ARTICOLI INTERESSANTI DI ANTONIO SOCCI

Versione Completa   Stampa   Cerca   Utenti   Iscriviti     Condividi : FacebookTwitter
Pagine: [1], 2
Coordin.
00mercoledì 30 ottobre 2013 06:55

FRANCESCO E QUEL COLLOQUIO CON SCALFARI


C’è confusione e smarrimento, in alcune aree del cattolicesimo, per i primi mesi di papa Francesco. E c’è chi – lefebvriano più o meno confesso – soprattutto tramite la rete soffia sul fuoco di questo malessere, per alimentare il dissenso e per amplificare i dubbi, delegittimando il papa.



 


Tutto fa brodo per attaccare Francesco, perfino il colore delle scarpe o il fatto che dica “Buongiorno” e “Buon pranzo”. Ogni inezia viene guatata col sospetto di eterodossia e di infedeltà alla tradizione.


Ma degli atti ufficiali del suo magistero se ne infischiamo. Nemmeno considerano il documento più importante che finora ha firmato, la sua prima enciclica, la “Lumen fidei”, dove fa completamente sua la meditazione sulla fede di papa Benedetto. E lo scrive apertamente.


Così pure snobbano il suo magistero quotidiano. Per esempio anche in questi giorni più volte ha esaltato la famiglia e il matrimonio e in una serie di altri interventi ha ribadito l’insegnamento della Chiesa sulla vita, dal suo inizio alla sua fine naturale.


Inoltre ha fatto pubblicare dal Prefetto dell’ex S. Uffizio un documento sull’accesso ai sacramenti dei divorziati-risposati che ribadisce tutto il magistero cattolico di sempre (documento che deve aver deluso non poco i modernisti).


Ma tutto questo non è considerato. Mentre il Papa da settimane viene “impiccato” (moralmente) a una battuta attribuitagli da Eugenio Scalfari nel corso di un colloquio privato che poi è stato pubblicato sulla “Repubblica” il 1° ottobre. Si tratta di quelle due righe sulla coscienza, il bene e il male.


 


DUE RIGHE ESPLOSIVE


 


Da settimane nella rete (e in qualche giornale) ribolle il malcontento di certi cattolici che, scandalizzati, sollevano sospetti sul Papa per quelle due righe.


Nessuno di loro sembra porsi la domanda più ovvia: papa Francesco pensa veramente che ognuno possa decidere da solo cosa è bene e cosa è male e autogiustificarsi così?


Possibile che il Papa professi un’idea per la quale non avrebbe più alcun senso né essere cristiani, né credere in Dio (tantomeno fare il papa)?


E’ evidente che si tratta di una colossale baggianata. Qualunque persona in buonafede si rende conto facilmente che è assurdo aver alimentato tanta confusione per quelle due righe.


Se poi qualcuno, più sospettoso, continuasse ad vere dei dubbi gli basterebbe, per chiarirsi le idee, ascoltare il magistero quotidiano di Francesco.


Anche venerdì scorso, in quella splendida catechesi sulla confessione, ha detto l’esatto opposto; e la confessione – com’è noto – è uno dei suoi temi preferiti, su cui torna continuamente.


Un tema tipico della tradizione cattolica e ben poco frequentato da modernisti e progressisti. Come la devozione alla Madonna e la lotta alla corruzione del diavolo, su cui Francesco torna spesso.


Ma chi sta col “randello” del pregiudizio in mano, con l’unico obiettivo di coglierlo in fallo, non sente ragioni, si attacca a ogni pretesto ed è sempre pronto a colpire.


Il fondamentalista non riflette su come quella frase sia stata veramente detta dal Papa e magari su com’è stata capita e riportata da Scalfari, non coglie la circostanza colloquiale, né il fatto che Bergoglio parla in una lingua che non è la sua e che non padroneggia alla perfezione.


Infine tutto andrebbe valutato alla luce del vero e costante magistero ufficiale di papa Francesco. Il “mestiere” del Papa è uno dei più difficili e delicati al mondo, tanto più oggi sotto i costanti riflettori dei media.


 


RETROSCENA


 


Merita comprensione chi, abituato a frequentare le periferie di Buenos Aires come un parroco che porta conforto ai più derelitti, si è trovato d’improvviso sotto i riflettori del mondo a ricoprire il ministero di Vicario di Cristo.


Concediamogli almeno il tempo di prendere le misure. Bergoglio viene dall’Argentina e non conosce né la Curia né l’Italia, tantomeno i  media.


E’ un generoso, uno che va verso l’altro desideroso di abbracciarlo, che cerca di partire dai semi di verità che trova nell’interlocutore e da lì fare dei passi verso la luce di Cristo.


Non so cosa il papa sapesse di Scalfari e come si sia svolto quell’incontro. Però una volta che il malinteso si è prodotto il papa ha cercato di evitare equivoci.


A padre Lombardi è stato detto di far presente che quell’intervista non era stata da lui rivista, è uscita dalla penna di Scalfari dopo una chiacchierata informale. Soprattutto – come padre Lombardi ha sottolineato – essa non fa parte in alcun modo del magistero di papa Francesco.


Ma anche in questo caso ci sono i “troppo zelanti” che l’indomani, il 2 ottobre, hanno rilanciato quell’intervista addirittura sull’Osservatore romano.


Pare che il papa se ne sia rammaricato e che il 4 ottobre, durante la visita ad Assisi, se ne sia lamentato col direttore Gian Maria Vian. C’è anche un video che probabilmente immortala proprio la protesta di papa Francesco per quell’improvvida iniziativa.


Il Papa si è reso conto che è facile essere strumentalizzato dai media.


Per questo un pezzo da novanta della Segreteria di Stato, il monsignore americano Peter Brian Wells, il 18 ottobre scorso, in un evento pubblico ha invitato ad attingere direttamente ai testi del magistero del Pontefice perché “le parole di papa Francesco sono spesso diverse da quelle che gli vengono attribuite da certi organi di stampa”.


Certo, in Vaticano c’è un problema di comunicazione. Ma non da oggi: anche Benedetto XVI incappò nel doloroso malinteso di Ratisbona. Dipende molto dai media, da loro superficialità, approssimazioni o dalla malafede del pregiudizio. Ma non è tutta colpa dei media.


I cristiani – in primis i pastori – di fronte all’epoca dei media onnipresenti devono far tesoro dell’esortazione di Gesù, il quale mandando i suoi apostoli nel mondo prescrive loro di essere “candidi come colombe”, ma anche “prudenti come serpenti” (Mt 10,16).


Oggi poi alla forzatura di certi media che attribuiscono arbitrariamente a Francesco un profilo “sovversivo”, fanno da sponda – come dicevo – certi fondamentalisti che alimentano all’interno della cristianità la stessa idea. Il disorientamento che si produce così non va sottovalutato.


Anche un sociologo attento come Massimo Introvigne ha lanciato l’allarme, mettendo in guardia dal rischio di imboccare la via che porta allo scisma.


Perché la sofferenza è manifestata soprattutto da buoni cattolici ed ecclesiastici finora fedeli al papa che dicono di sentirsi orfani di Benedetto XVI.


 


IL VERO RATZINGER


 


Fedeli che però, spesso, hanno male interpretato il magistero di papa Benedetto, si son sentiti una minoranza dalla parte della ragione, contro una maggioranza dalla parte del torto.


Sia pure in buona fede ne hanno dato un’interpretazione politica, quella che divide anche la Chiesa fra progressisti e conservatori. Non capendo che Ratzinger, come papa Francesco, trascendeva del tutto questa logica.


Sono buoni cattolici che hanno ideologizzato arbitrariamente certi sacrosanti contenuti del magistero di Ratzinger, come le cose importanti e preziose che egli ha insegnando sulla liturgia.


Papa Francesco ha detto che non ha nessuna intenzione di cancellare il “motu proprio” di papa Benedetto che liberalizza la liturgia tradizionale, quindi dovrebbe essere esente dalle loro critiche, ma viene bersagliato egualmente, accusato di dare poca importanza alla liturgia, fino a contestazioni ridicole, come quella di chi lo rimprovera di non portare le scarpe rosse che sarebbero simbolo dei piedi piagati di Cristo crocifisso.


Questi sedicenti ratzingeriani infine dimenticano che papa Benedetto ha proclamato fin dall’inizio la sua affettuosa sequela al nuovo papa e ha ricordato a tutti – alla vigilia del Conclave – il fondamento del cattolicesimo: “Mi sostiene e mi illumina la certezza che la Chiesa è di Cristo, il Quale non le farà mai mancare la sua guida e la sua cura”.


Se non si crede questo, come ci si può dire cattolici?


 Antonio Socci


Coordin.
00lunedì 4 novembre 2013 08:35

MARXISTI, RADICALI E SOCIALISTI FOLGORATI DA RATZINGER


Posted: 01 Nov 2013 03:02 AM PDT



Quello di Ratzinger è stato un “tentativo eroico di arginare la forma postmoderna dell’Anticristo”. A pronunciare queste parole – in riferimento al magistero di Benedetto XVI sui grandi temi etici e antropologici – è stato uno dei più importanti pensatori marxisti dei nostri anni, Mario Tronti, già fondatore teorico dell’operaismo e impegnato politicamente nel Pci, poi nel Pds e nel Pd.


Sorprendente è anche il luogo in cui Tronti è intervenuto, sabato 26 ottobre. Si trattava della Nona edizione degli “Incontri di Norcia” della Fondazione Magna Carta.


 ACCADDE A NORCIA


 L’evento infatti ruotava attorno a due testi d’ispirazione ratzingeriana: il “Manifesto di Norcia”, lanciato nel 2011 da Gaetano Quagliariello, Eugenia Roccella e Maurizio Sacconi, che intendeva parlare al centrodestra; e il manifesto dei cosiddetti “Marxisti-ratzingeriani”, scritto da Giuseppe Vacca, Mario Tronti, Pietro Barcellona e Paolo Sorbi che parlava alla sinistra democratica.


Il punto d’incontro di intellettuali così diversi per storia e per appartenenza politica è proprio Joseph Ratzinger.


Sia la sua lezione come vero gigante della cultura contemporanea, sia il suo magistero come papa Benedetto XVI. Infatti il titolo del convegno  di quest’anno era “Ratzinger oltre Ratzinger”.


Si converrà che in un Paese come l’Italia un simposio del genere – per di più nel nome del papa emerito – è un avvenimento eccezionale. Che dovrebbe far clamore. Ancora di più se si tengono presenti le storie personali dei protagonisti.


Quagliariello viene da una militanza radicale e dalla cultura liberale. Maurizio Sacconi dal mondo del socialismo riformista. Eugenia Roccella fu una militante radicale e femminista (tutti e tre sono oggi parlamentari del Pdl).


Dall’altro lato Giuseppe Vacca è stato lo storico togliattiano del Pci ed è Presidente della Fondazione Gramsci. Mario Tronti è – come ho detto – uno dei maggiori filosofi marxisti italiani ed è stato dirigente del Pci e parlamentare del Pds e oggi del Pd; Pietro Barcellona (purtroppo recentemente scomparso, ma ha rappresentato un pilastro essenziale di questo gruppo) è stato un intellettuale autorevole e deputato del Pci (nel 2010 rese noto il suo avvicinamento alla fede cattolica).


Infine il sociologo Paolo Sorbi si è formato nella famosa facoltà di sociologia di Trento insieme a Renato Curcio e Mara Cagol, quindi – dalla militanza politica e intellettuale nella sinistra – è passato anni fa al cattolicesimo.


Come si vede nemmeno uno proviene dal tradizionale associazionismo cattolico o comunque da aree contigue. Al contrario, per anni tutti hanno militato intellettualmente e politicamente in mondi opposti alla Chiesa.


Quindi è clamoroso che si ritrovino oggi nella riflessione sul pensiero di Ratzinger e specialmente su quei temi che più – in questi anni – hanno caratterizzato i pronunciamenti del magistero cattolico.


 


UN APPELLO


Non che, negli scorsi decenni, non vi siano stati importanti intellettuali laici e anche marxisti che hanno convenuto con la Chiesa sui temi etici più scottanti. In controtendenza con la deriva radicale e nichilista presa dalle culture dominanti.


Penso alle posizioni di Max Horkeimer – fondatore della Scuola di Francoforte – contro la pillola, bocciata nell’Humanae vitae di Paolo VI (proprio mentre tanti intellettuali cattolici cominciarono a dissentire dal Papa).


O penso alle posizioni contro l’aborto che assunsero prima Pier Paolo Pasolini e poi Norberto Bobbio. O al dialogo fra Joseph Ratzinger e Jurgen Habermas.


Tuttavia l’incontro di Norcia rappresenta una grossa novità. Per la prima volta compare sulla scena un gruppo di intellettuali, di culture e appartenenze politiche laiche e molto diverse, che insieme si appropriano di quella riflessione etica che finora ha caratterizzato il discorso della Chiesa.


E che insieme parlano ai diversi schieramenti politici suonando l’allarme sull’“emergenza antropologica” che rischia di affondare la nostra civiltà.


Infatti il convegno di Norcia si è concluso con una dichiarazione comune di tutte queste personalità che andrebbe letta attentamente.


In questa Italia lacerata da una sorta di guerra civile permanente essi avvertono “la necessità nella dimensione politica di un umanesimo condiviso quale è stato disegnato, per credenti e non credenti, dalla tradizione cristiana e dalla Costituzione repubblicana”.


Poi sottolineano che siamo dentro “una vera e propria emergenza antropologica” e affermano che “le funzioni di governo sono investite di responsabilità in relazione al valore della vita, della famiglia naturale, della libertà educativa, alla luce anche dei nuovi comportamenti sociali”.


Sottolineo, fra le altre cose, il felice ingresso del tema della libertà di educazione. Infine i firmatari della dichiarazione rivolgono un appello al Parlamento:


“Noi invitiamo il Parlamento ad una moratoria legislativa sui temi eticamente sensibili con lo scopo di sostituire il conflitto ideologico con il reciproco ascolto tra sostenitori delle diverse tesi in funzione di soluzioni unificanti e non divisive la società italiana. Ed invitiamo i grandi partiti che hanno in corso processi di verifica interna, destinati a concludersi emblematicamente nello stesso giorno (8 dicembre), a misurarsi con i temi antropologici nella ricerca di una comune base etica della nazione”.


A me pare un evento davvero significativo. Qualcosa che dovrebbe catalizzare l’attenzione dei media.


Invece accade che personalità così autorevoli, dalle storie così significative e lontane dalla Chiesa, che oggi individuano nell’insegnamento di Papa Ratzinger il punto di riferimento per pensare il presente (in alcuni casi anche arrivando alla fede personale), passino del tutto inosservate sia ai media laici che all’establishment clericale.


I primi troppo impegnati a celebrare quotidianamente il nulla, i secondi – penso al Cortile dei gentili – troppo desiderosi di accodarsi alla pochezza nichilista delle mode mondane.


 UN’ITALIA MIGLIORE


 Eppure il cammino che ha portato a Norcia questi due gruppi è serio, è un percorso intellettuale forte, profondo. E si radica nelle culture storiche di questo Paese (il marxismo, il radicalismo, il socialismo e il liberalismo), che si incontrano – a sorpresa – su quel terreno bimillenario che è il cattolicesimo.


Il loro dunque è un appello che meriterebbe l’attenzione dei media. Perché fa intravedere davvero la possibilità di un’Italia totalmente diversa. Non più lacerata dai conflitti che oggi occupano le pagine dei giornali, tanto feroci quanto culturalmente miseri.


Con intelligenza Giuseppe Vacca, nella sua relazione a Norcia, ha colto la continuità fra Ratzinger e papa Francesco nell’enciclica “Lumen fidei”, scritta a quattro mani dai due pontefici. Proprio partendo da un passaggio di quell’enciclica Vacca afferma il valore sociale e pubblico della predicazione cristiana.


Se, infatti, “l’età moderna iniziò dal ‘come se Dio non esistesse’ che accompagnava l’emergere dalle guerre di religione dello Stato-nazione europeo, che relegava le religioni in uno spazio proprio… a conclusione del ciclo storico dello Stato-nazione come soggetto egemonico della modernità, dinanzi al rischio della ‘catastrofe antropologica’, può essere il ‘come se Dio esistesse’ il principio di una nuova alleanza tra fede e ragione? Se il contenuto della fede” dice Vacca “è il sapere dell’amore, un sapere che non si attinge da nessun’altra esperienza, ma solo dal riconoscimento dell’Altro, non solo è storicamente giustificato il ruolo pubblico della religione, ma è anche necessario che quel sapere venga trasmesso e insegnato”.


Questa può essere l’alba di una vera rivoluzione culturale.


 Antonio Socci


Coordin.
00lunedì 11 novembre 2013 07:51

LA RAGAZZA CHE FU COMUNISTA. ED E’ IN CERCA DI SE STESSA (E DI DIO).


Posted: 08 Nov 2013 02:31 AM PST



Ciascuno vede il mondo attraverso le proprie ferite. Ma feriti lo siamo tutti. Perciò, nella sincerità della narrazione di una cicatrice o di una piaga aperta, ci si scopre fratelli.


Solidali pure se si è fatto un itinerario del tutto diverso e si hanno altre storie nel cuore e altre lacerazioni nella carne.


“Mio nonno era comunista” (pp. 134, euro 10, Effigi) affascina per questa sincerità. Non cinica, ma leale e dolorosa. Malgrado il titolo e la copertina dove fa capolino il Bobo di Staino, quello di Monica Granchi non è un pamphlet politico.


