostra liberazione è vicina " (v. 28).

Dobbiamo prendere alla lettera tutto ciò e considerare come presagio i recenti disastri della natura (tifoni, terremoti, inondazioni, ecc.) che hanno causato molti morti?. O come il famoso terremoto atteso da tempo in America e che dovrebbe distruggere completamente S. Francisco in California, oppure la grande onda anomala che dovrebbe sommergere una parte dell'Australia?

Nel brano appena letto abbiamo notato che Luca usa la letteratura allora in voga, quella dei segni cosmici. Ci sarà una realtà sconvolgente, perché avverrà la ricapitolazione della creazione.

Gli eventi cosmici preparavano nell'Antico Testamento le teofanie (le manifestazioni di Dio). Ricordiamo il famoso episodio di Elia, al quale Dio si manifesta non attraverso il fuoco, il fulmine o l'uragano, ma con la voce di un "silenzio leggero": il Signore era in quel silenzio.

Tutti gli eventi descritti da Luca sono il preludio letterario alla manifestazione divina. E, infatti, il brano si conclude con l'annuncio dell'arrivo del Figlio dell'uomo "...su una nube con potenza e gloria grande" (v. 27).

Si nota una differenza notevole con Paolo che nel cap. 2 della seconda lettera al v. 3 scrive: "Prima infatti dovrà avvenire l'apostasia e dovrà essere rivelato l'uomo iniquo, il figlio della perdizione.....".

Chi è questo personaggio, che Giovanni nella sua prima lettera chiama l'anticristo?

Anzitutto, non è il diavolo. Infatti leggiamo al v. 9 del cap. 2 che l'iniquo è colui "la cui venuta avverrà nella potenza di satana (o, meglio tradotto, in virtù di satana). Quindi non può essere satana.

Chi è questo personaggio che viene definito anche "il figlio della perdizione"? L'appellativo è riferito nel Vangelo di Giovanni a un uomo: Giuda Iscariota.

Proviamo ora a cercare nel libro dell'Apocalisse dove al cap. 13 (lettura vv.1-10) si parla della bestia che non coincide con il dragone (satana). Ma le bestie sono due.

 

 

Lettura Apoc 13,11-18

Il brano appena letto appare come uno dei più aderenti alla storia. La spiegazione è abbastanza ovvia: la prima bestia non è un uomo ma una istituzione, l'impero romano. Tanto è vero che se applicassimo il n° 666 al nome della bestia ne deriverebbe, secondo l'alfabeto ebraico, la parola lateinos (latino) e, secondo l'alfabeto greco il termine teitan (titano) che era uno degli appellativi dell'impero romano. Ricordo in proposito che nell'antichità ad ogni lettera dell'alfabeto corrispondeva un numero o viceversa.

 

La seconda bestia incarna tutto l'apparato religioso e propagandistico legato all'impero romano, che raggiunge il suo apice quando proclama divinità la dea Roma e dio l'imperatore vivo. E queste due divinità dovevano essere riconosciute in tutto l'impero. La propaganda romana si basava proprio su ciò per realizzare l'unità dell'impero. Infatti tutti i sudditi - pur nella diversità delle religioni di appartenenza - dovevano riconoscersi nell'adorazione dell'imperatore e della dea Roma.

 

Ecco, allora, le due bestie: da una parte l'istituzione imperiale e dall'altra tutto l'apparato propagandistico di cui i sacerdoti facevano parte notevole e che serviva come base per il potere della prima bestia (l'imperatore).

Abbiamo già detto altre volte che questo tipico brano dell'Apocalisse si può applicare a tutta la storia, a molti regimi totalitari che contrastano Gesù Cristo e, servendosi di un apparato propagandistico, svolgono il ruolo delle due bestie.

Da una parte abbiamo le prefigurazioni cosmiche (guerre, ecc.) e dall'altra l'avvento di un simbolo che non è la persona (Hitler o Stalin), ma caso mai il nazismo o il comunismo che si erge come contrapposizione a Gesù Cristo.

 

 

VII lezione

Seconda lettera ai Tessalonicesi - continuazione

 

Avevamo terminato l'ultimo incontro leggendo il brano dell'Apocalisse che riguardava la prima e la seconda bestia. Avevamo anche fatto delle considerazioni sulla prima lettera di Giovanni che parla dell'anticristo.

Almeno nell'Apocalisse l'identificazione delle due bestie risulta abbastanza facile: l'impero romano con la sua struttura politico-militare (la prima bestia) e la propaganda soprattutto a livello religioso (la seconda bestia che è al servizio della prima). Il valore delle due bestie trascende quel determinato momento storico perché queste si riproporranno, di volta in volta, con sembianze diverse ma con uguale sostanza nel corso di tutta la storia.

 

Nella seconda lettera ai Tessalonicesi appare praticamente impossibile identificare "l'uomo iniquo, il figlio della perdizione", cioè la persona che dovrà contrastare il Cristo, anche perché non sappiamo nemmeno se si tratta effettivamente di una persona. Significativamente S. Paolo per indicare (in lingua greca) questo "essere" usa dapprima il genere neutro e successivamente il genere maschile. Non sappiamo neppure se sia una persona o un'istituzione o un ideale negativo.

Tanto per fare un esempio un paragone con la realtà odierna, potrebbe trattarsi del mito della scienza o di un mito moderno - come il progresso - con la funzione di contrastare il Cristo.

Se vogliamo restare nel campo delle istituzioni e dei movimenti del nostro secolo possiamo pensare al nazismo, e al comunismo nei modi in cui si è realizzato nei vari Stati (come si realizza ancora ad es. in Cina).

Certamente è una realtà che si oppone al Signore, totalmente votata al male, ma - anche - una realtà perdente perché alla fine il Cristo trionferà.

Ricordiamo la logica dell'Apocalisse, un libro non di sciagure ma di speranza e di consolazione. Sappiamo inoltre che i testi apocalittici sono scritti in genere quando una comunità è perseguitata per invitarla a non temere in quanto Dio vincerà. Il giorno di Jahve arriverà a purificare tutto e di conseguenza gli stolti e gli empi avranno una certa sorte e i fedeli un'altra.

Notiamo uno stravolgimento: il personaggio misterioso della lettera di Paolo tenderà a sostituirsi a Dio e pretenderà per sé l'adorazione dovuta al Signore. Sarà, cioè, un qualcosa che stravolgerà completamente l'ordinamento normale sia del singolo che delle comunità, tanto da andare di pari passo con quella realtà estremamente negativa che è l'apostasia.

 

In proposito rileggiamo la seconda lettera ai Tessalonicesi 2,1-4 che parla dell'apostasia, cioè del rifiuto cosciente dell'alleanza con Dio, del rinnegamento della propria religione per aderire o meno a un'altra.

Un problema rilevante oggi è quello del battesimo dei bambini. Secondo alcuni, battezzando i piccoli non facciamo altro che "fabbricare" degli apostati, cioè delle persone che, arrivate ad una certa età, rinnegheranno la propria religione non per aderire

ad un'altra ma per passare all'ateismo pratico, ormai abbastanza diffuso. Qualcuno, allora, si domanda se non sarebbe meglio tornare all'uso della Chiesa primitiva - che ancora è diffuso nelle missione - battezzare soltanto gli adulti. In fondo quest'idea corrisponde alla proposta di alcune parrocchie della nostra diocesi di fare la professione di fede dopo aver ricevuto alcuni anni prima la cresima. L'età per questo atto solenne non è stabilita necessariamente; comunque non è consentita prima dei diciotto anni.

 

Teniamo presente che, secondo S. Paolo, dovrà "avvenire l'apostasia" la quale, comunque, nella letteratura apocalittica, a partire da Daniele, costituisce sempre una realtà che anticipa la vittoria di Dio. In ogni caso, all'apostasia si contrappone una fedeltà al Signore; cioè, alcuni lasceranno e rinnegheranno mentre altri resteranno fedeli.

E' il famoso tema del "resto d'Israele" (ossia di quel gruppo di persone che resteranno fedeli a Dio anche nella persecuzione), che abbiamo incontrato varie volte lo scorso anno leggendo i testi dei profeti.

A proposito della fedeltà nelle persecuzioni ripensiamo alla letture stupende del "Libro dei Maccabei", che abbiamo ascoltato nelle Messe degli scorsi giorni.

 

Lettura di 2,5-7

A chi sta alludendo San Paolo in questo brano? Chi è la persona o la realtà che trattiene il mistero dell'iniquità (che pure è già in atto) dall'esprimersi pienamente?

I commentatori si sbizzariscono nelle ipotesi. Alcuni sostengono che si tratta della fede stessa dei Tessalonicesi, in questo caso, e dei cristiani, in generale. Per altri studiosi è Cristo stesso a trattenere la piena manifestazione dell'anticristo. Ricordiamo che anche nell'Apocalisse è Dio che stabilisce i tempi del suo potere e dell'iniquità, che non è autonoma ma soggetta a un certo controllo.

Di conseguenza possiamo dire ben poco su questa entità anche perché probabilmente si tratta di una "cosa" ben contestualizzata nella comunità cristiana di Tessalonica. Infatti Paolo scrive al v. 6: "E ora sapete ciò che impedisce la sua manifestazione, che avverrà nella sua ora". Forse, se conoscessimo il contenuto della predicazione di Paolo ai Tessalonicesi, potremmo comprendere a quali fatti egli si riferisce. Per noi il mistero dell'iniquità rimane impenetrabile. Lo stesso S. Agostino sostiene che non si può dare una interpretazione ragionevole a questi versetti. Quindi, sia per quanto riguarda l'anticristo (termine mutuato da Giovanni e non da Paolo) sia per quanto riguarda ciò o colui che lo trattiene non sappiamo nulla.

Per fare una sintesi: sicuramente arriverà il giorno del Signore e sarà anticipato dalla rivelazione del mistero dell'iniquità che porterà a un'apostasia. E, però, tutto il mistero dell'iniquità sarà trattenuto da qualche cosa e da qualcuno.

 

Lettura vv. 13-14 che contengono una bellissima proclamazione della Trinità.

 

Facendo un bilancio delle due lettere ai tessalonicesi potremmo affermare con certezza che in esse vengono proclamate la resurrezione dei morti e la venuta ultima di Cristo (parusia) e questi sono dogmi di fede. E la parusia avrà dei segni premonitori.

 

Nelle due lettera esaminate, accanto al messaggio teologico (l'indicazione della resurrezione dei morti e la venuta ultima di Cristo), sono presenti tante indicazioni morali che dovrebbero restare anche in noi. I contenuti della fede non possono mai essere disgiunti dalla vita, altrimenti saremmo dei dissociati, perché si sarebbe creata in noi una frattura che non ci permetterebbe più di essere discepoli di Cristo. San Giacomo condenserebbe tutto in due parole: fede e opere. Teniamo inoltre presente che le lettere di S. Paolo riguardano una Chiesa che cresce.

Infine, come dicevamo all'inizio del corso, seguiamo proprio l'ordine cronologico nella lettura delle lettere dell'apostolo per vedere anche l'evoluzione del suo pensiero e il cammino di una Chiesa fondata circa vent'anni prima. Si trattava di creare tutto un modo nuovo di pensare, di sentire e di agire. E S. Paolo aveva davanti a sé un'opera immane da compiere.

Coordin.
00domenica 18 novembre 2012 21:21

Prima lettera ai Corinzi.

 

Corinto, definita da Cicerone "totius Graeciae lumen" ("luce di tutta la Grecia"), era una città di grande splendore che sorgeva su un istmo tra due mari. Dotata di un grande porto, collocata in un punto strategico, ricca e cosmopolita era famosa per la sua depravazione, tanto è vero che nell'antichità dire "ragazza di Corinto" era un'offesa perché l'espressione equivaleva a "prostituta". Addirittura era stato inventato il verbo corinziazestai che voleva significare "vivere come i Corinzi", cioè scostumatamente.

Questa è la città con la quale si incontra Paolo.

 

A Corinto si trovano grandi opere artistiche e la tomba di Laide, famosa prostituta, collocata - che contraddizione! - a fianco della tomba di Diogene, filosofo cinico che viveva completamente nudo in una botte e non possedeva alcun bene. (Il nome dei filosofi "cinici" derivata dai cani [künes] randagi. Secondo costoro l'uomo doveva liberarsi da tutti i legami politici, sociali, familiari e vivere in uno stato di anarchia)

Sulla collina che dominava Corinto si ergeva il famoso tempio di Afrodite pandemòs (di tutto il popolo) e lì esercitavano il loro sacerdozio mille prostitute sacre. Qui si verificavano situazioni che non avvenivano in alcun'altra comunità, tra cui un incesto tranquillamente tollerato anche dai cristiani del posto.

 

La città venne rasa al suolo dai romani nel 146 a.C. e ne rimase solo un cumulo di macerie per un centinaio d'anni. Corinto fu poi ricostruita nel 44 a.C., ancora più splendida e più ricca, e nel 27 a.C. Augusto, da poco diventato imperatore, la costituì capitale dell'Acaia (Grecia) favorendone un ulteriore forte sviluppo.

 

San Paolo, arriva a Corinto dopo il fallimento della sua missione ad Atene. Ha lasciato la città della cultura, dove aveva discusso con i filosofi, e giunge nella città della lussuria. Immaginiamoci, allora, quali fossero a Corinto gli interlocutori dell'apostolo, sicuramente da ricercarsi tra i ceti più bassi della società (piccoli artigiani, schiavi, ecc.). In un primo momento Paolo è solo, senza Sila e Timoteo.

 

Leggiamo 2,1-5 per comprendere lo stato d'animo dell'apostolo quando giunge a Corinto. Nel discorso pronunciato da Paolo davanti ai filosofi in Atene (e riportato negli Atti degli Apostoli) scopriamo una particolare perfezione oratoria e una grande sapienza umana. A Corinto, invece, l'apostolo è talmente scornato dall'esperienza negativa di Atene da poter esclamare soltanto queste parole:"...Gesù Cristo; e questi crocifisso." (v.2)

Non c'è sapienza umana, non c'è discorso arzigogolato, dice Paolo, perché io sono venuto soltanto ad annunciare il Cristo crocifisso e non con sublimità di parole, ma con timore e trepidazione. L'apostolo ha compreso l'inutilità dello sfoggio di cultura (come ad Atene) e la necessità, invece, di agire come Cristo con semplicità e con umiltà.

 

Allora, a Corinto Paolo arriva con questo atteggiamento interiore, da solo, senza i compagni ed incontra i coniugi Aquila e Priscilla, i quali - come già visto nell'inquadramento storico - erano fuggiti da Roma a seguito dell'espulsione di tutti i giudei, disposta dall'imperatore Claudio.

Tale notizia ci viene fornita dallo storico Svetonio il quale scrive che Claudio aveva espulso gli ebrei "Cresto impulsore tumultuantes" (che tumultuavano dietro l'impulso di Cresto). Sul nome di Cresto si è verificata anche in passato una vivace discussione, in quanto alcuni studiosi ritenevano che questo nome fosse frutto di un errore dei copisti e si dovrebbe leggere "Cristo".

Recentemente è stato scoperto in quello che era stato il ghetto ebraico di Roma che "Cresto" era un nome abbastanza diffuso all'interno della comunità ebraica. E' possibile quindi che esso non sia da riferirsi a Gesù.

 

I coniugi Aquila e Priscilla ospitano Paolo anche perché come l'apostolo erano fabbricanti di tende. Non sappiamo, però, se per "fabbricante" si intendesse chi realizza manualmente le tende oppure colui che procura il materiale per fabbricarle. Teniamo presente che San Paolo doveva comunque appartenere a famiglia benestante, che poteva permettersi di inviarlo da Tarso a Gerusalemme per studiare in una delle scuole più prestigiose.

 

Paolo predica in sinagoga, converte alcuni personaggi in vista all'interno della sinagoga stessa, si trattiene a Corinto per un anno e mezzo, e poi viene denunciato e processato davanti al proconsole romano Gallione, fratello del famoso filosofo stoico Seneca.

Lasciata Corinto, l'apostolo si reca a Efeso da dove invia la prima lettera ai Corinzi, attorno probabilmente all'anno 55. A Efeso Paolo si trattiene circa tre anni (54-57).

A Corinto dopo la partenza di Paolo si verificano nella comunità cristiana gravissimi abusi di carattere morale.

 

Lettura 5,9-13

Questi versetti ci dicono, innanzi tutto, che l'apostolo aveva già scritto una lettera nella quale aveva dovuto rimproverare la comunità perché al suo interno non facevano abbastanza leva sulla moralità cristiana. Probabilmente tale lettera era stata male interpretata, nel senso che era parso che Paolo avesse chiesto ai cristiani di non mischiarsi con la gente che faceva il male al di fuori della comunità. L'apostolo era, forse, arrivato ad usare espressioni così dure ("...neanche mangiare insieme" - v.11 -) in quanto la situazione della comunità di Corinto era assai difficile.

Vedremo, in seguito lo sviluppo del pensiero di Paolo che non intende escludere i peccatori ma aiutarli a capire la gravità del loro peccato. E' questa la funzione pedagogica e medicinale della pena. Infatti, ogni pena ha una funzione pedagogica d'insegnamento sia per la persona che la subisce sia per gli altri. Anche la scomunica inflitta dalla Chiesa ha più senso pedagogico che punitivo.

 

Paolo affronta un problema interno alla comunità dicendo: voi siete uomini che hanno ricevuto la Spirito (pneüma) quindi non potete continuare a comportarvi da uomini carnali, cioè da pagani, ma dovete ricominciare a vivere da cristiani.

Si tratta, purtroppo, di un problema sempre attuale: tante persone battezzate non vivono da cristiani.

La scomunica per l'aborto - che è una delle più diffuse - ha proprio la funzione di richiamare la persona sulla gravità del gesto compiuto. Certo si tratta di una scomunica non pronunciata ("latae sententiae") che scatta automaticamente nel momento in cui viene compiuto il gesto. Anche gli ecclesiastici sono soggetti alle pene canoniche come la scomunica; pene che vengono revocate dopo la ritrattazione e l'impegno a vivere secondo la fede cattolica. Sono noti i recenti casi di un teologo dello Srì Lanka e di un vescovo francese i quali, dopo essere stati scomunicati, stanno ora compiendo un cammino di riavvicinamento alla Chiesa.

La "Congregazione per la dottrina della fede" è la custode della tradizione cattolica e verifica se una posizione teologica sia conforme o meno alla stessa tradizione. Mi ricordo, a questo proposito, di Henry de Lubac al quale papa Pio XII tolse l'insegnamento a causa delle sue idee troppo avanzate e che diventò, poi, uno dei teologi fondamentali del Concilio Vaticano II. E Giovanni Paolo II lo ha recentemente nominato cardinale. Costui ha scritto un bellissimo libro che vi consiglio: "Meditazioni sulla Chiesa", grande manifestazione di fede, espressa proprio mentre la Chiesa gli aveva tolto ogni incarico.

Ricordo anche le vicende di tanti Santi, come Teresa d'Avila, che subirono le persecuzioni dell'Inquisizione ma che rimasero fedeli alla Chiesa e proseguirono imperterriti nella loro opera.

 

 

VIII lezione

Prima lettera ai Corinzi - continuazione

 

La lettera è composita in quanto presenta vari argomenti, non necessariamente con una connessione logica. Probabilmente mentre Paolo sta scrivendo la lettera che prende in esame diverse questioni, soprattutto quella riguardante le divisioni interne alla comunità di Corinto, arrivano proprio da quella città alcuni cristiani a proporre ulteriori problemi molto concreti, dei veri e propri interrogativi.

E, allora, alla lettera originaria vengono aggiunte dall'apostolo le risposte alle varie domande che riguarderebbero:

1) il rapporto tra matrimonio e verginità. Per il cristiano ha ancora senso sposarsi? oppure deve vivere in un'altra dimensione?

2) l'uso delle carni immolate agli idoli, cioè i famosi "idolòtiti". Infatti, succedeva che una parte delle carni degli animali sacrificati venisse ceduta ai macellai per la vendita. Il problema per un cristiano era sapere se fosse possibile cibarsi di quelle carni senza commettere un peccato di idolatria.

3) Il comportamento da tenere nelle assemblee liturgiche.

4) iI modo per celebrare degnamente l'Eucarestia non solo da un punto di vista esteriore. In particolare, quali requisiti interiori era richiesti per l'accesso all'Eucaristia?

5) E, per ultima, si pone la questione dei carismi.

 

 

Schema della lettera:

1^parte 1,10-6,20 che contiene le indicazioni per la correzione dei disordini che si erano verificati nella comunità di Corinto. Questa sarebbe la lettera che Paolo voleva effettivamente scrivere prima dell'arrivo di alcuni cristiani da Corinto.

2^parte 7,1-15,58 con le proposte di soluzione di quesiti posti dagli inviati della comunità di Corinto.

 

Ovviamente troviamo anche l'introduzione (1,1-9) e l'epilogo (16,1-18).

 

 

Questa bellissima lettera ci presenta una Chiesa in cammino, che si trova di giorno in giorno ad affrontare nuovi problemi. E proprio in queste pagine si trovano le basi per noi, oggi, che abbiamo tante situazioni nuove, comunque diverse, da affrontare.

 

Non sarà possibile commentare tutta la prima lettera di Paolo ai Corinzi, ma solo delle parti che trattano alcuni fondamentali problemi.

Lettura 2,6-16

(Ricordo che la parte precedente, che ho affidato alla vostra lettura personale, è stupenda e fra le più citate).

Il discorso prende l'avvio dal cap. 1 v. 23: "...noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo fra i giudei, stoltezza per i pagani...", il quale potrebbe sembrare un poveraccio, un pazzo, uno stolto agli occhi degli uomini ma, invece, è la sapienza e la potenza di Dio.

Una precisazione: "uomo naturale" va letto "uomo psichico" secondo una traduzione più esatta (v.14).

 

Lettura 3,1-5

Esaminiamo alcune questioni che emergono dai brani letti.

Soffermiamoci subito subito sul termine "perfetti", in greco "teleioi". Quando si parla di "perfetti" vengono subito in mente Cristo, i Santi, Dio stesso, ma, anche, tutte le eresie, soprattutto quelle di matrice gnostica. Infatti, le comunità gnostiche avevano come caratteristica comune la presenza dei "perfetti", cioè di coloro che avevano ricevuto la piena rivelazione (ricordiamo a questo proposito i manichei e i valdesi).

I "perfetti" hanno avuto una rivelazione specifica e approfondita e quindi sono in grado di comunicarla a chi vogliono.

Pensiamo - sempre a questo proposito - ai gruppi esoterici, che spesso sconfinano nelle magia, che vanno di moda ancora oggi e che si basano su una supposta rivelazione ricevuta da qualcuno.

 

Potremmo porci una prima domanda: San Paolo sta per caso fondando una nuova setta gnostica? Sappiamo che la gnosi (dal greco gnosis=conoscenza) è stata definita la madre di tutte le eresie, cioè di tutte quelle dottrine che hanno travisato il cristianesimo.

Innanzi tutto, che intende la Bibbia quando parla di "perfetti"? Intende persone adulte nella fede, cioè persone con una conoscenza profonda di Dio (potremmo dire i "mistici"); una conoscenza alla quale uniscono una vita esemplare. I mistici diventano santi quando vivono la carità. Questa è la perfezione, la santità per la Bibbia già nell'Antico Testamento.

Il "perfetto", allora, è colui che conoscendo Dio lo "vive" nella sua vita quotidiana. I comandamenti del Signore sono per lui pane quotidiano. Vediamo che questa definizione elimina già tutta quella parte di sapienza e di conoscenza fine a se stessa.

La "sofia" (sapienza) non è la conoscenza teorica, ma è la penetrazione nei misteri di Dio che si traduce necessariamente nella vita di ogni giorno.

Se noi intendiamo questo brano come espressione di una polemica di San Paolo nei confronti dei Corinzi che si ritenevano "perfetti" e "uomini pneumatici" (pneuma=spirito), che si ritenevano i più bravi, allora il discorso dell'apostolo ci sembra comprensibile.

 

Paolo scrive ai Corinzi: "...non ho potuto parlare a voi come a uomini spirituali, ma come a esseri carnali, come a neonati in Cristo. Vi ho dato da bere latte, non un nutrimento solido, perché non ne eravate capaci. E neanche ora lo siete, perché siete ancora carnali..." (3,1-3).

L'apostolo fa risaltare ancora di più la cosa, in quanto sostanzialmente sostiene di essere un "perfetto" e di non aver potuto comunicare ai Corinzi le cose dello Spirito, perché aveva di fronte "gente piccola".

 

Allora, domandiamoci: chi è colui che rivela? Chi permette all'uomo di arrivare ad essere "pneumatico", ossia di possedere una conoscenza di Dio che si traduce in vita concreta?. Evidentemente colui che si chiama "pneuma" cioè lo Spirito. Attraverso lo Spirito noi possiamo conoscere Cristo crocifisso. Infatti, il mistero della croce, della sofferenza amorosa di Dio si può conoscere soltanto se si è "spirituali". Altrimenti ci si perderà in mille rivoli. Anche se si dovesse intuire a livello intellettuale il "centro", non si riuscirà ad accogliere nel proprio cuore Cristo crocifisso, "scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani".

Questa tematica è ampiamente esposta nei Vangeli ed è rivolta non alle folle, ma - soprattutto - ai discepoli.

 

Lettura di Mc 8,27-33

Al v. 29 troviamo il centro del Vangelo di Marco, il momento della svolta definitiva e decisiva: "Tu sei il Cristo".

Sappiamo che questo era un Vangelo per i catecumeni, nel quale viene svolta un'opera pedagogica molto bella, che porta gradualmente il lettore ad entrare nel mistero di Cristo. Il lettore scopre che quest'uomo un po' strano che opera dei miracoli, che comanda persino alle potenze del male, è il Cristo, cioè il Messia.

D'altra parte il Vangelo di Marco inizia con un versetto emblematico: "Inizio del Vangelo di Gesù Cristo, figlio di Dio".

Marco conduce il lettore alla conoscenza - in successione - di Gesù, di Cristo (dal cap.8) e, sotto la croce, del figlio di Dio.

 

v. 33 - La traduzione "lungi da me..." dell'espressione greca "üpaghe opíso mu" ha completamente travisato il pensiero di Marco. Infatti, la versione letterale è "vai dietro a me" e non "lontano da me". Pietro è uscito dalla via del Signore ma deve rimettersi al suo seguito.

Il testo italiano errato risente evidentemente della traduzione latina dal greco "vade retro", in quanto "retro" significa sia "dietro" che "lontano". Quest'ultimo termine non ha alcuna base nell'originale greco.

 

Tutto ciò può essere messo in relazione con l'inizio del Vangelo di Marco dove al cap. 1 vv.16-17 (lettura) è scritto:"Seguitemi e vi farò diventare pescatori di uomini" (v.17). Il testo greco dice: "deüte opíso mu", cioè 'venite dietro di me". E la parola "opíso" (dietro) qualifica i discepoli.

 

Il cap. 8 del Vangelo di Marco non segna solo il momento del cambiamento della figura di Gesù in Cristo, ma anche del cambiamento del ruolo di Pietro che riceve una seconda vocazione (v. 33): "vieni dietro a me".

 

Ho sottolineato l'errore della traduzione per significare come sia importante il testo originale greco, ma anche per dimostrare le difficoltà di Pietro nell'accettare la croce. Infatti, egli rimprovera Gesù ed esce dalla sua strada proprio a causa di quella croce.

 

Lettura di Mc 14,3-9

Ecco, la famosa unzione di Betania nella versione di Marco.

Guardiamo l'interpretazione che Gesù attribuisce al gesto della donna che gli versa sul capo l'olio profumato proprio in prossimità della Passione: è un anticipo della sua sepoltura.