E’ un delicato, ironico, struggente romanzo autobiografico che racconta l’itinerario interiore di una ragazzina, nata nel mitico ’68, che diventa donna in una famiglia popolare, di militanti comunisti, a Siena, tra gli anni Sessanta e il Duemila.


Proprio gli anni  in cui il Pci di Berlinguer in Italia, dal più vasto successo (nel 1984 addirittura primo partito del Paese), crolla fino alla sparizione del 1990.


Proprio gli anni in cui il socialismo reale passa dalla massima espansione planetaria al collasso (ma i paesi dell’Est sono appena rammentati dall’autrice che semmai legge Kerouac e sogna l’America, detestata dal nonno comunista).


Anni vissuti a Siena, che non era solo una delle città più rosse d’Italia, ma anche la strana e bella città del Palio (se ne parla di sfuggita), oggi famosa soprattutto per il caso Monte dei Paschi.


Un’adolescenza vissuta fra la mitica sede del Pci di viale Curtatone (le Botteghe oscure della città toscana), le aule del Liceo Galilei e quelle della facoltà di Lettere (luoghi del cuore che mi accomunano all’autrice).


ALTRI RIPENSAMENTI


 Questo autunno 2013 è un po’ il tempo del ripensamento e della perplessità per la generazione che entrò nel Pci dopo il ‘68, affascinata dal carisma introverso di Enrico Berlinguer.


E’ appena uscito il libro di Michele Serra, “Gli sdraiati”, che mostra lo smarrimento dei padri di fronte al mistero dei figli, ma in particolare quello dei “padri progressisti” che pretendevano di saperla sempre lunga su tutto e si ritrovano in casa degli incomprensibili alieni.


E’ un libro a volte tenero e poetico e, anche se esce dalla penna brillantissima dell’intellettuale che non si mette davvero in discussione, il Mistero della vita attraversa le sue pagine, è nella bellezza delle colline, nei silenzi, nei fiori e nel volto dei figli.


Il libro di Francesco Piccolo, “Il desiderio di essere come tutti”, uscito anch’esso in questi giorni, sembra uno scavo più politico. La pretesa appartenenza al “Club dei giusti”, che da sempre caratterizza gli intellettuali di Sinistra, capaci solo di “indignarsi” e non di trovare soluzioni, è sottoposta a uno sguardo molto severo.


Piccolo si pone domande scomode, s’interroga sul perché in quel Club “mai nessuno metta in discussione le idee” o “si chieda se c’è qualcosa che non funziona” o “perché gli altri riescano a penetrare i desideri di una quantità di gente superiore alla nostra. Mai che andiamo a curiosare chi sono, cosa fanno, se nascondono una virtù che non abbiamo. Siamo assolutamente sicuri di aver ragione e che gli altri hanno torto, ma si ravvederanno”.


Sono due libri che disegnano, come ha scritto Concita De Gregorio, “la parabola triste di una sinistra perduta”. Ma Serra e Piccolo appartengono a quell’élite che nel “Palazzo” del Partitone – ricorda ironicamente Monica Granchi – stava all’ultimo piano: gli intellettuali.


 LA RAGAZZINA


 Lei invece è la ragazzina della portineria, la nipote del nonno comunista che per anni è stato il centralinista e portiere-tuttofare della sede del partito, nella rossa Siena.


Lei è la ragazzina che se ne stava su un tavolino a fare i compiti o i disegni, mentre il nonno – all’ingresso – smistava un gran traffico di militanti e dirigenti.


La ragazzina per la quale quelle “botteghe oscure” senesi erano una grande famiglia che non c’è più. E che – da adolescente, con tutto il parentado – lavorerà ogni estate per un mese alla Festa dell’Unità.


Il suo è un diario intimo che diventa autobiografia collettiva solo di rimbalzo. L’autrice infatti non concede quasi nulla alla storia ufficiale. L’unico evento pubblico è la morte di Berlinguer. Ma anch’esso è vissuto come dramma interiore.


Tutto in queste pagine è intimo, è un emergere dell’anima e dei suoi incontenibili desideri di libertà in spazi troppo angusti e incapaci di decifrare quel grido, che esplode già dalla lettura adolescenziale di una vita di Vittorio Alfieri.


La libertà è il grido di un’anima che si sente esiliata. O negata. Già, l’anima Con un’impietosa battuta, a proposito dei quadri di una parente, l’autrice sospira: “nessun sentimento abitava quelle tele in cui riconoscevo solo abili copie senz’anima. Ma l’anima era un concetto sopravvalutato per i comunisti”.


 L’ANIMA


 Non che la protagonista non sia stata una convinta militante, solo che non poteva trovarsi appagata dall’aspirazione della famiglia operaia, appena inurbata (una di quelle famiglie che dal 1945 hanno portato il Pci a Siena a percentuali altissime): il sogno di avere finalmente un (modesto) appartamento, un salotto ammobiliato, un televisore e figli col titolo di studio.


Tutte mete sacrosante, riconosce l’autrice, aspirazioni nobilissime della povera gente, a cui il Partito cercava di provvedere come un padre di famiglia. Un’aspirazione alla dignità o semplicemente al benessere.


Ma mete piccolo-borghesi (seppure chiamate “uguaglianza”) che, raggiunte, non esauriscono la vastità del desiderio umano, così sentito dalla protagonista adolescente, che si trova a constatare: “credo che una dose di infelicità fosse connaturata all’idea stessa di comunismo. Come una tassa da pagare”.


In realtà era il limite della politica in sé, e per la protagonista il Partito era la politica. Perché – nonostante le illusioni del passato – non può essere la politica a rispondere all’invincibile esigenza di felicità che sale dall’anima.


La politica non parla a quella profondità insondabile e misteriosa, abitata da domande vertiginose, quella profondità dove ci si scopre soli e bisognosi di “essere speciali”, di sentirsi amati.


E’ da quelle profondità che l’anima grida anche con linguaggi estremi e drammatici, come l’anoressia della protagonista, a 16 anni. O accende il suo cuore quando legge Baudelaire, Pavese o Pessoa…


Così, in “Mio nonno era comunista”, la politica torna al suo posto, limitato e laico: quello di “tentare di risolvere i problemi”. Nulla di più. Mentre “per mio nonno il comunismo era stato come una religione. Di sicuro era stato la nostra famiglia allargata”.


 PANORAMI DI FELICITA’


 Tuttavia nell’arcipelago di famiglie, zie, nonni e nipoti che popola il libro, fa capolino anche un altro orizzonte religioso, quello dei bisnonni paterni, “i miei nonni cattolici”.


Da loro, nella campagne di Scansano, la protagonista trascorse i primi sei anni felici della vita. I ricordi sono struggenti: il latte appena munto, le uova benedette di Pasqua…


“Ci sostenevamo. Ci facevamo compagnia. I grandi badavano ai più piccoli e i più piccoli aiutavano gli anziani. O forse era che eravamo cattolici. Quella parte della mia famiglia lo era. E anch’io, per volontà di mia nonna, sono stata battezzata. Ma il nostro era un cattolicesimo intimo, alla buona. Lontano dalle punizioni severe. Più attento all’idea di misericordia che a quella di peccato. Lontano soprattutto dal rigore. Rigore che la mia famiglia comunista aveva invece fatto suo”.


Purtroppo, per l’autrice, quella misericordia resta solo un remoto ricordo di infanzia, una specie di sogno felice.


Che non è mai diventato – come invece è accaduto a me, negli stessi luoghi – un incontro, un incontro vivo nell’età delle grandi domande, un incontro capace di trovarti quando ti perdi negli abissi della giovinezza.


Però le ferite di questo libro – così ben scritto – sono anche feritoie da cui si possono intravedere di lontano panorami diversi, terre sognate, mari mai attraversati, paesaggi dove i boccioli di un tempo fioriscono.


 Antonio Socci


Coordin.
00domenica 17 novembre 2013 18:55

IL VATICANO METTE FINE AGLI EQUIVOCI. CANCELLATA L’ “INTERVISTA” DI SCALFARI
Posted: 16 Nov 2013 03:25 AM PST
Quando sulla prima pagina di “Libero” – domenica 27 ottobre – è uscito un mio articolo con questo titolo: “Papa Francesco pentito dell’intervista a Scalfari”, le reazioni sono state di sufficienza e pure di polemica. Ieri è arrivata invece la conferma indiretta: avevamo ragione noi.

Ma ricostruiamo tutta la vicenda perché attorno a quell’intervista è nato il primo, vero problema del pontificato di Francesco. Anzi, un dramma. Un caso per il quale si è addirittura paventata l’ipotesi di uno scisma.



UNO STRANO SCOOP



Tutto risale al 1° ottobre quando “Repubblica” esce con uno scoop che fa il giro del mondo: una lunga intervista di Eugenio Scalfari a papa Francesco.

La cosa era già in sé strana perché è noto che Bergoglio ha sempre diffidato delle interviste e da vescovo non ha mai voluto farne. In effetti leggendo si capisce subito che non si era trattato tecnicamente di una vera e propria intervista.

Tutto era nato come un incontro privato e un colloquio cordiale, dovuto all’affabilità del pontefice che ama dialogare pure con i più lontani (per mostrare ai cristiani che bisogna uscire dalle sacrestie e andare a cercare tutte le pecorelle uscite dall’ovile). Tale colloquio era stato poi riprodotto da Scalfari come intervista.

I dubbi si moltiplicavano subito leggendo alcune frasi di quell’intervista attribuite al papa. Frasi pressoché esplosive. In particolare quando Scalfari riporta questa sua domanda: “Santità, esiste una visione del Bene unica? E chi la stabilisce?”.

Il fondatore di “Repubblica” scrive che questa sarebbe stata la risposta di Bergoglio: “Ciascuno di noi ha una sua visione del Bene e anche del Male. Noi dobbiamo incitarlo a procedere verso quello che lui pensa sia il Bene”.

Parole che fanno saltare sulla sedia molti, perché vengono interpretate subito come se il papa considerasse l’individuo la fonte e il tribunale del Bene e del Male.

Una concezione in base alla quale chiunque potrebbe giustificare le sue malefatte, perfino i suoi crimini, sostenendo che li ha compiuti per una causa buona.

E’ evidente che un’idea del genere è agli antipodi di tutta la dottrina cattolica e anche dell’Antico Testamento (basti pensare al Decalogo) dove il Bene e il Male sono oggettivi, non possono essere inventati dall’uomo. Sono dati da Dio anche nella coscienza e a quella voce l’uomo deve obbedire.

Anche il Concilio Vaticano II afferma: “Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale deve invece obbedire” (Gaudium et spes, n. 16).



POLEMICHE



Immediatamente sono scoppiate dure polemiche dal fronte tradizionalista che hanno insinuato addirittura che il papa fosse eterodosso.

Si sono atteggiati a giudici del Pontefice senza nemmeno chiedersi se davvero quelle parole erano state pronunciate dal Papa in quella forma e se era mai possibile che egli professasse quelle idee.

Molti non avevano concesso al papa nemmeno il beneficio del dubbio considerando la sua poca dimestichezza con la lingua italiana, l’informalità di un colloquio e magari anche il fraintendimento da parte di Scalfari che poteva non aver compreso bene il concetto o averlo riportato in modo impreciso.

Dunque da un lato c’è stata la sollevazione dei tradizionalisti. Dall’altro lato il mondo laicista che esultava come se il papa si fosse convertito al relativismo.



PUZZA DI BRUCIATO



Un importante editorialista di “Repubblica” è arrivato a scrivere che “nemmeno i protestanti più devoti si spingerebbero tanto lontano. I protestanti si sono limitati ad eliminare i preti in quanto tramite tra l’individuo e il suo creatore. Le parole di papa Francesco lasciano pensare invece che quella di eliminare lo stesso Dio potrebbe rappresentare un’opzione legittima”.

Era chiaro che c’era qualcosa che non quadrava e che era meglio non berla. Ma buona parte del mondo clericale, invece di applicare un sano discernimento razionale, ha amplificato quell’intervista, prendendo “Repubblica” per oro colato, come se nulla ci fosse da chiarire e precisare. Nessuno ha difeso il Papa.

Eppure è stato subito evidente che al papa era stato attribuito un pensiero che egli non poteva neanche concepire. Anzitutto era evidente alla logica e al buon senso, perché il papa non poteva affermare un’idea che contraddiceva totalmente tutto il suo magistero quotidiano, la sua enciclica e la sua stessa fede cattolica.

In secondo luogo è stato evidente che non si doveva prendere l’intervista per oro colato quando padre Lombardi precisò che essa non era da considerarsi un atto del magistero di papa Francesco.

Ovviamente non era possibile che Lombardi facesse una simile precisazione di sua iniziativa.

Infine l’evidenza si rafforzava quando – interpellato confidenzialmente da qualche giornalista – padre Lombardi spiegava che quell’intervista non era stata rivista dal pontefice.



OSSERVATORE E AVVENIRE



Noi poi abbiamo saputo che durante la visita pontificia ad Assisi, il 4 ottobre, il papa aveva rimproverato il direttore dell’Osservatore romano, Gian Maria Vian, perché – con eccesso di zelo – aveva riprodotto quell’intervista sul giornale vaticano: l’abbiamo scritto in quell’articolo del 27 ottobre.

Ci sembrava ormai chiarissimo che il Papa non si riconosceva in quell’intervista.

Invece la notizia della reprimenda di Assisi (che era stata pure filmata) è caduta nel silenzio. Solo un’agenzia e un giornale degli Stati Uniti l’hanno rilanciata. In Italia nulla di nulla.

Anzi, dalle colonne di “Avvenire”, il corsivista che si firma “Rosso malpelo”, si è scagliato sul titolo di “Libero” (“Papa Francesco pentito dell’intervista a Scalfari”) definendolo “sfacciato”.

E’ tipico di un certo mondo cattoprogressista impancarsi a censori: sfacciati saremmo noi che – pressoché da soli – abbiamo difeso il Papa…

Poi “Rosso malpelo” saliva in cattedra e confondeva le idee proprio su quel tema, delicatissimo, della coscienza, mostrando di aver letto male anche la “Gaudium et spes”.

Anche dal mondo tradizionalista mi sono arrivati attacchi per quell’articolo: “se fosse vero quello che scrive Socci” mi è stato obiettato “cioè che il papa ha protestato in quanto non voleva che l’Osservatore romano riproducesse quell’intervista, perché sul sito internet ufficiale del Vaticano quell’intervista c’è tuttora? Perché non l’ha fatta togliere?”.



FINE DEGLI EQUIVOCI



Ieri è arrivata la risposta. E’ stata decisa infatti la cancellazione di quell’intervista dal sito ufficiale del Vaticano, che qualcuno – con eccesso di zelo – aveva riprodotto. Dopo la reprimenda all’”Osservatore romano”, arriva la vistosa e significativa “cancellazione” dal sito vaticano.

Padre Lombardi, direttore della Sala stampa vaticana, ha spiegato che “il testo (dell’intervista) è attendibile nel suo senso generale ma non nelle singole formulazioni virgolettate, non essendo stato rivisto parola per parola”.
Traduzione: quella frase attribuita a Bergoglio, su cui sono scoppiate tante polemiche, così com’è formulata non riflette il pensiero del Papa.

Nessuno più la consideri farina del suo mulino. E’ e resta semplicemente un resoconto pubblicato da Scalfari su “Repubblica”.
“In questo senso – ha aggiunto il portavoce vaticano – si è ritenuto più corretto limitarne la valenza alla sua natura giornalistica, senza inserirlo fra i testi papali consultabili dal sito del Vaticano”.

In pratica – ha aggiunto il portavoce – “si è trattato di una messa a punto della natura di quel testo, su cui era sorto qualche dibattito”. Infine padre Lombardi ha spiegato che “responsabile per il sito internet del Vaticano” è la Segreteria di Stato, dunque è in Segreteria di Stato che fu decisa la pubblicazione e sempre lì è stata disposta anche la cancellazione.

Da notare, en passant, che da circa una settimana si è insediato il nuovo Segretario di Stato, monsignor Parolin. Un fatto significativo che mette fine a un’epoca e ne inizia una nuova.

Il nuovo capo della diplomazia vaticana e della Curia rappresenta un importante supporto per la missione di papa Francesco.



Antonio Socci
Coordin.
00venerdì 22 novembre 2013 07:49

I MALINTESI DI SCALFARI…


Eugenio Scalfari non deve aver digerito la cancellazione dal sito del Vaticano della sua “intervista” al Papa. E nella sua interminabile omelia domenicale ha ribadito che “Francesco ha teorizzato in varie occasioni la libertà di coscienza dei cristiani come di tutti gli altri uomini e la loro libera scelta tra quello che ciascuno di loro ritiene sia il Bene e quello che ritiene sia il Male. E portando avanti il Vaticano II (Francesco) ha deciso di dialogare con la cultura moderna”.



 


 I DUE EQUIVOCI


 La sommarietà di queste frasi mostra che Scalfari non ha le idee chiare. Ma con l’espressione “in varie occasioni” cerca di dire che anche nella lettera scritta dal Papa il 4 settembre, in risposta a un suo articolo del 7 agosto, Francesco diceva sulla coscienza la stessa cosa che lui gli ha attribuito nell’intervista del 1° ottobre (quella cancellata dal sito vaticano).


Invece si sbaglia. La domanda posta da Scalfari nel suo articolo agostano era infatti la seguente: “se una persona non ha fede né la cerca, ma commette quello che per la Chiesa è un peccato, sarà perdonato dal Dio cristiano?”.


La risposta è “no”, ma Scalfari ha creduto invece di sentire “sì”. Perché un tale malinteso? Per due ragioni.