 

Lettura di Mc 14,10

Giuda, dopo il gesto della donna, va a consegnare Gesù ai sommi sacerdoti. Vediamo che anche Giuda non accetta la croce e la morte di Gesù; non giudica il suo maestro meritevole di essere creduto.

Zeffirelli nel suo film "Gesù di Nazareth" sembra dare un'interpretazione plausibile della figura di Giuda Iscariota indicandolo come zelota, cioè come un appartenente a quel movimento che riteneva che il Messia dovesse cacciare dalla Palestina i dominatori romani.

 

Anche nei Vangeli appare evidente da parte dei discepoli la resistenza alla croce, alla morte, a un Cristo crocifisso.

Lettura di Giovanni 13,1-11 - La lavanda dei piedi.

Coloro che hanno frequentato il corso sul vangelo di Giovanni ricorderanno che non vi si racconta un semplice episodio di lavanda dei piedi perché, altrimenti, difficilmente si spiegherebbe un inizio così solenne del brano.

L'evangelista ci aveva già abituato all'uso del termine "ora" che corrisponde all'evento della morte in croce. Come mai, allora, Gesù dice che è arrivata la sua ora e poi lava i piedi ai discepoli? La lavanda dei piedi - come del resto l'ultima cena - costituisce l'anticipazione simbolica dell'offerta totale di Cristo, del servizio totale da Lui reso all'umanità (la sua morte).

Ecco, il rifiuto di Pietro: non vuole accogliere la croce, il gesto estremo di servizio di Gesù. Siamo in un clima di non accoglienza e di lì a poco apparirà Giuda, come già nel cap. 6 di Gv.

 

Lettura di Gv 6,60-71

Ci troviamo anche qui in un clima di non accoglienza riguardo al discorso del pane di vita.

In questo brano compare per la prima volta Giuda, che agirà durante l'ultima cena. La croce costituisce un grande problema e si può comprendere soltanto se si riceve la rivelazione gratuita e graziosa (nel senso di proveniente dalla grazia). Lo Spirito Santo ci permette, poi, di mettere in pratica la rivelazione ricevuta.

 

Ecco, dove si trova la base della prima lettera ai Corinzi. Da qui prendono lo spunto tutte le argomentazioni morali di Paolo il quale dice che per il cristiano il vivere in un certo modo non costituisce il frutto di un comandamento, di una imposizione esterna, ma è un comportamento del tutto naturale perché la legge di Cristo è scritta nel suo cuore.

 

Se stiamo su un piano di pura razionalità, di ragionevolezza umana (traduciamo così la "psiche") tutto ciò non si può comprendere; Gesù resterebbe, al massimo, un benefattore dell'umanità. Invece, il figlio di Dio, crocifisso per amore, non è uno degli uomini più grandi che siano esistiti ma il Cristo morto e risorto per amore.

E lo Spirito ci fa capire tutto questo.

 

 

 

 

IX lezione

Prima lettera ai Corinzi - continuazione

 

Mi riallaccio alla lezione precedente per parlare di alcuni problemi suscitati per tanti secoli dalla prima lettera ai Corinzi e, in particolare, del rapporto tra matrimonio e verginità.

Ci ricordiamo di quanto già detto a proposito dell'uomo pneumatico, dell'uomo psichico e dell'uomo carnale.

Una constatazione: S. Paolo non sta parlando ad una comunità composita (cioè a gente in parte cristiana e in parte pagana) per cui sarebbe possibile dire che l'uomo pneumatico è il cristiano (perché ha lo Spirito), l'uomo psichico è il filosofo (colui che ragiona e che si sforza di arrivare alla verità o a Dio) e l'uomo carnale è il gaudente.

L'apostolo si sta rivolgendo solo ai cristiani. Ciò significa che all'interno della comunità di Corinto sono presenti persone appartenenti a tutte e le tre categorie precedenti.

Oggi saremmo portati a dire che ci sono persone (poche) non credenti in senso stretto che si sforzano di approfondire, di ricercare la verità, altre che vivono tranquillamente senza porsi il problema dell'esistenza di Dio (e sono tante). Non dimentichiamoci che tutti costoro, in un modo o nell'altro, fanno parte della comunità cristiana perché sono stati battezzati, hanno ricevuto i sacramenti, si sono sposati in chiesa. Di conseguenza io credo che sia arrivato il momento di chiederci alla luce della lettura di San Paolo: noi, che dovremmo essere i "perfetti", che facciamo per gli altri?

Voi che non vi limitate ad andare a messa alla domenica, voi che partecipate all'incontro biblico, voi che siete i "pneumatici" della nostra comunità dovreste almeno pensare agli altri, e, come Paolo, sentire nel cuore il peso dolce della Chiesa. Non solo il Papa, ma tutti noi dobbiamo sentire il peso della Chiesa.

 

Sappiamo che l'uomo psichico è colui che cerca comunque di ragionare ma senza riuscire a percepire la croce di Cristo, perché non è animato dallo Spirito, mentre l'uomo carnale (non pensiamo alla carne che richiama subito qualcosa di impudico) è quello che guarda soltanto alla propria autoaffermazione perché è pieno di sé. Possiamo così scoprire che puo' essere una persona che lavora moltissimo per gli altri unicamente per farsi dire "bravo!"; oppure, ad esempio, che può essere membro del consiglio pastorale, del comitato dell'oratorio ed essere sempre nel primo banco a messa, ma solo per autoaffermazione. L'uomo carnale è sfuggente, si intrufola, è subdolo: stiamo attenti.

Questa categoria nella comunità di Corinto trova espressione molto concreta. I carnali si trovano al livello più basso della fede e formano i vari partiti. Non per nulla sostengono: io sono di Apollo, io sono di Cefa, io sono di Paolo, io sono di Cristo; perciò creano disunione nella Chiesa. A questo proposito mi vengono in mente non tanto le singole persone quanto i vari movimenti all'interno della Chiesa. E, spesso, ciascuno di tali movimenti ritiene di essere il migliore. Il pericolo di considerarsi superiori agli altri è presente nelle nostre comunità parrocchiali e nei nostri oratori e perciò dobbiamo vigilare e rivedere la nostra carnalità per non rischiare di essere come i cristiani della Chiesa di Corinto.

 

Leggiamo la bella affermazione di Paolo al cap. 3, v.5

I ministri, ossia (in greco) i diàkonoi sono i servi. E sappiamo che "diacono" rappresenta un termine termine tecnico per la Chiesa. Probabilmente sta maturando all'interno della comunità di Corinto una prima ministerialità ordinata. Vuol dire che il diacono, il ministro, riceve un sacramento, l'imposizione delle mani, da parte dei primi apostoli. Abbiamo, così, una sequenza: gli apostoli, i vescovi (lori primi successori) e i diaconi (che già provvedevano con gli apostoli alla carità). La Chiesa comincia a strutturarsi. Soltanto dopo alcuni anni si noterà una vera differenza tra episcopos (vescovo, sorvegliante) e presbiteros (presbitero, prete, anziano).

Il vescovo è il capo della comunità ed ha un consiglio di presbiteri (anziani) e un gruppo di diaconi. Ad ognuno di questi viene assegnato un compito specifico.

S Paolo ci offre uno stile di servizio. Servendo, il cristiano si realizza.

Per concludere, teniamo presente: l'uomo pneumatico, l'uomo psichico e l'uomo carnale. Quale incarniamo? Speriamo di incarnare l'uomo pneumatico.

 

Come introduzione ai capp. 6 e 7 leggiamo il cap. 5, vv.1-8.

Nella comunità di Corinto si verificano casi di incesto. Molto probabilmente la donna di cui parla S. Paolo era pagana, mentre l'uomo era cristiano. Infatti al v. 5 è scritto: "...questo individuo sia dato in balìa di satana..".

L'incesto era pesantemente condannato da diritto romano, dagli ebrei e dalla cultura greca (almeno da quella ufficiale), mentre probabilmente era quasi accettato nell'uso comune. Nel brano citato si parla della matrigna dell'uomo e non sappiamo se il padre fosse vivo o morto. Di fatto sembra che di questo caso i Corinti andassero quasi orgogliosi.

 

Penso a tanti cristiani di oggi i quali dicono "come siamo aperti", "come ragioniamo bene", "noi accogliamo tutti". Qui non si tratta di un problema di accoglienza ma di mentalità.

S. Paolo sta scrivendo ai cristiani di Corinto che essi sono "azzimi", cioè sono "novità". Il pane azzimo è il pane nuovo, quello che viene preparato per la festa di Pasqua. E poiché è stato gettato il lievito vecchio e non è pronto il lievito nuovo, ecco che si cuoce il pane azzimo, simbolo importante per la comunità. L'apostolo ammonisce la Chiesa di Corinto perché intenda bene la libertà che Cristo le ha donato e che sicuramente non consiste nel fare tutto ciò che si vuole.

 

Arriviamo, così, al problema della sessualità che per San Paolo è una delle dimensioni in cui maggiormente si deve notare la novità cristiana. Non dimentichiamo che la lettera è indirizzata ai cristiani della città corrotta di Corinto per invitarli - anche - a distinguersi dagli altri abitanti.

La sessualità e la genitalità dipendono dall'uomo che sei. Tu devi vigilare perché dal tuo comportamento sessuale si capisce se segui Cristo (la novità) oppure no. Per Paolo questo è uno degli ambiti in cui i cristiano si gioca la propria credibilità. Appare evidente che a Corinto avvenivano molti abusi dovuti proprio alla cattiva interpretazione della libertà in Cristo. Da qui trae origine l'intervento dell'apostolo: siate azzimi. E tutto questo vale anche per noi.

Ripeto ancora: la libertà autentica consiste non nell'agire come vogliamo ma secondo quello che siamo, ossia come azzimi.

 

Ritorniamo al v. 1 del Cap. 5

Il termine "immoralità" puo' essere reso con porneia (greco) che nel suo significato estremamente tecnico si abbina ad "adulterio", "lussuria", ecc.

Traducendo dall'ebraico, ad "adulterio" corrisponde moicheia.

"Porneia" indica il caso di unione illegittima come quello di cui si parla nella lettera in esame, quello che noi chiamiamo "incesto". Si tratta di un termine dal significato molto ristretto. E San Paolo lo adopera per parlare di un'unione illegittima, di un'unione che non puo' esistere, che dà scandalo, che Dio non ha mai approvato e che non potrà mai approvare. L'adulterio è un peccato ma l'incesto è talmente grave da collocarsi addirittura al di fuori dallo stesso contesto di peccato.

 

Lettura del cap. 6, vv. 12-20.

Ecco un brano che espone una stupenda teologia del corpo. Sembra di vedere gli affreschi della cappella sistina. E notiamo una grande distanza dalla cultura greca la quale sosteneva che il corpo per fortuna muore mentre l'anima torna a Urano.

S. Paolo compie una sacralizzazione vera e propria del corpo.

 

Vi siete mai chiesti perché al termine della celebrazione del funerale si incensa la bara? Si incensa il corpo contenuto nella bara perché l'incensazione rappresenta l'omaggio dovuto alle realtà sacre. E' l'ultimo atto - anche visivo - che si compie per ricordare a tutti che quel corpo, magari già in decomposizione, risorgerà. E' qualcosa di infinitamente grande: quel corpo fa parte della tua persona.

Si tratta della concezione biblica e non della concezione greca: l'uomo è un tutt'uno; non esiste alcuna divisione tra anima e corpo; siamo una persona. E il nostro corpo è membro del grande corpo di Cristo. Con il battesimo siamo stati uniti a Cristo e, quindi, la nostra persona è destinata alla risurrezione. Ritroveremo il nostro corpo nell'eternità perché fa parte di noi.

Ci sarà la risurrezione dei morti, del nostro corpo, ma non sappiamo come avverrà. Abbiamo un unico termine di paragone: la risurrezione del corpo del Signore. Quindi il nostro non sarà un corpo soggetto alle leggi dello spazio e del tempo; sarà un corpo glorificato.

Ricordiamoci che il nostro corpo è anche santuario, tempio dello Spirito Santo, perché con il battesimo è stata consacrata a Dio tutta la persona.

Per Paolo la sessualità costituisce una delle realtà, delle espressioni corporee più grandi. Ricaviamo questo concetto anche dalla Lettera ai Romani al cap. 1, vv. 18 e segg.

 

I pagani sarebbero potuti arrivare a Dio? Certamente, guardando con attenzione il creato che costituisce il primo libro (antecedente alla Bibbia) che Dio ha scritto per parlare di sé. Proprio il creato avrebbe dovuto portarli a conoscere la grandezza e l'immensità del Signore. Ma i pagani hanno sbagliato: hanno adorato il creato anziché il creatore e di conseguenza invece che a Dio sono arrivati all'uomo, ai quadrupedi.....

Pensiamo a una famosa frase di S. Agostino: "Ti cercavo nelle creature e non mi accorgevo che le creature mi allontanavano da Te."

I pagani non sono pervenuti alla conoscenza di Dio e il segno più grave del loro sviamento è rappresentato dall'omosessualità, cioè dai rapporti contro natura.

L'uomo e la donna. "....l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola." (Mc 10,7). Questo è il progetto di Dio. "Andate e moltiplicatevi...".

San Paolo annette alla sfera sessuale una grande significatività positiva quale segno del nostro recepire il Cristo e la sua vita.

 

Lettura 6,19-20

L'espressione "comprati a caro prezzo" ci colloca nella dimensione della croce. Cristo ci ha acquistati con il suo sangue. Noi non siamo "nostri", con il battesimo abbiamo smesso di esserlo perché apparteniamo a Dio.

 

Lettura 7,1-15

Le situazioni esposte da Paolo riguardano i problemi attinenti ai matrimoni misti ossia tra persone appartenenti a religioni diverse oppure - situazione più diffusa oggi - tra coniugi di cui uno sia credente e l'altro non credente. Quest'ultimo tipo di matrimonio è oggetto di studio da parte di esperti di diritto canonico e di teologi, che tenderebbero a considerarlo alla stregua di matrimoni misti tradizionali (tra appartenenti a confessioni diverse) anche se costituisce un sacramento soltanto per uno dei contraenti (il coniuge credente).

 

Sappiamo che per avere un matrimonio canonico valido occorre che entrambi gli sposi abbiano l'intenzione di celebrarlo secondo il significato che la Chiesa attribuisce al matrimonio stesso. Se anche uno solo dei due contraenti non credesse nella indissolubilità non avremmo un matrimonio valido, che, anzi, sarebbe nullo, cioè come mai esistito. Se dovessero risultare nel corso di un eventuale processo di dichiarazione di nullità le prove concrete che i coniugi prima di sposarsi non credevano nella indissolubilità, il matrimonio stesso verrebbe dichiarato nullo (non annullato) e quindi non esistente.

 

 

 

Lettura 1 Corinzi 7,17-20

La dottrina matrimoniale di Paolo va letta, oltre che in questo capitolo, anche nel cap.5 della lettera agli Efesini.

 

X lezione

 

Prima lettera ai Corinzi - continuazione

 

Nell'incontro precedente è stata fatta l'introduzione al cap. 7 della prima lettera ai Corinzi e si è iniziato a parlare della problematiche che San Paolo mette in relazione con la sessualità.

E' stato anche letto il cap. 7 che pone i pilastri portanti della trattazione nella storia della Chiesa delle tematiche del matrimonio, della verginità e del rapporto tra matrimonio e verginità.

 

Per verginità si intende lo stato di vita di chi è consacrato al Signore. Quindi non si tratta dello stato di vita di chi è vergine fisicamente (può esserlo ma non è necessario) oppure di chi non è sposato. Sappiamo a questo proposito che le suore di Betania accolgono nel loro conventi soprattutto ex prostitute che sicuramente non sono più vergini fisicamente, ma ciò nonostante appartengono allo stato verginale perché si sono consacrate al Signore.

Tale stato richiede per tutti coloro che emettono i voti e anche per noi sacerdoti di rito latino l'astensione dall'esercizio della sessualità.

S. Paolo scrive sul matrimonio e sulla verginità avendo alla spalle una sua storia e si rivolge ai Corinzi, i quali hanno alle spalle un loro retroterra culturale.

L'apostolo era un fariseo cresciuto alla scuola di Gamaliele. Nell'ebraismo il matrimonio era visto come l'unica via voluta dal Creatore, tanto che non si ammetteva che l'uomo potesse essere non sposato. Da questo punto di vista Gesù costituiva proprio un'eccezione. Erano però presenti nell'ebraismo alcune situazioni in cui si praticava il voto di castità per motivi molto diversi da quelli cristiani. L'ebraismo legava alla sfera sessuale - e, quindi, anche al matrimonio - numerose impurità.

 

Lettura di Levitico 15,1-15 "Le impurità sessuali".

Alcune prescrizioni del Levitico sono rimaste in uso fino a poche anni fa, come - ad esempio - la purificazione della puerpera.

Sappiamo che il Levitico è il libro che "stronca" coloro i quali iniziano a leggere la Bibbia seguendo la successione dei libri e che, dopo aver letto la Genesi e l'Esodo, si arenano di fronte alle difficoltà di questo testo.

Con la lettura del Levitico scopriamo che tante leggi di purità e d'impurità, inserite in una sfera religiosa, costituiscono semplicemente delle norme igieniche atte a preservare la salute del popolo. La stessa circoncisione nella notte dei tempi nasce come norma igienica e assume poi una connotazione prettamente religiosa di appartenenza al popolo eletto.

 

Al v. 16, dove si parla di una emissione seminale, si entra già in un ambito diverso, perché non si tratta di una malattia. Vediamo che la sfera della sessualità ha in sé, comunque, qualcosa di sacro che rende, al limite, anche impuro l'uomo con l'impossibilità di accedere al culto (vv. 16-18).

 

Lettura vv. 19-21

Secondo alcune commentatrici il senso profondo della norma è di preservare la donna nel momento di maggiore debolezza.

 

Lettura vv. 25-31

Questo è il retroterra culturale di San Paolo.

 

Leggere Levitico 18 e 20 (vv. 8-21).

Tutto ciò che da una parte favorisce il benessere e la salute fisica del popolo e dall'altra è legato alla sfera sessuale viene collocato in un ambito culturale, cioè di rispetto verso Dio e la sua casa.

Nelle leggi d'impurità e di purità sono messi molto in evidenza gli elementi che possono perturbare l'unità del popolo (ad es. l'adulterio e i reati contro la proprietà). Notiamo che la violenza verso una vergine era considerata un peccato contro la proprietà e non contro la persona, tanto da essere punita con un risarcimento al padre. Del resto da non molto tempo nella legislazione italiana la violenza sessuale viene classificata come reato contro la persona. Nella comunità degli Esseni era praticata l'astensione dai rapporti sessuali per essere liberi di praticare il culto. Infatti a Qumram, sede di quella comunità, il gruppo ristretto dei sacerdoti - veri e propri monaci - era soggetto al voto di castità in vista della purità rituale. Costoro si ritenevano gli eredi del sacerdozio legittimo, gli unici in grado di officiare il culto all'arrivo, ritenuto imminente, del messia-sacerdote.

 

Da alcuni manoscritti rinvenuti nel secolo scorso a Damasco si è scoperta la presenza nell'ebraismo di un'altra comunità, quella di "terapeuti", i quali erano una sorta di eremiti che non erano sacerdoti (quindi non esercitavano il culto), ma si dedicavano allo studio della Sacra Scrittura. I "terapeuti" non si sposavano in quanto avevano collocato al centro della loro vita la conoscenza e la meditazione della Torah (la Legge).

Sembra che tra gli "eremiti" potessero essere presenti anche delle donne. I sacerdoti dell'ebraismo avevano delle norme di comportamento più restrittive rispetto al popolo.

 

Lettura Levitico 21,7-9

 

Lettura vv. 13-15

Notiamo quasi una gerarchia nei vincoli. Più si arriva vicino al Signore nei gradi del sacerdozio e più deve essere immacolato ciò che si è, si ha e ci circonda.

Ricordiamo, però, che ci troviamo sempre nella logica della proprietà nei confronti della donna che deve essere immacolata per garantire al sommo sacerdote una discendenza immacolata.

 

I Corinzi vivevano in una città cosmopolita dai costumi piuttosto rilassati ed erano in maggioranza di cultura greca. Secondo le leggi di Solone in Atene gli omosessuali non godevano dei diritti civili. Quindi l'omosessualità, ancorché praticata, era condannata dalla leggi dello Stato.

Sempre ad Atene, secondo il sentire comune della gente, gli omosessuali venivano definiti con il verbo laconizein.

"Laconica" è una persona di poche parole. E questa parola deriva dagli abitanti di Sparta (Lacon), odiati dagli ateniesi. Allora, per tutto ciò che era negativo veniva usato il termine "laconico", ed è significativo che l'essere omosessuali fosse indicato con il verbo laconizein (fare cose da spartani). Ecco, il retroterra culturale dei Corinzi è costituito anche dalla legislazione di Atene.

 

Dal punto di vista religioso, le divinità greche non rappresentavano sempre esempi di moralità, ma tre delle divinità maggiori erano vergini: Artemide (Diana per i romani), dea della caccia; Atena (Minerva), nata dalla testa di Giove, quindi con un parto totalmente verginale; Estia (Vesta), la dea della famiglia, del focolare domestico.

Sappiamo che il collegio di vergini più famoso dell'antichità era costituito dalle vestali, sacerdotesse dedite al culto di Vesta. E colei che trasgrediva il voto di castità veniva murata viva. Anche altre divinità, come Giunone moglie di Zeus, avevano collegi sacerdotali di donne vergini.

A Efeso il collegio sarcerdotale di Artemide era formato, invece, da uomini vergini che, però, erano eunuchi.

Di conseguenza osserviamo che a Corinto, nonostante tutto, il retroterra culturale coglieva anche l'importanza della verginità, intesa come dedizione totale a una divinità senza abbracciare lo stato di vita matrimoniale.

 

Riprendiamo ora il discorso di Paolo su matrimonio e verginità.

Coordin.
00domenica 18 novembre 2012 21:23

Lettura 1 Corinzi cap. 7, vv.1-16

Per capire lo sviluppo del pensiero dell'apostolo è importante leggere il cap. 5 della lettera agli Efesini.

 

Sorgono alcune domande: il matrimonio è inferiore alla verginità? San Paolo era vergine? Qual è la differenza tra la verginità cristiana e lo stato di perfezione proclamato da tanti filosofi greci dell'epoca?

E ancora; il matrimonio serve solo per i cristiani di "serie B", i quali non potendo contenersi piuttosto che ardere si sposano? E questo matrimonio è indissolubile?

La chiave di lettura di tutto il cap. 7 si trova, per me, nel v. 7 e in particolare nella sua seconda parte: "...ma ciascuno ha il proprio dono da Dio, chi in un modo, chi in un altro.".

La parola "dono" nel testo greco viene indicato con "carisma"; quindi, ciascuno riceve da Dio il proprio carisma. Questo significa che verginità e matrimonio derivano entrambi dal Signore ed entrambi sono un dono. Ciò vuol dire anche che nessuno delle due condizioni è perfettamente capace di riprodurre l'amore divino da cui discende.

 

Gesù era vergine ma nella sua predicazione ha avuto modo di dire alcune cose importanti sul matrimonio.

Lettura di Mt 19,1-15

Quasi in contrapposizione ai bambini arriva il giovane ricco, che apparentemente è il "santo" della situazione, colui che mette in pratica i comandamenti. Eppure solo i piccoli entreranno nel regno dei cieli, perché quel giovane risponde negativamente all'invito di Gesù (lettura vv. 16-22), il quale coglie l'occasione per chiarire che "difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli" (v. 23).

 

Lettura Mt. 19,27-30

Abbiamo terminato la lettura del cap. 19 che contiene il primo dei cinque grandi discorsi del Vangelo di Matteo. Questo è il discorso sul compimento del regno. Infatti Gesù dice: il tempo è compiuto; è arrivato il regno dei cieli e per entrarvi dovete comportarvi come i bambini. E per poter essere come loro vi si richiede di lasciare tutto, non solo i beni, ma anche le realtà affettive più importanti.

Questo è uno dei discorsi in cui per la mentalità ebraica risalta maggiormente la novità evangelica.

 

Leggiamo ora due brani evangelici paralleli:

a) Mc 10,1-12

b) Lc 16,18

Abbiamo notato le differenze fra Marco e Matteo. Rileggiamo con attenzione la questione posta dai farisei: "E' lecito ad un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?" (Mt 19,3).

Gesù per rispondere non rimanda al brano di Mosè, ma a quello della Genesi (Mt 19,4-5).

 

Lettura di Deuteronomio 24,1-4

In questo caso il matrimonio è definitivamente rotto per effetto della consegna del "libello di ripudio".

Ma il problema posto a Gesù dai farisei è un altro. Costoro vogliono sapere il significato dell'espressione "....se poi avviene che essa non trovi grazia ai suoi occhi, perché egli ha trovato in lei qualche cosa di vergognoso." (Dt 24,1). Infatti le grandi scuole farisaiche d'interpretazione della Legge si domandavano quando l'uomo potesse consegnare alla donna il libello di ripudio e mandarla via da casa.

 

All'epoca di Gesù vi erano due scuole di pensiero su questo argomento: una rigorista, con a capo il rabbi Shammay, che interpretava la Legge sempre in modo restrittivo e l'altra, più mite e meno rigorosa, con a capo il rabbi Hillel.

La prima scuola sosteneva che l'uomo potesse consegnare alla moglie il libello di ripudio solo in caso di adulterio, mentre la seconda riteneva che tale libello potesse essere dato per qualsiasi motivo.

I farisei stanno chiedendo a Gesù di entrare nel merito di un dibattito teologico presentandogli la questione secondo la tesi della scuola del rabbi Hillel. Ecco perché la risposta di Gesù va così a fondo; ecco, perché Gesù dice ai suoi interlocutori che essi stanno andando ben oltre la legge di Mosè e che bisogna, invece, risalire alla Genesi.

Allora, l'espressione "in principio" (en arché) già incontrata da noi nel Prologo al Vangelo di Giovanni ("In principio era il Verbo...") va intesa non in senso cronologico ma con il significato di "nella mente di Dio", il quale è presenza assoluta, perenne. Quindi, "en arché" vuol dire che nella mente di Dio l'uomo e la donna formano una carne sola per sempre.

Riprendiamo la lettura di Mt 19.

I farisei tornano a interpellare Gesù dopo la sua prima risposta sull'indissolubilità del matrimonio ("Quello dunque che Dio ha congiunto l'uomo non separi" Mt 19,6) e gli chiedono: "Perché allora Mosè ha ordinato di dare l'atto di ripudio e di mandarla via?" (Mt 19,7).

Gesù richiama Genesi 2,24 e i farisei gli citano il Deuteronomio (24,1) portandolo, così, sul terreno dei riferimenti all'Antico Testamento. La risposta di Gesù è, anche in questo caso, molto decisa: "Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così." (Mt 19,8).

E, "da principio", come già detto nella precedente lezione, significa "nel progetto di Dio". Siamo così alla riaffermazione dell'indissolubilità del matrimonio "...se non in caso di concubinato" (eccezione che non troviamo negli altri Vangeli sinottici).

Che significa questa espressione?

"Concubinato " è la traduzione italiana di porneia che anche nella Bibbia dei settanta ha il significato di "incesto". Ricordate la differenza tra porneia e moicheia che vuol dire in senso stretto "adulterio"? Incesto, in senso lato, significa un'unione tra consanguinei (o tra zio e nipote, tra patrigno e figlioccia, ecc.) realizzata in modo illegittimo, perché altrimenti non si sarebbe realizzata.

A questa risposta i discepoli oppongono un'obiezione (v.10): "se questa è la condizione dell'uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi.".

 

Gesù risponde in modo enigmatico e un po' strano. Lettura Mt 19 vv.10-11

Che vuol dire l'espressione "....altri che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli"?. Con chi identifichiamo quest'ultima categoria?

"per" è la traduzione di diá, termine greco che vuol dire "a causa" "perché" o anche in "vista di". Ma è preferibile il primo significato. Siccome siamo in un contesto matrimoniale, qui ci troviamo di fronte a persone che sono state abbandonate dal coniuge. Ecco, allora, che "a causa del regno dei cieli", cioè della novità assoluta portata da Cristo nel mondo, una persona abbandonata dal coniuge sarà come un eunuco, cioè in stato di separazione ma con la permanenza del vincolo matrimoniale, senza la possibilità di risposarsi.

Alcuni interpreti sostengono che Gesù qui stia rispondendo all'accusa di essere egli stesso e anche i suoi discepoli degli eunuchi. Infatti era consuetudine che un rabbi rispettabile si sposasse e avesse una regolare famiglia. E la risposta di Cristo sarebbe, quindi, che qualcuno ha scelto di farsi eunuco a causa del regno dei cieli.

 

Prosegue la lettura di 1 Cor 7,15.

S. Paolo nei versetti precedenti ha invitato il coniuge credente a non ripudiare quello non credente (vv. 12-13), ma si puo' verificare il caso che il coniuge non credente voglia separarsi.

Siamo di fronte al c.d. "privilegio paolino". Per spiegarlo vi leggo il canone 1141 del codice di diritto canonico: "Il matrimonio rato e consumato non puo' essere sciolto da nessuna potestà umana e per nessuna causa, eccetto la morte". Leggo inoltre il canone 1143, che recita: "Il matrimonio celebrato fra due non battezzati per il privilegio paolino si scioglie in favore della fede della parte che ha ricevuto il battesimo per lo stesso fatto che questa contrae un nuovo matrimonio, purché si separi la parte non battezzata".

Così abbiamo il caso di uno dei due coniugi, tali per effetto di un matrimonio non cristiano, che successivamente sia divenuto cristiano. In questo caso se l'altro coniuge non battezzato acconsente a separarsi, il matrimonio si dà automaticamente come non avvenuto e il coniuge cristiano puo' nuovamente sposarsi. Siamo in presenza di un matrimonio non cristiano, costituito tra due persone non cristiane e quella delle due che lo diventa può contrarre un nuovo matrimonio se l'altra acconsente a separarsi.

 

Lettura 1 Cor 7,17-24

v.24 - Il versetto significa che a Corinto c'era gente che voleva separarsi dal coniuge per abbracciare uno stato di pseudo-verginità, oppure che c'erano persone che non volevano sposarsi.

Ecco le contraddizioni evidenti della comunità di Corinto: alcuni cristiani praticavano l'incesto, mentre altri volevano eliminare il matrimonio.

L'esclusione del matrimonio è stata da sempre la tentazione di alcune sette eretiche, come ad esempio quella dei manichei. A ben vedere l'inquisizione vescovile nacque - soprattutto nella Francia del Medio Evo - dalla necessità di evitare agli eretici di essere sterminati dai signori laici, perché una delle caratteristiche di certe eresie era proprio quella di eliminare il matrimonio (vedi i Catari) minando, così, le basi della società e, quindi, anche dello Stato secondo la concezione di quei tempi.

Poi, l'inquisizione, sorta con finalità di tutela delle persone rispetto agli arbitrii del principe, degenerò come tutte le cose umane, soprattutto in Spagna dove non era controllata dal papa ma direttamente dal re e dove venne usata anche per fini politici, per consolidare la corona.

 

 

 

Lettura vv. 25-31

Stiamo entrando nel rapporto tra verginità e matrimonio. Soffermiamoci sul v. 26 "..a causa della presente necessità (ananché)...." dove il termine "necessità" puo' voler dire la necessità di adeguarsi al regno che è stato inaugurato oppure di annunciarlo.

Comunque Paolo qui scrive alcune cose interessanti che sembrano dettate da una persona che ne ha esperienza. Questo brano, cioè, ci fa capire che l'apostolo era vergine, che avrebbe gradito che tutte le altre persone fossero state come lui e che era contento della sua condizione di consacrato totalmente a Dio, così come aveva fatto Gesù.

 

Sapete perché dal 1200 i preti cattolici non possono sposarsi per effetto di una legge della Chiesa?

Perché nel corso dei secoli è maturata - tra le altre - la riflessione che il sacerdote è colui che agisce "in persona Christi", che nell'amministrare i sacramenti ripropone in toto la figura di Cristo anche nel suo stato di vita. Davanti al popolo di Dio il sacerdote agisce come se fosse il Cristo e farà il possibile per rappresentarlo in ogni scelta della sua vita.

 

Proprio perché quella sul celibato sacerdotale è legge della Chiesa, la stessa Chiesa puo' dispensare dall'obbligo del celibato in casi gravi il sacerdote e consentirgli di contrarre il matrimonio religioso con l'obbligo, però, di non esercitare più pubblicamente il suo ministero sacerdotale. Tuttavia i sacramenti amministrati, in caso di necessità, da tali persone sono validi in quanto il sacramento dell'ordine - che è uno dei tre in cui viene usato il sacro crisma (come il battesimo e la cresima) - imprime il "carattere" che non puo' essere mai cancellato.

Attualmente è diffuso nella Chiesa il "diaconato permanente": persone sposate accedono al primo grado (il diaconato, appunto) del sacramento dell'ordine.

Aggiungo che può accedere all'ordinazione un uomo sposato mentre il diacono celibe non puo' sposarsi.

 

Gesù è consacrato interamente al Padre. Allora la verginità diventa imitazione di Cristo, del suo modo di essere e di vivere.

Paolo, che vive una situazione di verginità, cerca di recuperare il matrimonio alla sua vocazione originaria altissima in quanto ognuno ha il suo carisma. E il matrimonio, che viene da Dio, va vissuto mettendo al centro Gesù Cristo. Comunque, ogni cristiano, sposato o no, deve vivere mettendo al centro Gesù Cristo.

 

La verginità e il matrimonio rappresentano due vocazioni diverse che hanno un'unica origine e un'unica finalità: Dio.

 

Il Concilio Vaticano II ha aperto delle prospettive molto belle a livello vocazionale (pensiamo alle vocazioni sociali).

Il nostro Papa, attraverso le varie beatificazioni, sta proponendo alla Chiesa tutta una serie di vocazioni che i cristiani possono vivere. Cito, ad esempio, S. Giuseppe Moscati che, non consacrato e non sposato, ha speso la sua vita in pienezza esercitando la sua professione di medico.

L'importante è accogliere bene il senso della propria vocazione che non va vissuta con frustrazione.

 

Cristo è sempre il fine di tutto sia per la persona sposata che per la non sposata e richiede un rapporto diverso con tutta la realtà ("...quelli che hanno moglie vivano come se non l'avessero; coloro che piangono come se non piangessero..." vv.29-30). Dobbiamo agire nel mondo sapendo che non siamo del mondo perché Cristo ci chiama ad altro.

 

Terminiamo il nostro incontro con la lettura di Lc 9,57-62. ("Esigenze della vocazione apostolica") per capire che cosa significa mettere Cristo al centro: Egli è l'origine e il fine. E questo vale non solo per chi ha abbracciato la strada di consacrazione, ma per ogni cristiano.

 

Lettura Lc 14,25-27 ("Rinunciare a quanto si ha di caro").

Queste parole di Gesù risuonano nel cap. 7, vv. 29-30 della prima lettera ai Corinzi.

Secondo alcuni studiosi il verbo greco misei (odia) - v. 26 - andrebbe tradotto invece con "preferisce meno"

Gesù ha la pretesa di essere al centro dei nostri cuori e delle nostre vite.

 

 

 

XII lezione

Prima lettera ai Corinzi - continuazione

 

Abbiamo terminato la precedente lezione leggendo e commentando Lc 9,57-62 e Lc 14,25-27.

Cerchiamo di non fossilizzarci sul significato dei due stati di verginità e di matrimonio. Il Concilio Vaticano II, infatti, ha messo bene in luce che nella Chiesa è presente tutta una varietà di vocazioni. Lo stato di vita, potremmo dire, battesimale ha al suo interno tutta una serie di specificazioni. Pensiamo alle vocazioni sociali che sono proprie delle persone che, senza emettere voti di consacrazione e senza sposarsi, vivono in pienezza il loro essere cristiani, ad esempio aiutando la società e svolgendo in un certo modo la loro professione.

Tutte le vocazioni, comunque, trovano il loro compimento in Dio.

 

San Paolo, però, sostiene che il vergine e la vergine si preoccupano delle cose del Signore mentre lo sposato o la sposata si preoccupano delle cose del mondo secondo le esigenze del coniuge.

Teniamo anche presente che per il cristiano non esiste mai la contemplazione sterile: le più belle preghiere non servono a nulla se non portano ad un impegno concreto per il regno dei cieli.

Il grande rischio dello stato matrimoniale è costituito dalla divisione del cuore tra il coniuge e la famiglia da una parte e il Signore dall'altra. Invece non dovrebbe essere così perché il cuore di ogni cristiano è tutto di Dio.

 

Lettura del cap. 11,17-34. "Il pasto del Signore".

I cristiani di Corinto stavano facendo un'esperienza che si diffonderà poi nel secondo secolo (e anche oltre) e che successivamente molti vescovi - fra cui S. Ambrogio - proibiranno per impedire abusi. Si trattava dell'agape fraterna che consisteva nella consumazione di una cena normale prima della celebrazione dell'Eucarestia.

Questa specie di banchetto avveniva spesso sulle tombe dei martiri. Ma mentre alcuni cristiani portavano il cibo e lo condividevano con i presenti (agape fraterna), altri consumavano il proprio cibo e le proprie bevande senza renderne partecipi nemmeno i poveri. Per questo motivo S. Ambrogio proibì sulle tombe dei martiri la cena, che si era trasformata in gozzoviglie perdendo così una qualsiasi connotazione religiosa.

Ecco, perché S. Paolo interviene per condannare non tanto l'uso quanto l'abuso di quella consuetudine. Infatti la comunità di Corinto dimenticava che l'agape fraterna preparava la cena del Signore.

 

Al v. 23 Paolo scrive di avere ricevuto dalla tradizione della Chiesa il suo rito principale, l'Eucarestia, che era strutturata in modo diverso da quello attuale. Il rito, infatti, comprendeva l'ascolto della parola degli apostoli e la cena con il corpo di Cristo. Qui si parla della presenza reale di Gesù nell'Eucarestia: "Questo è il mio corpo..."(v. 24). E Paolo aggiunge:"...chiunque in modo indegno mangia il pane e beve il calice del Signore sarà reo del corpo e del sangue del Signore" (v. 27)

Di conseguenza l'Eucarestia non può essere preparata da una situazione in cui le disuguaglianze sociali e quant'altro (come le gozzoviglie e le dissipazioni) diventano il sistema più diffuso.

 

La cena del Signore

Vi ho consegnato la fotocopia dei brani, tratti dalla sinossi, che sono il resoconto della cena del Signore.

Lettura dei brani sull'istituzione dell'Eucarestia in Mt 26,26-29, in Mc 14,22-25 e in Lc 22,19-20 e 18.

I tre Vangeli usano, salvo piccole differenze, le stesse parole per descrivere l'istituzione dell'Eucarestia.

 

Lettura 1 Corinzi 11,23 e segg.

Per la cena del Signore viene adoperata una formula antichissima. E il sangue viene messo in relazione in relazione con l'alleanza.

Vedete come Luca, che ne è discepolo, ricalca molto da vicino Paolo? "Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue (v. 25).

E sia Luca che Paolo parlano della "nuova alleanza".

Perché il sangue è posto posto in relazione con l'alleanza? Leggiamo, per trovare una risposta,

Esodo 24,1-8.

Mentre l'olocausto consisteva nella totale distruzione della vittima con il fuoco (il fumo che ne saliva costituiva l'offerta a Dio), il sacrificio di comunione prevedeva che una parte della vittima fosse bruciata, una parte data ai sacerdoti per il loro mantenimento e un'ultima parte venisse consumata dall'offerente assieme alla sua famiglia.

Si tratta, quindi, di un sacrificio di comunione in quanto una parte della vittima era destinata al Signore e una parte agli uomini e, perciò, la stessa vittima metteva in relazione l'uomo con Dio.

Leggiamo che l'altare - che rappresenta Dio - è stato cosparso del sangue delle vittime. A questo punto il popolo deve dare la sua adesione all'alleanza, ne diventa parte contraente e viene asperso da Mosè con il sangue rimanente (Es 24,6-28). Il centro dell'alleanza è il sangue che mette in relazione Dio con il popolo.

Ecco, perché il sangue di Gesù è il sangue della nuova alleanza, il sangue dello stesso figlio di Dio che in sé riunisce l'uomo e Dio. E da quel momento non ci sarà più bisogno di nuovo spargimento di sangue perché l'alleanza di Gesù è eterna. S. Paolo sottolinea che il rito del pane e del calice è memoria e non semplicemente ricordo.

L'apostolo riprende i contenuti della Pasqua ebraica che era memoriale.

 

Memoriale significa non solo la realtà passata, ma una realtà passata resa presente e che anticipa l'escatologia e il paradiso. Ecco, perché quando ci nutriamo del corpo di Cristo noi - e lo dicono bene le preghiere dopo la Comunione - prendiamo un'anticipazione, un pegno della vita eterna. Ecco, perché bisognerebbe ben prepararsi prima di riceve l'Eucarestia.

 

Lettura di Esodo 12,1-14

Vediamo, tra l'altro, che in questo passo dell'Esodo c'è l'origine di un brano del Vangelo, che abbiamo ascoltato nei giorni scorsi, in cui si narra di Maria e Giuseppe che presentano Gesù al tempio e che devono riscattarlo proprio perché il Signore in Egitto aveva risparmiato il primogenito degli ebrei in quella notte. Il primogenito di ogni famiglia ebraica era sacro a Dio, e, perché il bambino tornasse ad essere dei genitori, questi dovevano offrire qualcosa in cambio al Signore.

 

Sappiamo che gli ebrei conoscevano una specie di consacrazione nel nazireato (i nazirei non si tagliavano i capelli come segno esteriore di consacrazione a Dio). Se un nazireo veniva a contatto con qualche cosa d'impuro, doveva essere riconsacrato per mezzo del sacrificio di due tortore e di due colombe.

 

Nell'Eucarestia, che è memoriale, abbiamo la presenza del Signore. Dopo la lettura dei brani di S. Paolo e dei Vangeli non possiamo avere alcun dubbio: il pane e il vino coincidono con il corpo e il sangue di Cristo. Questa è la fede delle due Chiese più antiche, la cattolica e l'ortodossa.

Sappiamo che gli ortodossi non conservano l'Eucarestia perché la consacrano e la consumano tutta durante la Messa, mentre noi cattolici la conserviamo principalmente per gli ammalati (e soprattutto come viatico per i moribondi) ed anche per l'adorazione.

 

Teniamo ben presente che dobbiamo capire l'importanza del sacramento dell'Eucarestia altrimenti, se vi ci accostiamo impreparati, mangiamo la nostra condanna.

Alcuni dei miracoli eucaristici più sensazionali sono accaduti proprio in riferimento ai dubbi del sacerdote che durante la celebrazione della messa consacrava il pane e il vino.

Coordin.
00domenica 18 novembre 2012 21:24

Prima lettera ai Corinzi - continuazione

 

Lettura 1 Cor 15,1-19. "Il fatto della risurrezione".

A Corinto alcuni cristiani sostenevano la non esistenza della risurrezione dei morti. Ricordiamo qui il discorso di Paolo ai filosofi di Atene sulla risurrezione (At 17,31-32). Quando l'apostolo inizia a parlare su questo argomento gli viene risposto: "Ti sentiremo su questo un'altra volta.". Se Paolo avesse avviato una discussione sull'immortalità dell'anima avrebbe trovato probabilmente persone disposte ad ascoltarlo, anzi a dargli ragione, perché per la cultura greca si trattava di un concetto ovvio.

Per i greci l'anima - preesistente - si trova purtroppo imprigionata in un corpo e ritorna, per fortuna, al suo cielo dopo la morte del corpo. Mentre i filosofi più antichi parlavano della trasfigurazione delle anime, i filosofi più evoluti, come Platone, ammettevano l'immortalità dell'anima. Paolo - e con lui il cristianesimo - va oltre e parla di risurrezione, non solo dell'anima che comunque non muore, ma anche del corpo.

Ci è facile immaginare lo scandalo dei greci di fronte a tali affermazioni.

 

Per sostenere la fondatezza del concetto di risurrezione dei corpi S. Paolo non introduce alcun elemento filosofico. Dice semplicemente che se una persona afferma che la risurrezione non esiste, ciò significa che nemmeno Cristo è risorto. E se Cristo non è risorto - qui sta la forza del pensiero paolino - è vana la predicazione degli apostoli e "...vana la vostra fede".(15,17). Addirittura voi corinzi sareste dei bugiardi attribuendo a Dio un atto (la risurrezione di Gesù) da Lui mai compiuto. Ma voi sareste soprattutto delle persone che rimangono nel loro peccato.

In questo passaggio Paolo dice che Cristo non è Dio perché è morto in croce ma - e riusciamo a capirlo anche noi - è Dio perché è risuscitato dai morti, primo di molti altri. Altrimenti Gesù Cristo sarebbe stato, da un punto di vista politico, una delle tante vittime, più o meno innocenti, dell'autoritarismo romano e della chiusura religiosa degli ebrei. Gesù Cristo al massimo sarebbe stato il portatore di una filosofia. E, infatti, il cristianesimo, se gli togliessimo la risurrezione, sarebbe soltanto una delle tante dottrine etiche, filosofiche anche oggi esistenti.

 

In un'intervista comparsa sul quotidiano cattolico "Avvenire" si parla di un libro in cui si sostiene che attualmente esistono nel mondo due superpotenze: una politica, gli Stati Uniti d'America, e l'altra morale, il Vaticano.

Cominciamo ad allargare gli orizzonti e parliamo di Chiesa cattolica, sicuramente non perfettamente indentificabile con la Santa Sede. Ma preoccupa il fatto che si voglia ridurre il messaggio di Cristo, e quindi della Chiesa, ad un puro e semplice messaggio etico che scaturisce da una concezione dell'uomo che propugna alcuni valori (come la filantropia) che altri non riconoscono. Ciò significa togliere la radice - che è Cristo morto e risorto - di tutto un messaggio. Il cristianesimo non è una delle tante filosofie esistenti. Io credo che oggi sia molto diffusa un'opera strisciante di riduzione del cristianesimo come quella che predica l'amore universale ("Fate l'amore e non la guerra", "vogliamoci bene", ecc.). Ma Gesù Cristo è venuto a portare la "spada" e non la pace (Mt 10,34).

Di conseguenza teniamo presente che se noi cristiani non fossimo capaci di portare un po' di guerra, nel senso di mettere le persone di fronte alle proprie responsabilità e ai propri difetti (e noi prima di tutti), avremmo fallito completamente.

E la nostra forza viene non dall'amore per l'uomo ma da Gesù Cristo morto e risorto. E' il suo amore per l'uomo che ci contagia: noi amiamo il mondo intero perché amiamo Gesù.

 

S. Paolo porta tre prove della risurrezione di Gesù Cristo.

La prima prova è fornita dalle Scritture ("...è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture...." - 1 Cor 15-4), ossia dai testi dell'Antico Testamento - ad es. il libro dei Profeti - che parlano di quell'evento.

 

La seconda prova viene dai testimoni oculari secondo un interessante elenco fornitoci da Paolo (15,5-7)

- L'apparizione a Cefa (Simone) è citata in Lc 24,33-35 (lettura) ma senza alcuna descrizione.

Notiamo che l'incontro di Pietro con Gesù risorto (Gv 21) sul lago era stato preceduto da un'altra apparizione. E la domanda di Gesù nella seconda apparizione a Pietro: "Simone di Giovanni, mi vuoi bene più di costoro?..." (Gv 21,15) possiamo considerarla come la logica continuazione di un perdono già accordato all'apostolo.

 

- L'apparizione ai Dodici (per Giovanni le apparizioni furono almeno due e alla seconda e alla seconda fu presente anche Tommaso).

Il vangelo di Luca (24,30-43) ci parla dell'apparizione al termine della quale Gesù mangiò il pesce.

 

L'apparizione a "...più di cinquecento fratelli in una sola volta.." (15,6) della quale non abbiamo notizie

 

- L'apparizione a Giacomo (15,7) di cui i Vangeli non parlano.

 

L'apparizione "...a tutti gli apostoli" (15,7). Dobbiamo chiederci chi siano per Paolo gli apostoli visto che erano già stati citati i Dodici (v.5). Paolo si considerava uno degli apostoli pur non essendolo in senso stretto, perché non era stato tra coloro che avevano condiviso la vita terrena di Gesù, erano stati partecipi della sua morte e testimoni della sua risurrezione.

 

Come terza prova abbiamo la testimonianza personale di Paolo (1 Cor 15,8) al quale Gesù apparve sulla vista di Damasco (At 9,3-6).

 

A questo punto negare la risurrezione di Gesù significa negare i presupposti stessi del cristianesimo, negare che noi siamo stati liberati dal peccato.

La risurrezione va vista un po' come il "sigillo di autenticità" con il quale il Padre afferma che era proprio suo Figlio quell'uomo morto in croce per redimerci dal peccato. Quindi, senza la risurrezione la croce non avrebbe alcun valore e semplicemente sarebbe un oggetto di tortura sul quale è morto uno dei tanti innocenti.

Gesù Cristo con la sua risurrezione ha salvato l'uomo dal peccato.

 

Lettura 1 Cor 15,20-28

Questo è un brano difficile sul quale occorre soffermarsi.

E' facile capire che Cristo è il primo risorto. Adamo, il primo uomo, ha coinvolto tutti nella morte e per misteriosa solidarietà uno è stato causa di un male per tutti. Come Adamo è stato causa di un male (la morte) così Gesù Cristo è stato il primo risorto che coinvolgerà tutti nel bene. Inseriti in Cristo tutti moriamo e risorgiamo in Lui.

Gesù risorge per primo e quando verrà nel giorno del giudizio (la parousia) farà risorgere "quelli che sono di Cristo" e consegnerà finalmente il regno al Padre. E, a questo punto, anche Cristo sarà sottomesso al Padre.

Questa sottomissione costituiva per gli ariani una prova della non divinità di Gesù Cristo, che veniva considerato semplicemente un figlio adottivo di Dio.

Secondo la Chiesta cattolica con tale sottomissione Cristo - il Figlio - termina la sua funzione mediatrice che ha all'interno della Trinità. Il Verbo, che è l'incarnazione, ha la funzione di intermediario della salvezza. Attraverso Gesù Cristo, che è il Figlio di Dio, si realizza la salvezza. Quest'opera continua fino alla fine dei tempi e la Chiesa e i Sacramenti sono una attualizzazione della presenza di Cristo.

Quando avrà consegnato il regno a Dio Padre, Cristo non avrà più significato nella sua funzione di mediatore della salvezza. Dio avrà realizzato in pienezza il suo progetto e il Figlio regnerà con il Padre.

 

La risurrezione permette a Cristo di arrivare alla fine a dominare su tutti i mali e sulle potenze del male e a trionfare anche sulla morte, che sarà l'ultimo avversario ad essere sconfitto. E allora tutti vivranno in Lui.

Notiamo come questo sia un brano teocentrico in cui viene evidenziata la funzione mediatrice di Cristo che ci porta al Padre.

 

Lettura 15,29-30

A Corinto c'era l'uso di farsi battezzare al posto di un morto applicando così allo stesso il battesimo ricevuto. E questa usanza corrisponde all'idea del suffragio e dell'indulgenza, realizzati però per mezzo del battesimo.

Paolo su questa abitudine non prende posizione negativa o positiva, ma si domanda che senso possa avere il credere nel battesimo (per i morti) se poi questi stessi morti non risorgeranno.

 

Lettura 15,35-44

In questi versetti quanto è tradotto con il termine "animale" viene indicato nel testo greco con psükicós (psichico), che andrebbe meglio reso con "terreno" oppure con "naturale".

E San Paolo scrive che nella risurrezione ci sarà una evoluzione della nostra corporeità e il nostro corpo sarà glorioso: il chicco di grano che è stato seminato diverrà spiga. Se il nostro corpo ha un'evoluzione, la pienezza di questa sarà raggiunta nella risurrezione e il nostro corpo sarà glorioso, non più soggetto allo spazio e al tempo.

 

Lettura 16,51-56

Qui l'apostolo sostiene che nel giorno del giudizio ci sarà la trasformazione in un corpo spirituale anche di coloro che in quel momento saranno ancora vivi.

 

Nei vv. 54 e 55 leggiamo il grande inno riguardante la morte. Noi ci soffermiamo solo sul v. 56: "Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la legge" In questo versetto per "legge" di intende la Torah.

Se è vero che la morte è causata dal peccato, perché dire che la Torah è la forza del peccato? Perché, secondo San Paolo, la "Legge" non dà la grazia (che viene invece da Gesù Cristo) ma sottolinea il peccato e, così facendo, ci espone al peccato stesso. Entra così in gioco la questione della buona fede e dell'ignoranza.

La Torah elenca minutamente tutti i peccati ma non dà la grazia per superarli.

 

Coordin.
00domenica 18 novembre 2012 21:25

Seconda lettera ai Corinzi

 

Qualche studioso considera questa lettera come la più vibrante e commossa di tutto l'epistolario paolino. E' uno scritto di non facile interpretazione anche perché non conosciamo bene le cause della sua stesura.

Paolo si trova in Macedonia ove incontra Tito, proveniente da Corinto e latore di notizie da quella città.

Stando al contenuto della lettera, l'apostolo scrive per preparare la sua terza visita a Corinto; visita che avverrà nei primi mesi del 58, prima del viaggio a Gerusalemme. Possiamo verosimilmente collocare lo scritto verso la fine dell'anno 57.

Si tratta di una lettera polemica, ironica, in alcuni passi molto dura e in altri molto dolce. Di certo è indice di grande tensione tra la comunità corinza e Paolo. Capiamo che la seconda visita dell'apostolo a Corinto doveva essere stata molto severa, triste e umiliante.

 

Lettura 1 Corinzi 2,1-11

Da questo brano si evince che esiste un'altra lettera scritta in precedenza ai Corinzi. Al proposito vengono formulate due ipotesi: o si tratta di una lettera non rinvenuta o della prima lettera ai Corinzi. E, allora, la persona che ha offeso Paolo potrebbe essere l'incestuoso della quale si parla nella prima lettera. In realtà dal contesto pare proprio trattarsi di una lettera a noi sconosciuta, molto dura e scritta tra le lacrime, piena di sofferenza.

Appare difficile ricostruire la situazione che ha portato alla stesura della seconda lettera ai Corinzi. Non si sa da chi sia stata fatta l'offesa di cui si parla. Si puo' soltanto supporre che tale offesa fosse di carattere personale nei confronti di Paolo, pronunciata di fronte a tutta la comunità.

Mentre gli Atti degli Apostoli tendono a darci un' "idea quasi idilliaca della Chiesa di quell'epoca, sia pure con il segno di qualche difficoltà, l'epistolario paolino fa invece emergere bene la tensione e i contrasti presenti nelle prime comunità cristiane. Teniamo presente che quando in una comunità mancano i dibattiti e i confronti di opinione significa che le persone che la compongono non sono fondamentalmente sincere. Io credo che siano importanti il confronto e la circolazione delle idee, così come avveniva nelle prime comunità cristiane.

 

Alla base delle offese a Paolo c'erano i c.d. giudeo-cristiani provenienti dall'ebraismo e con alcune idee particolari sulla fede cristiana. Secondo costoro non poteva essere dimenticato l'insegnamento di Mosè. Era sì necessario il battesimo, ma si doveva sottostare anche alla circoncisione; si doveva osservare la Legge nuova della libertà ma senza dimenticare la Torah.