La prima. Scalfari equivoca sull’atteggiamento del Papa che invece di freddarlo con un secco “no”, lo prende per mano e fraternamente gli mostra la verità e la via del perdono.


Infatti Francesco gli risponde dicendo che “la cosa fondamentale” è “che la misericordia di Dio non ha limiti se ci si rivolge a lui con cuore sincero e contrito”.


Già questo è eloquente.


Poi il Papa aggiunge che “per chi non crede in Dio la questione sta nell’obbedire alla propria coscienza. Il peccato, anche per chi non ha fede, c’è quando si va contro la coscienza” che bisogna “ascoltare e obbedire”.


Qui scopriamo la seconda ragione dell’equivoco. Scalfari non ha compreso la complessa e delicata dottrina cattolica sulla coscienza e la confonde con “l’opinione”, ovvero ciò che uno decide che sia Bene o Male.


Ma quando il Papa parla di “coscienza” intende tutt’altra cosa, ovvero “la legge scritta da Dio nell’intimo” dell’uomo, “una legge che non è lui a darsi, ma alla quale deve obbedire” (sto citando il Concilio Vaticano II che Scalfari evoca, ma senza conoscerlo).


In sostanza papa Francesco con quella risposta rimandava al n. 1864 del Catechismo della Chiesa Cattolica, laddove parla del “peccato contro lo Spirito Santo”, cioè l’unico che non può essere perdonato. Il Catechismo recita infatti:


“La misericordia di Dio non conosce limiti, ma chi deliberatamente rifiuta di accoglierla attraverso il pentimento, respinge il perdono dei propri peccati e la salvezza offerta dallo Spirito Santo. Un tale indurimento può portare alla impenitenza finale e alla rovina eterna”.


Scalfari dunque equivoca. Ma a me stupisce pure che egli possa coltivare quell’idea la quale, di per sé, spazza via anche ogni tipo di etica laica.


Se infatti il Bene e il Male non sono oggettivi, ma sono definiti da ciascuno a proprio arbitrio, non si vede in base a cosa si possano condannare certe infamie o grandi criminali come Hitler e Stalin, perché costoro potrebbero sempre giustificarsi sostenendo di aver seguito la propria idea di Bene.


 UOMINI ALLA RICERCA


 L’equivoco di Scalfari ha tratto molti in inganno. Qualcuno, nel mondo cattolico, ha storto il naso perché il Papa ha dialogato con un potente intellettuale che ha sempre manifestato la sua avversità alla Chiesa.


Ma Francesco aveva colto due spiragli importanti nell’articolo di Scalfari. Il primo laddove scrive: “sono un non credente che è da molti anni interessato e affascinato dalla predicazione di Gesù di Nazaret”.


Il secondo spiraglio sta proprio nella domanda – sopra citata – sulla possibilità di avere il perdono di Dio per “una persona che non ha fede né la cerca” e che “commette quello che per la Chiesa è un peccato”.


In riferimento al primo tema Francesco ha testimoniato accoratamente il suo personale incontro con Cristo che non è solo uomo, ma si proclama e si dimostra tangibilmente Dio, dunque il Salvatore.


Sulla seconda domanda il Papa ha colto un’ansia sulla sorte eterna che vive anche chi si proclama ateo. Scalfari sembra sincero in entrambi i casi.


Rischia però di cadere in un autoinganno, quello di cercare risposte compiacenti con le sue opinioni.


Sembra che cerchi una qualche rassicurazione, dal Vicario di Cristo, perché – in fin dei conti – se c’è poi qualcosa la prospettiva dell’inferno, cioè di un tormento senza fine e senza scampo, non è proprio simpatica. Nemmeno per chi si dice ateo.


All’intellettuale ateo papa Francesco ha teso fraternamente la mano e con umiltà lo ha esortato a lasciarsi abbracciare dalla Misericordia di Dio.


Perché, come ha detto Gesù a santa Faustina Kowalska (evocata dal Papa all’Angelus di domenica):  “Chi non vuole passare attraverso la porta della misericordia, deve passare attraverso la porta della Mia giustizia”.


E con la giustizia di Dio non si scherza. Certo, Scalfari è un navigatore di lungo corso, un uomo che si è dimostrato abilissimo a destreggiarsi in tutte le epoche. Solo che con il Padreterno la scaltrezza umana non funziona.


 COSA DAVVERO DICE IL CONCILIO


 Il Concilio Vaticano II – si badi bene, proprio il Concilio che Scalfari evoca – afferma che per salvarsi occorre entrare nella Chiesa:


“questa Chiesa peregrinante è necessaria alla salvezza. Solo il Cristo, infatti, presente in mezzo a noi nel suo corpo che è la Chiesa, è il mediatore e la via della salvezza; ora egli stesso, inculcando espressamente la necessità della fede e del battesimo (cfr. Gv 3,5), ha nello stesso tempo confermato la necessità della Chiesa, nella quale gli uomini entrano per il battesimo come per una porta”.


A questo punto il Concilio proclama:


“Perciò non possono salvarsi quegli uomini, i quali, pur non ignorando che la Chiesa cattolica è stata fondata da Dio per mezzo di Gesù Cristo come necessaria, non vorranno entrare in essa o in essa perseverare” (Lumen Gentium n. 14).


Naturalmente ciò non riguarda chi non ha potuto conoscere il Vangelo:


“Infatti, quelli che senza colpa ignorano il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa ma che tuttavia cercano sinceramente Dio e coll’aiuto della grazia si sforzano di compiere con le opere la volontà di lui, conosciuta attraverso il dettame della coscienza, possono conseguire la salvezza eterna. Né la divina Provvidenza nega gli aiuti necessari alla salvezza a coloro che non sono ancora arrivati alla chiara cognizione e riconoscimento di Dio, ma si sforzano (…) di condurre una vita retta” (Lumen Gentium, n. 16).


Per chi invece ha conosciuto l’annuncio cristiano e lo rifiuta o lo tradisce il Concilio cita un passo di san Paolo che giudica e condanna i costumi del suo tempo, così simili a quelli di oggi:


l’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia (…) poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha loro manifestato (…); essi sono dunque inescusabili, perché, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e così non hanno capito più nullaMentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili”.


L’Apostolo aggiunge:


Perciò Dio li ha abbandonati all’impurità secondo i desideri del loro cuore, sì da disonorare fra di loro i propri corpi, poiché essi hanno cambiato la verità di Dio con la menzogna e hanno venerato e adorato la creatura al posto del creatore”.


Infine conclude:


poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balìa d’una intelligenza depravata, sicché commettono ciò che è indegno… pur conoscendo il giudizio di Dio, che cioè gli autori di tali cose meritano la morte, non solo continuano a farle, ma anche approvano chi le fa” (Rm, 1, 18-32).


C’è di che tremare e meditare. Per tutti.


 


Antonio Socci



Coordin.
00lunedì 25 novembre 2013 12:11

SE I GIOVANI NON DICONO PIU’ “TI AMO!”


Prima la “scoperta” dei femminicidi. Poi quella della prostituzione minorile a Roma e non solo. Si è detto che sono patologie della nostra società.



Ma la fisiologia dei rapporti affettivi, ciò che oggi consideriamo la normalità, qual è? Siamo certi che sia sana e felice?


Mi ha colpito una lettera – rimasta senza risposta – di uno studente del primo anno di liceo classico, uscita su “Repubblica”. Era titolata: “Perché tra noi liceali non si usa più ‘ti amo!’ ”.


 PAROLONI?


 Lo studente, Marco D.G., scrive: “ho notato che le parole ‘ti amo’ stanno progressivamente scomparendo tra i giovanissimi: diverse persone le ritengono ‘paroloni’, fastidiosi, estranei, barocchi e patetici”.


Poi spiega che i suoi coetanei, i quali non usano più queste espressioni d’amore, lo fanno “per motivazioni molto tristi”.


Che lui riassume così: “l’amore, a questa età, non esiste, non è importante, non deve essere importante. Sarà qualcosa che verrà più tardi. Dopotutto, mi dice una mia cara amica a proposito delle sue vicissitudini, ‘se smetti di amare vuol dire che non hai amato’. Tutti ragionamenti  in larga parte appoggiati e incentivati da parenti, più o meno stretti. Questo modo d’agire non vuol dire sminuire gli amori di quest’età? Non è sbagliato?”.


Può essere giusto il realismo di chi fa capire al figlio adolescente che la “cottarella” è solo una piccola scintilla dell’immenso mistero che è l’amore. Ma la lettera dello studente forse coglie anche un altro fenomeno: un cinismo diffuso.


 


RIDOTTI A CORPI


 


Dopo un’epoca che ha inflazionato la parola “amore”, applicandola assurdamente a una guerra dei sessi che ha lasciato e lascia a terra morti e feriti (non solo in senso metaforico), si è passati a un tale scetticismo che quasi esclude in partenza la “folle” possibilità di amare ed essere amati.


Così abbiamo una giovane generazione ipersessualizzata a cui è precluso l’amore vero e perfino l’uso della parola amore, mentre tutti gli usi del corpo sono permessi, anzi sono imposti come obbligo: alcune liceali intervistate da “Porta a porta”, lunedì, spiegavano come sia diventata una vergogna sociale essere ancora vergini a 16 anni.


Si vuole che sia una generazione di corpi senz’anima. E’ il prodotto della generazione del ’68 e della sua unica, vera rivoluzione: la rivoluzione sessuale (che poi è il vertice del consumismo contro cui, a parole, si battevano).


E questo è l’esito: il panorama di rovine che abbiamo davanti, un colossale discount planetario del sesso che ha l’aspetto di un campo di battaglia cosparso di feriti, di schiavi e di schiave.


 


LIBERTA’ O DEVASTAZIONE?


 


La famosa “liberazione sessuale” aveva promesso la felicità. Ma quella che vediamo è una società ammalata, infelice e violenta. E che non sa più cos’è l’amore. Tanto che consiglia di “rassegnarsi” già a 17 anni.


Si avvera la “profezia” di Max Horkeimer, il fondatore della Scuola di Francoforte, che, pur provenendo dal marxismo, dette ragione all’Humanae vitae di Paolo VI sostenendo che “la pillola”, cioè la trasformazione della sessualità in consumo di corpi sempre disponibili, come una merce di supermercato, sarebbe stata “la morte dell’amore” e quindi dell’eros, trasformando Romeo e Giulietta “in un pezzo da museo”.


Questa devastazione sta davanti agli occhi di tutti. Mi ha colpito, ad esempio, ciò che, qualche settimana fa, ha scritto Piero Ottone nella rubrica che tiene sul “Venerdì di Repubblica”.


Ottone, come si sa, dopo il licenziamento di Spadolini, nel 1972, diventò direttore del “Corriere della sera” per portare clamorosamente a sinistra, in sintonia con la ventata rivoluzionaria, l’antico giornale della borghesia liberale (è appunto per questo che Indro Montanelli si sentì costretto ad andarsene e a fondare “Il Giornale”).


Ebbene, Ottone, da distaccato osservatore, qualche settimana fa ha scritto: “nel giro di mezzo secolo, il costume sessuale è cambiato in modo sensazionale (…). Libertà sessuale, un segno di progresso, dunque?”.


Il suo giudizio è opposto: “si può vedere nella libertà oggi imperante (…) il segno della graduale disintegrazione della civiltà… L’abolizione delle regole, il ritorno alla licenza assoluta è un nuovo segno di declino”.


Questa è oggi la sua pesante sentenza: “disintegrazione della società”, “declino”. Ma non avevano promesso – con l’abbattimento dei tabù – il paradiso in terra?


Eppure già allora qualcuno l’aveva predetto e continua a ripeterlo. Ma oggi come ieri si prende gli sberleffi e gli anatemi di quel “progressismo adolescenziale” che – come dice papa Francesco – è al servizio del “pensiero unico”.


Però non basta lamentare l’oscurità dei tempi. Io voglio qui testimoniare – soprattutto pensando allo studente di cui ho citato la lettera all’inizio – che, nonostante tutto, ci sono luoghi dove il grande abbraccio dell’amore vero fra uomo e donna si insegna, si scopre e si vive.


 


GIUSSANI SULL’AMORE


 


Mi ha colpito, durante una presentazione del mio libro “Lettera a mi figlia”, ascoltare un giovane sacerdote, don Andrea Marinzi, che paragonava la mia primogenita e la vicenda che sta vivendo da quattro anni, alla figura della Maddalena quando, nel Vangelo, per il suo Gesù, ruppe il vasetto d’alabastro contenente un preziosissimo olio profumato per ungere i capelli del Maestro, tanto amato, “e tutta la casa si riempì di quel profumo”.


Don Andrea attribuiva a don Giussani questa immagine e l’altroieri ho trovato proprio questa sua pagina nella biografia che gli ha dedicato Alberto Savorana. E’ la cosa più bella – secondo me – che sia mai stata scritta sull’amore umano.


A quel tempo, attorno al 1952, Giussani era un giovane prete che non aveva ancora iniziato la storia di CL, ma – confessando in una parrocchia di Milano – attirava l’interesse di molti studenti.


Lui restava però colpito dalla superficialità dei loro legami affettivi senza nostalgia, da quel passare da una ragazza all’altra inseguendo soltanto un piccolo piacere effimero. E non la donna amata, non l’amore della vita.


Per questo annota in un suo appunto che così:


“il senso della vita si ottunde e il cerchio resta chiuso, freddo, attorno a noi: egoismo. Non si cerca più la persona per la quale sola l’anima si spacca e si apre: si dona. Si sacrifica… La Maddalena spaccò il vaso di alabastro: ‘sciupò’ il profumo, lo donò. Ogni dono è perdita. Amare veramente una persona appare come uno sciupare: se stessi, energie, tempo, calcolo, tornaconto, gusti. Gli altri, al gesto della Maddalena, scrollarono il capo: ‘pazza! Senza criterio! Senza interesse!’. Ma in quella sala solo lei ‘viveva’, perché solo amare è vivere (…). Quell’aprirsi ad altri: agli altri, a tutti gli altri – attraverso la scorza rotta del proprio io, solitamente c’è un viso che ha funzione di spaccare la corteccia del nostro egoismo, di tenere aperta questa meravigliosa ferita, quel viso è il suscitatore e lo stimolatore del nostro amore; il nostro spirito si sente fiorire di generosità al suo contatto, ed attraverso a quel viso si dona, a fiotti, agli altri, a tutti gli altri, all’universo”.


Si può pensare che sia utopistico ciò che scrive Giussani, si può ritenere che nessuno sia capace di amare così, ma non si può negare che tutti, proprio tutti, nel profondo del cuore desiderano essere amati così.


E che questo miracolo sia possibile lo fa intuire la conclusione di Giussani, facendo intravedere Gesù Cristo:


“quel viso è il riverbero umano di Lui. Se quel viso è lontano, la sua nostalgia, oh, non intorpidisce l’attività. La vera nostalgia di lui è la più dinamica malia, è il più potente richiamo alle energie perché compiamo il nostro dovere così da renderci più degni di chi amiamo. Soffrire per Ciò”.


Questi sono i maestri di umanità di cui abbiamo bisogno, noi, i feriti di questo campo di battaglia che è la modernità.


Giussani, papa Francesco, uomini che ci affascinano mostrando cosa sono l’amore, il perdono e la grandezza dell’essere uomini e donne. E’ così che ci sorprende la gioia. Quella autentica.


 Antonio Socci


Coordin.
00martedì 3 dicembre 2013 09:46

PROUST E IL SEGRETO DELLE CATTEDRALI
(CHE QUESTA EUROPA NON CONOSCE PIU’)

Inabissato nei sondaggi al 15 per cento di (im)popolarità, il minimo storico, François Hollande è contestato per i suoi fallimenti politici (sciopero nelle scuole) ed economici (il Pil è in calo e la ripresina è abortita).

Perfino con la legge Taubira (adozioni a coppie gay) si è trovato contro una sorprendente maggioranza popolare.

Così cerca diversivi. E’ il vecchio trucco dei governanti che si inventavano una guerra per distrarre dai loro disastri. Hollande a settembre voleva a tutti i costi la guerra alla Siria, ma è saltata perché si sono messi di traverso il Papa e la Russia.

 MORTE DELLE CATTEDRALI

 Ora ha tirato fuori un’idea surreale: la “festa della laicità” da istituire il 9 dicembre. Perché il calendario delle festività è “troppo cristiano”.

Una trovata che, anche nella scelta della data, si rifà all’offensiva anticlericale del 1905 e ricorda l’abolizione di tutte le festività cristiane (e perfino del suono delle campane) decretato dai rivoluzionari dopo il 1789.

Al tempo di Robespierre in nome della “tolleranza” furono massacrati preti e suore, fu macellata la Vandea cattolica e le cattedrali – definite “indecenti e ridicole” – furono profanate e devastate (Cluny e Citeaux che avevano fatto la storia d’Europa furono ridotte a rovine fumanti).

Nel 1905 la legge sulla separazione fra stato e chiesa puntava a sconsacrare le splendide cattedrali medievali di Francia e a confiscare i beni ecclesiastici.

Si arrivò quasi a progettare ferrovie che guarda caso dovevano passare per forza su antiche chiese romaniche in mezzo alla campagna.

Mentre se ne discuteva, nel 1904, sul “Figaro”, fu pubblicato un bellissimo articolo di Marcel Proust, intitolato “La morte delle cattedrali”.

 CONCHIGLIE

 Nel suo pezzo – riproposto in questi giorni dal sito “piccolenote.it” – lo scrittore (che si diceva ateo/agnostico) si mostrava inorridito davanti all’idea di trasformare le cattedrali francesi in “semplici e gelidi pezzi da museo”.

Egli considerava agghiacciante un futuro in cui la Francia scristianizzata sarebbe stata simile a “una spiaggia dove gigantesche conchiglie cesellate sarebbero apparse arenate, vuote ormai della vita che in esse aveva abitato e incapaci di recare all’orecchio che si chinasse su di esse il vago rumore di un tempo”.

Sottolineo questa metafora delle cattedrali come conchiglie perché ha un valore decisivo, come vedremo, per la sua “Recherche”.

Proust dunque rifiutava la trasformazione delle chiese in musei, con gelidi riti laici che avrebbero fatto rimpiangere i riti cattolici e “quanto dovevano essere belle queste feste ai tempi in cui erano i sacerdoti che celebravano le messe… perché avevano, nella virtù di questi riti, la stessa fede degli artisti che scolpirono le cattedrali”.

Del resto “lo splendore della liturgia cattolica forma un tutto unico con l’architettura e la scultura delle nostre cattedrali”.

Proust aggiungeva che “mai uno spettacolo paragonabile a questo, uno specchio gigantesco della scienza, dell’anima e della storia fu offerto agli sguardi e all’intelligenza dell’uomo… si può dire che una rappresentazione di Wagner a Bayreuth è poca cosa accanto alla celebrazione della messa grande nella Cattedrale di Chartres”.

Proprio l’articolo sulle antiche cattedrali ci mette sulle tracce del “segreto” della “Recherche” il cui primo volume fu pubblicato nove anni dopo, il 14 novembre 1913, esattamente cento anni fa.

Non a caso l’opera proustiana è piena di evocazioni delle tante cattedrali francesi, da Chartres, ad Amiens, da Bourges a Troyes e tante altre.

 ROMANZO-PELLEGRINAGGIO

 Il segreto della “Recherche” ha cominciato a essere scoperto – a mio avviso – da un studioso italiano di Proust, Alberto Beretta Anguissola.

Il quale anni fa ha pubblicato un volumetto, “Proust e la Bibbia”, dove faceva emergere il “criptotesto” della “Recheche”, quel “corso d’acqua sotterraneo che affiora solo qua e là”, ma – se compreso – diventa una formidabile chiave di lettura.

Si tratta appunto di “riferimenti ‘giganteschi’ – allusioni esplicite o implicite alla Bibbia, ai simboli cristiani e alla liturgia cattolica. La ‘ricerca del tempo perduto’ è un pellegrinaggio proprio come quelli che, facendo tappa a Illiers-Combray, milioni di uomini compirono nel corso dei secoli per raggiungere Santiago di Compostela. Lungo gli itinerari prestabiliti dalla fede” osserva Beretta Anguissola “si poteva allora incontrare di tutto. C’erano ladri e assassini; c’erano turisti curiosi di cose belle e cose strane; c’erano avventurieri bizzarri; c’erano uomini devastati dal senso di colpa che avrebbero fatto di tutto per sentirsi perdonati da Dio e dagli uomini (quindi da se stessi); c’erano uomini e donne che avevano smarrito il senso dell’esistenza, ne avevano perso il gusto e si sentivano radicalmente falliti, incapaci – come Nicodemo – di rinascere e di incontrare la salvezza; c’erano inoltre uomini e donne pieni di fede, speranza e carità che avevano deciso di santificarsi pellegrinando. La ‘ricerca del tempo perduto’ è tutte queste cose messe insieme”.

Per questo “i riferimenti religiosi e biblici” hanno “nel romanzo-pellegrinaggio di Proust un’importanza speciale”.

In fondo “recherche”, ricerca, non è altro che l’antica “Quest”, la ricerca di Dio. Ma Proust compie questa ricerca della salvezza – nella babele del suo tempo e della vita – su una traccia precisa: i luoghi e i riti cristiani, i segni di una bellezza ineguagliabile e piena di Misericordia.

 MADELEINE

 Beretta Anguissola inizia così il suo studio:

“Chi come Proust ha creduto di portare in sé una duplice maledizione (omosessuale, ebreo) e ha vissuto tale condizione senza illusioni estetizzanti, lucidamente, cosa avrà provato quando, per compiere un vasto lavoro di traduzione e commento di un libro di Ruskin, ‘La Bibbia d’Amiens’, si è messo a leggere e rileggere intensamente Vecchio e Nuovo Testamento? Cosa avrà pensato leggendo il Salmo 21 (‘Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?’) o il ‘Miserere’ o il quarto canto del Servo di Jahvè in Isaia? Non possiamo saperlo. Non sappiamo se si commosse vedendo che le maledizioni possono essere, per chi ci crede, segno e prova della predilezione divina. Ma di tutte queste cose restano profonde tracce nel romanzo ‘Alla ricerca del tempo perduto’. Chi lo ha letto tutto” spiega Beretta Anguissola “ricorderà che, nell’ultimo volume, il Tempo viene ‘ritrovato’ (e insieme a esso sono recuperati in extremis il senso della vita come vocazione e il valore della scrittura) in un modo assai singolare”.

In pratica il Narratore si trova a un ricevimento e, indietreggiando per fare spazio a un’auto, “inciampa in una pietra difettosa, mal squadrata, del selciato. A questo punto è invaso da una misteriosa felicità”.

Rammenta di aver vissuto una circostanza simile e una voce dentro di lui grida: “Afferrami al volo, se ne hai la forza, e cerca di risolvere l’enigma di felicità ch’io ti propongo”.

La salvezza che arriva da una “pietra di scarto”. Immediato il riferimento alla profezia cristologica di Isaia: il Crocifisso, la Vittima, la pietra scartata dai costruttori che diventa pietra angolare, fondamento della bella costruzione. E’ l’incontro fortuito che spalanca la salvezza.

Ecco in effetti la “lettura” che ce ne offre Proust:

“Proprio, a volte, nel momento in cui tutto sembra perduto giunge l’avvertimento che può salvarci; abbiamo bussato a tutte le porte che non danno su niente, e la sola attraverso la quale si può entrare, e che avremmo cercato invano per cento anni, l’urtiamo senza saperlo, e si apre”.

E ricordate la famosa “madeleine” di Proust? E’ ben più di un biscotto che evoca il passato del protagonista. A forma di “coquille Saint-Jacques” è segno del cammino di Santiago e di quelle “conchiglie” che nell’articolo del 1904 erano le cattedrali francesi. Infatti subito dopo ricorda la chiesa del suo villaggio natale, Saint-Jacques di Illiers.

In quelle “conchiglie” c’è la perla perduta, la salvezza. Con buona pace di Hollande e di questa Europa laicista. 

Antonio Socci

Coordin.
00lunedì 9 dicembre 2013 19:09

ITALIA, COME TRAMONTA UNA NAZIONE
Posted: 08 Dec 2013 01:26 AM PST
L’appello lanciato dalle pagine del “Mulino” da tre importanti intellettuali, lo storico Ernesto Galli Della Loggia, il filosofo Roberto Esposito e il letterato Alberto Asor Rosa, meriterebbe una grande discussione. Anche da parte delle élite politiche.

Se non altro per la singolarità di una denuncia-documento che lega insieme personalità così diverse per orientamento culturale e politico.



DECADENZA



Cosa dice quel documento? Lamenta che siamo “al punto limite” della dissoluzione culturale del Paese. Indica i maggiori punti di criticità nel sistema formativo.

Rileva che s’impone l’ “urgenza” di un cambiamento per la formazione umanistica dei giovani, il cui collasso produce, come conseguenza, la decadenza identitaria e civile del Paese che diventa decadenza economica e politica.

Le discipline tecnico-scientifiche e l’economia – affermano i tre – sembrano orami le uniche forme di sapere. E dominano perfino nelle valutazioni scolastiche ed universitarie delle scienze umane, (anche la retorica esterofila dell’inglese e dello “studiare all’estero” sradica intere generazioni dal passato e dai luoghi dell’identità italiana).

L’Appello dice molte cose sacrosante sulla scuola. Anche se ci sarebbe da chiedersi dov’erano questi intellettuali (in particolare i due “di sinistra”, perché Galli della Loggia si fece sentire) quando la pedagogia progressista, padrona nella scuola italiana, teorizzava che era meglio educare i ragazzi con i videogiochi che con la Divina Commedia.



SUICIDIO EUROPEO



I tre intellettuali criticano pure il fatto che ormai “l’alfa e l’omega della politica sia l’economia”, tanto che oggi “l’Europa della crisi economica” è “anche l’Europa della crisi politica”.

Verissimo. Ma – a parte il fatto che tale argomento suona un po’ strano per chi, dei tre, è stato (e forse è ancora) marxista – viene da chiedere: quando – negli anni Novanta – è stata imposta all’Europa questa gabbia tutta fatta di parametri economici e di moneta unica, dov’erano questi intellettuali?

E cosa scrivevano sui giornali gli accademici e gli umanisti?

Qualcuno ricorda che, negli anni Novanta, opporsi all’Europa dei tecnocrati e criticare la moneta unica come un esperimento da “apprendisti stregoni” significava condannarsi quasi alla morte civile?

E si è mai levata una voce dal coro degli intellettuali illuminati per denunciare il fatto che la cessione di quote enormi di sovranità degli stati avveniva quasi all’insaputa dei popoli e fuori dalla legittimazione esplicita dei cittadini elettori?

E – in quell’ubriacatura conformista di parametri economici e di moneta unica – quanti intellettuali italiani si sono battuti per chiedere un’unificazione europea fondata anzitutto su basi culturali e spirituali?

Quanti hanno fatto sentire la loro voce perché nella Costituzione europea fossero richiamate le radici giudaico-cristiane dell’Europa?

Forse Galli Della Loggia è fra i rarissimi. Ma gli altri?



CATTOLICESIMO RIMOSSO



Giustamente ieri su “Avvenire”, Adriano Fabris, pur dicendosi d’accordo con tanti argomenti dei tre intellettuali, ha sollevato un’obiezione: com’è possibile che un appello per il ritrovamento della cultura umanistica e delle nostre radici culturali non contenga alcun riferimento alle religioni e in particolare “all’apporto che la tradizione ebraico-cristiana ha dato in Occidente alla definizione dell’umano”?

Lo stesso Umanesimo del Quattrocento è nato nell’ambito cristiano. Per non dire della letteratura, della lingua, dell’arte, dell’architettura e dell’urbanistica delle nostre città.

Il documento ripete la solita solfa dell’identità italiana che – in mancanza di uno stato unitario – sarebbe vissuta per secoli solo nella lingua e nella letteratura.

Ma dall’alba della lingua italiana, con san Francesco, ai pilastri della letteratura (Dante, Tasso, Manzoni), tutto risplende di cattolicesimo. La verità (negata) è che l’identità italiana, per secoli, è stata data dal cattolicesimo.

Se infatti una nazione è identificata, manzonianamente, da unità di lingua, di storia e di religione (“una d’arme, di lingua, d’altare,/ di memorie, di sangue e di cor”), bisogna dire che da noi c’era solo religione.

Perché al momento dell’Unità, nel 1861, solo il 2,5 per cento della popolazione parlava l’italiano (cioè il toscano come lingua nazionale) e due terzi di essi erano appunto i toscani. Gli stessi Savoia, che conquistarono militarmente il Paese e furono i primi re d’Italia, parlavano francese.

E la storia e l’economia erano ben divergenti perché “il Piemonte era economicamente più integrato alla Francia che alla Sicilia. E quest’ultima era integrata più all’Inghilterra che alla Lombardia” (Ruggiero Romano, Paese Italia. Venti secoli di identità).

Ciò che nel Risorgimento si chiamava Italia – come ha osservato il laico Sergio Romano – era unito solo da una cosa: il cattolicesimo.

Aver fatto un’unità per via militare contro questa identità nazionale ha avuto conseguenze nefaste. E nefasta è ancora una cultura – di diversa derivazione – che si trova unita solo nel dimenticare queste radici.

I tre intellettuali lamentano la colpevole “rimozione del passato” perpetrata nel nostro Paese, ma poi sono loro stessi i primi a rimuovere il cattolicesimo, che permea tutta la cultura e la storia d’Italia.

Come si fa a sostenere che ”il ‘politico’ è indubbiamente la chiave interpretativa della cultura italiana”? Non è un modo per protrarre ancora l’errore fatale che fu perpetrato dall’inizio dell’unità statuale italiana?

Parlare oggi per pagine e pagine di “umanesimo” riducendo la questione alla solita geremiade dei docenti delle facoltà umanistiche, che si sentono ormai in serie B rispetto alle facoltà tecnico-scientifiche, è davvero provinciale.



EMERGENZA UOMO



Da intellettuali di quella autorevolezza ci aspetteremmo almeno che mettessero a tema – con la fine del sapere umanistico nelle scuole – la fine dello stesso umanesimo nel discorso pubblico e nella cultura dominante, dove ormai il nichilismo ha spazzato via tutti i fondamentali, dal valore della vita umana alla stessa identità, dalla natura alla ragione.

Ben altro spessore (ne ho parlato su queste colonne) ha la denuncia fatta da tre intellettuali marxisti come Mario Tronti, Giuseppe Vacca e Pietro Barcellona dell’ “emergenza antropologica” che rischia di affondare la nostra civiltà.

E infatti costoro – definiti dalla stampa “marxisti ratzingeriani” – hanno saputo individuare nel magistero della Chiesa il punto di resistenza più forte e profondo all’attuale “dittatura del relativismo” e della tecnocrazia.

Anch’essi hanno denunciato la pericolosa pretesa della tecnologia e della scienza su ciò che è umano, ma hanno saputo riconoscere che la Chiesa è depositaria di un sapere sull’uomo che salva la sua libertà, la sua dignità e la sua integralità.

La Chiesa che fece germogliare l’arte italiana, la sua letteratura, le sue istituzioni (dalle università agli ospedali), la Chiesa che partorì l’umanesimo stesso, è oggi sulla breccia, quasi da sola, a difendere – con l’umanesimo – anche l’umano, perfino l’umano. Che oggi è in discussione.

Va detto che almeno uno dei tre firmatari dell’appello, ovvero Galli Della Loggia, ne è ben consapevole, perché da anni ne scrive (con notevole coraggio civile). Tuttavia l’appello pubblicato sul “Mulino” non ne reca traccia.

E la quasi totalità della “cultura italiana” lo ignora o lo nega. Se mai fosse possibile tale cultura è quasi più avvilente della politica italiana. Parafrasando Giacomo Noventa sul fascismo, la cancellazione della nostra identità umanistica, non è un errore “contro” la cultura italiana, ma un errore “della” cultura italiana.

Quindi sarebbe auspicabile che appelli come quelli del “Mulino” iniziassero con un “mea culpa” anziché con un atto d’accusa. E magari si concludessero con un profondo ripensamento autocritico di quelle culture (gentiliana, crociana, gramsciana, illuminista, azionista, nichilista) che hanno sempre dettato legge.
Coordin.
00martedì 17 dicembre 2013 11:59

QUELLO CHE I MEDIA NON VI DICONO


Posted: 15 Dec 2013 04:48 AM PST



Non dico che l’apparato mediatico mondiale sia un congegno di sistematica disinformazione. Non voglio dirlo. Però sono insopportabili la sua ipocrisia e il suo doppiopesismo. Per le notizie che tace, ma anche per quelle che dà con enfasi e per le mitologie che crea.


E’ la società dello spettacolo “politically correct” di cui Hollywood è il tempio.


 


MANDELA E LE RISATE DI OBAMA


 


L’ultimo mito che ha costruito e celebrato è quello di Nelson Mandela. Il quale ha indubbi meriti politici, ma lui per primo avrebbe rifiutato di paragonarsi a Gesù Cristo, accostamento che invece è stato fatto da qualcuno della Bbc.


L’establishment occidentale prima ha sostenuto il regime razzista dell’Apartheid. Quando poi non era più digeribile e si rischiava di tenere fuori dal mercato globale le immense ricchezze minerarie del Sudafrica (anzitutto l’oro) si è trovato un leader della lotta alla segregazione, Mandela appunto (in precedenza ritenuto un mezzo terrorista), che ha avuto la saggezza politica di accettare e guidare – nel nome della riconciliazione – un’uscita pacifica da quel regime, senza bagni di sangue, rese dei conti o processi.


Cosicché la maggioranza nera ha ottenuto il potere politico, mentre la minoranza bianca si è tenuta il potere economico.


Mandela non è stato un santo, ma si è dimostrato un vero leader e uno statista. Come tutti i politici ha avuto le sue ombre e ha fatto i suoi errori, però ha sopportato anni di carcere e gli va riconosciuta una gran dignità.


Lascia a desiderare invece quella dell’Occidente “politically correct” considerando le foto che hanno immortalato Obama (pure con Cameron), allo stadio di Johannesburg, durante la commemorazione del leader sudafricano: ha sghignazzato continuamente facendo il cascamorto con la bionda premier danese, tanto da suscitare l’irritazione della moglie Michelle.


E’ così che l’Occidente liberal “piange” la scomparsa di Mandela?


Del resto che i media abbiano costruito, sui suoi 27 anni di carcere, un martirologio ipocrita lo dimostra il fatto che poi, gli stessi media, sono stati e restano indifferenti a detenzioni più lunghe e orribili di quella di Mandela. Drammi tuttora in corso.


 


DA 50 ANNI IN CARCERE


 


Faccio qualche esempio. Monsignor Giacomo Su Zhimin, vescovo cattolico di Baoding (Hebei), ha trascorso 41 anni in lager e prigioni varie, “senza alcuna accusa e senza alcun processo” (come scrive l’agenzia dei missionari del Pime, Asianews).