Probabilmente i giudeo-cristiani, che lo seguivano in ogni suo spostamento per coglierlo in fallo, avevano aizzato contro Paolo la comunità di Corinto in sua presenza e, soprattutto, in sua assenza.

La durezza della seconda lettera si avverte già all'inizio perché, a differenza di tutte le altre e come quella ai Galati, non contiene alcuna ringraziamento. Anzi, lo scritto appare come un vero e proprio messaggio di rimprovero.

 

Suddivisione della lettera

- Prologo: 1,1-1,11

- I parte: 1,12-7,16 in cui Paolo sa un lato giustifica la propria condotta e dall'altro sottolinea la grandezza e la difficoltà del ministero apostolico.

 

- II parte: 8,1-9,15 "Organizzazione del collette".

 

- III parte: 10,1-13,10. Contiene la polemica fortissima contro gli avversari giudeo-cristiani. E' il famoso brano che ci svela la passione di Paolo per la Chiesa e la sua anima di mistico.

 

- Epilogo: 13,11-13.

 

Notiamo l'importanza storica di questa lettera che ci fa conoscere la vita di una comunità cristiana ed anche - nella sua parte più autobiografica - l'opera di Paolo e le persecuzioni fisiche da lui subite per il Vangelo. Inoltre questo scritto ha una notevole importanza teologica (soprattutto per una formula trinitaria molto bella [13,13] che usiamo spesso durante la Messa) ed escatologica. Infatti, in alcuni brani si sottolinea non tanto il momento della parusia (la venuta di Gesù) a livello comunitario quanto il rapporto della singola persona con Cristo dopo la morte. Sono brani che si leggono anche nella liturgia dei funerali.

 

Prima del brano sulla colletta (8,1-9,15) leggiamo 2 Maccabei 12,38-45 - "Il sacrificio per i morti".

Si parla qui dei numerosi morti ebrei dopo una battaglia. Durante il recupero dei cadaveri per la sepoltura si era scoperto che tutti i morti portavano sotto la tunica oggetti sacri agli idoli, ma vietati dalla Legge.

Quindi, secondo la logica dell'epoca, quegli uomini erano morti perché avevano peccato e appariva necessario, perciò, pregare perché "il peccato commesso fosse pienamente perdonato". E il nobile Giuda effettua tra i sopravvissuti una colletta di denaro da inviare a Gerusalemme perché sia compiuto un sacrificio espiatorio a favore dei morti nel peccato.

 

Lettura 2 Cor 8,1-15. "Motivi di generosità".

La Chiesa di Gerusalemme si trovava in condizioni di estrema povertà (i"santi" erano i membri di quella Chiesa) e, allora, in tutte le Chiese venne indetta una colletta per aiutare quei cristiani a sopravvivere.

In Macedonia, nonostante la povertà e le persecuzioni, le comunità avevano offerto con gioia e con generosità ed, anzi, alcune persone si erano prestate a collaborare nella raccolta.

Alcuni interpreti sostengono che Paolo esprima la speranza che la Chiesa di Corinto non gli faccia fare brutta figura, anche perché la raccolta delle offerte in quella città era già stata avviata, ma poi si era interrotta per motivi a noi sconosciuti. E Tito, che ne era stato l'iniziatore, tornerà allora a Corinto per riprendere quella colletta. Si tratta probabilmente di una situazione che rimarca, ancora una volta, le difficoltà di quella comunità.

Questa raccolta di denaro potrebbe anche costituire una risposta implicita di Paolo ai giudeo-cristiani per dimostrare il suo interessamento verso la Chiesa di Gerusalemme.

 

Nel brano ora letto notiamo una parola-chiave: "grazia" (caris, in greco). La grazia è la misericordia di Dio, è la benevolenza di Dio.

E l'apostolo afferma che anche le comunità della Macedonia partecipano della grazia diventandone ulteriore strumento. Ricevono, cioè, una grazia, la misericordia e la liberalità di Dio, e la ridistribuiscono come possono, secondo i loro mezzi e le loro possibilità, ad altri.

E, allora, ecco la comunicazione della grazia; la "grazia" di Dio ci rende "graziosi" e noi a nostra volta rendiamo graziosi gli altri e si crea così un bellissimo scambio: "....la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza" (v. 14). Se siamo compartecipi di questa grazia di Dio abbiamo il dovere di redistribuirla.

 

Oggi esistono fondamentalmente due gruppi di Chiese: il primo formato da Chiese ricchissime in termini economici (come la Chiesa tedesca, quella degli USA e la nostra italiana) e un secondo gruppo costituito da Chiese molto povere. Ma esistono anche altri due tipi di Chiese: quelle poverissime e quelle ricchissime di personale. E notiamo che in questo caso i ruoli sono invertiti, perché le Chiese ricche finanziariamente scarseggiano di clero, mentre le altre, povere di mezzi, ne abbondano, tanto è vero che in Italia sono molte le parrocchie rette da sacerdoti stranieri. Questo fenomeno si verifica anche per quanto riguarda gli ordini religiosi maschili e femminili.

La situazione attuale ci deve indurre ad una riflessione perché, ad esempio, il paese in cui opera il maggior numero di missionari è il Canada.

 

Il brano del quale stiamo parlando è importantissimo: occorre "fare uguaglianza" (v. 13) in modo da evitare che alcune persone muoiano perché ipernutrite e altre perché denutrite.

Paolo insiste proprio su un tipo di scambio che non è altro che la ripetizione di ciò che Cristo ha fatto: "...da ricco che era si è fatto povero...". (v. 9) - cioè uomo - per arricchire noi, per elevarci ad un rango sostanzialmente divino.

E viene spontaneo, allora, guardare a San Francesco con la sua dimensione esclusivamente religiosa che lo portava ad agire come Gesù.

 

Nei seguenti capp. 11, 12 e 13 (che vi invito a rileggere) troverete la narrazione di ciò che Paolo realizza nella propria vita e del suo rapporto intimo, specifico con il Signore.

 

Dalla seconda lettera ai Corinzi traspare proprio il grande amore dell'apostolo per la Chiesa.

 

Coordin.
00domenica 18 novembre 2012 21:27

Lettera ai Galati

 

Questa breve lettera è ponderosa e per noi preziosa da un punto di vista sia dottrinale che autobiografico. Infatti, più di ogni altra, ci fornisce notizie sulla vocazione di Paolo e sulle sue successive prime vicende, nonché sullo sviluppo dei suoi rapporti con gli altri apostoli e con la Chiesa di Gerusalemme.

 

La lettera ai Galati inizia a trattare un tema che sarà poi sviluppato in pienezza nella lettera ai Romani: il tema della giustificazione (Ricordiamo che al riguardo proprio da pochi mesi si è realizzata un'intesa teologica fra protestanti e cattolici)

In questo scritto la giustificazione è però vista con una visuale particolare, quella della libertà. Cristo ci rende liberi e il cristianesimo è liberazione non tanto dalle ristrettezze e dalle oppressioni materiali quanto - e innanzi tutto - dal peccato, perché Cristo è grazia e ci trasforma. Sostanzialmente Paolo afferma che uno schiavo non ha bisogno di uccidere il padrone per essere libero, ma ha bisogno di incontrare Cristo per non essere più schiavo del peccato. Infatti non è la condizione sociale od esteriore che ci qualifica o ci squalifica davanti a Dio. E credo che su questo la nostra Chiesa abbia molto da farsi perdonare.

Davanti al Signore "non c'è più giudeo né greco; non c'è più né schiavo né libero..." (3,28) ma tutti siamo uno in Cristo. Ecco, le basi dell'uguaglianza e della dignità profonda dell'uomo.

 

La Galazia era una regione dell'Asia minore che nel V-IV secolo a.C. era stata colonizzata da popolazioni celtiche provenienti dall'Europa del nord.

Paolo si rivolge nella sua lettera proprio ai loro discendenti, da lui evangelizzati durante il secondo e il terzo viaggio.

 

Pare che i Galati avessero subito l'influenza di alcuni giudeo-cristiani i quali predicavano che, oltre al Vangelo di Gesù, si dovesse osservare anche la Legge di Mosè e praticare la circoncisione per ottenere la salvezza. Si tratta di un messaggio che costituiva per Paolo una vera e propria eresia. E i giudeo-cristiani per contrastare la predicazione paolina avevano messo in cattiva luce lo stesso apostolo.

 

Questa lettera ci permette di conoscere l'itinerario seguito da Paolo per prepararsi alla sua missione, i rapporti con Pietro e con gli altri apostoli e con Giacomo, fratello del Signore e capo della Chiesa di Gerusalemme.

Qualche autore definisce la lettera ai Galati (scritta a cavallo degli anni 57-58) come lo schema della lettera ai Romani nella quale l'apostolo tratterà, ampliandoli, gli stessi argomenti.

 

Schema della lettera.

 

- Esordio e rimprovero: 1,1-10

 

- I parte: 1,11-2,21. Apologia personale dell'apostolo che si difende parlando della sua vita dal momento del primo incontro con Gesù.

 

- II parte: 3,1-4,31. La giustificazione mediante la fede

 

- III parte: 5,1-6,10. Una trattazione dottrinale sul tema della libertà cristiana. Sono qui elencati i frutti della carne e i frutti dello Spirito.

 

- Epilogo: 6,11-18.

 

 

 

 

XV lezione

Lettera ai Galati - continuazione

 

Lettura Gal 3,1-29

Noi siamo stati salvati, siamo stati liberati dal peccato attraverso la Legge di Mosè oppure attraverso la fede in Gesù Cristo?

La risposta è ovvia: siamo stati liberati dal peccato per mezzo della fede in Gesù Cristo. Con la sua morte Gesù ha attirato su di sé quella maledizione che ricadeva su tutti i trasgressori della Legge mosaica.

Gesù Cristo ha fatto veramente da capro espiatorio. Ciò significa che noi ci salviamo non perché compiamo le opere prescritte dalla Legge ma perché crediamo in Gesù Cristo che, morto in croce, ci ha liberato.

 

Questa sera prima di affrontare il problema della giustificazione - o meglio della fede e delle opere - (che vedremo in modo più approfondito nella lettera ai Romani), vorrei trattare il tema della Legge.

Come abbiamo ora letto, San Paolo arriva a dare un'interessante definizione della Legge: "...la Legge è per noi come un pedagogo..." (v. 24). E noi abbiamo presente il pedagogo come una figura che aiuta il fanciullo a crescere.

Sappiamo che l'apostolo scrive in polemica con i c.d. giudeo-cristiani, i quali sostenevano per i seguaci di Cristo l'obbligo della circoncisione e dell'osservanza della Legge di Mosè.

Notiamo che quella era un'epoca di travaglio, nella quale non si era ancora compreso se il cristianesimo dovesse essere una propaggine dell'ebraismo (come gli esseni, ad esempio) oppure una realtà a sé stante; cioè se Gesù fosse uno uno dei tanti "rabbì" che aveva proposta qualcosa di nuovo - ma sempre nel grande solco dell'ebraismo - oppure se il cristianesimo costituisse una realtà diversa dall'ebraismo stesso.

Non si trattava evidentemente di un problema da poco; erano in gioco l'identità e la sopravvivenza del cristianesimo.

Lutero, commentando il cap. 3 della lettera ai Galati, afferma che l'osservanza dei Comandamenti è idolatria e bestemmia.

Quando Paolo parla delle Legge di Mosè si riferisce al Pentateuco, cioè i primi cinque libri della Bibbia che costituiscono una narrazione dalla creazione fino all'arrivo alle soglie della terra promessa e alla morte di Mosè.

Insieme a questa raccolta di fatti è presente un complesso di prescrizioni, di leggi e di sentenze, riunite in alcuni libri veri e propri, altre inframmezzate in vari racconti e altre ancora desunte dai racconti stessi. Pensiamo, ad esempio, a quanto è scritto al cap. 19 del Vangelo di Matteo sul matrimonio: Gesù desume dalla narrazione della creazione dell'uomo una legge universale voluta da Dio. L'uomo e la donna sono fatti uno per l'altra per sempre.

 

Noi possiamo cogliere nei racconti e nelle raccolte di leggi del Pentateuco due significati fondamentali:

- 1 la Legge mosaica in senso stretto (Esodo 19 e segg.) è segno dell'amicizia tra Dio e l'uomo. Quindi l'Alleanza era percepita dall'ebraismo come amicizia. Dio ci è amico e ci ha dato questa Legge; noi mettendola in pratica, gli dimostriamo la nostra amicizia. Si tratta di una concezione molto interessante che ridimensiona notevolmente l'idea di un Dio giudice e monarca assoluto.

 

- 2 la Legge permette a noi uomini di vivere la vita divina, perché Dio stesso con questa legge ci ha svelato la sua vita e ci aiuta a viverla.

Pensiamo ad alcuni esempi.

Esiste il riposo sabbatico, perché Dio il settimo giorno si è riposato. Dobbiamo amare il nostro prossimo perché Dio ci ama. Dobbiamo essere santi perché Dio è santo.

Attraverso la Legge Dio comunica con noi e ci offre la possibilità di essere molto più vicini al suo stile di vita.

 

Ad un certo momento dello svolgersi del pensiero dell'ebraismo la Legge diventa ancora più importante. In proposito leggiamo Siracide cap. 24 (che contiene il grande inno alla sapienza), vv.1-21.

In questi versetti è presente l'idea di una sapienza che richiede il compimento di opere. Infatti le opere possono essere secondo la sapienza divina. E, allora, ricordiamo il salmo 1 che si apre con la mirabile visione delle due vie: la via dei giusti e la via degli empi.

 

Lettura di Siracide 24,22-32.

L'incarnazione massima della sapienza divina è rappresentata dalla Legge di Mosè. Legge che è come abisso e la cui interpretazione non si esaurirà mai. Legge che mai nessuno potrà sostenere di possedere completamente.

Non esiste al mondo nulla di più perfettamente riconducibile alla sapienza della Legge. Anzi, potremmo dire che la Legge di Mosè è la Sapienza stessa.

 

Lettura di Baruc (profeta e segretario di Geremia) 3,36-4,4

Anche in questo brano notiamo l'identificazione della Sapienza con la Legge.

 

A questo punto sarebbe interessante leggere il Libro di Enoc, l'etiopico.

Si tratta di uno scritto apocrifo dell'Antico Testamento, non ispirato - quindi - ma, come tutti i libri apocrifi, prezioso per comprendere la mentalità, la religiosità e la teologia di un'epoca. Sappiamo che il libro di Enoc è tendenzialmente apocalittico.

Lettura di un brano di questo testo:

""Enoc, guarda lo scritto delle tavole del cielo e leggi quel che vi è scritto sopra e sappi ogni cosa". E io osservai tutte le tavole del cielo, lessi tutto quello che vi era scritto, conobbi ogni cosa, lessi il libro e tutto quello che vi era scritto, tutte le azioni degli uomini e di tutti i figli della carne sulla terra per tutte le generazioni. Allora, benedissi il Signore, re di gloria eterna, per come aveva creato tutte le cose del mondo e magnificai il Signore per la sua sapienza e benedissi tutti i figli dell'uomo."

Notiamo che in questo brano si parla di "tavole del cielo" nelle quali è trascritto il destino di ogni uomo; ed Enoc rivela che egli non morirà ma sarà rapito in cielo. Le "tavole del cielo" erano dei documenti su cui cui, fino dall'inizio dei tempi, era stata scritta anche la Legge di Mosè; erano state prodotte durante la creazione e su di esse si poteva leggere tutta la vita di ogni uomo.

La legge eterna di Mosè è uno degli elementi fondamentali del libro di Enoc. Vediamo, quindi, che anche nella letteratura extra-biblica è evidente un'altissima concezione della Legge, addirittura quasi coeva dell'inizio della creazione.

In verità qualche dubbio sorge ogni tanto: la Legge contiene in sé qualche rischio, quello che qualcuno la metta in pratica solo esteriormente e ciò è oggetto di critica assai forte da parte dei profeti.

 

E, allora, leggiamo Isaia 1,10-17

Il profeta si riferisce a persone che mettevano in pratica perfettamente una parte della Legge (quella rituale), ma non la parte più impegnativa, costituita dalle opere di carità. Vediamo che i profeti sviluppano una forte critica, prima, ad un atteggiamento di ipocrisia e, successivamente, alla Legge stessa, così come era stata scritta.

 

Lettura di Geremia 31;31-34

Ecco l'intuizione di Geremia: una legge nuova che sancisce un'alleanza nuova, ma questa volta scritta nel cuore.

 

Lettura di Ezechiele 36,24-28

Anche qui si parla di una legge scritta con lo spirito dentro l'uomo.

 

E, ancora, lettura di Ezechiele 37,23-26.

Ecco, allora, una legge che finalmente viene messa in pratica perché scritta nel cuore.

 

Cerchiamo ora alcune citazioni della Legge mosaica nel Nuovo Testamento e scopriamo subito che è Gesù stesso che ce ne parla.

 

Lettura di Mt 5,17-19

Siamo al "discorso della montagna", programmatico per Gesù.

Si tratta di versetti introduttivi alla parte successiva del discorso (v. 21 e segg.): "Avete inteso che fu detto agli antichi....ma io vi dico...".

Gesù prende le distanze dalle prescrizioni della Legge (ad es.: non commettere adulterio) e le radicalizza in una logica completamente diversa, la logica dell'amore ("...ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla ha già commesso adulterio nel suo cuore" v. 28). Questo proseguimento del discorso ci dà l'idea di che cosa intenda Gesù quando afferma di essere venuto non ad abolire la Legge ma a darle compimento.

Gesù considera, infatti, la Legge di Mosè come un punto di partenza e non come un punto d'arrivo e prende decisamente le distanze da quella tradizione che considerava vincolanti anche l'interpretazione orale e scritta e il commento della Legge.

 

Lettura di Mc 7,1-13

Appare molto chiaro il pensiero di Gesù sulle interpretazioni della Legge, ritenute dai farisei vincolanti quanto la Legge stessa. Una annotazione: gli "scribi venuti da Gerusalemme" (v. 1) erano famosi per la loro competenza, per la loro rigidità e per la loro conoscenza delle Scritture e di tutti i loro commenti.

vv. 11-13

Gesù sostiene che osservando la tradizione ("è Korban, cioè offerta sacra") si possono distruggere le basi di un comandamento divino dato a Mosè ("Onora tuo padre e tua madre").

Allora, Cristo considera cose umane le tradizioni farisaiche e ritiene che la Legge (che proviene da Dio) possa essere migliorata.

 

Lettura di Mt 22,34-40 "Il più grande comandamento".

E' chiarissima l'impostazione di Gesù: i due comandamenti importanti sono quelli che ci parlano dell'amore, l'amore per Dio e l'amore per i fratelli.

Vorrei dire che tutta la Legge mosaica potrebbe essere riassunta in questi due comandamenti.

 

Lettura di Luca 18,18-23

Gesù propone al giovane ricco, per avere la vita eterna, di seguire i comandamenti. E costui gli risponde che già li osserva. Ma il Maestro aggiunge che egli deve praticare anche il comandamento dell'amore per Dio e per i fratelli ("...poi vieni e seguimi..."), che si concretizza appunto in modo ottimale nella sequela di Gesù.

Quindi, neppure i comandamenti bastano per il giovane ricco; subentrano, infatti, come discriminanti la persona di Gesù e la sua sequela.

 

Per avere un'autorevole conferma leggiamo Giovanni 13,34: "Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri".

Se non ci fosse quel "come io vi ho amato" questo non sarebbe un comandamento nuovo, ma soltanto uno dei comandamenti della Legge. Ecco, il salto di qualità: ecco, la radicalizzazione dell'amore; ecco la centralità di Gesù e la nuova Alleanza con le quali la Legge antica è veramente portata a compimento.

Mosè resta un "grande" ma il centro della vita di un cristiano sono le parole e le opere di Gesù. I comandamenti rimangono ancora validi anche se un cristiano guarda con più interesse alle "beatitudini".

 

Ricordiamo Mt 19,8: "Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma in principio non fu così".. Come a dire che nella mente di Dio non è ammesso il ripudio della moglie.

 

Ritorniamo all'inizio del nostro discorso: per San Paolo la Legge è "pedagogo".

Sappiamo che nell'antichità il pedagogo era considerato una figura negativa. Si trattava di uno schiavo che si occupava d'insegnare le buone maniere, il galateo, cioè i comportamenti esteriori, a un giovane fino al momento in cui sarebbe diventato maggiorenne. Quindi paidagogós era diverso da didascalos, che era il maestro, cioè colui che si occupava dell'educazione morale, intellettuale e culturale del giovane. Per San Paolo la funzione della Legge consisteva nell'insegnare gli atteggiamenti esteriori ed era quindi lontana dall'idea di Cristo che voleva la Legge scritta nel cuore. Allora, la Legge antica serve soltanto a fornirci una "base" che si deve superare mediante Cristo: non c'è limite all'amore. E San Bernardo a ragione diceva: "L'unico limite all'amore è non avere limiti.". 

Coordin.
00domenica 18 novembre 2012 21:30

BREVE INTRODUZIONE

ALLA LETTERA AI ROMANI

 

E' certo la lettera più studiata di Paolo, anche perché essa è stata alla base di importanti

svolte storiche.

Rossano riporta la testimonianza dì Greeck Faigan, un autore americano, che riguardo alla lettera ai Romani così si esprime:

 

"L'influsso della lettera ai Romani è stato niente meno che trasformatore del mondo. la conversione di Agostino avvenne quando egli prese tra le mani Il Volume degli Apostoli 1e lesse Rm. 13, 13-14. 2 L' improvvisa illuminazione di Lutero avvenne mentre leggeva la lettera ai Romani nella cella del suo monastero. L'esperienza decisiva di John Wesley 3 avvenne ascoltando la lettura della prefazione di Lutero al suo commento alla lettera ai Romani. La teologia del XX secolo è stata influenzata dallo sforzo di Karl Barth di vedere la vita moderna nell'ottica della concezione paolina della fede e del suo primo libro sulla lettera ai Romani".

 

Faíngan conclude asserendo che "certamente questa sola lettera di Paolo è stata una lettera fatale nella storia del cristianesimo".

 

Agli influssi già sottolineati da Faingan, Rossano aggiunge che il Concilio Vaticano II cita ben 118 volte la lettera ai Romani, superata di poco dal solo vangelo dì Matteo e di Giovanni, ciascuno dei quali però - quanto ad ampiezza - è quasi il doppio della lettera ai Romani.

Questi brevi cenni penso che bastino per indicare la profondità teologica e dottrinale presente nella lettera ai Romani.

 

 

1 Si noti che al tempo dì Agostino il Volume degli Apostoli comprendeva tutte le lettere di Paolo-

2 Il capitolo 13 è uno dei due capitoli (12-13) riguardanti la parte parenetica (o morale). Agostino si vide rimproverare la

propria vita e comprese che per seguire il Vangelo di Cristo avrebbe dovuto cambiare radicalmente la propria vita.

3 John Wesley (1703-1791) fondatore del Metodismo.

 

 

l. Importanza della lettera

 

Dal punto di vista esegetìco

Presenta molti problemi di interpretazione, tra cui il significato preciso di:

- Storia della salvezza,

- giustificazione,

- Legge,

- peccato.

In positivo, presenta un pensiero molto denso e profondo.

 

Dal punto di vista dottrinale

Basti pensare al problema della fede, della giustificazione, della salvezza, della Storia della salvezza, della Legge, del peccato, della morte per non parlare della complessità della tematica riguardante Israele.

 

Dal punto di vista storico

Venne ampiamente commentata nei primi secoli della Chiesa (il che indica l'importanza che le antiche comunità annettevano a questa lettera).

La lettera e la sua interpretazione fu uno dei motivi di divisione tra cattolici e protestanti.

 

Dal punto di vista ecumenico

La TOB (traduzione ecumenica della Bibbia) è stata fatta con l'apporto di numerosi esegeti sia cattolici che protestanti. A questo proposito, è molto significativo che il primo testo affrontato sia stato proprio quello della lettera ai Romani, divenuto così il simbolo della via verso l'unificazione tra cattolici e protestanti. La lettera ai Romani è un simbolo ecumenico.

 

 

 

 

2. i maggiori commenti alla lettera

 

Origene

 

·Ambrosiastro

 

·S. Tommaso

Il commento di S. Tommaso costituisce un testo di rilievo (non dimentichiamo che S. Tommaso faceva scuola di esegesi). La Summa è una sintesi dei pensiero di S. Tommaso fatto in maniera sistematica. Qualcuno giunge ad affermare che i commenti di S. Tommaso, specialmente sulle lettere di S. Paolo, siano ancora più preziosi della Summa. Forse è un'esagerazione. Tuttavia rivela quanto essi abbiano influito nell'elaborazione dei pensiero di questo grandissimo teologo.

 

Huby - Lyonnet

 

0. Kuss

 

Káseman

 

 

3. Tempo e luogo di composizione

 

S. Paolo è giunto a Corinto nel suo 30 viaggio e sta per ritornare ad Antiochia. Da qui

andrà a Gerusalemme (dove sarà imprigionato) e da lì verrà condotto a Cesarea. A Cesarea si fermerà 2 anni (58-60), dopodiché andrà a Roma.

Ciò indica non solo il tempo di composizione, ma anche lo scopo. S. Paolo ha voluto offrire un sintesi del suo annuncio cristiano: si potrebbe dire che tutta l'esperienza di Paolo fino al momento in cui scrive la lettera sia raccolta in questo scritto.

 

 

Quando ha scritto la lettera ?

 

Molto probabilmente alla fine dei terzo viaggio missionario (fine 57 - inizio 58), forse a Corinto, prima di partire per Antiochia. Una lettera di questo tenore esigeva infatti calma ed un luogo stabile per poter riflettere e scrivere il proprio pensiero. Sembrerebbe pertanto da escludersi il viaggio.

 

 

 

 

 

 

4. Lo scopo

 

- S. Paolo si vuole presentare alla comunità di Roma: egli vuole andare a Roma e presentarsi con questa lettera. Questo però non sembra essere lo scopo principale.

 

- Un altro scopo potrebbe essere quello di voler incrementare la fede dei Romani riflettendo sulla comunità di Roma. A lui sono pervenute notizie circa la comunità di Roma, tant'è vero che egli si rivolge a persone della comunità da lui conosciute in Oriente.

 

- Forse c'è anche uno scopo polemico, tanto che quasi si potrebbe fare un parallelo con la lettera ai Gálati. La lettera ai Galati ha di fronte i giudaizzanti che non perdono occasione per seminare zizzania in tutta la comunità. La lettera ai Romani non ha uno scopo polemico come la lettera ai Galati, anche se non sembra esserne completamente avulsa.

 

- Lo scopo principale è certamente quello di formulare una sintesi dei suo annuncio cristiano. La lettera risulta un consuntivo dei cammino fatto in vista di un nuovo rilancio.

 

5. Autenticità della lettera

 

Si può dire che la paternità paolina della lettera, presa in blocco, non fa problema. Essendo il punto di riferimento dei protestantesimo, nessun esegeta di area protestante ne ha messo mai in dubbio l'autenticità.

Il ripudio in blocco dei c. 15-16 sostenuto da qualche esegeta non sembra giustificato.

 

 

 

 

 

 

 

6. Struttura della lettera

 

La lettera ai Romani è da tutti divisa in due parti:

-cap. 1 - 11 parte dogmatica

- cap. 12 - 14a parte morale

La parte più importante è la prima.

 

Analizziamo ora in modo più dettagliato tutta la lettera:

 

· Prologo : 1,1-15

Qui Paolo si presenta in modo più ampio rispetto alle altre lettere, perché si rivolge ad una comunità non fondata da lui.

E' dunque necessario che egli si presenti a questa comunità, che egli conosce solo tramite terzi.