Egli rappresenta quell’inerme popolo cristiano che, sotto il comunismo, subisce più dell’apartheid: ottantenne, ha passato metà della sua vita in prigione ed è tuttora incatenato, ma non si sa dove e il regime si rifiuta di dare qualsiasi informazione, anche alla famiglia. Tanto il mondo se ne infischia.


Infatti da noi nessuno ne ha mai sentito parlare. C’è qualche giornale che ne abbia raccontato la storia? C’è un solo statista – magari di quelli, anche italici, che sono pappa e ciccia col regime cinese – che ne ha chiesto la liberazione, o almeno qualche notizia?


C’è una mobilitazione internazionale per lui? Le cosiddette organizzazioni umanitarie hanno fatto iniziative sul suo caso? Qualcuno lo ha mai candidato al Nobel? Hanno promosso per lui concerti di solidarietà o iniziative come il “Mandela day”?


Gli hanno intitolato palazzetti dello sport come il “Mandela Forum” di Firenze? Star della musica, del cinema e della politica sono andati a incontrarlo? Si sono fatti film su di lui o almeno reportage televisivi?


Nulla di nulla. Nessuno da noi conosce neppure la sua faccia e il suo nome. Totalmente ignorato.


Eppure quest’uomo buono e grande, abbandonato da quei media che poi beatificano Mandela, non ha mai fatto politica, ma ha solo chiesto diritti umani e libertà religiosa.


E non ha predicato odio e violenza, ma solo l’amore di Cristo. Non cerca e non vuole alcun potere. Sa che non lo aspetta né la libertà, né il Nobel, né una poltrona da Capo di Stato, né gli applausi di Hollywood e gli onori del mondo. Ma solo la morte in qualche lurida e fredda prigione, nell’indifferenza generale. Eppure non rinnega la sua fedeltà a Cristo e al suo popolo. Lui sì che è un santo e un martire.


Ma nessuno in Occidente si sogna, per lui, di andare a disturbare i crudeli despoti cinesi da cui, anzi, tutti gli statisti e gli gnomi del potere economico si recano per baciare la pantofola.


Un caso analogo è quello di monsignor Cosma Shi Enxiang, vescovo cattolico di Yixian. A 90 anni di età ne ha passati 52 fra lager, prigioni e lavori forzati. La sua via crucis cominciò nel 1957. L’ultima volta è stato arrestato il 13 aprile del 2001 e da allora non se ne sa più nulla.


Si potrebbe continuare con altre vittime. Ma non c’è solo la Cina di fronte alla quale l’Occidente è pavido e servile come davanti al nuovo padrone del mondo.


 


ALTRI APARTHEID DIMENTICATI


 


Ricordo il caso di Asia Bibi, la donna cattolica pakistana, poverissima, madre di quattro figli, che da quattro anni e mezzo è detenuta in condizioni subumane ed è stata condannata a morte solo per essersi dichiarata cristiana e aver rifiutato la conversione all’Islam.


I cristiani del Pakistan vivono in condizioni peggiori dei neri del Sudafrica durante l’apartheid. Ma per loro e per Asia Bibi nessuno si batte e i media se ne infischiano.


Le situazioni di apartheid in cui vivono i cristiani o altri gruppi umani non fanno notizia e non suscitano scandalo. Lo ha dimostrato anche un caso di questi giorni.


E’ accaduto che in India – per iniziativa di un leader nazionalista indù – un tribunale ha reintrodotto la norma che punisce col carcere la pratica omosessuale.


Chi ha difeso gli omosessuali? La Chiesa cattolica. Il cardinale Gracias, arcivescovo di Mumbai, ha attaccato questa sentenza opponendosi a chi criminalizza i gay.


In Occidente la decisione del tribunale ha fatto clamore, ma è passata quasi inosservata l’opposizione della Chiesa e anzi qualcuno ha messo (arbitrariamente) indù, cristiani e musulmani nello stesso fronte, d’accordo col tribunale. Non è così.


Del resto la (giusta) sensibilità dei media occidentali in difesa dei gay indiani purtroppo non si nota in difesa dei dalit, i “senza casta”, i “paria” (che significa “oppressi”), quelli che nell’antica religione indù erano considerati meno degli animali.


Infatti nessuno scandalo internazionale è scoppiato per la manifestazione, tenutasi mercoledì a New Delhi, per i diritti dei dalit cristiani e musulmani, durante la quale la polizia ha picchiato vescovi, sacerdoti e religiosi e ha addirittura arrestato l’arcivescovo monsignor Anil JT Couto.


I dalit cristiani sono anch’essi in condizioni uguali o peggiori dei neri sudafricani sotto l’apartheid. Ma nessuno grida allo scandalo. Eppure la Costituzione indiana sulla carta avrebbe abolito le caste.


Ma i dalit, circa 200 milioni, sono rimasti in condizioni miserrime e vittime di tanti abusi. Per questo molti di loro si sono convertiti al cristianesimo e all’Islam, per avere dignità umana e liberarsi dall’orribile teologia induista delle caste.


Queste conversioni hanno scatenato le violente reazioni degli indù. Inoltre il Parlamento indiano ha riconosciuto diritti solo ai dalit che restavano nell’induismo. Niente ai dalit cristiani e musulmani.


“Una discriminazione che viola la Costituzione”, ha dichiarato il presidente della Conferenza episcopale indiana. Ma per questo regime di apartheid tuttora praticato dalla democrazia più grande del mondo, nessuno si scandalizza. Nessuno propone sanzioni.


Intanto i vescovi cattolici vengono arrestati per la loro lotta in difesa dei dalit proprio negli stessi giorni in cui il mondo, i potenti della terra e i media esaltano Mandela e la sua lotta all’apartheid sudafricano.


La Chiesa disprezzata e bistrattata dall’Occidente laico e dai suoi media, continua – oggi, come ieri e come sempre – a difendere tutti gli oppressi da ogni apartheid. E lo fa pagandone le conseguenze, cioè persecuzioni, sofferenze e tanti martiri.


C’è qualcuno, nei media, che se ne accorgerà? 


Antonio Socci



Coordin.
00sabato 21 dicembre 2013 13:42

L’ULTIMA TROVATA: LA VITA NON ESISTE. IL MONDO INONDATO DI NICHILISMO E LO STUPORE PER DIO CHE SI FA UOMO…
Posted: 20 Dec 2013 12:21 AM PST
Forse nessuno ve l’ha ancora comunicato, ma voi non siete vivi. Pensate di esserlo, ma “in realtà” non lo siete. Nessuno lo è (se lo venisse a sapere il computer dell’Inps non erogherebbe più pensioni).

Mi spiace dare la ferale notizia, che potrebbe mandare di traverso il panettone di Natale ai più sensibili. Del resto nemmeno il sottoscritto è vivente. Anzi, è la vita stessa che non esiste.

A fare il clamoroso “scoop” è stata una delle più blasonate riviste scientifiche del mondo, “Scientific American”. Un articolo del numero datato 2 dicembre infatti parla chiaro fin dal titolo: “Why Life Does Not Really Exist”.



L’ASSURDO



Come sono arrivati – questi pensatori – a fare una così straordinaria scoperta? La sintesi degli argomenti è fornita dal sommario dell’edizione italiana della rivista, ovvero “Le Scienze”.

Eccolo qua: “Malgrado secoli di discussioni, esperimenti, riflessioni e progressi scientifici, nessuna delle definizioni di ‘vita’ proposte finora riesce a discriminare in modo netto e soddisfacente fra ciò che chiamiamo animato e ciò che consideriamo inanimato. Forse perché il vero elemento comune delle cose che definiamo vive non è una loro proprietà intrinseca, ma la nostra percezione di esse”.

Se ho ben capito il passaggio logico è questo: siccome non si è ancora trovata una definizione di vita, la vita non esiste.

In effetti l’articolo della rivista scientifica così argomenta: “Perché definire la vita è così frustrante e difficile? Perché scienziati e filosofi hanno fallito per secoli nel trovare una proprietà fisica specifica o un insieme di proprietà che separi nettamente i vivi dagli inanimati? Perché una proprietà simile non esiste. La vita è un concetto che abbiamo inventato. Al livello più fondamentale, tutta la materia esistente è una disposizione degli atomi e delle particelle che li costituiscono. Queste disposizioni ricadono in un immenso spettro di complessità, da un singolo atomo di idrogeno a una cosa intricata come il cervello umano”. Finora abbiamo diviso il mondo in animato e inanimato, “ma questa suddivisione non esiste al di fuori della mente”.

Quindi, per questi scienziati, vostro figlio – che corre e grida in bicicletta, facendo un gran baccano – è vivo quanto il pezzo di ferro arrugginito che sta nella discarica.



DOVE STA L’ERRORE



La filosofia che sta dietro a questi ragionamenti, mi pare la seguente: ciò che io non so definire o non comprendo, non esiste. Ciò che supera le mie capacità di conoscere ed esprimere è una fantasia astratta.

Questa mentalità è parente di quella positivista che Albert Einstein stroncò così: “Io non sono un positivista. Il positivismo stabilisce che quanto non può essere osservato non esiste. Questa concezione è scientificamente insostenibile, perché è impossibile fare affermazioni valide su ciò che uno ‘può’ o ‘non può’ osservare. Uno dovrebbe dire: ‘Solo ciò che noi osserviamo esiste’. Il che è ovviamente falso”.

Noi comuni mortali, armati di semplice buon senso (ma confortati dalla compagnia di Einstein), potremmo pensare che quanto scrive la nota rivista sia assurdo e vagamente ridicolo. La bizzarria di un commentatore.

Però c’è chi potrebbe indicare, alla base di quei ragionamenti, qualche filosofo importante.

Tutto ruota – come anni fa insegnava don Luigi Giussani – attorno al concetto di ragione che si ha. Per certi moderni (quelli di “Scientific American”) la ragione è come una scatola dentro la quale deve entrare tutto. Quello che non c’entra, magari perché è più grande, non esiste.

Per altre scuole di pensiero la ragione è come una finestra che si spalanca su un panorama che è più grande di lei. Quindi l’avventura della conoscenza è sempre un inoltrarsi nel mistero che ci avvolge e ci supera.

E’ così che il pensiero umano ha scoperto sempre nuove cose. E – di stupore in stupore – cerca la ragione ultima dell’essere.



NICHILISMO



A dire la verità ci sono stati dei filosofi greci che somigliavano ai pensatori di “Scientific American”. Ricordate Zenone di Elea, quello che sosteneva che il movimento non esiste? Non somiglia a coloro che oggi annunciano che “la vita non esiste”?

Il greco (i cui argomenti comunque non erano banali) fu confutato semplicemente da qualcuno che si alzò in piedi e prese a deambulare.

Anche la rivista americana potrebbe essere confutata concretamente mostrando una persona viva e un morto: “contra factum non valet argumentum”.

Tuttavia la replica è già contenuta nell’editoriale: “Non è che non ci siano differenze sostanziali tra esseri viventi e soggetti inanimati”, tuttavia “non troveremo mai una linea di demarcazione netta tra i due perché i concetti di vita e non-vita come categorie distinte sono proprio questo: concetti, non realtà”. Non è “una proprietà intrinseca” a rendere vive certe cose, ma “la nostra percezione di esse”.

Chi continuasse a ritenere ostinatamente che fra suo figlio e una pietra c’è una differenza sostanziale e incolmabile, chi pensasse che una creatura umana vivente non è una mera disposizione di atomi, dovrebbe prendere atto che oggi la mentalità dominante è quella espressa in un aforisma di Nietzsche: “non esistono fatti, ma solo interpretazioni”.

Idea in base alla quale per esempio si potrebbe anche argomentare che la realtà non esiste, ma esiste solo la nostra percezione di essa (e non esiste neanche la scienza, che diventa una fantasia fra le altre).

In effetti in base a questa mentalità ormai dominante oggi si sente teorizzare di tutto. La realtà si è persa e noi vaghiamo in un oceano di opinioni. A volte anche pazzoidi.

Sempre Nietzsche nel suo “Anticristo” aveva scritto: “Noi non facciamo più discendere l’uomo dallo spirito, l’abbiamo rimesso tra gli animali”.

Ora siamo andati oltre: l’uomo sta tra i minerali. Siamo meri grumi di atomi.

Una clamorosa eterogenesi dei fini per una cultura moderna che proclamava di essere nata dall’Umanesimo e dal Rinascimento che mettevano l’uomo al centro dell’universo.

Oggi l’essere umano vivente è un ferrovecchio da rottamare come una lavatrice obsoleta.

Sommessamente segnalo che Umanesimo e Rinascimento nacquero nell’alveo cristiano. Perché è il cristianesimo il vero illuminismo che ha esaltato l’uomo, la sua razionalità e ha salvato l’oggettività della realtà.

Senza questa radice, senza Dio – previde Chesterton – sparisce anche la realtà e si dovrà combattere per mostrare che i prati sono verdi e due più due fa quattro. Oggi siamo a questo punto.

Antonio Socci
Coordin.
00mercoledì 25 dicembre 2013 12:29

CARI AMICI PRETI, NON SIAMO NOI, MA E’ DIO CHE ESAGERA CON I REGALI…


Posted: 24 Dec 2013 01:07 AM PST



“Per molta gente l’oppio non è tanto stupefacente quanto un sermone pomeridiano”. Così Jonathan Swift – autore dei “Viaggi di Gulliver”, ma anche pastore protestante irlandese – iniziava una sua esilarante predica “Sul dormire in chiesa”.


Ma il libro che anni fa l’ha riproposta col titolo “La predica tormento dei fedeli”, più che castigare la distratta indolenza dei cristiani, incenerisce la pochezza dei predicatori.


 


OVVIO DEI POPOLI


 


Nel giorno di Natale, quando le chiese si riempiono di persone, i celebranti danno il meglio, o peggio, di sé. Sarebbe quella una grande occasione di annuncio (come ha ricordato di recente papa Francesco nella sua esortazione “Evangelium gaudium”). Ma come viene usata?


Joseph Ratzinger, anni fa, se ne uscì con una battuta che più o meno diceva: una prova della divinità della Chiesa sta nel fatto che la fede dei popoli sopravvive a milioni di omelie domenicali.


Certo, a scorrere i diversi autori che dicono la loro, nel libretto sopra citato, si scopre che la “predica” è da tempo vissuta come anticipo delle penitenze del Purgatorio. Già don Giuseppe De Luca scriveva: “abbiamo annoiato il mondo, noi che dovevamo svegliarlo e salvarlo”.


E lo scrittore cattolico Georges Bernanos: “Un prete che scende dal pulpito della verità con la bocca a culo di gallina, un po’ riscaldato, ma contento, non ha predicato, ma ha fatto tutt’al più le fusa”.


E François Mauriac: “Non c’è nessun posto in cui i volti sono così inespressivi come in chiesa durante le prediche”.


Ricordo che Bernanos nel “Diario di un curato di campagna” scrive: “Una cristianità non si nutre di marmellata più di quanto se ne nutra un uomo. Il buon Dio non ha scritto che noi fossimo il miele della terra, ragazzo mio, ma il sale. Ora, il nostro povero mondo rassomiglia al vecchio padre Giobbe, pieno di piaghe e di ulcere, sul suo letame. Il sale, su una pelle a vivo, è una cosa che brucia. Ma le impedisce anche di marcire.”


Tuttavia, se in tanti casi prevale la noia di un disincarnato perbenismo “politically correct”, in altri c’è un eccesso di sale che rende il piatto immangiabile. E finisce per aggiungere ustioni e dolori al povero Giobbe, già assai provato di suo.


 


REGALI


 


Accade quando i fedeli vengono investiti da invettive infuocate di improvvisati Savonarola che si sentono impegnati a castigare il mondo infame.


Questo moralismo ha una versione “progressista” e una “tradizionalista”. Nel primo caso l’uditorio sarà messo sul banco degli accusati per le sue (presunte) colpe sociali, nel secondo per le sue (presunte) colpe spirituali. Comunque sono sempre ceffoni.


In genere poi sotto Natale i predicatori moralisti di entrambe le obbedienze si trovano concordi nel martellare il povero, silente uditorio per il suo ripugnante consumismo.


Tanti buoni parroci infatti si rivolgono a noi come se fossimo nababbi spendaccioni, ribaldi che vivono di lussi superflui e viziosi che trascorrono le feste in orge e gozzoviglie.


L’invettiva “contro i regali” (ignara peraltro di quanto ha scritto Benedetto XVI sulla “cultura del dono”) è così abituale che viene ripetuta pigramente anche in anni come questo, che in realtà vede tutti al verde, alle prese con le bollette e le tasse. Altro che regali.


Se questi predicatori – che peraltro non si vestono di peli di cammello e non si nutrono di locuste come il Battista – avessero un minimo di realismo capirebbero.


Del resto, se nemmeno a Natale crescono i consumi, la crisi si aggrava. Allora serve a poco tuonare dal pulpito che tutti hanno diritto a una casa e a un lavoro…


Temi utili però per continuare a recriminare anche dopo Natale. Ma perché inveire sempre verso quei poveri cristiani che vanno a messa e già devono sudare per far quadrare i bilanci familiari? Perché metterli sul banco degli accusati quando ci pensano già lo stato e il fisco a spolparli e vessarli in mille modi?


Perché strapazzarli così anche là dove pensavano di incontrare e ascoltare un Dio che aspetta a braccia aperte i suoi figli, come un Padre pieno d’amore?


Che triste e misera cosa un simile cristianesimo. Predicatori del genere – diceva Charles Péguy – sanno solo “lamentarsi e blaterare”, sono “medici ingiuriosi che se la prendono con il malato, avvocati ingiuriosi che se la prendono con il cliente; pastori ingiuriosi che se la prendono con il gregge”.


E dire che avrebbero da dare al mondo la notizia più grande ed entusiasmante. La più consolante. Ma non se ne accorgono. O se la sono dimenticata: è il regalo che Dio ha fatto agli uomini.


Lui sì che esagera con i regali. Lui sì che sciala e ci vizia, riempiendoci di beni. Infatti il Creatore non si è accontentato di darci l’esistenza, la terra, il cielo, i mari, le montagne, le stelle, i campi di grano, l’acqua, il fuoco, la luna e il sole. Ha fatto la follia di donarci il suo stesso cuore: suo figlio Gesù. Colui che paga per tutti noi.


E’ per questo regalo impareggiabile che la gente semplice anche quest’anno varcherà la soglia della Chiesa. Per vedere il Dio bambino. Il Re che si è spogliato di tutte le sue ricchezze per fare ricchi noi. Cercano “la carezza del Nazareno”. Cercano il Bel Pastore che ha promesso consolazione a tutti gli affaticati e gli oppressi.


E’ quel Gesù che, nel villaggio di Naim, pieno di compassione per la madre che aveva perso il figlio, prima di resuscitarglielo le sussurrò: “donna, non piangere!”. Per questo è venuto sulla terra, per dire a tutti: “amico, fratello, sorella, non piangere più. E non temere. Perché io sono qui con te”.


 


CONSOLAZIONE


 


Ecco come lo annunciava papa san Leone Magno:


“Il nostro Salvatore, carissimi, oggi è nato: rallegriamoci! Non c’è spazio per la tristezza nel giorno in cui nasce la vita, una vita che distrugge la paura della morte e dona la gioia delle promesse eterne. Nessuno è escluso da questa felicità: la causa della gioia è comune a tutti perché il nostro Signore, vincitore del peccato e della morte, non avendo trovato nessuno libero dalla colpa, è venuto per la liberazione di tutti. Esulti il santo, perché si avvicina al premio; gioisca il peccatore, perché gli è offerto il perdono; riprenda coraggio il pagano, perché è chiamato alla vita”.


Come ha scritto don Julian Carron, se si è verificato l’impossibile – cioè Dio che si è fatto uomo – più “nessuno può dirsi abbandonato, dimenticato o condannato… il Signore vuole farci capire che a Lui tutto è possibile”.


Il cambiamento della nostra vita, il cambiamento del mondo e qualunque altro miracolo.


Un maestro di fede come don Divo Barsotti diceva:


“Noi offendiamo Dio quando non chiediamo i miracoli! Noi non ci crediamo! Per questo non chiediamo. Parlo schiettamente. Guardate i santi: insistevano. Pensate a quello che diceva san Filippo Neri: ‘Noi dobbiamo costringere Dio a venire a compiere questo miracolo’. Aveva una forza che non si lasciava vincere dal fatto del silenzio di Dio, dal fatto che sembrava che Dio non ascoltasse la preghiera; insistevano fintanto che Dio non doveva piegarsi alla volontà dell’uomo”.


Poi don Divo spiegava:


“No, non è che Dio si pieghi alla volontà dell’uomo, ma Dio risponde alla preghiera  dell’uomo. Noi manchiamo contro il Signore quando non chiediamo i miracoli. Dobbiamo chiedere a Dio e non dobbiamo vergognarci di chiedergli tanto…Facciamo poche storie: non crediamo, non crediamo. Bene, non devo turbarmi, perché anche se anche avessi ammazzato, perché se anche avessi commesso un adulterio… se veramente io fossi il peggiore dei peccatori, posso io pensare che il mio peccato sia un limite alla Onnipotenza e alla Misericordia Divina?”.


Infine don Barsotti aggiungeva:


“Perché si stanca la pazienza di Dio? Perché non gli si chiede quello che noi possiamo desiderare. Se tu chiedi meno della creazione, tu vai all’Inferno, perché non chiedi quello che Lui ti dona. Lui ti dona Se Stesso. I santi chiedevano e chiedevano, fintanto che non avevano ottenuto”.


Questa sì è una Buona Notizia. L’unica grande Notizia.


Coordin.
00sabato 11 gennaio 2014 08:34

ATTENZIONE AL “FUMO DI SATANA” CHE FU DENUNCIATO DA PAOLO VI: RISCHIA DI TORNARE NEL TEMPIO DI DIO


 



Il gesuita Antonio Spadaro è intervenuto sul “Corriere della sera” per spiegare che “il Papa non ha ‘aperto alle coppie gay’ come hanno titolato alcune agenzie. Il Papa non sta legittimando proprio nulla: nessuna legge, nessun comportamento che non corrisponda alla dottrina della Chiesa”.


Parole finalmente chiare. Infatti è Gesù stesso nel Vangelo a insegnare ai suoi apostoli a dire sì, se una cosa è sì, e no se è no: “il resto viene dal Maligno” (Mt 5,37).


Però se servono di continuo precisazioni e smentite vuol dire che i sì e i no sono vaghi e qualcosa deve essere messo a punto. Anche perché in tanti tirano la tonaca al nostro caro papa Francesco (Scalfari per esempio) e troppi ne travisano il messaggio.


Spadaro – fatta la salutare smentita – ha provato a dare la sua interpretazione del magistero del papa per scongiurare altri fraintendimenti. C’è riuscito? No. Ecco perché.


 DOTTRINA SPADARO


 Ha detto che l’urgenza del momento è “la sfida educativa”. Una storia vecchia. Poi ha indicato un preciso target che dovrebbe essere al centro delle cure della Chiesa: “i figli di genitori divorziati  e i figli si trovano a vivere avendo come riferimento domestico due persone dello stesso sesso”.


Il primo caso in effetti riguarda tanti ragazzi. Il secondo caso è statisticamente minimo e solo una certa subalternità culturale alle mode del momento può considerarla un’urgenza. Sarebbe più sensato dire che la Chiesa deve avere cura speciale di tutti i giovani. Tutti.


Ma, secondo Spadaro, la Chiesa – con quei due tipi di giovani – sarebbe davanti a una sfida inedita e dovrebbe elaborare una nuove strategie pastorali.


A me pare superficiale presentare come una novità assoluta l’esistenza di nuclei familiari non tradizionali: c’erano già nei primi tempi cristiani, sotto l’Impero romano e fra i popoli barbari, così come nelle terre di missione, nel corso dei secoli fino ad oggi (dove da sempre vige pure la poligamia).


Perfino i matrimoni fra persone dello stesso sesso c’erano già 2000 anni fa, per l’élite imperiale. Nerone fece due matrimoni pubblici con uomini, una volta nella parte della moglie e una volta in quella del marito (secondo Svetonio prese come moglie lo schiavo Sporo dopo averlo fatto evirare). Anche l’imperatore Eliogabalo, secondo la Historia Augusta, sposò un uomo facendo la moglie.


Di fronte ai costumi antichi non risulta che gli apostoli abbiano escogitato strategie pastorali per ogni caso, né che si siano chiesti “chi sono io per giudicare?”.


Anzi, Paolo usò parole durissime e mise in guardia i cristiani dal conformismo delle mode e dalla cultura mondana. Lui voleva sapere una sola cosa: “Cristo crocifisso”. Che era considerato “una stoltezza” dal mondo pagano.


Era disprezzato già agli inizi, non solo oggi come crede Spadaro. Ma ciò non indusse gli apostoli e san Paolo mettere la sordina ai “princìpi” come sembra suggerire Spadaro. Infatti proprio con quella “stoltezza” i cristiani conquistarono il mondo al Vangelo.


Erano cristiani con una fede certa. Che forse a Spadaro non andrebbero bene visto che ha parole sprezzanti per la “piccola ed eletta schiera di ‘puri’ ” cioè i cattolici fedeli.


Vogliamo una Chiesa dove quelli più fedeli sono estromessi e perseguitati, dove la Madonna è coperta di sarcasmi perché a Medjugorje “parla troppo”, mentre i vecchi arnesi del cattoprogressismo moderinista la fanno da padroni e da inquisitori?


Spadaro fa poi un’altra osservazione: “Anni fa, parlando agli educatori, Bergoglio aveva scritto che le scuole cattoliche ‘non devono in alcun modo aspirare alla formazione di un esercito egemonico di cristiani che conosceranno tutte le risposte, bensì devono essere il luogo in cui tutte le domande vengono accolte, e dove, alla luce del Vangelo, si incoraggia la ricerca personale’ ”.


Flash interessante, che però può essere interpretato erroneamente. Perché il cristianesimo non è la ricerca, ma è la Risposta diventata carne. L’errore da non ripetere è quello del post-Concilio quando si sostituì la fede con il dubbio e con l’incertezza. Cosa che portò al crollo più devastante della storia della Chiesa.


 IL GRIDO DI PAOLO VI


 Fu Paolo VI a denunciarlo, nel celebre discorso sul “fumo di Satana” del 1972:


“Io debbo accusare la sensazione che da qualche fessura sia entrato il fumo di satana nel tempio di Dio. C’è il dubbio, l’incertezza, la problematica, l’inquietudine, l’insoddisfazione, il confronto, non ci si fida più della Chiesa. Ci si fida del primo profeta profano che viene a parlarci da qualche giornale o da qualche moto sociale per rincorrerlo e chiedere a lui se ha la formula vera della vita. E non avvertiamo di essere invece già noi padroni e maestri, è entrato il dubbio nelle coscienze, ed è entrato per finestre che invece dovevano essere aperte alla luce; nella Chiesa regna questo stato di incertezza”.


Sarebbe tragico se oggi tornassimo a quella situazione cupissima da cui ci hanno faticosamente portato fuori Karol Wojtyla e Joseph Ratzinger.


Proseguendo il discorso del 1972 Paolo VI faceva questa constatazione:


“si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. E’ venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, di incertezza”.


E Paolo VI indicò una causa satanica:


“qualcosa di preternaturale venuto nel mondo proprio per turbare, per soffocare i frutti del Concilio e per impedire che la Chiesa prorompesse nell’inno della gioia di aver riavuto in pienezza la coscienza di sé. Noi vorremmo comunicarvi questo carisma della certezza che il Signore dà a colui che lo rappresenta anche indegnamente su questa terra”.


 LE PAROLE DI GIUSSANI


 All’unisono con questo “carisma della certezza” che deve avere il successore di Pietro (lo dice Paolo VI), furono le parole di don Luigi Giussani:


“Questa è l’ombra più grave: è stato eretto e insegnato, e magari dal pulpito, che l’incertezza sia una virtù e che la certezza sia una violenza. Come se Dio fosse diventato uomo, fosse venuto in mezzo a noi per aumentare le nostre incertezze; eravamo capaci da soli di inquietudini e di confusioni! Egli è venuto dicendo: ‘Io sono la luce del mondo’…. Il recupero di questa certezza è l’opera che il Concilio si aspetta da chi lo medita e gli obbedisce con cuore fedele”.


Proprio in don Giussani, uomo di Dio sensibile alle domande degli uomini (per questo si appassionava a Leopardi, Pavese o Kafka), troviamo il modo giusto di interpretare l’invito di Bergoglio a una Chiesa come “luogo in cui tutte le domande vengono accolte”.


Infatti Giussani, che ha portato davvero l’annuncio alle “periferie esistenziali”, che partì proprio dalla scuola e dal problema educativo dei giovani e ne guidò migliaia alla fede certa, spiegava: “condividere il bisogno è l’unico modo per leggerlo, ma la lettura sarebbe mondana se non partisse dalla tradizione cristiana… l’inizio della presenza dentro l’ambiente non è l’ambiente, ma qualcosa che viene prima… l’annuncio non viene dalla nostra intelligenza nel dirimere le questioni, ma viene prima, è qualcosa che ci è dato”.


E’ Gesù Cristo. Infatti Giussani conclude: “quando si dimentica che Cristo è la chiave di tutto, il cristianesimo diventa zero. La mentalità mondana si inserisce in noi per la paura di essere in minoranza, di non essere considerati al passo”.


Dunque serve rileggere Paolo VI e Giussani più che Spadaro. Del resto Bergoglio apprezzò molto i libri di Giussani, il quale aveva spiegato perfettamente (con anni di anticipo) l’idea della Chiesa come ospedale da campo: “quell’ammalato che si doveva alzare, punta sui gomiti e non riesce. Ma se va lì sua madre o sua moglie o un’infermiera o il medico o un amico, e lo prende sotto braccio, poco o tanto può riuscire a camminare. Questa è l’immagine dell’uomo che cammina secondo il pensiero cristiano: l’uomo non può camminare se non abbracciato, se non sostenuto da Gesù Cristo. Dio è venuto nel mondo proprio esattamente per prenderci e farci camminare”.


Da meditare e imparare.


 


Antonio Socci


 



Coordin.
00giovedì 20 febbraio 2014 08:34

ACCADE A BOLOGNA
Posted: 18 Feb 2014 03:09 AM PST
A volte accadono piccoli fatti che sono come lampi di luce nel buio. E folgorano i cuori immersi nella nebbia e i tempi cupi. E fanno capire e vedere la realtà assai più e meglio di tanti discorsi dei cosiddetti intellettuali o di coloro che dovrebbero illuminare il mondo.

E’ accaduto a Bologna

Mercoledì scorso, dopo una lunga malattia, è morto a 59 anni Roberto “Freak” Antoni, storico leader degli Skiantos, un gruppo musicale che viene classificato come “rock demenziale” e che nacque nella turbolenta Bologna del ’77, quella degli “indiani metropolitani” e di un’Italia che poi affogò negli anni di piombo.

Freak Antoni, un artista divertente e poliedrico, rappresenta il rivolo creativo e surreale di quella stagione che a Bologna mise con le spalle al muro “da sinistra” il monolitico Pci di Zangheri e a Roma la Cgil di Lama. Freak era così ironico, dissacrante, cinico, poetico che non è possibile inquadrarlo negli schemi.

D’altra parte quella rivolta giovanile dava voce alla delusione delle rivoluzioni mancate, al disgusto per gli apparati e finiva per esprimere sogni e utopie impolitiche, un grido di “felicità subito” che aveva natura inconsapevolmente religiosa.

Tornò in quei giorni un motto del ’68 francese ricavato dal “Caligola” di Albert Camus. Diceva: “Soyez réalistes, demandez l’impossibile”. Era perfetto anche per la Bologna del ’77. Ma era lo slogan meno politico e più religioso che si potesse coniare.

Infatti era stato un grande padre di cuori giovani, don Luigi Giussani a riprendere e valorizzare quelle parole di Camus: “Non è realistico che l’uomo viva senza agognare l’impossibile, senza questa apertura all’impossibile, senza nesso con l’oltre: qualsiasi confine raggiunga. Il Caligola di Camus – scrisse Giussani – parla di ‘luna’ o ‘felicità’ o ‘immortalità’. L’insaziabile non può che derivare da un inestinguibile. Un Destino di immortalità si segnala nell’umana esperienza di insaziabilità”.

A Bologna è rimasto qualcosa di quella ventata creativa del ‘77. Io stesso ho letto a volte, qua e là, sui muri, delle scritte che mi ricordavano “Freak Antoni”.

Vicino alla chiesa dei Servi – e a Nomisma – campeggiava un versetto biblico: “l’abisso chiama l’abisso”. E più in là, su un muro dell’Università, un memorabile: “Basta fatti, vogliamo parole”. Che – a ben pensarci – è geniale.

La morte prematura di Freak Antoni naturalmente ha richiamato a Bologna tanti amici e colleghi. Venerdì scorso, quando il Comune ha allestito una camera ardente per rendergli omaggio, nella sala Tassinari, a Palazzo D’Accursio, si sono visti molti personaggi noti dello spettacolo: c’erano Elio e Rocco Tanica delle “Storie Tese”, Luca Carboni, Samuele Bersani, Gaetano Curreri, Andrea Mingardi, Fabio De Luigi, il comico Vito, Milena Gabanelli e poi è arrivato il sindaco Virginio Merola.

Il quale ha detto alcune parole di commemorazione, in quell’atmosfera surreale e obiettivamente disperata, tipica di queste “camere ardenti”, tra volti tristi e straniti. Subito dopo si è fatta avanti una ragazza, una giovane studentessa di liceo.

Era Margherita, la figlia di “Freak”. Con dolcezza e fermezza ha detto alcune cose che hanno fatto sentire a tutti un brivido.

Un brivido di verità profonde che tutti conoscono in fondo al cuore, ma che tutti anche hanno rimosso e nascosto. Pure a se stessi.

La ragazza ha ringraziato i presenti, ha ricordato come suo padre vivesse per quel suo lavoro, per il palco, per i concerti che in tanti giorni di festa lo hanno strappato alla famiglia.

Margherita ha confessato di aver sofferto questa sua assenza, ma “adesso forse ho capito. Non so” ha detto guardando quei volti “se vi è mai capitato di sentirvi tristi. Ma tristi tristi, tanto tristi da chiedervi qual è il senso della vita, il perché delle cose. A me a volte capita. A mio padre capitava sempre. Siete tristi perché vi manca qualcosa, non è così? Altrimenti avreste l’animo appagato, soddisfatto. Ma che cosa manca?”.

La domanda della ragazza per un istante ha fatto sentire tutti come messi a nudo. Poi ha proseguito: “Ognuno cerca di colmare il vuoto che sente. Mio padre lo colmava con la droga, con i concerti, con storie d’amore improponibili. Mio padre era uno triste, uno senza speranza, un infelice, un irrequieto”.