Paolo si presenta come l'apostolo delle Chiese che egli ha fondato.

 

· Parte dottrinale : capitoli 1 - 11

 

Tema: il Vangelo è potenza di Dio per la salvezza, prima dei Giudei, poi dei Greci. Il tema della lettera è quindi: Vangelo potenza di DIO.

Divisione: c. 1 - 4 giustizia dì Dio 1/ giustificazione dell'uomo

c. 5 - 11 amore di Dio/ salvezza dell'uomo

 

 

o Parte morale + epilogo capitoli 12 - 16

Dìvisione: cap. 12 - 14a doverì dei cristiano

cap. 14b - 16 progetti - ammonimenti - dossologia

 

7. Parte dottrinale (1,16 - 11,36)

 

Tema complessivo: 1,16

Dio salva l'uomo

mediante il Vangelo e Cristo

attraverso la fede.

Il Vangelo è potenza (salvezza) di Dio per i credenti: i Giudei prima e i Greci dopo.

 

NOTA:

Ognuna delle sezioni seguenti presenta uno sviluppo proprio dei tema principale.

I 2 sottotemi corrispondono pertanto allo sviluppo dei tema complessivo in ciascuna delle due singole sezioni.

 

 

Prima sezione: 1,17 - 4,25 (il cristiano è giustificato)

 

losottotema:1l Vangelo è forza di Dio che porta alla giustificazione.

La giustizia salvifica di Dio è fonte di giustificazione per ogni credente.

 

Abbozzo dei l° sottotema: 1,17

Dio è giustizia salvifica

quindi

giustizia che salva chi crede.

 

Sviluppo del 1° sottotema: avviene attraverso 2 momenti antitetici e uno probativo.

 

> 1,18 - 3,20 (ripresa dei tema in senso negativo)

Si prova che Dio salva giustificando, affermando il contrario: Dio dell'ira rovina chi non crede e Rovina prima i pagani e poi gli ebrei.

Tutti gli uomini sono soggetti a questo impero dell'ira perché tutti hanno peccato.

 

> 3,21 - 31 (ripresa dei tema in senso positivo)

Il tema viene poi ripreso in mani era positiva: la giustizia di Dio che porta alla giustificazione è colta in positivo, per cui si sottolinea che chi crede è portato alla giustificazione.

 

> 4,1 - 25 (prova biblica)

Tutto quanto è detto sopra ha come dimostrazione la fede di Abramo.

 

Seconda sezione: 5,1 - 11,36 (il cristiano è salvato)

 

2° sottotema: 5, 1 - 1l

Dio non solo ha giustificato, ma è il Dio della salvezza totale; è il Dio che porta l'uomo, attraverso la fede, alla salvezza totale in virtù dei suo amore. [Con salvezza totale va intesa la Storia della salvezza fino alla salvezza escatologica.]

Mentre nella prima sezione si diceva che il cristiano è giustificato, ora si aggiunge che il cristiano è salvato. Ciò è affermato in modo esplicito là dove si dice che Dio salva anche colui che è peccatore (" ... quando eravamo peccatori...") : tanto più salva ora che siamo giustificati.

 

Svíluppo del 2° sottotema: avviene attraverso due momenti antitetici e uno

probativo.

 

> 5,12-7,25 (ripresa del 2* sottot. in senso negativo) Dio ci libera da: - peccato (cap. 5)

- morte (cap. 6)

-legge (cap.7)

Questi sono i tre punti su cui Paolo si ferma abbondantemente.

Dal peccato: Paolo afferma che Dio ci libera dal

peccato. Questa affermazione abbraccia tutta l'umanità fino ad Adamo.

A questo passo si rifà anche il Concilio di Trento per affermare la dottrina dei peccato originale (sia originante che originato).

Dalla morte: questo è il punto in cui Paolo parla dei

Battesimo.

Dalla Legge: la Legge è occasione (non causa) del peccato.

 

> 8, 1-39 (ripresa dei 2° sottot. tema in senso positivo) Qui si parla della legge dello Spirito: la salvezza avviene mediante la legge dello Spirito.

Paolo mostra i diversi passaggi attraverso i quali questa nuova legge dello Spirito conduce alla vita eterna.

 

> 9 - 11 (obiezione e prova biblica)

Qui nasce un'obiezione che è al tempo stesso una prova biblica.

Obiezione: perché la promessa di Dio di essere fedele alla storia della salvezza dell'antico popolo di Israele sembra non realizzarsi ?

Qui Paolo si interroga sul grosso mistero degli Ebrei: come si può dire che Dio è stato fedele se gli Ebrei4 non sono salvi ?

Questo interrogativo è suscitato in Paolo dalla sua stessa esperienza: anzitutto egli rivolgeva il suo annuncio agli Ebrei con il risultato di essere cacciato dalle sinagoghe e perseguitato. Egli allora si rivolgeva ai Gentili. Tuttavia non può dimenticare la sua esperienza e la sua origine.

 

 

4 Con Ebrei qui si intende il popolo ebraico storico dei tempo di Paolo.

 

Prova biblica: questi- capitoli provano che l'amore di Dio non si smentisce. Ciò vuoi dire che ci sarà una soluzione anche per il mistero ebraico.

Paolo giunge a far diventare l'obiezione una prova.

Chi infatti prende i cap. 9-11 solo come un'obiezione li stacca dalla parte precedente, senza coglierne il profondo nesso logico.

La parte precedente è il necessario fondamento per capire la parte seguente, così come la parte che segue è lo sviluppo necessario della parte che precede.

Coordin.
00domenica 18 novembre 2012 21:34

8. La Chiesa di Roma

 

Paolo conosce la composizione di questa comunità. Essa è composta (secondo Rossano) prevalentemente da schiavi. La comunità di Roma è diversa da quella di Corinto. In quest'ultima ci sono degli schiavi ma anche delle persone molto influenti.

 

Nella comunità di Roma pare ci sia una donna importante. Questa informazione la apprendiamo dagli Annalí di Tacito i quali documentano nell'anno 64 la presenza di cristiani nella capitale dell'impero. Tacito parla di una certa Pomponia Grecina, appartenente all'aristocrazia imperiale, la quale viene accusata dal marito di avere, una religione estranea. Il marito però, dopo averla accusata davanti al tribunale, la scusa, per cui ella può continuare a vivere tranquillamente; infatti, in caso contrario, sarebbe stata uccisa.

Questa accusa però - narra Tacito - "la spinse a vivere una vita solitaria": forse questa è la prima cristiana perseguitata appartenente al periodo in cui Paolo scrive ai Romani.

Paolo scrive dunque ad una comunità composta per la maggior parte da schiavi,, ma forse anche da qualche membro dell'aristocrazia.

 

A Roma c'era un numero di Giudei, per cui è probabile che la comunità sia anche composta da Giudei convertiti; tuttavia la maggior parte è costituita da Gentili. Tra Giudei e Gentili nasce una certa rivalità, in quanto i Giudei anche a Roma suscitano qualche turbamento analogo (ma inferiore) a quello di cui si parla nella lettera ai Galati Per questo, anche nella lettera ai Romani c'è una sia pur lieve venatura polemica. La rinveniamo quando Paolo prima parla dei peccati dei Gentili ed in seguito invita i Giudei a non sentirsi migliori, in quanto anche foro commettono peccati. In un'altra occasione invece invita i Gentili a non credersi superiori ai Giudei solo perché si sono convertiti.

 

 

 

XVII lezione

Lettera ai Romani - continuazione

 

Affrontiamo alcune problematiche presenti nella lettera ai Romani.

I° problema: la giustificazione

E', ovviamente, la questione che tanto scalpore ha suscitato qualche secolo fa e che ha portato alla divisione della Chiesa e, quindi, alla Riforma e al protestantesimo.

 

II° problema: l'ebraismo

(che analizzeremo successivamente). Gli ebrei si salvano o non si salvano?

 

III° problema: la giustizia di Dio

Dio è buono o è giusto? è misericordioso oppure è giudice?

 

Ricordiamo, per inciso, che nell'ottobre dello scorso anno la Chiesa cattolica e la Federazione mondiale delle Chiese luterane hanno sottoscritto una dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione.

 

Giustificazione significa giustificare, cioè rendere giusto, far diventare giusto (dal greco dicaioo, verbo che richiama il termine dicaiosüne, la giustizia tipica di Dio e del discepolo, che troviamo nel Nuovo Testamento e nell'Antico - secondo la versione dei "settanta" -).

Già nella lettera ai Galati San Paolo aveva accennato al problema che ora affronta esplicitamente: che cosa ci rende giusti?

E' una domanda che potremmo formulare così: che cosa ci salva? Ci salva la fede o ci salvano le opere? In quest'ultimo caso: ci salvano le opere della Legge o le opere del cristiano?

Un ebreo si salva perché mette in pratica la Legge?

Tutto questo rappresentava un grave problema per San Paolo.

Sarebbe anche interessante sapere che significato attribuisce, ad esempio, Matteo al termine "giustizia" quando parla della giustizia dei cristiani.

Inoltre: se è la fede che salva a che servono le opere?

Se io credo che Gesù Cristo è morto e risorto duemila anni fa e ha salvato così tutta l'umanità; se ricevo il battesimo e sono, quindi, "innestato" nella salvezza a che servono le opere?

Non dimentichiamo che questa è la fondamentale problematica gnostica secondo la quale ci si salva per la conoscenza e per la sapienza, date dall'alto, le quali permettono di conoscere i misteri di Dio. E non ha alcuna importanza che si mettano più o meno in pratica nella propria vita questi misteri.

 

Ricordiamo la duplice dimensione presente nel Prologo del Vangelo di Giovanni: fos, la luce (guai se non ci fosse un Dio che ci attira a sé!) e zoè, la vita. Senza la vita, potremmo dire senza le opere, non si dimostra assolutamente di possedere la luce. Ecco, allora, il Prologo giovanneo che è una sintesi mirabile di luce e di vita.

Non basta la luce, non basta l'elezione di Dio che ci ha scelti per svelarci i suoi misteri che, se non vengono vissuti nella pratica quotidiana, non servono a nulla.

 

Lettura della lettera ai Romani 1,16-17.

Si tratta di due versetti fondamentali in cui vengono enucleati in poche parole i temi che S. Paolo svilupperà poi nella lettera, come il rapporto tra giudeo e greco.

Sono il centro e la sintesi di tutta la lettera ai Romani.

Nella comunità di Roma i cristiani giudeizzanti erano certamente in numero notevole e sicuramente legati alla Legge mosaica. S. Paolo, perciò, si trova costretto ad elaborare con notevole cura la sua dottrina; deve fare una sintesi del pensiero suo - e soprattutto - di quello della Chiesa.

L'apostolo deve sviluppare temi solo accennati nella lettera ai Galati.

 

Ricordo quanto detto in una precedente lezione: la Legge è il pedagogo, una realtà che Dio ci ha dato per insegnarci come comportarci esteriormente, ma che non può cambiarci il cuore in quanto manca ancora la grazia.

 

Lettura delle lettera ai Galati 2,15-21.

In questi versetti sono riportate parole molto accese rivolte da Paolo a Pietro. Penso che qui sia abbastanza chiaro il pensiero di Paolo.

Pietro, che prima sedeva a tavola con i "pagani" e si adattava a stare con loro, quando giungono "alcuni da parte di Giacomo" (capo della Chiesa di Gerusalemme), cominciò a privilegiare i giudei e a staccarsi dai "pagani". Paolo, allora, lo rimprovera e gli dice: noi che siamo giudei e che abbiamo la Legge crediamo che ci salvino Gesù Cristo e la fede in Lui e non la Legge. E il bellissimo versetto 20 ("Sono stato crocefisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo che vive in me") nel suo contesto significa semplicemente l'unione profonda che esiste tra Cristo e il battezzato; unione che si realizza non per le opere compiute dal battezzato ma per "essenza", in quanto la presenza di Cristo fa parte della natura del battezzato stesso.

Per tutta l'eternità il battesimo imprime il carattere, un sigillo indelebile. Tutti i battezzati (anche coloro che dimenticano il proprio battesimo) sono stati crocifissi con Cristo per risorgere con Lui.

Una volta stabilita l'alleanza, Dio non viene mai meno al suo patto.

 

 

 

 

 

 

La giustizia di Dio

Lettura della lettera ai Romani 3,21-31; 4,1-12

Paolo si rivolge a persone che conoscono bene l'Antico Testamento e ad altre alle quali, molto probabilmente, era già stato portato l'esempio di Abramo. Infatti, se Gesù Cristo deriva da Abramo, anche noi che siamo suoi discendenti in ispirito, pur nella fede, dobbiamo adeguarci alle opere di Abramo.

 

Lettura di Genesi 15,1-21. "Le promesse e l'alleanza".

Dobbiamo ricordare che l'alleanza di Dio con Abramo era duplice.

Che senso hanno le parole pronunciate dal Signore nel concludere l'alleanza con Abramo? Già il Signore aveva promesso ad Abramo grandi cose e copiosa discendenza quando lo aveva invitato a lasciare Ur dei Caldei e la sua famiglia. Ed Abramo aveva avuto fede. Ma - lo vediamo nel cap. 15 - Abramo attraversa un momento di sfiducia quando constata che nessuna delle promesse divine si è realizzata. Abramo, però, continua a credere, si fida di Dio e questa fede gli viene accreditata come giustizia.

Il Signore stipula qui un'alleanza unilaterale perché, seguendo un rito antichissimo, passa da solo con il forno fumante e la fiaccola ardente tra gli animali squartati. Sappiamo che si trattava di un'usanza che seguivano i contraenti per impegnarsi ad osservare il patto: se uno di loro non avesse rispettato la parola data, avrebbe subito la sorte di quegli animali, ossia lo squartamento.

 

Mentre per i cristiani giudeizzanti il segno dell'alleanza era rappresentato dalla circoncisione, per Paolo la prima alleanza con Abramo non era subordinata ad alcuna condizione perché stipulata direttamente dal Signore. Soltanto in un tempo successivo ad Abramo verrà richiesta la circoncisione.

 

Leggiamo in proposito Genesi 17,1-12

Si tratta di un brano di tradizione sacerdotale, in cui si parla dell'alleanza alla quale si riferivano i cristiani giudeizzanti di Roma. E qui abbiamo conferma che la circoncisione viene imposta solo in un secondo tempo.

 

Ricordo che il Pentateuco è il prodotto di diverse scuole ed è stato composto in epoche diverse. Il particolare, questo brano dovrebbe essere opera dei circoli sacerdotali deportati in Babilonia per i quali era indispensabile mantenere l'unità del popolo disperso. E tale unità era assicurata, infatti, dalla religione e dal quel segno religioso fondamentale costituito dalla circoncisione. Proprio per mezzo di questo segno gli ebrei dimostravano di essere stati prescelti da Dio.

 

San Paolo dice chiaramente che Dio stipulò la prima alleanza con Abramo, che non era circonciso, proprio perché egli potesse essere il padre anche di tutti i non circoncisi. E l'alleanza con Abramo si trasmette a tutta la sua discendenza e, quindi, non solo al popolo eletto.

 

Lettura della lettera agli Ebrei 11,8-3 e 17-18.

Viene introdotto un elemento nuovo: la fede di Abramo non consiste solo nel credere alle promesse di Dio ma anche nell'obbedire totalmente a Dio, fino al punto di andare a sacrificare il figlio Isacco, il quale sembrava essere la realizzazione di tutte le promesse divine.

Vediamo che l'idea delle opere è sottostante alla fede, anche se in questo brano le opere non vengono ancora menzionate esplicitamente.

 

Lettura delle lettera di Giacomo 2,14-26

"La fede e le opere".

L'obbedienza, cioè la fede, si manifesta nelle opere, nel compiere proprio ciò che Dio vuole.

La fede di Abramo, di cui parla la Genesi, trova la sua pienezza nell'episodio di Isacco, quando diventa obbedienza totale alla volontà divina. L'uomo viene giustificato sia in base alla fede che alle opere.

 

Sulla lettera di Giacomo e sulla sua datazione è in corso un dibattito. Secondo alcuni studiosi questa sarebbe anteriore agli scritti di Paolo e sembrerebbe più vicina all'ebraismo delle lettere dell'apostolo; secondo altri, invece, poiché la dottrina di Paolo, male interpretata, aveva già provocato gravi abusi, Giacomo aveva scritto questa lettera per porvi rimedio.

Si tratterebbe, cioè, di una reazione a una teologia interpretata erroneamente e diventata prassi, con un conseguente modo di vivere (dei cristiani) privo di significato cristiano. Per questo motivo la lettera di Giacomo sarebbe da considerare posteriore alla lettera di Paolo ai Romani.

 

 

 

XVIII lezione

Lettera ai Romani - continuazione

 

Terminiamo il discorso sulla giustificazione, cioè su Dio che ci rende giusti, leggendo alcuni brani della "Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione" tra la Chiesa Cattolica e la Federazione Luterana Mondiale del 31 ottobre 1999.

 

Lettura del punto 9

"Nel Nuovo Testamento, in Matteo (5,10; 6,33;21,32), Giovanni (16,8-11), nella Lettera agli Ebrei (5,1-3; 10,37-38) e nella lettera di Giacomo (2,14-26) i temi della "giustizia" e della "giustificazione" non sono trattati nello stesso modo. Anche nelle lettere paoline il dono della salvezza è evocato in diversi modi: fra l'altro, come "liberazione in vista della libertà" (Gal 5,1-13; cfr. Rm 5,11), "pace con Dio" (Rm 5,1), "nuova creazione" (2 Cor 5,17), come "vita per Dio in Cristo Gesù" (Rm 6,11 . 23) o "santificazione in Cristo Gesù" (cfr. 1 Cor 1,2; 1,30; 2 Cor 1,1). Tra queste descrizioni ha un posto di spicco quella della "giustificazione" del peccatore nella fede per mezzo della grazia di Dio (Rm 3,23-25), che è stata più specialmente messa in evidenza all'epoca della Riforma."

- Vediamo che anche San Paolo usa vari modi per esprimere il medesimo concetto. Se vogliamo interpretare correttamente un'espressione paolina sul tema della giustificazione, dobbiamo considerare attentamente quanto lo stesso concetto è stato espresso con altri termini.

 

Lettura del punto 11

"La giustificazione è perdono dei peccati (Rm 3,23-25; At 13,39; Lc 18,14), liberazione dal potere di dominio esercitato dal peccato e dalla morte (Rm 5,12-21) e liberazione dalla maledizione della Legge (Gal 3,10-14). Essa è già da ora accoglienza nella comunione con Dio, e lo sarà pienamente nel regno di Dio che viene (Rm 5,1-2). La giustificazione unisce a Cristo, alla sua morte e risurrezione (Rm 5,12-21). Essa si realizza nel ricevere lo Spirito Santo nel battesimo il quale è incorporazione nell'unico corpo (Rm 8,1-2 . 9-10; 1 Cor 12,12-13). Tutto questo viene unicamente da Dio, a causa di Cristo, per opera della grazia mediante la fede nel "Vangelo del Figlio di Dio" (Rm 1,1-3).

- Giustificazione significa che Dio per sua grazia, e non per merito nostro, ci ha liberati dal peccato, dalla morte e dal dominio della Legge orale ebraica. Il Signore ci inserisce già in una comunione con Lui che non è ancora perfetta: lo diventerà quando saremo in paradiso.

 

Lettura del punto 12

"I giustificati vivono della fede che sgorga dalla parola di Cristo (Rm 10,17) e agisce nell'amore (Gal 5,6), il quale è frutto dello Spirito (Gal 5,22-23). Poiché i credenti continuano tuttavia a subire le tentazioni di potenze e di concupiscenze esteriori e interiori (Rm 8,35-39; Gal 5,16-21) e cadono nel peccato (1 Gv 1,8 . 10), essi debbono sempre di più porsi all'ascolto delle promesse di Dio, confessare i loro peccati (1 Gv 1,9), partecipare al corpo e al sangue di Cristo ed essere esortati a vivere in modo conforme alla volontà di Dio e in modo giusto. Per questo motivo l'apostolo dice ai giustificati: "Tendete alla vostra salvezza con timore e tremore. E' Dio infatti che suscita in voi il volere e l'operare secondo i suoi benevoli disegni" (Fil 2,12-13). Ma la buona novella permane: "Non c'è più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù" (Rm 8,1) e nei quali Cristo vive (Gal 2,20). Mediante l'opera di giustizia di Cristo vi sarà per tutti gli uomini "la giustificazione che dà la vita" (Rm 5,18).

- Dio non ci salva nostro malgrado, perché ci rispetta fino in fondo e non ci costringe ad operare secondo la sua volontà per obbligarci ad andare in paradiso.

Ecco, il rispetto assoluto della nostra libertà.

Cristo ci ha già salvati e ci invita ad accogliere questa salvezza con la volontà e con l'operare, perché altrimenti - direbbe Giovanni in modo molto duro - se diciamo di amare Dio e non amiamo i nostri fratelli, non non amiamo nemmeno Dio e, al limite, illudiamo noi stessi.

Lettura del punto 37

"Insieme confessiamo che le buone opere - una vita cristiana nella fede, nella speranza e nell'amore - sono la conseguenza della giustificazione e ne rappresentano i frutti . Quando il giustificato vive in Cristo e agisce nella grazia che ha ricevuto, egli dà, secondo un modo di esprimersi biblico, dei buoni frutti.

Tale conseguenza della giustificazione è per il cristiano anche un dovere da assolvere, in quanto egli lotta contro il peccato durante tutta la sua vita; per questo motivo Gesù e gli scritti apostolici esortano i cristiani a compiere opere d'amore."

- Il modo migliore per dimostrare che si sta lottando contro il peccato consiste nella pratica delle opere. L'odio (il peccato) si vince con l'amore.

Ecco, allora, il senso delle "buone opere" che danno proprio l'idea che ci stiamo muovendo secondo la giustizia che Dio ci ha donato.

 

Lettura del punto 38

"Secondo la concezione cattolica, le buone opere, compiute per mezzo della grazia e dell'azione dello Spirito Santo, contribuiscono a una crescita nella grazia, di modo che la giustizia ricevuta da Dio è preservata e la comunione con Cristo approfondita. Quando i cattolici affermano il "carattere meritorio" delle buone opere, essi intendono con ciò che, secondo la testimonianza biblica, a queste opere è promesso un salario in cielo. La loro intenzione è di sottolineare la responsabilità dell'uomo nei confronti delle sue azioni, senza contestare con ciò il carattere di dono delle buone opere, e tanto meno negare che la giustificazione stessa resta un dono immeritato della grazia".

 

Lettura del punto 39

"Anche nei luterani si riscontra il concetto di una preservazione della grazia e di una crescita nella grazia e nella fede. Anzi, essi sottolineano che la giustizia in quanto accettazione per mezzo di Dio e partecipazione alla giustizia di Cristo, è sempre perfetta. Al tempo stesso affermano che i suoi effetti possono crescere nella vita cristiana. Considerando le buone opere del cristiano come "frutti" e "segni" della giustificazione e non "meriti" che gli sono propri, essi comprendono, allo stesso modo, conformemente al Nuovo Testamento, la vita eterna come "salario" immeritato nel senso del compimento della promessa di Dio ai credenti (cfr. Fonti del cap. 4.7, pp.42-43)."

 

Completiamo il nostro discorso sulla giustificazione con la lettura della lettera ai Galati 5,13-29.

Gesù Cristo ci dà tutta la grazia necessaria per uscire dalla spirale del peccato.

Come vi avevo preannunciato, non si puo' parlare di giustificazione senza parlare della giustizia di colui che rende l'uomo giusto.

Sappiamo che nella Bibbia quando si parla dell'uomo non si puo' che riferirsi a Dio perché l'uomo è a sua immagine e somiglianza. Di conseguenza per comprendere la giustizia umana bisogna riandare alla giustizia divina, così come per capire l'amore umano bisogna riferirsi all'amore divino.

E, allora, consideriamo la parola greca dicaiosüne (la giustizia) che compare nel Nuovo Testamento ben 91 volte, 57 delle quali nelle lettere di Paolo e diverse volte in Matteo. Un personaggio del Vangelo di Mt detto "giusto" è Giuseppe.

Per capire che cosa intenda questo evangelista per "giustizia" dobbiamo leggere, come provocazione, un brano del suo Vangelo.

 

Lettura Mt 5,20. "La nuova giustizia superiore all'antica".

Noi sappiamo che il vangelo di Matteo, più degli altri, si richiama all'Antico Testamento con continue ed espresse citazioni, in quanto vuole dimostrare che Gesù realizza in pienezza le premesse e le promesse ivi contenute. Sappiamo anche che il nostro evangelista scrive per una comunità di ebrei convertiti. Ovviamente nell'Antico Testamento la giustizia è applicata prima di tutto a Dio.

 

Facciamo adesso un escursus attraverso i salmi per cercare di dare una connotazione più precisa alla giustizia divina.

Lettura del salmo 35,1-28 "Preghiera di un giusto perseguitato".

Già il titolo ci dice che si tratta di una preghiera molto umana ma anche divina. La giustizia di Dio è la salvezza del suo servo. Dio è giusto perché salva e aiuta il suo servo perseguitato e perché prende le difese del debole.

L'idea principale del nostro salmo è la salvezza del giusto e l'idea derivata è quella della salvezza dell'empio. Di conseguenza siamo portati a considerare come prima caratteristica della giustizia divina la giustizia distributiva; ma ciò non è vero, perché, secondo la Bibbia, Dio è giusto perché salva.

 

Lettura del salmo 36.

Quando il riferimento etico, cioè della morale, non è più il Signore ma soltanto dei valori intermedi cadiamo nel relativismo etico e non abbiamo, quindi, alcuna base consistente alla quale rapportarci. Se il riferimento del diritto non è Dio (e questa rappresenta una delle grandi intuizioni dell'antichità), se l'origine della legge non è Dio ma altro, quella legge non è giusta in sé. Se l'origine di una legge è il nostro interesse particolare, quella legge nasce ingiusta. Si tratta di una contraddizione in termini. Questo dovrebbe costituire per noi cattolici un modo per valutare una norma e la sua coercività. In coscienza siamo obbligati a rispettare certe leggi? Qualche volta potremmo non esserlo ma dovremmo allora assumerci le responsabilità conseguenti.

Notiamo che nel salmo appare presente l'aspetto della salvezza nella giustizia, la quale è la grazia divina che si traduce nei doni della Provvidenza. Potremmo dire che il Signore è giusto perché provvede ai bisogni dell'uomo. Dio è giusto perché salva e perché è provvidente.

Allora: giustizia = salvezza; giustizia = provvidenza.

 

Lettura del salmo 65

In questo salmo viene ripresa l'idea della salvezza e della provvidenza con l'aggiunta dell'idea del perdono. La giustizia divina sta nel perdono dei peccati.

 

Lettura del salmo 40.

Ritornano gli stessi argomenti dei salmi precedentemente letti con l'aggiunta del tema della fedeltà. Giustizia di Dio = fedeltà. Dio è giusto perché è fedele.

Ricordo che durante lo studio dei salmi si era detto che "fedeltà" era un concetto espresso in ebraico con la parola hesed e traducibile in italiano non con un solo termine bensì come "fedeltà misericordiosa" oppure con "misericordia fedele".

Dio è giusto perché fedele al suo patto, l'alleanza, che rappresenta il più grande segno della sua misericordia.

 

Leggiamo il salmo 111 ("Elogio delle opere divine") che esprime ancor meglio quest'ultimo concetto.

Si tratta evidentemente di un salmo alfabetico: l'inizio di ogni verso corrisponde a una lettera dell'alfabeto ebraico (allo scopo di facilitarne la memorizzazione).