Erano parole dette con profonda compassione e pietà. Margherita ha poi raccontato di aver trovato, l’altro giorno, nel portafoglio del padre, un biglietto dove aveva annotato questa frase: “perciò io non terrò la bocca chiusa, parlerò nell’angoscia del mio spirito, mi lamenterò nell’amarezza del mio cuore”.

Era una frase della Bibbia, del libro di Giobbe. Chissà quando e come Freak Antoni l’aveva sentita o letta e se l’era annotata, perché di certo la sentiva sua, perché esprimeva il suo dolore, la sua solitudine, le sue domande e il suo grido.

Infatti Margherita l’ha commentata così: “mio padre era un grande perché gridava, perché non si accontentava, perché il suo desiderio di felicità era più grande di qualsiasi concerto, droga o storia d’amore”.

Così, con una grazia che incantava e una pietà commossa, la giovane figlia ha descritto il senso religioso di questo padre artista irrequieto e scapigliato. E ha colto più e meglio di chiunque altro il suo genio. E il suo dolore.

Ricordando una delle sue memorabili battute (“Dio ci deve delle spiegazioni”) Margherita ha concluso con la speranza che davvero “lassù gliele dia”.

Poi, in tutta semplicità, a quella platea improbabile e sbigottita ha detto che voleva dire una preghiera per suo padre. E chi voleva poteva unirsi a lei. Ha recitato con alcuni amici l’Eterno riposo e un’Ave Maria e in quel momento una Misericordia infinita è scesa su tutti, in quella stanza, come un immenso e bellissimo panorama pieno di azzurro.

E come sono sembrate goffe e ridicole le chiacchiere di certi intellettuali e di certi notabili dell’industria sui giovani di oggi.

Se questo Paese ha una speranza, bisogna riconoscere che questa speranza ha il volto di Margherita e dei ragazzi e delle ragazze come lei. Che ci sono e sono molti più di quanto si immagini.

Nei loro volti s’intravede una speranza, una certezza, una pietà che oggi sembrano impossibili. Come quella pace di Margherita davanti al dolore della morte. Talora l’impossibile per grazia accade.



Antonio Socci
Coordin.
00martedì 8 aprile 2014 11:12

GLI OCCHI DI GESU’ (di fronte alla nostra morte…)


 



Certo, i poeti e i profeti lo dicono con ben altra potenza. Ma anche quei protagonisti della cultura pop di oggi che sono i cantautori – menestrelli del duemila – a volta azzeccano un verso (o una canzone) che, sia pure in un mare di nichilismo, è come un lampo di luce sulla condizione umana.


Penso all’ultimo successo di Vasco Rossi, “Dannate nuvole”, che parla della vita come “valle di lacrime” dove “tutto si deve abbandonare” perché “niente dura” e “questo lo sai, però non ti ci abitui mai. Chissà perché?”.


Questa fragilità dell’esistenza, che davvero dura un soffio di vento e – dice la Bibbia – è come l’erba del campo (“al mattino fiorisce e alla sera è falciata e dissecca”), è la vera grande domanda che grava su di noi. Più incombente di qualsiasi problema quotidiano. Perché è la domanda sul senso della vita.


 


STRUZZI


 


Ma noi solitamente facciamo spallucce e mettiamo la testa sotto la sabbia. C’è una scambio di battute, nel film “La grande bellezza”, che è un simbolo perfetto del nostro tempo vacuo e superficiale.


“Come stai , caro?”, chiede Jep Gambardella ad Andrea. E lui: “Male. Proust scrive che la morte potrebbe coglierci questo pomeriggio. Mette paura Proust. Non domani, non tra un anno, ma questo stesso pomeriggio, scrive”. La replica di Jep è questa: “Vabbè, intanto adesso è sera, dunque il pomeriggio sarebbe comunque domani”.


E’ un cinismo compiaciuto che oggi è molto diffuso (ci si sente furbi e spiritosi a buttarla in battuta), ma che nasconde una disperata inermità.


Del resto già Pascal diceva che gli uomini, non sapendo trovar rimedio alla morte, decisero, per rendersi felici, di non pensarci. Ma quale felicità? Quella del ballo sul Titanic? Più che una grande bellezza, una grande tristezza.


Dev’esserci anche un qualche meccanismo psicologico che si è interiorizzato per evitare di guardare l’abisso. Freud sosteneva che “in fondo nessuno di noi crede alla propria morte”.


Così quando arriva è troppo tardi per pensarci. Ma la si sconta vivendo, avvertiva il poeta. E specialmente vivendo la morte delle persone che amiamo.


In quel caso – e capita a tutti – per un attimo, un’ora o un giorno il teatro delle chiacchiere e dei burattini che è la quotidianità scompare e ci si trova ammutoliti davanti alla realtà.


 


I NOSTRI NANNI


 


Pare che sia un evento privato di questo tipo, la morte della madre, avvenuta l’anno passato, ad aver ispirato il film che Nanni Moretti sta girando in questi giorni a Roma e che s’intitolerà appunto “Mia madre”.


E’ già cominciata la solita solfa del set blindatissimo e però anche delle indiscrezioni da cui puntualmente filtra la trama. E’ stato Michele Anselmi sul “Secolo XIX” a parlarne.


Protagonisti saranno i due figli di una madre anziana e malata: due fratelli interpretati da Moretti stesso (che arriva a licenziarsi per accudire la madre) e da Margherita Buy che nel film interpreta una regista “engagée” in via di separazione dal compagno e con una figlia adolescente.


Margherita, la regista, è alle prese con un film di denuncia sociale sulla ristrutturazione e i licenziamenti in una fabbrica mentre la vita privata incombe e gli ultimi giorni della madre impongono le solite, drammatiche domande sul tenerla in ospedale o portarla a morire a casa.


Si può immaginare la tipica fibrillazione nervosa del personaggio della Buy che non riesce a tenere insieme “l’impegno” del suo film sociale, dove la fabbrica in crisi è la metafora dell’Italia, i problemi scolastici della figlia, la separazione e il dramma di una madre morente.


Del resto Anselmi scrive che “l’idea di Moretti, al di là del tirante drammaturgico della malattia, è interrogarsi su quella che ha definito ‘una crisi culturale e sociale che ci coinvolge tutti’ ”.


Vedremo se e come il regista romano saprà farci stare di fronte alle domande immense suscitate dalla malattia e dalla morte. Vedremo se saranno solo dei pretesti narrativi, delle metafore per parlare del momento storico e sociale, o se lui avrà il coraggio di prendere di petto la questione di fondo: il senso del vivere e del morire.


Ovviamente Moretti non è Bergman, né Tarkovskij. Però potrebbe sorprendere con un accento nuovo.


Ha già affrontato il tema del dolore e della morte con “La stanza del figlio” (che vinse la Palma d’oro a Cannes nel 2001). Mostrò un certo talento, ma più che fare i conti col tema della morte mise in scena il problema dell’elaborazione del lutto. Più Freud che Leopardi.


 


SCOPERTA


 


Moretti dà spesso la sensazione di un “vorrei, ma non posso”. Regista di talento, sembra non riuscire mai a scappare dalle gabbie del conformismo, dai tic e dai pregiudizi della sua generazione. Conosce e pratica (molto bene) il registro dell’ironia, ma gli è sconosciuto lo sguardo profondo e lieve della poesia.


E’ l’icona di una generazione che sembra incapace di essere libera, di mettersi veramente in discussione e di cercare la verità dovunque essa sia, anche fuori dal proprio frigorifero esistenziale.


Azzardo una previsione. Specialmente se il film andrà alla mostra del cinema di Venezia, fra qualche mese la cultura dominante – cioè il salottismo borghese-sinistrese – scoprirà che esiste la morte (perché le cose esistono solo quando le scopre lei).


Ne ciancerà con qualche serioso pistolotto per una decina di giorni e poi ordinerà un aperitivo passando ad altro. Che sia Renzi o Berlusconi, che sia l’ultima articolessa di Scalfari o papa Francesco.


Infatti nel “banal grande” politically correct in cui tramonta stancamente questa generazione di vecchi vincenti, si riesce perfino a mitizzare Francesco snobbando tutto quello che lui accoratamente dona.


Con i loro assordanti applausi evitano di ascoltare ciò che dice e perdono la grande occasione della loro vita: conoscere un’ignota Misericordia.


 


LA SOLA SPERANZA


 


Parafrasando Pessoa si può dire che la generazione pre e post Sessantottina ha perduto la fede cristiana per la stessa ragione per cui i suoi padri l’avevano avuta: senza sapere perché.


C’è perfino chi – come Scalfari – ogni settimana sulla “Repubblica” riesce nella spericolata operazione di osannare Francesco e proclamarsi suo amico e seguace, ma senza considerare minimamente ciò che al Papa sta più a cuore: quella Misericordia che tanto commuove il suo cuore.


Eppure proprio quella Misericordia è la grande bellezza (quella vera). Ed è la risposta alle domande più profonde.


Perché può dar senso alla vita solo qualcosa – o meglio Qualcuno – che sa vincere la morte. Altrimenti è un imbroglio.


Quella Misericordia – ha ripetuto papa Francesco – è un Uomo. L’unico che ha vinto la morte e la disperazione. La potenza e la bontà del suo sguardo hanno ridato la vita al figlio della vedova di Naim, alla figlia di Giairo, al suo amico Lazzaro.


Incontrare (e seguire) quello sguardo è la più grande fortuna della vita.


Ieri don Julian Carron, parlando davanti ad alcune migliaia di persone della Fraternità di CL, ha indicato proprio quello sguardo – Ojos de cielo, occhi di cielo – come la sola speranza: quegli occhi che ci tolgono dall’inferno dei nostri affanni e ci illuminano perché sono cammino e guida.


Quegli occhi che fanno vivere tutto. E non fanno morire mai più coloro che si amano. Con Lui, caro Vasco, ogni bellezza dura. E per sempre.


 


Antonio Socci




Coordin.
00lunedì 14 aprile 2014 11:57

GRANDEZZA DI GIOVANNI PAOLO II.
IL DOVERE DEI PAPI: DIFENDERE IL GREGGE DALLA DITTATURA DEL MONDO.

Andrea Riccardi ha rivelato, in un suo libro, il contenuto della “deposizione” che il cardinale Carlo Maria Martini rese al processo per la canonizzazione di Karol Wojtyla.

Le sue parole hanno fatto una triste impressione, non solo perché egli giudica inopportuna l’elevazione agli altari di Giovanni Paolo II (desideratissima invece dal popolo cristiano: avverrà in piazza San Pietro il 27 aprile prossimo). Ma soprattutto per il modo e per gli argomenti usati.

 CRITICHE

 C’è chi ha scritto che è stata “la vendetta del cardinal Martini”, che “opponendosi alla canonizzazione di Papa Wojtyla si è voluto prendere una rivincita”.

Ma non voglio credere che il cardinale coltivasse (ri)sentimenti del genere, anche perché proprio Giovanni Paolo II lo aveva nominato arcivescovo di Milano, lo aveva creato cardinale e – come Ratzinger – aveva sempre avuto parole di stima personale nei suoi confronti.

Qualche caduta di stile si nota, però, nella deposizione di Martini. Il quale critica Wojtyla, fra l’altro, per le sue nomine, precisando: “soprattutto negli ultimi tempi” (la sua fu una nomina dei primi tempi).

Inoltre il prelato attacca Giovanni Paolo II per il suo appoggio ai movimenti ecclesiali. Questo livore martiniano contro le nuove realtà suscitate dallo Spirito Santo gli impedì di vedere quanto papa Wojtyla avesse rinnovato la Chiesa, valorizzando i carismi e gli impetuosi movimenti di rinascita della fede, che sono i veri frutti positivi del Concilio.

Ci sono anche altre critiche di Martini, in quella deposizione, che sconcertano. Per esempio afferma che Giovanni Paolo II si pose “al centro dell’attenzione, specie nei viaggi, con il risultato che la gente lo percepiva un po’ come il vescovo del mondo e ne usciva oscurato il ruolo della Chiesa locale e del vescovo”.

Questa desolante considerazione dimentica che papa Wojtyla dovette confortare nella fede e ridare coraggio a milioni di cristiani che negli anni Settanta erano perseguitati e incarcerati in Oriente e umiliati e silenziati in Occidente.

Inoltre i pellegrinaggi di Giovanni Paolo II dettero un formidabile slancio missionario proprio alle chiese locali (basti pensare ai sedici viaggi in Africa e alla rinascita della fede che ne è seguita in quel continente).

Martini riconosce pure qualche lato positivo a papa Wojtyla, per esempio “la virtù della perseveranza”, ma subito aggiunge che fu eccessiva perché decise di restare papa fino alla fine: “personalmente riterrei che aveva motivi per ritirarsi un po’ prima”.

A dire il vero lo stesso Martini, concluso il suo episcopato milanese, per raggiungimento dell’età canonica, invece di ritirarsi a vita di preghiera, come aveva annunciato, intensificò il suo presenzialismo mediatico. E indurì le sue critiche alla Chiesa. Un comportamento che sconcertò molti fedeli.

D’altra parte il cardinale di Milano, per tutto il pontificato di Wojtyla (e pure di Ratzinger), è stato esaltato dai media laicisti come il loro (anti)papa.

E non si può dire che egli abbia fatto degli sforzi visibili per sottrarsi alle insidiose lusinghe di anticattolici, mangiapreti e miscredenti. I quali facevano a gara per osannarlo, intervistarlo e amplificare le sue critiche alla Chiesa.

 

O CESARE O DIO

 

Papa Wojtyla – col suo carisma personale e la sua fede accorata – ha affascinato i popoli, milioni di persone andavano a cercarlo per ascoltarlo. Però non è mai stato amato dai poteri di questo mondo. Anzi, è stato letteralmente detestato.

Fin dall’inizio fu bollato come reazionario, anticomunista, bigotto, “troppo polacco” e via dicendo. Poi – vista la forza del suo carisma e l’amore che suscitava nelle folle – ritennero che non conveniva loro opporvisi frontalmente e cercarono di logorarlo in altri modi.

Ma il grande Giovanni Paolo non ha mai annacquato la verità. Nel suo amore per Cristo e per gli uomini, ha sempre chiamato bene il bene e male il male.

Joseph Ratzinger, con la sua recente testimonianza raccolta da Wlodzimierz Redzioch nel libro “Accanto a Giovanni Paolo II”, ha insistito proprio su questo:

“Giovanni Paolo II non chiedeva applausi, né si è mai guardato intorno preoccupato di come le sue decisioni sarebbero state accolte. Egli ha agito a partire dalla sua fede e dalle sue convinzioni, ed era pronto anche a subire colpi. Il coraggio della verità è ai miei occhi un criterio di primo ordine della santità. Solo a partire dal suo rapporto con Dio è possibile capire anche il suo indefesso impegno pastorale. Si è dato con una radicalità che non può essere spiegata altrimenti”.

Ratzinger già alla morte di Paolo VI, il 10 agosto 1978, disse:

un Papa che oggi non subisse critiche fallirebbe il suo compito dinanzi a questo tempo. Paolo VI ha resistito alla telecrazia e alla demoscopia, le due potenze dittatoriali del presente. Ha potuto farlo perché non prendeva come parametro il successo e l’approvazione, bensì la coscienza, che si misura sulla verità, sulla fede”.

Infatti, diventato lui stesso papa, Benedetto XVI, indifesa dei piccoli e dei poveri denunciò “la dittatura del relativismo”. E sempre affermò che il ministero di Pietro era legato al martirio.

Un martirio fisico per i papi dei primi tre secoli. Un martirio morale per i papi di oggi (ma Wojtyla sparse anche il suo sangue).

Non che i cristiani debbano cercare l’odio del mondo, ovviamente. Ma le “potenze dittatoriali” delle ideologie o del nichilismo sono realtà e minacciano o condizionano pesantemente la Chiesa.

Gesù stesso nel discorso della montagna aveva ammonito i suoi a restare liberi e sottrarsi ai condizionamenti:

Guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi” (Lc 6, 24-26). 

I veri discepoli di Gesù infatti sono segno di contraddizione per i poteri mondani:

“Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo (…) il mondo vi odia. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi” (Gv 16, 18-20).

Gesù arrivò a indicare ai suoi questa beatitudine:

“Beati voi quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e v’insulteranno e respingeranno il vostro nome come scellerato, a causa del Figlio dell’uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate, perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nei cieli” (Lc 6, 20-23).

Non significa che si debba cercare la persecuzione, ma che non si deve essere succubi dei poteri e delle ideologie di questo mondo. Pietro deve sempre insegnare che fra obbedire a Cesare e obbedire Dio, bisogna scegliere Dio.

 

FRANCESCO E I MEDIA

 

E non basta nemmeno dichiarare apertamente la scelta giusta, perché la “dittatura” del “politically correct” è insidiosa. Esemplare e inquietante è il modo in cui si piegano certe frasi di papa Francesco verso questo “pensiero unico”.

Mentre vengono ignorati certi suoi interventi molto decisi, come quelli di venerdì scorso, contro l’aborto, l’eutanasia e per la famiglia naturale uomo-donna (“occorre ribadire il diritto del bambino a crescere in una famiglia, con un papà e una mamma capaci di creare un ambiente idoneo al suo sviluppo e alla sua maturazione affettiva. Continuando a maturare in relazione alla mascolinità e alla femminilità di un padre e di una madre”).

Il Papa – in chiaro riferimento all’attualità – ha anche invitato a“sostenere il diritto dei genitori all’educazione morale e religiosa dei propri figli. A questo proposito” ha aggiunto “vorrei manifestare il mio rifiuto per ogni tipo di sperimentazione educativa con i bambini. Con i bambini e i giovani non si può sperimentare. Non sono cavie da laboratorio! Gli orrori della manipolazione educativa che abbiamo vissuto nelle grandi dittature genocide del secolo XX non sono spariti; conservano la loro attualità sotto vesti diverse e proposte che, con pretesa di modernità, spingono i bambini e i giovani a camminare sulla strada dittatoriale del “pensiero unico’ ”.