Qui risulta particolarmente chiaro che la giustizia è sinonimo della fedeltà all'alleanza che il Signore ha stipulato. Nell'Antico Testamento la giustizia di Dio consiste nella sua fedeltà al patto da lui stesso stipulato; fedeltà che comporta salvare l'uomo, aiutarlo sempre (la Provvidenza!) e proteggere soprattutto i deboli (l'orfano, la vedova e lo straniero), gli umili, i perseguitati e i poveri.

Ci troviamo in un concetto di amore grandissimo: Dio è giusto perché è fedele e protegge il debole da "qualcuno". Fa quindi parte della giustizia divina anche rovesciare i potenti oppressori. 

Coordin.
00domenica 18 novembre 2012 21:35

La parola greca dicaiosüne (la giustizia di Dio) già nell'Antico Testamento viene applicata anche all'uomo.

Dio è giusto e l'uomo fatto a sua immagine e somiglianza non può che vivere quaggiù le stesse virtù che Dio possiede su, in cielo. E la giustizia dell'uomo in che cosa consiste? Consiste - come la giustizia divina - nella fedeltà all'Alleanza. L'uomo è giusto quando vive la fedeltà al patto che il Signore ha stipulato con lui.

Al di là di quanto scrive San Paolo sull'Alleanza con Abramo, noi sappiamo che per l'ebraismo si tratta del patto sancito solennemente sul monte Sinai tra Dio e Mosè, e da lui stesso trasmesso al popolo, e che si fonda sulla Legge, cioè sulla Torah.

Allora, l'uomo è giusto quando mette in pratica tutti i comandamenti della Legge.

Ecco le opere!

Teniamo, però, presente l'idea di San Paolo: l'uomo è giusto e la giustizia che possiede richiede che egli metta in pratica gli insegnamenti di Cristo.

 

 

Lettura di Osea 14,10.

Si tratta della ripresa del Salmo 1 - "Le due vie" - in cui si parla della via del giusto e della via dell'empio. E la nostra vita è la via, il cammino che ci viene presentato dal Signore. Ma c'è anche un'altra strada, quella indicataci dai malvagi. Il giusto, cioè colui che è fedele all'Alleanza con il suo Dio, non può che seguire la strada indicata dal Signore.

Ecco, allora, la Torah.

Ricordiamo tutto il simbolismo dell'acqua. La Torah viene paragonata all'acqua che dona la vita e nella quale affondano le radici dell'albero che non seccherà mai. Di conseguenza, il buon ebreo non può che esser giusto. E Gesù che pensa in proposito?

 

Lettura di Mat 5,1-2 Il discorso della montagna

L'evangelista ci presenta Gesù come il nuovo Mosè, la nuova rivelazione di una nuova Legge. E come Mosè sul monte ha ricevuto le tavole della Legge ed ha stipulato l'Alleanza con il Signore, così Gesù sul monte dona ai suoi discepoli la Legge nuova, la sua Legge.

Notiamo che il discorso della montagna non è rivolto alle folle, ma ai discepoli (V 1); non al mondo, ma alla Chiesa. Le parole di Gesù sono per i cristiani che accolgono la nuova Legge. Sappiamo che ci sono cose che Gesù dice a tutti, altre che sono rivolte solo agli Apostoli ed altre ancora riservate ai discepoli. Ecco, il discorso della montagna è rivolto alla Chiesa, ai discepoli.

 

Lettura Mt 5,3-10

Qui compare diverse volte il termine "giustizia" che per il cristiano significa il complesso delle norme proposte da Gesù secondo il suo stile. Chi ha fame e sete di giustizia in realtà ha fame e sete di uno stile di vita rinnovato, ossia dello stile di vita di Gesù. Costui desidera, brama vivere come è vissuto il Cristo. E i "perseguitati per causa della giustizia" (v. 10) sono i primi martiri della Chiesa; sono coloro che vivono secondo lo stile di Gesù e vengono così perseguitati e ammazzati.

Gesù è venuto per dare compimento alla Legge (v. 17)

 

Lettura v. 20 . Ecco due sistemi di vita:

se il nostro non sarà uno stile di vita cristiano, perché si fermerà alla Legge (scribi e farisei), non entreremo nel regno dei cieli.

Per vedere la nuova giustizia alla quale siamo chiamati come discepoli di Gesù, proseguiamo nella lettura del cap. 5.

 

Lettura vv. 21-28.

Il senso del v. 28 è profondissimo. Qui è in gioco la dignità della persona. Nel momento in cui tu guardi una persona per desiderarla quello non è più una persona ma un oggetto. Stai rendendo oggetto una persona che è stata creata per la gloria di Dio. Si tratta di un concetto importante da sottolineare, in quanto nella società attuale si è persa la dignità dell'uomo, della donna e della sessualità.

 

Lettura 5,29-48.

Ecco la giustizia del cristiano!

Riassumendo possiamo dire che Dio rivela la sua giustizia, cioè la sua fedeltà misericordiosa all'Alleanza, soprattutto in Gesù. Gesù Cristo è la rivelazione massima della fedeltà misericordiosa o della misericordia fedele di Dio. Gesù è il rivelatore del Padre. La nuova giustizia per il cristiano consiste nell'adesione a Gesù, il quale non deve essere visto come il portatore di un insieme di dottrine, ma, prima di tutto, come una persona che ci invita a seguirla. Gesù ci dà l'esempio, come nella lavanda dei piedi, perché noi lo imitiamo. Questa è la giustizia di colui che è discepolo.

Tutto ciò si basa sulla constatazione, sull'esperienza delle meraviglie di Dio. Il Signore è sempre fedele e mi dà la forza per realizzare quanto mi propone.

 

Per concludere, potremmo dire che per San Paolo siamo stati resi giusti da Gesù Cristo, che è la giustizia del Padre. E se siamo stati resi giusti, dobbiamo anche vivere da giusti. Noi, giorno per giorno, mettiamo in pratica nella nostra vita quella grazia che ci ha permesso di essere giusti, salvati e giustificati.

 

Ora vorrei approfondire un po' il concetto di fede che torna sempre accanto al concetto di giustizia nelle lettere di Paolo. Che cos'è la fede?

"Fede" in ebraico si dice aman che corrisponde all'Amen che noi pronunciamo spesso a conclusione delle preghiere.

Quando Gesù dice "in verità" nel testo greco abbiamo la parola Amen, la quale significa: è così, è vero, è proprio giusto, è stabile.

Si capisce subito che la prima realtà vera e stabile in assoluto è Dio.

Dio è il vero, Dio è il bene, Dio è la roccia. La parola Amen dal punto di vista della verità e della stabilità si applica anche a Dio.

 

Lettura di Deuteronomio 7,7-10

Nel v. 10 notiamo una certa evoluzione del pensiero.

In un certo brano la Torah dice che Dio si ricorderà per mille generazioni di coloro che lo amano, ma punirà fino alla quarta generazione quello che lo odiano.

Ciò puo' indurci a pensare che il male accaduto a un bambino (quindi ancora innocente) possa essere spiegato risalendo al peccato commesso dal padre, dal nonno o dal bisnonno. E si risale fino alla quarta generazione certi di trovare qualcuno che abbia peccato. E' una brutta concezione di Dio.

 

Al v. 10 il Deuteronomio dice che il Signore "..ripaga nella stessa persona coloro che lo odiano, facendoli perire...".

Come notiamo, si tratta di un'importante evoluzione già all'interno dell'Antico Testamento.

 

 

Dio è "il" fedele, Dio è "il" vero. A Lui si applica l'Amen

 

Quando a parola Aman viene applicata all'uomo indica l'atteggiamento più consono, cioè più vero, che egli deve avere per essere se stesso. E l'atteggiamento più vero dell'uomo è costituito dalla fede, intesa come fiducia in Dio e nei suoi atti salvici.

Questa considerazione risulta interessante dal punto di vista antropologico. Infatti la Bibbia andrebbe studiata non solo per capire chi è Dio, ma soprattutto per capire chi è l'uomo. Se l'uomo vuole essere vero, se vuole esse autenticamente uomo non puo' che avere fede. La fede deve costituire la realtà che lo connatura, perché l'uomo non può che riconoscere Dio, che è il vero, e non puo' che avere fiducia in questo Signore che gli si è rivelato come il Dio della storia, che lo salva nella storia. Allora scopriamo che chi non ha fede non è perfettamente uomo e sta vivendo solo con una parte di se stesso, perché non sta realizzando la parte più vera di sé.

L'uomo crede, pensa, si illude - magari - di non possedere la fede. E questo ribalta tutto: è l'ateismo che diventa un'illusione, non la fede.

Noi dobbiamo avere fiducia in Dio e nei suoi atti salvifici; fiducia che non ci aliena dal mondo, che non ci fa diventare fatalisti. Si tratta di una fiducia nei gesti salvifici di Dio che condiziona e anima tutte le scelte della nostra vita.

Torna evidente l'esempio di Abramo, colui che ebbe fede, che compì una scelta coraggiosa, diretta conseguenza della fiducia in Dio. Allora la fede non puo' che diventare obbedienza alla volontà di Dio, adeguamento alle sue richieste.

 

Lettura del salmo 119

Il salmo ci dice espressamente che il Signore ci ha regalato la "Legge", i suoi decreti, i suoi comandamenti; che per l'uomo non ci possono essere altra felicità, altra giustizia e altra fedeltà se non il mettere in pratica la Legge. E la fede ci induce a riconoscere che la Legge costituisce il dono più grande di Dio. E, poiché ci fidiamo del Signore, la nostra fede diventa fiducia in Lui, obbedienza alla sua Legge.

Quando parliamo di fede non intendiamo semplicemente il credere nell'esistenza di Dio. Per la Bibbia la fede è la fiducia in questo Dio che ci salva; è la conformazione da parte nostra alla salvezza da Lui operata. La fede diventa, allora, accoglienza di Dio e la collaborazione ai suoi atti salvifici.

Vi ricordate quando si parlava del Prologo di Giovanni? Luce e vita.... La fede, da un punto di vista biblico, è la sintesi tra luce e vita, è la fiducia in un Dio che si è rivelato salvatore. Accogliere questo Dio significa realizzare la sua salvezza nella nostra vita quotidiana. E per raggiungere tale obbiettivo, secondo la Bibbia, bisogna compiere delle rinunce.

 

Lettura di Isaia 7

La fede (la fiducia nel Signore) ci richiede di abbandonare i timori e le preoccupazioni per quanto ci succede.

 

 

Lettura di Geremia 17,5-8

Se vogliamo dimostrare la nostra fede dobbiamo rinunciare all'appoggio dell'uomo ("Maledetto l'uomo che confida nell'uomo..." v.5) e affidarci unicamente al Signore. Quando noi cristiani cerchiamo l'appoggio dei potenti commettiamo un'azione in contrasto con la Bibbia.

 

Lettura di 1 Samuele 2. "Cantico di Anna"

Non possiamo confidare nell'uomo, ma confidiamo nel Signore.

"L'arco dei forti si è spezzato

ma i deboli sono rivestiti di vigore" (v. 4)

Il Magnificat rende meglio queste immagini:

"...ha disperso i superbi...

....ha rovesciato i potenti dai troni....

...ha innalzato gli umili (Lc 1, 51-52).

Ben a ragione Geremia esclama "Maledetto l'uomo che confida nell'uomo...".

 

Lettura del salmo 40 e del salmo 130.

La fede diventa speranza, cioè attesa fiduciosa della salvezza di Dio.

Fede, speranza e carità. Senza la carità non c'è la fede e non c'è nemmeno la speranza.

 

 

 

XX lezione

Lettera ai Romani - continuazione

 

Nelle precedenti lezioni avevamo parlato delle fede e di alcuni elementi che la caratterizzano nell'Antico Testamento. "Fede" deriva dal verbo aman, in ebraico "credere", "avere stabilità", "essere così" (da cui Amen) e diviene, poi, speranza e attesa fiduciosa.

 

Nel Nuovo Testamento la parola "fede" ha come significati "fedeltà", "attendibilità" (che è anche una caratteristica di Dio, il quale rimane fedele al suo patto di alleanza), "fiducia" che si esercita (Dio ha fede nell'uomo). E diventa, poi, una fede che pone Dio come oggetto (l'uomo ha fede in Dio).

In San Paolo soprattutto il termine "fede" esprime un legame inscindibile e vitale (che dà senso alla vita) con Gesù crocifisso e risorto. Nel Nuovo Testamento l'uomo crede che Gesù è stato mandato da Dio: Gesù è l'inviato, il Messia. Il discepolo crede che Cristo è risuscitato dai morti e che Dio manifesta in Lui la sua volontà salvifica. Ricordo che in una bella preghiera eucaristica è detto: "In molti modi e attraverso molte persone Dio ha voluto stabilire la sua alleanza con gli uomini...".

Credere che il Signore manifesti la sua volontà salvifica soprattutto in Gesù Cristo costituisce l'apice della rilevazione.

Teniamo presente che nel dialogo interreligioso si parte dalla fede, la quale ci dice che Gesù Cristo è l'apice della rivelazione divina.

Per l'uomo la sola salvezza è costituita da Cristo crocifisso e risorto.

Allora, questa fede-adesione non costituisce semplicemente un atteggiamento intellettuale, ma soprattutto una virtù che ci permette di diventare "uno" con il Signore Gesù.

 

Lettura della lettera ai Romani 6,1-11.

Ecco, il mistero di una unione inscindibile realizzata nella fede; fede che consiste anche nell'accogliere un progetto di Dio che vuole salvarci attraverso la Croce.

Ecco, perché Marco nel suo sua Vangelo al cap. 1, vv. 14-15 (lettura) riporta le prime parole di Gesù: "...convertitevi e credete al Vangelo". "Metanoeite" in greco significa, infatti, "cambiate mente", "cambiate vita". Chi crede in Cristo, chi è unito inscindibilmente a Lui non può continuare a pensare alle opere del peccato e a compierle.

Ci dobbiamo accorgere che la Croce di Cristo è la sapienza di Dio, la cui logica è diversa da quella semplicemente umana. Dobbiamo sapere che esiste un uomo carnale (psichico) e un uomo spirituale e agire di conseguenza. In Gesù, poi, la fede ha una chiarissima connotazione di fiducia, assoluta, nell'onnipotenza divina. Dio può tutto.

 

Leggiamo in proposito Mt 17,14-20 "L"epilettico indemoniato".

Per Gesù la fede è fiducia assoluta nelle possibilità non dell'uomo ma di Dio. Il Signore puo' tutto.

 

Altro esempio: lettura di Mt 21,18-22

Anche in questo brano riscontriamo la fiducia totale nell'onnipotenza divina.

La frase contenuta nel v. 21 significa che se si possiede la fede si diventa addirittura partecipi dell'onnipotenza di Dio, cioè si è così in sintonia con Lui da poter chiedere le stesse cose che il Signore voleva già operare; si entra tanto in sintonia con Lui da carpirgli i segreti del suo cuore e da permettere che, attraverso la preghiera, questi segreti si realizzino, che la volontà diventi pratica.

Gesù annette un'importanza particolare a questo tipo di fede, tanto da subordinare molto spesso i miracoli alla fede. Mentre in alcuni casi - soprattutto nel Vangelo di Giovanni - che è il miracolo a suscitare la fede (che però è superficiale in quanto si basa sul "do ut des") in altri Vangeli, invece, troviamo ben sottolineato l'atteggiamento di Gesù che per compiere il miracolo chiede la fede. Il miracolo, cioè, non è la causa della fede ma ne costituisce la conseguenza.

 

Lettura di Mc 5,21-43

Risalta la grande fiducia della donna nell'onnipotenza divina; (v.28.).

Il padre della fanciulla ha continuato ad avere fede e la donna aveva una fede talmente grande da credere di poter guarire anche solo toccando il mantello di Cristo. La fede è qui la causa del miracolo ed è richiesta come humus, come terreno nel quale può compiersi il miracolo e portare ad un accrescimento della fede.

Quando s'insinua l'incredulità, viene a mancare il terreno fertile per i miracoli.

 

Lettura di Mt 13,53-58

Spicca in negativo l'incredulità dei suoi; incredulità che non permette a Gesù di trovare il terreno fertile per i miracoli.

E allora - siamo nel Vangelo di Matteo, scritto per i giudeo-cristiani - viene citato come esempio di fede autentica il pagano convertito.

 

Leggiamo ora Mt 8,5-13 in cui è detto che la fede è la cosa più importante nella vita. E il credere che Gesù puo' tutto ci fa vivere meglio.

 

In Paolo, in particolare, "pistis", la fede, si accompagna spesso con un altro termine facilmente individuabile, "karis", la grazia, il dono. La fede è dono e grazia, un dono che ci permette di cogliere meglio tutti gli altri doni elargitici dal Signore.

Per San Paolo, quindi, la fede assume la stessa caratteristica che Gesù richiede, cioè - sempre tenendo Abramo come modello - l'attenersi alle promesse del Signore, alla fiducia assoluta in Lui, al di là di tutte le possibilità umane. Ricordiamo che Abramo crede l'impossibile: Sara avrà un figlio nella sua vecchiaia. Dio ci sprona a credere l'incredibile.

E, allora, la fede, che fonda il nuovo essere cristiano, origina anche opere nuove, ossia una condotta di vita corrispondente a questo nuovo modo di essere.

 

Lettura della Lettera ai Romani 13,11-14 e 14,1-12.

Siamo nel "Kairos", il tempo favorevole, il tempo opportuno.

L'essere creature nuove richiede atteggiamenti nuovi e la consapevolezza di appartenere a Cristo che è morto per tutti.

In una comunità in cui si deve saper accogliere tutti e comprendere anche le debolezze degli altri. E, come, sosteneva Don Bosco, bisogna credere che se anche una mela è completamente marcia i suoi semi sono ancora sani.

La fede è vitale, nel senso che, se resta a livello puramente sentimentale o intellettuale senza tradursi nella vita, è morta. Dobbiamo, quindi, essere comprensivi verso tutti, perché ogni uomo possiede dei doni, anche molto nascosti.

 

Lettura della Lettera ai Romani 9,13

L'ultimo problema che prendiamo in esame nella Lettera ai Romani è quello relativo alla salvezza degli Ebrei. Problema che noi possiamo porci anche per gli appartenenti ad altre religioni.

 

Lettura di Rom 7,1-13

In questo brano San Paolo ribadisce che la Legge non porta alla salvezza (anzi rende schiavi del peccato) ed articola ulteriormente la sua posizione.

L'idea fondamentale è che quando un uomo vive nell'ignoranza non può nemmeno essere considerato peccatore. La persona amorale è ben diversa dalla persona immorale, perché la prima non sa quali siano i comportamenti che costituiscono peccato.

E secondo San Paolo l'uomo fino a quando vive nell'ignoranza non puo' essere definito peccatore. Solo quando viene posto un comandamento (ecco, "la Legge") e lo si conosce ma non lo si osserva, allora si è nel peccato.

La Legge ha fatto conoscere semplicemente il peccato ma non ha fornito alcuna possibilità per contrastarlo. Quindi la Legge non è cattiva in sé, anzi è santa, ma la sua conoscenza ha imprigionato l'uomo nel peccato.

 

Lettura della Lettera ai Romani 7,14-23

La Legge evidenzia il peccato.

Paolo ci dice che la natura umana ("la carne") è peccaminosa. E ciò nasce da Adamo, da quella macchia originale che il primo uomo ha trasmesso a tutta l'umanità; nasce da quell'orgoglio, insito nella natura umana, che ha portato il primo uomo a disubbidire a Dio.

Allora, per San Paolo la tentazione fondamentale è proprio quella narrata nella Genesi: se mangerete del frutto dell'albero diverrete come Dio. L'uomo ha la tentazione di superare continuamente se stesso volendo diventare come Dio.

 

 

 

XXI lezione

Lettera ai Romani - continuazione

 

Nella lezione precedente era stato introdotto il discorso sulla salvezza degli Ebrei, che avevano rifiutato Cristo.

 

Lettura della Lettera ai Romani 8,1-17

La legge dell'Antico Testamento, che sottolineava soltanto il peccato, ora è superata dala legge dello Spirito (pneuma).

Il termine sarx (carne) in San Paolo vuole significare essenzialmente "peccato". La carne viene qui intesa come desiderio di allontanarsi da Dio. E il peccato ha desideri contrari allo Spirito.

Nei versetti 14-17 appaiono i bellissimi orizzonti che si presentano a chi ha incontrato Cristo, ossia ad una persona che vive nello Spirito e ha abbandonato la carne, una persona per la quale veramente e finalmente si è realizzata la salvezza.

Ecco, allora, il problema di Paolo: che accadrà agli "altri" che non hanno incontrato Cristo?

 

Lettura Romani 8,31-39

Abbiamo letto un brano stupendo.

Si ha l'impressione che alcuni si siano voluti separare dall'amore divino.

Riprendiamo in considerazione il problema di Paolo: il Signore, che è fedele alle promesse, ha forse rigettato il suo popolo? Ha deciso, cioè, che non debbano più contare le promesse fatte al popolo ebraico? Si tratta del grande problema della fedeltà di Dio a se stesso, alle promesse fatte.

 

Possiamo individuare un primo tentativo di risoluzione del problema da parte di Paolo in Romani 9,6-13 (lettura).

In questo brano l'Apostolo inizia la sua dimostrazione dando uno sfoggio invidiabile della sua conoscenza delle Scritture, acquisita in Gerusalemme alla migliore scuola rabbinica, quella di Gamaliele.

Innanzi tutto le promesse di Dio non sono da intendersi secondo la carne, cioè secondo legami puramente umani. Quando il Signore promette ad Abramo una discendenza non pensa a Isacco, cioè alla discendenza secondo la carne. Infatti le promesse divine devono essere intese in senso spirituale, in quanto la discendenza che verrà da Abramo sarà secondo la fede, non certamente per le opere e per l'appartenenza a un determinato popolo.

Ricordiamo che oggi i discendenti di Abramo sono gli appartenenti alle tre grandi religioni monoteiste: cristianesimo, ebraismo e islamismo. Abbiamo veramente superato la discendenza secondo la carne.

 

Lettura della Lettera ai Romani 9,14-24.

Obiezione: ma Dio, allora, è ingiusto? Se ha promesso tanto al popolo ebraico, perché non mantiene?

Ecco la risposta di Paolo: ma come possiamo noi giudicare? Per comprendere il comportamento di Dio non dobbiamo metterci dal punto di vista della giustizia ma da quello della misericordia. E il Signore ama come vuole....

E' bello il paragone dei due vasi ("Oserà forse dire il vaso plasmato a colui che lo plasmò: "Perché mi hai fatto così?" v.20)

E' bello che i vasi siano fatti della stessa pasta ed è bello che ci siano persone diverse tra di loro, chiamate da Dio a operare diversamente. Ed è ancora più bello applicare questo concetto alla Chiesa nella quale ognuno ha la sua importanza.

Ora qualcuno potrebbe obiettare che San Paolo sta parlando di predestinazione. In un certo senso si, in altro senso no.

Veramente l'apostolo dice che Dio ha un progetto per ognuno di noi; sta poi a ciascuno (così come al popolo ebraico) accoglierlo o rifiutarlo. Se non altro il Signore, dice San Paolo, progetta di portarci tutti in paradiso. E in questa chiave si puo' anche leggere la sofferenza. Mi sento qualche volta di sostenere che la sofferenza è l'ultima arma che lasciamo a Dio per portarci in paradiso, per convertire un'anima a sé, per piegare la durezza di un cuore che lo rifiuta continuamente. E con la sofferenza qualche persona che possiede già il dono della fede puo' sublimarsi.

Quindi non si tratta, come si potrebbe pensare, di una predestinazione, perché Dio ha progettato per noi la felicità e la gioia, il cui ultimo stadio è proprio il paradiso. Tocca a noi accogliere o meno il progetto divino.

San Paolo, poi, ci vuole dire che l'amore proveniente da Dio chiama alcuni, non sappiamo perché, a fare da tramite affinché tutti ricevano il suo invito. Ecco, il senso del popolo eletto: la Chiesa funge da mediatrice della chiamata; una chiamata che il Signore rivolge a tutta l'umanità ma attraverso una sua piccola porzione che Egli stesso si è scelto.

Dio ha promesso benefici a qualcuno (non le promesse secondo la carne) nell'ambito di un suo amore che noi non possiamo sindacare.

Coordin.
00domenica 18 novembre 2012 21:38

Lettura della Lettera ai Romani 9,25-33.

Se esaminiamo bene la Scrittura, vediamo che il Signore ha già parlato più volte di un "resto". Ciò significa che il popolo eletto è infedele nella sua quasi totalità e soltanto qualcuno (appunto "il resto") gli è rimasto fedele. Questo è il tema - così importante nei Profeti - del "resto d'Israele". Per San Paolo questo "resto" non va più inteso secondo le opere, bensì secondo la fede. A quei tempi era la piccola parte del popolo ebraico che aveva creduto alla rivelazione di Gesù Cristo.

 

Lettura di Romani 10,19-21

Dio aveva già parlato nella Sacra Scrittura dei pagani, di un popolo nuovo (le famose "isole" dei profeti), un popolo diverso che seguirà Yahve anche meglio d'Israele. Quindi i pagani costituiscono quella nazione nuova alla quale il Signore indirizza il suo messaggio come aveva già detto, appunto, nell'Antico Testamento.

 

Lettura delle Lettera ai Romani 11,1-2^

Paolo afferma: io sono ebreo.

Dio non ha ripudiato il suo popolo, anzi ha continuato a manifestare le sue promesse. Ma il popolo ebraico le ha rifiutate e, allora, il Signore ha dovuto allargare gli orizzonti verso una nazione che prima non cercava.

 

Lettura di Romani 11,25-36

Alla fine dei tempi anche gli Ebrei si salveranno. Anzi, la durezza del loro cuore ha permesso a voi pagani, che eravate duri di cuore, di diventare morbidi di cuore. Ma dobbiamo stare attenti perché tutti siamo chiamati nella misericordia di Dio: loro che disubbidiscono adesso e voi che avete disubbidito prima. Voi siete salvati oggi, loro lo saranno domani. Quindi gli Ebrei, quando il Signore darà loro una nuova opportunità, arriveranno alla fede autentica.

 

Leggiamo quanto detto in proposito dal Concilio Vaticano II, "Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religione non cristiane "Nostra aetate"" - n° 4 - (allegata).

Si tratta di una dichiarazione quasi rivoluzionaria per la Chiesa cattolica e le altre religioni; e il cap. 4 è dedicato proprio all'ebraismo.

Questo documento preparò tutti i grandi gesti e le altre parole pronunciate successivamente (non ultimo il discorso di Giovanni Paolo II nella sinagoga di Roma). Cristo ha ottenuto la salvezza per tutti, nessuno escluso, quindi anche per coloro che lo ignorano.

 

 

 

 

 

4. Scrutando il mistero della Chiesa, il Sacro Concilio ricorda il vincolo con cui il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente legato con la stirpe di Abramo.

La Chiesa di Cristo infatti riconosce che gli inizi della sua fede e della sua elezione si trovano già, secondo il mistero divino della salvezza, nei Patriarchi, Mosè e i Profeti.

Essa afferma che tutti i fedeli di Cristo, figli di Abramo secondo la fede (6), sono inclusi nella vocazione di questo Patriarca e che la salvezza della Chiesa è misteriosamente prefigurata nell'esodo del popolo eletto dalla terra di schiavitù. Per questo la Chiesa non può dimenticare che ha ricevuto la rivelazione dell'Antico Testamento per mezzo di quel popolo con cui Dio, nella sua ineffabile misericordia, si è degnato di stringere l'Antica Alleanza, e che si nutre dalla radice dell'ulivo buono su cui sono stati innestati i rami dell'ulivo selvaggio che sono i Gentili (7). La Chiesa crede, infatti, che Cristo, la nostra pace, ha riconciliato gli Ebrei e i Gentili Per mezzo della sua croce e dei due ha fatto una sola cosa in Sé stesso (8). Inoltre la Chiesa ha sempre davanti agli occhi le parole dell'Apostolo Paolo riguardo agli uomini della sua stirpe: “ dei quali è l'adozione a figliuoli e la gloria e i patti di alleanza e la legge e il culto e le promesse, ai quali appartengono i Padri e dai quali è Cristo secondo la carne ”(cfr. Rom. 9, 4-5), Figlio di Maria Vergine.

Essa ricorda anche che dal popolo ebraico sono nati gli Apostoli fondamenta e colonne della Chiesa, e così quei moltissimi primi discepoli che hanno annunciato al mondo il Vangelo di Cristo.

Come attesta la Sacra Scrittura, Gerusalemme non ha conosciuto il tempo quando è stata visitata (9); gli Ebrei, in gran parte, non hanno accettato il Vangelo, ed anzi non pochi si sono opposti alla sua diffusione (10). Tuttavia, secondo l'Apostolo, gli Ebrei, in grazia dei Padri, rimangono ancora carissimi a Dio, i cui doni e la cui vocazione sono senza pentimento (11). Con i Profeti e con lo stesso Apostolo la Chiesa attende il giorno che solo Dio conosce in cui tutti i popoli acclameranno il Signore con una sola voce e “ lo serviranno appoggiandosi spalla a spalla ” (cfr. Sofonia, 3, 9) (12).

Essendo perciò tanto grande il patrimonio spirituale comune a Cristiani e ad Ebrei, questo Sacro Concilio vuole promuovere e raccomandare tra loro la mutua conoscenza e stima, che si ottengono soprattutto dagli studi biblici e teologici e da un fraterno dialogo.

E se autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo (13), tuttavia quanto è stato commesso durante la sua Passione, non può essere imputato né indistintamente a tutti gli Ebrei allora viventi, né agli Ebrei del nostro tempo.

E se è vero che la Chiesa è il nuovo popolo di Dio, gli Ebrei tuttavia non devono essere presentati come rigettati da Dio, né come maledetti, quasi che ciò scaturisse dalla Sacra Scrittura. Curino pertanto tutti che nella catechesi e nella predicazione della Parola di Dio non insegnino alcunché che non sia conforme alla verità del Vangelo e dello Spirito di Cristo. La Chiesa inoltre, che esecra tutte le persecuzioni contro qualsiasi uomo, memore del patrimonio che essa ha in comune con gli Ebrei, e spinta non da motivi politici, ma da religiosa carità evangelica, deplora gli odii, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell'antisemitismo dirette contro gli Ebrei in ogni tempo e da chiunque.

In realtà il Cristo, come la Chiesa ha sempre sostenuto e Sostiene in virtú del suo grande amore, si è volontariamente sottomesso alla sua Passione e Morte a causa dei peccati di tutti gli uomini e affinché tutti gli uomini conseguano la salvezza. Il dovere della Chiesa, nella sua predicazione, è dunque di annunciare la croce di Cristo come segno dell'amore universale di Dio e come fonte di ogni grazia.

 

 

(7) Cfr. Rom. 11, 17-24.

(8) Cfr. Epb. 2, 14-16.-

(9) Cfr. Luc. 19, 44.

(10) Cfr. Rom. 11, 28.

(11) Cfr. Rom. 11, 28-29; cfr. Const. Dogm. Lumen Gentium: A.A.S.

.57, 1965, p. 20.

(12) Cfr. Is. 66, 23; Ps. 65, 4; Rom. 11, 11-32.

(13) Cfr. Io. 19, 6.

 

Coordin.
00lunedì 19 novembre 2012 19:22

Lettere minori

 

Rivolgiamo ora la nostra attenzione alle Lettere minori iniziando a parlare delle lettere dalla prigionia indirizzate ai Colossesi, agli Efesini, a Filemone e ai Filippesi.

 

Dai riferimenti espliciti, contenuti in queste lettere sappiamo che furono scritte da Paolo mentre si trovava in prigionia.

Si pone una prima domanda: furono scritte da Paolo o da altri? Lo capiremo leggendo le singole lettere.

Altra domanda: dove sono state scritte? Sappiamo che l'Apostolo è stato prigioniero prima a Cesarea e poi a Roma. E vedremo che molto probabilmente sono state scritte proprio in quest'ultima città.

 

Lettura degli Atti degli Apostoli 21,27-40

Antefatto: Paolo è tornato a Gerusalemme. In quel periodo circolavano vari falsi messia fra cui l'Egiziano citato nel v. 28.

Proprio in quel tempo ebbe luogo la ribellione che anticipò di pochi anni la guerra giudaica (dal 66 al 70 d.C.) conclusasi con la distruzione di Gerusalemme.

L'Egiziano comandava quattromila ribelli che vennero sconfitti e massacrati dai romani. Paolo, a Gerusalemme, riconosciuto dai giudei della provincia d'Asia, viene arrestato con l'accusa di aver profanato il Tempio. L'intervento dei romani lo salva dal linciaggio e gli consente di arringare i giudei di Gerusalemme (Att 22).

 

Lettura di Atti 22,22-29 (Paolo cittadino romano).

 

 

XXII lezione

Lettere minori - continuazione

 

Nell'incontro precedente abbiamo letto un brano degli Atti degli Apostoli che narra l'imprigionamento di San Paolo (lascio a voi la lettura delle parti degli Atti riguardanti la prigionia dell'Apostolo a Cesarea e a Roma) che - in quanto cittadino romano - si era appellato all'imperatore per essere da lui giudicato ed era stato perciò trasferito via mare, sotto scorta, a Roma.

La prigionia dell'Apostolo nella capitale era simile agli attuali arresti domiciliari con la presenza costante di una guardia personale fino alla celebrazione del processo.

 

 

La lettera ai Colossesi

 

Lettura cap. 1, vv.1-8. Indirizzo e saluto.

Notiamo subito che Paolo è mai stato a Colossi, località situata vicino a Laodicea e fuori dai suoi itinerari.

La comunità colossese era stata evangelizzata da Epafra, nominato nelle Lettera. Si trattava probabilmente di un ricco mercante che aveva, perciò, la possibilità di spostarsi frequentemente nelle città del bacino del Mediterraneo. Infatti incontra Paolo molto probabilmente a Roma mentre era prigioniero. Epafra informa l'Apostolo delle vicissitudini della Chiesa di Colossi e si trattiene presso di lui per un certo periodo per assisterlo, tanto è vero che la lettera verrà recapitata ai Colossesi da un certo Tichico.

 

Colossi, collocata lungo la vallata del fiume Lico, era un florido centro di produzione e di lavorazione della lana e si trovava nelle vicinanze della città di Laodicea, che qualche decennio prima della lettera paolina aveva avuto un grande sviluppo, tanto da provocare una certa decadenza della città di Colossi.

 

 

Schema della lettera

- Esordio : 1,1-14

- I parte (dogmatica) 1,15 - 2,23

- II parte (parenetica): 3,1 - 4,6

- Epilogo : 4,7-18

 

Leggiamo la Lettera ai Colossesi 2,6-23 per conoscere i problemi di quella comunità che era costituita da ebrei convertiti e anche da pagani convertiti (coloro che erano morti per i loro peccati e per l'incirconcisione della carne).

In questa comunità composita, specie in presenza di cristiani giudeizzanti, compaiono - come sempre - il puro e l'impuro, perché gli ebrei convertiti erano ancora legati alle leggi di purità e di impurità tipiche della Torah.

Ma la nota più significativa è il riferimento di San Paolo agli angeli (Principato e Potestà) nel v. 10.

 

I Principati e le Potestà sono proprio da intendersi come categorie angeliche. Già allora il problema dell'esistenza e della natura degli angeli era di attualità. Qualcuno aveva impostato un sistema di pensiero, un dottrina, che S. Paolo chiama "filosofia". Ne è rivelatore il v. 8 del cap. 2 che rileggiamo. Dice il testo greco: tá stoicheia tu cosmu (gli elementi del mondo).

E "tá stoicheia" erano all'epoca, da un punto di vista ebraico, o meglio, delle credenze popolari ebraiche, le forze cosmiche oppure i singoli astri che venivano guidati nel loro movimento dalle Potenze Angeliche (specie di divinità che operavano su delega di Dio).

Ricordate il salmo 8 ?

Al v. 6^ riguardo all'uomo dice: "Eppure l'hai fatto poco meno di un angelo...".

Il vocabolo ebraico "eloim" che noi traduciamo con "angeli", in realtà significa "divinità", per cui per qualche studioso è da intendere come "poco meno di un Dio".

Queste divinità, queste Potenze sarebbero preposte a diversi settori dell'universo. Le Potenze angeliche erano presenti non come tali ma come spiriti nella cultura ellenistica del tempo e avevano quasi la funzione propria degli angeli nella tradizione ebraica, ossia - soprattutto - di guida del cammino degli astri.

Queste Potenze angeliche a Colossi stavano evidentemente prendendo il posto di Gesù Cristo.

 

Per alcuni interpreti nella Lettera ai Colossesi si puo' trovare la descrizione di una primissima eresia gnostica, cioè di una conoscenza basata tutti su spiriti, eoni, entità, ecc. Secondo questa teoria, se gli angeli regolano il flusso degli astri e se - come credevano tutte le tradizioni orientali - gli astri influiscono sulla vita dell'uomo, significa che sono le Potenze angeliche o spirituali a decidere della vita dell'uomo. Notiamo la pericolosità per il cristianesimo di tale sistema di pensiero per il quale non è più il Dio provvidente, non è più l'opera di Cristo, che morendo e risorgendo ci ha chiamati a sé nella vita eterna, a regolare la vita dell'uomo, ma sarebbero queste Potenze angeliche.

 

Paolo riafferma ai vv. 9-10 "E' in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità, e voi avete in lui parte alla sua pienezza...".

Notiamo che la Lettera ai Colossesi raggiunge livelli cristologici altissimi, ed è per questo motivo che alcuni studiosi ritengono che non sarebbe opera dell'Apostolo.

 

La pienezza della divinità abita in Cristo corporalmente; secondo alcuni interpreti proprio nel suo corpo. E' questa una definizione stupenda del mistero dell'incarnazione, della presenza in Cristo delle due nature, la divina e l'umana.

Per altri interpreti, invece, "corporalmente" è da intendere come "realmente". Avremmo in questo secondo caso una definizione più sfumata, ma ugualmente molto bella, dell'incarnazione. Non nel Verbo eterno ma in Gesù Cristo, nell'uomo-Cristo è presente la pienezza della divinità.

E subito ci viene in mente il v. 14 del Prologo di Giovanni, un versetto davanti al quale dovremmo rabbrividire: "cai o Logos sarx egheneto" ("il Verbo si fece carne").

L'evangelista in un altro modo esprime lo stesso mistero: il Verbo eterno diventa Gesù. E San Paolo aggiunge che proprio in Gesù Cristo abita la pienezza della divinità.

Quindi Gesù e il vertice di ogni realtà, perché in Lui avviene l'incontro perfetto tra la divinità e l'uomo. Il vertice di Dio incontra, abbassandosi, il vertice dell'uomo e crea una realtà totalmente nuova, ossia questo uomo-Dio che racchiude in sé le perfezioni dell'uomo e dell'altro.

Ricordiamoci sempre che il nostro è il Dio della Bibbia e non il Dio dei filosofi.

 

A Colossi molto probabilmente si era sviluppata una dottrina diffusa già nell'ebraismo, secondo la quale il mondo materiale sarebbe governato da "eoni" che fungono da intermediari tra l'eone perfetto (Dio) e il mondo stesso. Si tratta di creature totalmente spirituali, create da Dio, perché svolgano le sue funzioni a contatto con il mondo materiale - che è l'imperfezione - con cui la perfezione non può avere rapporto alcuno. Il mondo esce dalla "sofia", ossia dalla sapienza divina (che la gnosi cristiana identificherà con lo Spirito Santo).

Questa "sofia", che è un eone, dà origine al "demiurgo", cioè ad una nuova creatura ancora spirituale ma gerarchicamente inferiore. Il demiurgo sfugge al contro della sofia che l'ha creato e in un momento di euforia crea il mondo materiale.

Quindi, secondo una tale visione, il mondo materiale, l'universo, sarebbe un errore di Dio, un insieme sfuggito al controllo divino.

La sofia (spirito) all'insaputa del demiurgo instilla nell'uomo (essere materiale ed imperfetto) una piccola parte di sé e lo rende capace di comunicare con gli eoni e anche con l'eone perfetto. L'uomo, allora, ha in sé quella piccola parte di "spirito" (che noi potremmo anche chiamare "anima") che permette il contatto con l'eone perfetto. E quando l'uomo così imperfetto riesce ad attivare questo contatto attraverso la sofia realizza la conoscenza di Dio.

Ecco, quindi, che la salvezza, secondo la gnosi cristiana, consiste nell'opera di Cristo ma nella conoscenza che per illuminazione si può avere da Dio.

 

Leggiamo Atti 8,9-13. "Simone, il mago",

colui che gli interpreti definiscono come il primo gnostico autentico di cui parla il Nuovo Testamento.

Costui diede inizio alla setta eretica del "magismo" che ebbe ampia diffusione nei primi decenni del cristianesimo..

 

v. 10 "Questi è la potenza di Dio, quella che è chiamata grande."

Ecco la gnostica secondo la quale Dio ha trovato un eone per manifestarsi: Simon mago. Ci domandiamo, allora: ma se l'eone è perfetto perché si manifesta in un corpo? Cadiamo così in un'altra eresia, il "docetismo", per cui il corpo non è reale ma apparente.

Di conseguenza Gesù non avrebbe assunto un corpo reale ma apparente, in quanto la natura divina non può mischiarsi con la natura umana.

 

Lettura Atti 8,14-20

Si manifesta la "simonia" che consiste nell'acquistare con denaro le cose sacre.

Nell'ambiente giudaico era presente la realtà della gnosi e Simone il mago ne è la testimonianza.

Appare facile comprendere, allora, come per effetto di questa dottrina Cristo risulti completamente svalutato: al massimo potrebbe essere il primo eone (e non quello perfetto) o addirittura il demiurgo. Perciò la lettera ai Colossesi comincia con uno stupendo inno cristologico.

 

Lettura della Lettera ai Colossesi 1,9-20

Leggiamo anche l'introduzione all'inno che in alcune parti potrebbe essere preesistente come inno liturgico battesimale.

Secondo alcuni studiosi l'inno inizia al v. 13, per altri al v. 15 e per altri ancora al v. 14. E' chiarissimo in questo brano l'intento di Paolo: tutto è sottomesso a Cristo.

 

v. 13 - rilettura. "...ci ha trasferiti nel regno del Suo Figlio diletto...".

"Del suo Figlio diletto" costituisce la traduzione errata di "tu uiú tes agápes autú" che invece significa "Figlio del suo amore": Cristo è il Figlio della pienezza dell'amore del Padre. Attraverso Cristo si manifesta agli uomini l'amore di Dio che salva e redime in modo del tutto gratuito. Cristo è il "prodotto" più eccelso e perfetto dell'amore del Padre ed è colui che porta quell'amore a tutti gli uomini di tutti i tempi.

La parola "diletto" ci potrebbe far pensare solo ad un padre che ama il figlio; sicuramente, quindi, non rende esattamente il significato del testo greco.

 

La concezione ebraica considera Dio invisibile, inconoscibile e totalmente lontano dall'uomo, mentre in questa lettera Paolo si avvicina alla concezione giovannea (lettura di Gv 1,18):

"Dio nessuno l'ha mai visto:

proprio il Figlio unigenito,

che è nel seno del Padre,

lui lo ha rivelato."

Questa frase è ripresa in Gv 14,5-12 (lettura). In Paolo e in Giovanni il Cristo storico, cioè il Verbo incarnato, è il perfetto rivelatore del Padre.

 

Sulla croce noi vediamo crocifisso l'amore del Padre. E noi comprendiamo la dimensione dell'amore del Padre solo se guardiamo la dimensione dell'amore di Cristo. Ecco perché è così difficile accogliere il nostro Dio che soffre e muore. Questo spiega tutti i tentativi effettuati in duemila anni di razionalizzare il mistero dell'amore divino, cioè di ridurre Dio e il suo amore ai nostri schemi mentali.

 

 

 

XXIII lezione

Lettera ai Colossesi - continuazione

 

Riprendiamo la lettera ai Colossesi esattamente dallo stupendo inno cristologico.

Cristo è il primogenito ma non in senso letterale. E' il primogenito di coloro che risuscitano dai morti, colui che è generato prima di ogni creatura. Allora si intende che a Cristo, come primogenito, si vogliono attribuire le caratteristiche e i diritti propri del primogenito che nell'antichità godeva di diritti ben precisi. Infatti aveva la preminenza su tutti i fratelli e alla morte del padre ereditava il patrimonio e la terra.

Cristo ha il diritto di sovranità su tutte le cose create; ciò significa che la sua è una posizione privilegiata.

E "poiché per mezzo di lui sono state create tutte le cose" Egli è generato prima di ogni creatura ed è un intermediario della creazione. Teniamo, quindi, presente il Cristo storico, non tanto il Verbo eterno.

S. Paolo sostiene decisamente l'idea che l'incarnazione del Verbo è da sempre nella mente di Dio e che tutto è stato fatto in vista di quell'evento, di quel mistero. Il Verbo eterno diventa carne. Questo costituisce il centro, il culmine del pensiero divino.

E il Verbo incarnato è il principio di vita, perché Dio ha pensato tutta la creazione in funzione sua. Se Cristo "è" anche il resto puo' "essere"; se Cristo non "fosse" non "sarebbe" nemmeno il resto. Ciò significa che senza di Lui non possiamo operare nulla; senza di Lui non siamo nulla, non sussistiamo nell'essere. In pratica non vivremmo.

Dio ha pensato tutto in funzione di Cristo. Anche noi siamo stati pensati in funzione di Cristo come il nostro fratello, la nostra sorella, "l'altro".

 

Nella lettera ai Colossesi tornano i termini "Troni, Dominazioni, Principati e Potestà" (cap. 1,16). S. Paolo adotta il vocabolario della tradizione angelologica ebraica, cioè usa parole comuni al giudaismo per distinguere le varie categorie angeliche, per affermare che Cristo prevale su tutte le categorie angeliche. Tutto questo per confutare l'eresia - ben nota anche a Colossi - secondo la quale Cristo era uno dei tanti angeli; mentre, invece, è colui in funzione del quale sono stati creati anche gli angeli.

Quindi il Verbo è decisamente superiore agli angeli.

 

Più ancora che nella creazione, però, la divinità di Cristo si manifesta nella sua incarnazione, che ha come scopo finale la redenzione, nel mistero della morte in croce, nella risurrezione che apre le porte della vita eterna a una moltitudine di fratelli.

Se l'incarnazione ha per scopo la morte e la risurrezione di Cristo, ciò significa che nel progetto di Dio il culmine è costituito dalla redenzione di tutte le creature, dal "mistero pasquale".

Nel sangue di Gesù si realizza la riconciliazione tra il cielo e la terra, tra Dio e l'uomo.

La croce costituita da un'asse verticale e da una orizzontale rappresenta il simbolo della riconciliazione realizzata verticalmente (Dio-uomo) e orizzontalmente (tra gli uomini). In quell'uomo-Dio crocifisso si ristabilisce quell'armonia nell'universo che il peccato aveva spezzato (Vedere la IV preghiera eucaristica).

 

Lettura di Colossesi 3,1-4

San Paolo ci sta dicendo che non dobbiamo disincarnarci, ma occuparci delle cose della terra pensando al cielo. Potremmo pregare così: Signore, aiutaci a guardare e ad usare i beni della terra tenendo però ben presenti i beni del cielo; a guardare le cose di quaggiù sapendo che non sono tutto, anzi........

 

Lettura di Col 3,5-17

Una sottolineatura relativa al v. 12. La parola "sentimenti" andrebbe tradotta "visceri di compassione", espressione biblica che ci fa pensare alla maternità di Dio, all'umanità di Dio che va al di là di ogni nostra immaginazione.

 Nella versione italiana (dal greco) il termine "rivestitevi" significa più esattamente "mettete come abito". E quando parliamo di "abitudine" intendiamo il nostro "habitus", cioè quella cosa che ci qualifica, che fa parte di noi stessi. E la prima impressione che diamo è quasi mai sbagliata.

Coordin.
00lunedì 19 novembre 2012 19:25

Lettera agli Efesini

 

Lettura degli Atti degli Apostoli 19,1-10 e 21-27

 

Qualche storico sostiene che il vero motivo dell'uccisione di Gesù non sia stato religioso e politico ma semplicemente economico. Infatti la decisione della condanna a morte di Cristo sarebbe stata presa dopo il suo gesto profetico di rovesciare i banchi dei cambiavalute e di cacciare i mercanti dal Tempio. Con tale atto Gesù aveva toccato gli interessi economici del gruppo sacerdotale appartenente alla setta dei Sadducei. Questi ultimi, infatti, non avevano alcun interesse particolare per le dispute teologiche, ma si preoccupavano principalmente del loro grande giro d'affari che aveva come centro il Tempio. A questo proposito ricordiamo il brano sulla purificazione del Tempio in Gv 2,13-22.

 

Lettura Atti 19,28-31

Scopriamo che non risponde a verità che il cristianesimo fosse la religione degli schiavi e dei derelitti. Certamente molti discepoli appartenevano a queste due classi sociali, ma è anche vero che fino dall'inizio aderivano al cristianesimo anche persone dei ceti sociali più elevati. Negli anni 90, durante la persecuzione di Domiziano, una delle prime vittime fu addirittura un console, cugino dell'imperatore. Ciò significa che il cristianesimo si era ormai diffuso fra gli appartenenti a tutte le condizioni sociali fino a raggiungere i vertici dello Stato.

E questi maggiorenti della provincia erano amici di Paolo. Tutti i capi romani, comunque, consideravano il cristianesimo senza particolare avversione ma come una delle tante religioni esistenti nell'impero.

Nei vangeli apocrifi si puo' leggere una falsa lettera dell'imperatore Tiberio con la quale venivano richieste al procuratore della Giudea notizie sui motivi della condanna a morte di Gesù. In essa si diceva che i cristiani erano considerati brava gente.

Qualche studioso ha addirittura ritenuto autentica questa pseudo-lettera di Tiberio sostenendo che l'imperatore aveva sempre cercato, come stile di governo, di dividere gli avversari. Ricordiamo tutti il motto "divide ed impera" (dividi e comanda). Proprio in questa prospettiva, secondo costoro, sarebbe da ritenere plausibile la lettera attribuita a Tiberio.

 

Lettura degli Atti 20,1 e 20,17-38

Paolo a Efeso ha lasciato il cuore. Certamente ha molto lavorato per la comunità efesina.

 

Efeso era la capitale della provincia dell'Asia e si trovava nel territorio dell'attuale Turchia. Definita da Plinio il Vecchio "lo splendore dell'Asia", vantava il tempio di Artemide, ritenuto una delle sette meraviglie del mondo.

La lunga presenza di Paolo in questa città porta, però, a dei problemi riguardo alla Lettera.

I - Innanzi tutto, a chi è indirizzata questa lettera? "....ai santi che sono in Efeso...."(1,1). Nel manoscritto più antico non compare "in Efeso" ma solamente "ai santi".. In tutti gli altri codici nell'indirizzo è presente "in Efeso". In realtà l'antichità di un codice non costituisce un valido criterio di giudizio, perché il codice meno antico potrebbe essere in realtà la copia di uno più antico non in nostro possesso.

Sulle parole dell'indirizzo sono state formulate diverse ipotesi nel corso dei secoli.

 

L'eretico Marcione sostiene che la lettera sarebbe stata indirizzata agli abitanti di Laodicea, città resa famosa dalla maledizione, contenuta dell'Apocalisse, alla sua chiesa ("Io sto per vomitarti dalla mia bocca....").

A causa di un certo ostracismo presente in alcune chiese verso quella di Laodicea, San Paolo avrebbe sostituito l'indirizzo vero (alla Chiesa di Laodicea) con quello a noi noto "ai santi che sono in Efeso". Il fatto che già nei primi secoli fossero state formulate questi ipotesi testimonia le difficoltà presente nelle varie Chiese.

 Alcuni studiosi sostengono che la nostra lettera potrebbe essere una specie di "enciclica", una circolare inviata a diverse comunità singolarmente e dai contenuti teologici e morali generali. Sarebbe rimasta traccia solo di quella mandata agli Efesini in quanto costoro avrebbero avuto probabilmente il gusto di copiarla e di tramandarla. Si tratterebbe di una spiegazione abbastanza plausibile.

 

Altri ritengono che, essendo Efeso la capitale di tutta l'Asia, fosse abbastanza ovvio l'indirizzo a quella Chiesa anche se in realtà, sotto forma di "circolare", venne poi mandata alle altre comunità cristiane.

 

II - La Lettera è stata scritta veramente da Paolo?

Alcuni interpreti pensano che vi siano troppi "Apax". Si tratta di una parola che si trova una sola volta in un testo e non è stata più ripetuta. Ci sono, infatti, 39 parole mai più riprese in tutto il Nuovo Testamento e ben 83 mai più ripetute nelle altre lettere paoline, per cui secondo tali interpreti questo testo si allontanerebbe tantissimo dal vocabolario di Paolo e dal suo stile.

Si tratta di un problema relativo in quanto la lettera ai Galati, di cui nessuno mette in dubbio l'attribuzione, contiene anch'essa 36 parole mai ripetute nel Nuovo Testamento. Tutto ciò è dovuto al fatto che Paolo, trovandosi di fronte a problemi diversi da quelli affrontati, ad esempio, nella Lettera ai Galati, cerca di adeguare il suo linguaggio alle soluzioni che propone.

 

Per altri interpreti nella Lettera agli Efesini sarebbe presente una concezione della Chiesa troppo evoluta rispetto al pensiero di Paolo.

 

Se è vero, come è vero, che quelle che sono definite "Lettere minori" sono state scritte nella prigionia, vuol dire che esse riassumono l'esperienza teologica, spirituale e mistica di Paolo e che il suo pensiero si era evoluto rispetto al 1a Corinzi e alla 1aTessalonicesi, scritte anni prima.

 

In questa lettera l'Apostolo insiste tantissimo sulla conoscenza del mistero di Gesù e si presenta a noi come un grande teologo e come uomo di preghiera.

 

 

 

 

XXIV lezione

Lettera agli Efesini - continuazione

 

Riprendiamo l'esame della Lettera agli Efesini iniziando, però, con il verificare quanto scrive S. Paolo sullo stesso argomento nella Lettera ai Colossesi.

 

Lettura ai Col 3,18-24

Troviamo diversi brani di questo tipo nelle "lettere minori", perché l'Apostolo sta cercando di fondare una morale cristiana che abbia come centro il Signore Gesù e si estenda a tutti gli aspetti della vita.

Se esaminiamo bene le lettere paoline scopriamo che nessun aspetto della vita dell'uomo è esente dalla presenza di Cristo (vita sociale, vita politica, ecc.), il quale, pertanto, non può non essere presente nella vita familiare. Anzi, se è vero che la prima chiesa è basata sulle famiglie (è una chiesa domestica) che si riunisce nelle case, che è formata da un piccolo gruppo di persone, è altrettanto vero - e a maggior ragione - che Cristo deve portare la sua novità a questo primo, essenziale ambito di vita.

 

Lettura di Efesini 5,21-33 e 6,1-9

Non sono versetti facili ma servono per spiegare brani simili presenti nelle lettere paoline. Questo brano venne scritto in un'epoca in cui vigeva il diritto romano, il pater familias era colui che aveva autorità su tutta la famiglia, tanto che ad un figlio maschio, per sottrarsi al potere di vita e di morte attribuito al padre, era necessaria una cerimonia pubblica detta emancipatio.

 

Per quanto riguarda, invece, la prassi, specie in Grecia e nell'ambito ellenistico orientale, i rapporti familiari erano molto sfilacciati. Infatti la famiglia non rientrava tra gli interessi principali delle persone, tanto che, ad esempio, non rappresentava un problema avere relazioni extra-coniugali.

Era questa una situazione che metteva, di diritto, l'uomo come padrone assoluto di tutta la famiglia mentre, di fatto, uomini e donne erano liberi di agire come volevano.

 

In tale contesto il problema di S. Paolo era: Cristo ha qualcosa di nuovo da comunicare?

Per l'Apostolo, per capire fino in fondo il rapporto tra un uomo e una donna, cioè il vincolo matrimoniale, è necessario pensare addirittura al rapporto di Cristo con la sua Chiesa. Questo riferimento non è presente nel brano ai Colossesi, dove c'è solo un accenno a Cristo "Servite a Cristo Signore" (Col 3,24b) e, quindi, non un approfondimento così notevole.

Allora, per comprendere questa unione tra un uomo e una donna bisogna guardare non solo a Gesù Cristo in generale, ma a Gesù Cristo nel suo rapporto con la Chiesa.

Questo è l'orizzonte di altissimo livello nel quale Paolo si muove e in tale ambito la parola tradotta con "sottomesse" (Ef 5,22) comincia a stonare se la recepiamo come siamo abituati ad intendere noi la sottomissione.

 

Per capire questa espressione dobbiamo sapere che l'Apostolo parte da una considerazione generale e cioè: "Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo." (Ef 5,21). Ciò significa che i cristiani tra di loro debbono essere tutti - come regola normalissima di rapporti e, quindi, andiamo già al di là del marito e della moglie - sottomessi gli uni agli altri..

Il verbo "siate sottomessi" (upotassesthai) è composto al medio-passivo. E' importante saperlo perché altre volte il verbo viene usato con questa accezione medio-passiva, come per es. in Luca 2,51 (siamo alla fine dell'episodio di Gesù fra i dottori nel Tempio e del suo ritorno a Nazareth dove "...stava sottomesso" ai genitori terreni.).

 

Leggiamo in proposito anche un altro brano e cioè 1 Cor 15,26-28.

Il nostro verbo, quando è usato nella forma medio-passiva "upotassesthai", indica la sottomissione volontaria di Cristo a Dio, dei cristiani a Cristo e degli uni agli altri.

Questo verbo è quasi un termine tecnico che usa S. Paolo e (come avete notato) anche la tradizione lucana. Sappiamo che Luca è abbastanza debitore all'Apostolo essendo stato uno dei suoi discepoli. Infatti, tante tematiche sviluppate nelle lettere paoline e le ritroviamo nel Vangelo di Luca e negli Atti degli Apostoli.

 

Questo verbo indica proprio una sottomissione che non nasce da coercizione ma che trova la sua radice nell'amore e nella fede. Nell'amore che lega il Figlio (Cristo) con il Padre e nella fede che diventa amore e che lega i cristiani a Cristo. La fede ci lega a Cristo, l'amore li lega fra di loro.

Possiamo ora capire come cambi molto il significato così duro che sembra avere la voce verbale "sottomesso": siamo di fronte ad un atteggiamento, ad un sentimento che nasce dall'amore, dal dono reciproco tra Padre e Figlio, tra Dio-Figlio e i cristiani, e dei cristiani tra di loro.

In questa prospettiva diventa, allora, più comprensibile quanto è scritto dopo: "E voi, mariti, amate le vostre mogli..." (Ef 5,25).

 

Per definire "amare" San Paolo usa il verbo agapáo. Egli non si limita a dire che i mariti debbono voler bene alle mogli, ma parla di "agapáo", cioè dell'amore totalmente gratuito tipico di Dio. Tutto nasce dalla sottomissione degli uni agli altri, dall'accogliere da parte della Chiesa Cristo come "capo", come fonte della salvezza.

Il marito e la moglie devono avere lo stesso atteggiamento reciproco di "agápe" che ha avuto Cristo verso la Chiesa, cioè un amore totalmente gratuito.

Si capisce, così, la portata rivoluzionaria di questo brano. Infatti non si tratta di coercizione e neppure di un obbligo legato a un contratto, ma si tratta di "agápe", di amore che permette ai cristiani di esser sottomessi gli uni agli altri, cioè di accogliersi gli uni gli altri come il proprio "capo" (quando si parla di Cristo capo della Chiesa si intende sempre la fonte della salvezza).

 

In questo brano c'è tutta la teologia del matrimonio. Il marito e la moglie non sono più due persone ma una carne sola. Ecco, perché amarsi vuol dire realizzare se stesso: amare "lei" è come amare se stesso.

 

La famiglia, però, non si limita alla moglie e al marito, ma comprende anche altri membri. E Paolo, in questo, brano, considera la famiglia tradizionale composta dai coniugi e dai loro figli e da coloro che si chiameranno "famigli", cioè schiavi.

 

Lettura Ef 6,1: "Figli, obbedite ai vostri genitori nel Signore, perché questo è giusto."

 

Per sapere quanto è detto nell'Antico Testamento riguardo all'educazione dei figli leggiamo

Siracide 30,1-13

Proverbi 19,18

 

Lettura di Ef 6,1-4

Siamo sempre in quel clima di "agápe" che deve regolare i rapporti di ogni cristiano nei confronti di un'altra persona.

 

Lettura di Ef 5,32

"Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!"

In questo versetto la parola "mistero" è usata come oggi, nel senso di una cosa pensata da Dio nel suo progetto di salvezza.

Quando, dopo l'elevazione del calice, diciamo: "Mistero della fede..." (l'anamnesi) questa espressione non ha tanto la valenza di un evento strano e misterioso, ma ha il significato attribuitole da Paolo, cioè di un evento salvifico per eccellenza, pensato da Dio fin dall'inizio per la salvezza dell'uomo.

 Il matrimonio è questo mistero. Nel matrimonio due persone non solo stipulano un contratto, non solo simboleggiano l'amore di Cristo e della Chiesa ma lo realizzano, così come l'Eucarestia realizza di nuovo il mistero pasquale: la passione, la morte e la risurrezione di Gesù.

Ecco, allora, che il matrimonio assume un significato ancora più alto, perché fa parte del progetto salvifico di Dio e ripresenta in modo efficace e autentico l'amore tra Cristo e la Chiesa. 

Coordin.
00lunedì 19 novembre 2012 19:26

Lettera a Filemone

 Riandiamo allea Lettera ai Colossesi e leggiamo i versetti 7-9 del cap. 4.

 Chi era Onesimo? Sappiamo da questo brano che era di Colossi e che, mandato da Paolo, accompagna Tichico, latore della lettera.

Leggendo la lettera a Filemone scopriamo chi era Onesimo. Innanzi tutto vediamo che la Lettera a Filemone costituiva una specie di biglietto di presentazione di questo personaggio. 

Lettura di Lettera a Filemone 1-25.

Onesimo era uno schiavo di Filemone; schiavo che a un certo momento era fuggito, molto probabilmente dopo aver derubato il padrone. Giunto a Roma, incontra Paolo, si converte e diventa, così, un fratello del Signore e, quindi, anche di Filemone, il quale era stato ed era ancora il suo padrone che, secondo la legge romana, aveva il diritto di farlo uccidere.

 

In questa lettera San Paolo non condanna la schiavitù e non chiede esplicitamente che il padrone renda libero lo schiavo, anche se (molto probabilmente) velatamente esprime questo desiderio quando scrive di non mettere limiti "...sapendo che farai anche di più di quanto ti chiedo." (v. 21).

 

La schiavitù nell'antichità costituiva uno dei fattori economici che regolavano la società. Abbiamo notizia di schiavi in Mesopotamia nel 3000 a.C.

Quando Paolo scrive, il diritto romano considerava lo schiavo res, una cosa, uno dei tanti oggetti di proprietà del padrone.

Diversi erano gli statuti dell'Oriente, poi recepiti nel mondo romano, dove lo schiavo godeva di alcuni diritti, come il diritto di proprietà. Infatti poteva possedere dei beni e poteva, addirittura, essere padrone di altri schiavi; poteva, inoltre, svolgere un'attività commerciale purché il padrone ne fosse a conoscenza e ne avesse dato l'approvazione.

Per il mondo romano la condizione dello schiavo risentiva anche di quanto era avvenuto durante le sanguinose guerre civili (condotte da gruppi di schiavi che si erano ribellati ai loro padroni), che erano state vinte dai Romani stroncando nel sangue le varie ribellioni pochi anni prima dell'inizio dell'impero.

 

Per conoscere l'atteggiamento del mondo ebraico sul problema della schiavitù leggiamo Deuteronomio 20,10-15, non dimenticando che gli ebrei costituivano un popolo nato dalla liberazione dalla schiavitù e che aveva ben presente quella lontana condizione.

Nel brano è stabilito che nelle città conquistate con la guerra si procedesse all'uccisione di tutti gli uomini e alla riduzione in schiavitù delle donne e dei bambini. Invece le città abitate da alcuni popoli (elencati nel brano stesso) dovevano essere distrutte con lo sterminio di tutti i loro abitanti e di tutti gli altri essere viventi. Questo era il "Kerem", cioè lo sterminio, la guerra santa. Guerra che era detta "santa" non soltanto perché rivolta contro i popoli nemici del Signore, ma perché richiedeva, appunto, il "Kerem", lo sterminio totale di ogni essere vivente.

Consideriamo, quindi, che la guerra costituiva una notevole fonte di schiavi.

 

 

 

 

 

 

 

XXV lezione

Lettera a Filemone

 

Mi riallaccio alla lezione precedente nella quale avevamo letto e brevemente commentato Deut 20 e avevamo sottolineato alcuni elementi veramente un po' strani per la nostra sensibilità.

 

Lettura di Numeri 31,1-24

Anche in questo capitolo è presente la tematica della schiavitù.

Esistevano gli schiavi e la loro presenza è attestata in alcuni libri dell'Antico Testamento i quali raccontano i tentativi di regolamentare le condizioni di vita di queste persone. Gran parte di loro aveva la guerra come origine della propria schiavitù; erano prigionieri che venivano portati al servizio dei vincitori.

Sappiamo che i Madianiti erano nemici storici degli israeliti e che questo brano si riferisce a una vera e propria "guerra santa" durante la quale venivano uccisi tutti gli uomini catturati, mentre le donne, i bambini e tutto il bestiame erano considerati come bottino. Ma Mosè ordinò di uccidere "ogni maschio tra i fanciulli" e "ogni donna che si è unita con un uomo" (v. 17) e di conservare in vita per i vincitori "tutte le fanciulle che non si sono unite con uomini" (v. 18).

 

Gli uomini che avevano ucciso un nemico erano obbligati a rimanere fuori dall'accampamento per sette giorni e a purificarsi. Si tratta dello stesso concetto della purificazione che è alla base della macellazione rituale praticata ancora oggi dagli ebrei e dagli islamici. Notiamo che erano soggetti a purificazione anche gli oggetti costituenti il bottino di guerra.

 

Troviamo contemplato un altro motivo di schiavitù in Levitico 25,35-46 ("Riscatto delle persone") - Lettura.

Si sta parlando del differente comportamento da tenere nei confronti degli israeliti rispetto a quello consentito verso gli schiavi che si poteva acquistare scegliendoli tra gli appartenenti ad altri popoli e tra i figli degli stranieri stabiliti in Israele.

Nessun ebreo diventava schiavo di un altro ebreo - anche nel caso che si fosse venduto per pagare i debiti con il proprio lavoro - perché era un uomo libero e avrebbe potuto essere utilizzato solo come bracciante.

 

Nell'anno del giubileo si doveva tornare liberi anche dal peccato e l'ebreo in stato di schiavitù, quindi non ancora riscattato, doveva tornare libero assieme ai suoi figli.

Alcuni studiosi sostengono, però, che il giubileo (riscoperta della liberazione dalla schiavitù in Egitto) non sia mai stato celebrato in quanto avrebbe provocato una rivoluzione totale.

Nell'anno del giubileo tutto doveva essere restituito al proprietario e bisognava riconsiderare il rapporto con la terra lasciando riposare i campi. Ovviamente si dovevano preparare le scorte durante gli anni precedenti.

 

Lettura di Esodo 21,4-11

Secondo alcuni studiosi le norme del brano del Levitico appena letto costituirebbero un adattamento delle prescrizioni molto più rigide che ora leggiamo.

Notiamo l'introduzione dell'anno sabbatico (un anno di riposo ogni sette) nel quale doveva essere liberato ogni ebreo acquistato come schiavo da un altro ebreo. Anche qui è contemplata una differenza di trattamento fra gli ebrei e gli stranieri.

Osserviamo che alcuni sono schiavi per nascita.

Se uno schiavo ebreo non vuole essere liberato, diventa "schiavo di Dio" e, perciò, continua ad essere utilizzato dal suo padrone.

 

Lettura di Esodo 22

E' contemplato il caso del ladro che, non potendo risarcire il danno procurato con il furto, diventa schiavo finché non avrà estinto il debito con il guadagno del proprio lavoro.

 

Lettura di Deut 15,12-15 ("Lo schiavo").

Questo brano prevede la liberazione al settimo anno (sabbatico) dello schiavo (e della schiava) israelita, con l'obbligo per il padrone di dargli la possibilità di ricostituirsi una vita da uomo libero. Infatti è prescritto: "...non lo rimanderai a mani vuote; gli farai doni dal tuo gregge, dalla tua aia e dal tuo torchio; gli darai ciò con cui il Signore tuo Dio ti avrà benedetto..." (vv. 13 e 14).

 

Lettura di Deut 21,10-14 ("I prigionieri").

Questi versetti riguardano il trattamento della donna straniera prigioniera, la quale presa come moglie da un ebreo diventava a tutti gli effetti israelita e non poteva essere venduta come schiava.

 

Già nella Genesi è scritto che gli schiavi potevano diventare parte integrante del popolo d'Israele - ed essere, quindi, circoncisi - pur conservando la propria condizione giuridica.

 

Nell'epoca neo-testamentaria gli schiavi potevano essere liberati dal padrone e se costui era cittadino romano essi acquistavano automaticamente la cittadinanza romana, tanto è vero che lo Stato si trovò costretto a mettere un freno per legge all'alto numero di liberazioni al fine di evitare squilibri sociali. Gli schiavi liberati assumevano il nome della famiglia del padrone e ne diventavano "clientes".

 

Lettura di Gv 13,1-17

Leggiamo questo brano, anche se molto conosciuto, perché ci testimonia la dimensione in cui opera Gesù, al quale non interessa abolire o meno la schiavitù, ma interessa farsi "schiavo" e che anche i suoi discepoli si facciano schiavi.

Gesù compie il gesto dello schiavo. L'ospite (nel senso romano "colui che ospita"), il Maestro e Signore lava i piedi dei suoi discepoli.

E in proposito voglio dirvi che mi colpisce sempre il titolo del papa dal punto di vista religioso:"Servus servorum Dei"; titolo che lo richiama continuamente al suo ruolo.

 

Coordin.
00lunedì 19 novembre 2012 19:28

Lettera ai Filippesi

 

Affrontiamo ora la lettera paolina che alcuni interpreti definiscono come la più cordiale, perché in essa traspare tutto il cuore dell'Apostolo. Non per nulla si dice che quella di Filippi fosse la comunità preferita da Paolo.

 

Filippi è stata la prima città dell'Europa ad essere evangelizzata e si può pertanto definire "la porta dell'Europa" per la diffusione del cristianesimo; riveste quindi importanza del tutto particolare e sarà visitata da Paolo per tre volte.

La città prese il nome dal suo fondatore Filippo II di Macedonia, padre di Alessandro Magno, e divenne famosa anche perché nei suoi dintorni furono sconfitti in battaglia Bruto e Cassio, uccisori di Cesare, da Ottaviano che poi diventerà Augusto imperatore. Costui fece risorgere la città, che a quell'epoca era in decadenza, inviandovi migliaia di coloni, tanto è vero che la denominazione completa di Filippi negli antichi documenti risulta essere "Colonia Julia Augusta Filippensis".

La città - quasi rifondata - si arricchirà poi per la presenza di miniere d'oro e d'argento situate nelle vicinanze.

 

Lettura degli Atti degli Apostoli ("Paolo e Sila in prigione").

E' narrato il primo incontro (che gli resterà nel cuore) di Paolo con la comunità di Filippi. E' importante sottolineare che nella sua lunga carriera apostolica Paolo accettò tre volte di essere aiutato economicamente dai cristiani filippesi (e soltanto da questi).

 

Vi invito a legge attentamente la Lettera ai Filippesi che potrebbe essere considerata come il testamento che ci lascerà S. Paolo alla fine di questo corso biblico. Vi troverete tante indicazioni, tanti suggerimenti da tradurre nella nostra vita quotidiana.

 

 

 

 

XXVI lezione

Lettera ai Filippesi - continuazione

 

Questa lettera, in cui si manifesta in modo particolare il cuore di Paolo, non si presenta in forma molto organica. Tuttavia potremmo prendere in considerazione lo schema seguente:

a) esordio: 1,1-11

b) I parte con notizie personali: 1,12-26

c) II parte con l'esortazione a resistere ai nemici della fede: 1,27-2,18

d) III parte con notizie sulla missione contro i nemici della Croce ed esortazioni varie: 2,19-4,9

e) epilogo con ringraziamenti e saluti: 4,10-23.

 

A me interessa soprattutto proporvi alcune considerazioni sul famosissimo "inno cristologico" (2,6 e segg.).

Lettura del cap. 2,1-4

Sono concetti che potremmo facilmente ritrovare in una morale puramente umana, ma che Paolo colloca in un ben diverso orizzonte. Notiamo un'esortazione alla concordia;per realizzarla si devono eliminare le contenziosità e la vanagloria. Bisogna, perciò, essere umili.

 

Lettura 2,5-11 - "Inno cristologico".

Le differenze (non poche e non di poco conto) tra la traduzione letterale del testo greco - da me letta - e la versione della Bibbia di Gerusalemme sono evidenti. Il testo che vi ho letto è molto più pregnante da un punto di vista cristologico.

Innanzi tutto gli studiosi sottolineano la naturalezza con cui questo inno è stato scritto e la profondità teologica stupenda, espressione della fede della Chiesa dell'epoca.

S. Paolo probabilmente ha preso lo spunto da un canto liturgico (o, comunque, da un inno che veniva recitato o cantato durante la liturgia), noto alle persone alle quali scriveva e proprio per tale motivo lo ha inserito nel contesto della lettera senza alcuna introduzione.

Teniamo presente che ci troviamo negli anni 50 d.C. Notiamo allora che Giovanni, il quale con il suo Vangelo, le sue Lettere e l'Apocalisse, ha approfondito così tanto il messaggio cristiano, in realtà non ha fatto altro che elaborare ulteriormente dei concetti già sviluppati da Paolo.

In quegli anni era già consolidata la fede nella pre-esistenza del Verbo, nel Cristo come Verbo eterno, nell'unione nella sua stessa persona della natura umana e della natura divina. Queste convinzioni, a pochi anni della morte di Gesù, facevano già parte normalmente delle catechesi apostolica ed erano, perciò, patrimonio delle comunità evangelizzate.

 

Analizziamo ora il testo dell'inno e soffermiamoci sulla parola che nel testo della Bibbia di Gerusalemme è tradotta con "natura" (v. 6) mentre nel testo da me letto è resa con "forma". "Natura", se usiamo i termini filosofici, e la "füsis", cioè l'essenza; invece il testo di Paolo è molto più concreto e parla di una natura che assume una forma esterna ben precisa: "morfé".

Quindi Paolo sta dicendo che Gesù Cristo ha rinunciato a tutte le caratteristiche anche esteriori di Dio per assumere la natura umana non soltanto in teoria, ma in pratica. Ha assunto, infatti, l'umanità anche nelle sue espressioni peggiori, non nel senso del peccato ma della debolezza e della fragilità.

Il Cristo, Dio da sempre, a un certo punto assume una natura umana (e, quindi, tutto quanto è tipico dell'uomo), perfino la "morfé" esteriore, per tutta la sua vita terrena in cui si rivela la divinità di Gesù: il momento della trasfigurazione.

Soltanto allora viene meno, in parte, la forma umana di Cristo.

 

Lettura della prima Lettera di Giovanni 1,1

Ecco, il mistero dell'Incarnazione.

La risurrezione è importante perché alla sua luce si comprende che quel Gesù che è stato visto, udito e toccato è il Verbo della vita.

 

Continuazione della lettura di Filippesi 2,6-8

"....ma spogliò se stesso....".

"Echenosen" va tradotto meglio con "svuotò"" anziché con "spogliò". Siamo davanti alla famosa "echenosis", cioè allo svuotamento (o spogliazione). Gesù, il Verbo eterno con il Padre, "svuota, rinuncia completamente al suo essere Dio prendendo forma non di uomo ma di schiavo.

Purtroppo nel nostro testo la parola greca dulos è tradotta con "servo", mentre più esattamente significa "schiavo per nascita", ossia l'uomo che non è stato mai libero. Solo lo schiavo - e mai un cittadino romano - poteva morire in croce. Gesù rinuncia ad ogni prerogativa divina pur essendo Dio: questa è la "chenosis".

 

Ed ancora. Al v. 8 leggiamo "umiliò", che traduce il verbo greco tapèino (da cui l'italiano "tapino"), il quale deriva dal sostantivo tapenosis che significa "nullità". Si tratta della stessa parola usata da Maria nel Magnificat "...perché ha guardato l'umiltà (= la nullità) della sua serva..." (Lc 1,48).

 

A proposito di "...morte di croce..." (v. 8) Francesco Fiorista in un articolo pubblicato recentemente sulla rivista "Storia e dossier" sostiene, sulla base di prove mediche, che Gesù sia morto di infarto cardiaco, soprattutto a causa della tensione provocata dalla flagellazione, dai vari patimenti e dalla posizione sulla croce.

Secondo l'autore questo proverebbe che la profezia che più si è avverata sulla morte di Gesù sarebbe quella contenuta nel salmo 69: "L'insulto ha spezzato il mio cuore e vengo meno" (v. 21). Si tratta di un ipotesi quantomeno interessante.

Per capire un po' le sofferenze provocate dalla crocifissione vi leggo uno stralcio dell'articolo citato:

"Una lunga , terribile agonia precedeva la morte per soffocamento".

""Il condannato inchiodato era costretto a compiere uno sforzo tremendo per respirare: "l'abnorme posizione del corpo, con il tronco accasciato e abbassato, determinava "l'immobilizzazione del torace in una posizione detta "globosa inspiratoria": "l'espirazione diventa difficile, con una conseguente riduzione del contenuto di "ossigeno nel sangue. Cosi, per non soccombere alla lenta asfissia, il condannato "doveva spingere sui piedi inchiodati per riportare il torace alla medesima altezza delle "spalle e delle braccia, in modo da ristabilire la meccanica respiratoria.

"I grandi muscoli che presiedono alla respirazione (grandi pettorali, "sternocleidomastoidei, diaframma), per lo sforzo costante e prolungato, entravano ben "presto in uno stato permanente di contrattura. Ne risultava che i polmoni si riempiano "d'aria, ma non erano più in grado di farla uscire, con quindi un grave deficit "dell'ossigenazione del sangue, paragonabile a quella di un bronchitico enfisematoso in "piena crisi d'asma. La gabbia toracica di dilatava, e la pressione negativa all'interno del "torace raggiungeva il massimo grado con tutte le conseguenze sfavorevoli sul respiro "e sul circolo.

"Come poteva dunque il crocifisso sfuggire momentaneamente a questi crampi e a "questa asfissia, per sopravvivere anche fino a più giorni?

"Egli doveva necessariamente diminuire la trazione sui polsi, che sembra essere la "causa iniziale e determinante di tutto il fenomeno. Il corpo infatti, dopo la "crocifissione, si accasciava e si abbassava notevolmente. Il condannato era costretto "allora a prendere punto di appoggio sui piedi inchiodati al palo verticale, per far "risalire, con una dolorosissima spinta, tutto il corpo e ricondurre verso la posizione "orizzontale le braccia che nell'accasciamento erano scese intorno ai 65°. La trazione "sui polsi era così ridotta, i crampi diminuivano e l'asfissia regrediva temporaneamente, "per la ripresa di una più normale meccanica respiratoria.

"L'agonia trascorreva dunque in un'alternanza di accasciamenti e di raddrizzamenti, e "cioè di asfissia e di respirazione, in una continua terribile sensazione di soffocamento. "La morte sopravveniva per asfissia irreversibile una volta che il condannato non "riusciva più, o per debolezza o per l'insorgere di uno stato crampiforme generalizzato e "persistente, compiere lo sforzo sugli arti inferiori. Per questo, ogni qualvolta si voleva "accelerare la morte, si eseguiva il crurifragio.""

Il nostro Dio tra tutte le pene possibili e immaginabili ha scelto la crocifissione. In Filippesi 2,8-9 leggiamo: "Annientò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte in croce. Per questo Dio l'ha esaltato...".

Grazie a questa obbedienza Cristo viene esaltato dal Padre e gli viene attribuito il nome di Kürios, il Signore. Il Padre afferma la sua divinità per mezzo della risurrezione con la quale Cristo ascende alla destra del Padre e realizza in pienezza la sua sovranità al di sopra di qualunque creatura e di qualunque tipo di potestà (celeste, terrestre e sotterranea).

Pensate che questa cristologia era già stata elaborata a circa 20 anni dalla morte di Gesù

 

 

 

 

Lasciamo ora il commento della Lettera ai Filippesi per riprendere le fila del discorso su San Paolo.

Sulla base di quanto abbiamo letto durante il nostro corso, quale immagine abbiamo di Paolo?

Io fisserei con voi alcuni punti che mi sembrano irrinunciabili per capire la figura dell'Apostolo.

 

* 1) La lettera ai Filippesi contiene una frase che riassume tutta la figura di Paolo: "Per me infatti il vivere è Cristo e il morire è un guadagno." (1,21)

Questo è il centro dell'apostolo, di un uomo che, come il suo maestro, si è completamente svuotato per far crescere dentro di sé il Cristo. Vuol dire che il senso della vita è Cristo, ma significa anche che il vivere quotidiano è Cristo.

Per Paolo è assoluta la centralità di Cristo.

 

* 2) Un altro aspetto della personalità dell'apostolo si puo' rilevare dalla lettura della Lettera ai Filippesi 3,7-14.

Colui che arriva a dire: "Per me il vivere è Cristo" è un uomo che non si sente arrivato alla meta perché vede davanti a sé ancora un tratto di strada. E quell''"afferrare Cristo" è un qualcosa che si deve ricercare ogni giorno.

San Paolo cerca continuamente di afferrare Cristo perché è stato da Lui afferrato.

San Paolo, che è tutto per Cristo ma ancora in cammino, ci aiuta a riscoprire la dimensione del nostro essere in cammino assieme agli altri fratelli.

Una considerazione: per la diffusione del Vangelo l'Apostolo sa condividere con tutti i fratelli il loro mod di essere.

 

* 3) Leggiamo un altro brano bellissimo che ci indica lo scopo per il quale dobbiamo agire: 1 Corinzi 9,19-23.

Per Paolo l'essenziale non è tanto il condividere ma il guadagnare qualcuno alla salvezza. Quindi, lo scopo della sua vita sta nel portare altri uomini al Vangelo. L'apostolo è l'uomo del Vangelo.

 

* 4) Nella seconda Lettera ai Corinzi San Paolo, uomo della fedeltà alla tradizione, sostiene che Cristo va amato nella Chiesa.

Cristo è vivente nella sua comunità e perciò anche noi, sacerdoti e laici, come l'apostolo, dobbiamo avere una particolare attenzione per la Chiesa.

 
Corso biblico di don Roberto Pandolfi

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