Nella notte del “pensiero unico” queste parole sono luce e libertà per tutti come lo sono state quelle di Wojtyla e Ratzinger.

 Antonio Socci


Coordin.
00venerdì 25 aprile 2014 07:41

LA LETTERA D’AMORE PER TE,
SCRITTA COL SANGUE

Il 9 aprile scorso, durante l’Udienza generale in Piazza San Pietro, una persona dalla folla ha gridato verso il Pontefice: “Papa Francesco, sei unico!”. Il Santo Padre gli ha risposto: “Anche tu, anche tu sei unico. Non ci sono due come te”.

Con quella semplice battuta ha espresso una verità immensa, che caratterizza il cristianesimo. Infatti per il mondo il singolo è solo un numero, sostituibile con tanti altri, cioè sacrificabile al potere.

Le ideologie moderne poi considerano come protagonisti della storia dei soggetti collettivi (la Razza, la Classe, la Nazione, l’Umanità) o entità astratte come il Mercato, il Capitale, il Partito e lo Stato.

 

RIVOLUZIONE

 Invece con l’avvenimento cristiano accade qualcosa di rivoluzionario: l’unico Dio che scende sulla terra e ha pietà di ogni singola persona, specie del miserabile, del peccatore incallito, del malato, di ciascun uomo.

Per compassione il Figlio di Dio lo abbraccia, lo risana, lo perdona, addirittura si inginocchia davanti a lui e gli lava i piedi (ovvero fa quello che facevano gli schiavi agli ospiti). Fino a morire per lui, per quel singolo essere (insignificante per il mondo).

Davvero una rivoluzione, un totale capovolgimento dell’ordine costituito da millenni, da sempre basato sui sacrifici umani, in molte forme (a partire dallo schiavismo, fondamento delle economie antiche).

Lo colse bene il più fiero avversario moderno del Nazareno, ovvero Friedrich Nietzsche che scrisse: “L’individuo fu tenuto dal cristianesimo così importante, posto in modo così assoluto, che non lo si poté più sacrificare, ma la specie sussiste solo grazie a sacrifici umani… La vera filantropia vuole il sacrificio per il bene della specie – è dura, è piena di autosuperamento, perché abbisogna del sacrificio dell’uomo. E questo pseudoumanesimo che si chiama cristianesimo, vuole giungere appunto a far sì che nessuno venga sacrificato”.

Noi neanche più ce ne rendiamo conto. Ma il cristianesimo è entrato nel mondo proclamando la fine di tutti i sacrifici umani.

In quale modo lo ha fatto? Col sacrificio del Figlio di Dio. L’editto di liberazione è scritto sulla sua stessa carne.

Lo ha spiegato il filosofo René Girard: Gesù è letteralmente “l’Agnello di Dio” (il capro espiatorio) che si offre in olocausto affinché tutti vengano liberati dalla schiavitù del male e nessun essere umano venga più sacrificato agli dèi della menzogna e della morte.

Ma – attenzione – ancora una volta Gesù non si offre a quella morte orrenda per un’astratta Umanità, bensì per ogni singolo, per me che scrivo questo articolo, per te che leggi.

La dottrina cattolica è arrivata ad affermare che, agli occhi di Dio, la salvezza di un singolo essere umano vale più dell’intero creato.

E la mistica ci ha fatto scoprire che – in un modo misterioso – in quelle ore di atroci sofferenze Gesù pensò proprio a ognuno di noi, nome per nome, ai nostri volti. Uno per uno.

Fa impressione accostare questa rivelazione dei mistici alle fasi del supplizio di Gesù.

La Sindone ci dà la perfetta immagine fisica di quelle atroci torture che il Vangelo elenca in modo scarno, quasi freddo. Vediamole.

 

LETTERA DI SANGUE

 

Le tante tumefazioni sul volto sono i segni dei pugni sopportati (con gli sputi e gli insulti) nelle fasi concitate dell’arresto. Però il naso rotto, l’occhio gonfio e i sopraccigli feriti (evidenti sulla Sindone) sono anche la traccia della bastonata in faccia subita da Gesù durante l’interrogatorio del Sinedrio (Gv 18, 22-23).

Poi c’è quell’inedita macellazione dei 120 colpi di flagello romano (a tre punte) che gli hanno devastato tutto il corpo strappandogli la carne in più di trecento punti (un supplizio del tutto anomalo anche per i crocifissi).

Ma una delle cose più dolorose per Gesù è il peso ruvido della traversa della croce che, lungo il tragitto del Calvario, letteralmente gli scopre le ossa delle spalle provocando sofferenze indicibili.

Poi Gesù avrà la testa trafitta da circa 50 lunghe spine (la corona beffarda dei soldati romani), qualcosa che non è umanamente sopportabile.

Ma la Sindone mostra anche ferite al volto e alle ginocchia dovute alle cadute mentre andava al Calvario (avendo le braccia legate alla traversa della Croce, non poteva ripararsi la faccia).

Infine le ferite dei chiodi, per la crocifissione, e le ore trascorse a respirare dovendosi appoggiare proprio sugli arti inchiodati.

Bisognerebbe fissare una per una queste atroci sofferenze ricordando che in quel momento Gesù pensava a me e a te, sopportava tutto per me e te, al posto mio e tuo, perché non fossimo sacrificati alle crudeli divinità delle tenebre.

 

SCOPERTE RECENTI

 

In questi giorni si è saputo che un’équipe di studiosi veneti, lavorando sulla Sindone, ha scoperto altri particolari impressionanti.

I ricercatori Matteo Bevilacqua, direttore del reparto di Fisiopatologia Respiratoria dell’Ospedale di Padova e Raffaele De Caro, direttore dell’Istituto di Anatomia Normale dell’Università di Padova, hanno lavorato insieme con Giulio Fanti, professore del Dipartimento di Ingegneria Industriale dell’Ateneo padovano che già in passato ha pubblicato studi sulla Sindone che ne accreditano l’antichità.

Dunque questi specialisti hanno provato a riprodurre ciò che fu inflitto all’uomo della Sindone: la simulazione ha comportato due anni di lavoro.

Hanno concluso che le mani del crocifisso probabilmente furono bucate dai chiodi due volte, evidentemente perché non si riusciva a fissarle ai solchi già prefissati sulla croce.

“Per i piedi invece la situazione cambia”, spiega Bevilacqua (le sue dichiarazioni sono riportate dal Mattino di Padova). “Il piede di destra aveva sia due chiodi che due inchiodature: era stato infilato un chiodo a metà piede per assicurare l’arto sulla trave, poi è stato infilato un altro chiodo lungo due centimetri per riuscire ad accavallare il calcagno del piede sinistro sulla caviglia del piede destro”.

Atrocità che si aggiungono a quelle già note, riferite dai Vangeli. Del resto la crocifissione, nel caso di Gesù, “è stata particolarmente brutale” affermano questi specialisti “perché fatta su un soggetto paralizzato che aveva perso molto sangue e che era stato abbondantemente flagellato”.

Ma perché l’uomo della Sindone era in parte “paralizzato”?

Questi specialisti spiegano che la traversa della croce, di una cinquantina di chili, in una delle cadute avrebbe provocato un grave trauma al collo, con una lesione dell’innervazione e una conseguenze paralisi del braccio destro.

Per questo i soldati romani costrinsero Simone di Cirene a portare la croce che Gesù non poteva più sostenere. I ricercatori padovani – i quali aggiungono che l’uomo della Sindone aveva pure una lussazione della spalla – spiegano anche le cause cardiache della morte.

 

PROVA DELLA RESURREZIONE

 

Tutti dati reperibili sulla Sindone che però porta anche le tracce della resurrezione. Per la connessione di questi tre dati.

Primo: i medici legali che hanno lavorato in passato su quel lenzuolo hanno appurato che esso ha sicuramente avvolto il cadavere di un uomo morto per crocifissione.

Secondo: gli scienziati americani dello Sturp che analizzò la Sindone, con strumenti assai sofisticati, conclusero che quel corpo morto non rimase dentro al lenzuolo più di 40 ore perché non vi è alcuna traccia di putrefazione.

Terzo. Costoro accertarono che i contorni della macchie di sangue provano che non vi fu alcun movimento fra il corpo e il lenzuolo. Il mancato strappo dei coaguli ematici rivela che il corpo non si spostò, né fu spostato, ma uscì dal lenzuolo come passandovi attraverso.

E con il misterioso sprigionarsi, dal corpo stesso, di una energia sconosciuta che ha fissato quell’immagine (tuttora senza spiegazione scientifica).

Arnaud-Aaron Upinsky osservò che “la Sindone porta la prova di un fatto metafisico”. In effetti è la resurrezione di Gesù. Che ha sconfitto il male e la morte per ciascuno di noi. Uno per uno. E ci regala l’immortalità.

 

 

Antonio Socci


Coordin.
00martedì 29 aprile 2014 23:26

OGGI LA CHIESA E’ IN FESTA. IN TERRA E IN CIELO.
MA COSA SIGNIFICA PROCLAMARE I SANTI? SE IL MONDO LO CAPISSE…..

 

Il popolo cristiano è giustamente in festa per la canonizzazione del grande Giovanni Paolo II e di Giovanni XXIII. E i giornali dedicano fiumi d’inchiostro all’evento che effettivamente è straordinario (con l’aggiunta di ore di programmazione televisiva).

 

STRANI GIORNI

 

Al di là dell’indubbia importanza dei due pontefici canonizzati, quello che si ricava da tanto parlare – a mio avviso – è questo: più il mondo si laicizza e più diventa clericale. Più si fa anticristiano e più si appassiona alle cose curiali. Più censura il fatto cristiano, più si elettrizza per il ceto ecclesiastico. Più diserta le chiese, più è attratto dalle sacrestie.

Tanto che laiconi come Scalfari e Pannella smaniano per una telefonata di papa Bergoglio e vanno in brodo di giuggiole nello spifferarla, mentre “l’incallito miscredente” Odifreddi fa la ruota e va in sollucchero per una risposta al suo libro arrivatagli da Ratzinger, sebbene il papa emerito lo tratti da scolaretto.

Fanno i mangiapreti e poi si liquefanno per l’emozione davanti al papa come il sarto manzoniano davanti al cardinal Borromeo.

Il fenomeno era già evidente nella tv (specie nei talk show) e sui giornali dove da anni c’è un’invasione di ecclesiastici, proprio mentre c’è una totale censura dei contenuti della fede cristiana.

In fondo è l’avverarsi di una predizione di Charles Péguy il quale – da vero convertito – vedeva avvicinarsi l’era nefasta in cui ci saremmo trovati stretti fra la curia clericale e quella anticlericale. Due curie solidali (anche perché vanno a braccetto con la mentalità dominante).

 I CRISTIANI

 Diverge poco il loro atteggiamento anche di fronte alle notizie sempre più agghiaccianti che arrivano dal mondo sulla sorte di tanti cristiani, ridotti in schiavitù, violentati, discriminati e massacrati (come in Corea del Nord, in Africa o in Pakistan): le loro ferite sono oggi le visibili ferite di Cristo crocifisso. Ed è  nella loro presenza umile ed eroica (penso alla povera Asia Bibi) che oggi è particolarmente visibile la presenza viva di Cristo.

Lo sapeva e ce lo ha insegnato il grande Joseph Ratzinger che affermava:

“Le vie di Dio sono diverse: il suo successo è la croce… non è la Chiesa di chi ha avuto successo ad impressionarci, la Chiesa dei papi o dei signori del mondo, ma è la Chiesa dei sofferenti che ci porta a credere, è rimasta durevole, ci dà speranza. Essa è ancora oggi segno del fatto che Dio esiste e che l’uomo non è solo un fallimento, ma può essere salvato”.

Per questo Giovanni Paolo II proclamò tanti santi, proprio per indicare tante persone semplici che nella nostra vita quotidiana, fra noi, sono stati segno della presenza viva di Cristo.

Rimanendo perlopiù sconosciuti ai media, al mondo o magari subendo disprezzo e persecuzioni, a volte pure dalla Curia (come accadde a padre Pio).

Del resto lo stesso mondo laico occidentale – modello Obama – che si appassiona alle Curie e al mondo clericale (e che celebra il papa nelle copertine dei news magazine come “uomo dell’anno”), è quello che si mostra più lontano dai contenuti della fede.

E a volte sempre più intollerante nei confronti dell’aperta e chiara presenza dei cristiani, fino a cercare di imbavagliarli come accade – in diverse forme – nell’Europa laicista attuale.

Il fatto stesso che non la si veda e non faccia scandalo questa sottile persecuzione è il segno di quanto la si ritenga naturale, perfino giusta. Perciò è purtroppo prevedibile che essa diventi sempre più pesante.

Un profeta del nostro tempo, don Luigi Giussani, già vent’anni fa la prefigurava:

“Una persecuzione vera? È così. L’ira del mondo oggi non si alza dinanzi alla parola Chiesa, sta quieta anche dinanzi all’idea che uno si definisca cattolico, o dinanzi alla figura del Papa dipinto come autorità morale. Anzi c’è un ossequio formale, addirittura sincero. L’odio si scatena – a mala pena contenuto, ma presto tracimerà – dinanzi a cattolici che si pongono per tali, cattolici che si muovono nella semplicità della Tradizione” (da “Un evento. Ecco perché ci odiano”, in “Un avvenimento di vita, cioè una storia”, Edit-Il Sabato, Roma 1993, p. 104).

Già don Giussani – come si vede – coglieva questo strano paradosso di un clericalismo laicista che prospera all’interno di un  anticristianesimo intollerante.

E nel mondo clericale sta prendendo sempre più campo chi ritiene che si debba cercare l’applauso del mondo sulle cose che il mondo ama (quindi sul “politically correct”) e chiudere in soffitta ciò che il mondo non ama sentirsi dire.

Se Gesù avesse fatto così non sarebbe mai stato crocifisso.

Anche Giovanni Paolo II non tacque mai e non scese a compromessi sulla verità, così è diventato l’esempio più luminoso di cosa sia un santo oggi e soprattutto un pastore santo. Infatti Ratzinger ha recentemente scritto di lui: “il coraggio della verità è un criterio di prim’ordine della santità”.

Siccome uno dei motivi per cui la Chiesa proclama un santo è proprio questo, l’indicarlo ad esempio di vita, si spera che gli ecclesiastici imparino da lui e lo seguano.

C’è però anche un secondo motivo per cui la Chiesa proclama dei santi: indicare dei fratelli nella fede che sono già in Paradiso e possono intercedere per noi (proprio per questo è chiesto il miracolo, come una conferma di Dio sulla presenza in Cielo della persona canonizzata).

Dunque proclamando dei santi la Chiesa, al tempo stesso, ricorda agli uomini l’esistenza del Paradiso e della vita eterna (e implicitamente quella dell’Inferno), annuncia che questa fragile e breve vita terrena è solo la preparazione alla Vita vera, quella dove tutti i nostri desideri di felicità, di pace, di amore saranno compiuti in modo inesauribile.

 

PARADISO

 

Il tema dell’Aldilà – ovvero cosa c’è dopo la vita – è forse una delle rimozioni più imbarazzanti, un problema da cui fugge la cultura laica, da cui fuggono i media. Non riescono ad affrontarlo. Ma lo stesso mondo ecclesiastico ha pressoché accantonato nella predicazione i cosiddetti Novissimi (morte, giudizio inferno e paradiso).

Eppure si tratta della questione più importante. E’ anche quella che corrisponde più profondamente ai desideri dei cuori umani. Jack Kerouac scriveva: “La vita non è abbastanza… Qui sulla terra non c’è abbastanza per desiderare”.

Infatti l’uomo è l’unica creatura che non trova appagamento sulla terra. Solo lui è animato per tutta l’esistenza da un desiderio di felicità, di amore e di significato che resta insoddisfatto. Perché un’altra è la sua vera patria.

Questo è il messaggio profondo delle canonizzazioni della Chiesa, di cui però non si trova traccia nel fiume di articoli di questi giorni.

Eppure tutta l’esistenza terrena – come osservava il filosofo Bergson – cambia in base al fatto che ci sia o meno la vita dopo la vita.

Nel Vangelo si vede che il centro dell’annuncio di Gesù è proprio questo: il Regno di Dio (o, in alternativa, l’angoscia eterna dell’Inferno).

Ci sono stati promessi “cieli nuovi e terra nuova”, dove non vi sarà più la morte e tutte le lacrime saranno asciugate. I mistici – che hanno visto il Paradiso – parlano di una felicità inimmaginabile e indicibile con parole umane.

Per guadagnare la Vita vera, la felicità del Paradiso, moltissimi, in questi duemila anni, sono stati pronti perfino a dare la vita. I santi dicono che ne vale la pena.

Infatti Gesù nel Vangelo lancia la domanda più vertiginosa, anche per il nostro tempo: “che vale all’uomo guadagnare il mondo intero se poi perde se stesso?”.

 Antonio Socci


Coordin.
00mercoledì 30 aprile 2014 10:20

COSA E’ ACCADUTO SABATO SCORSO
ALLA MADONNINA DI CIVITAVECCHIA…

Proprio alle porte di Roma, il giorno precedente la canonizzazione dei due papi, sabato 26 aprile, è accaduto uno strano incidente alla statuetta della Madonna di Civitavecchia, quella che (fra il 2 febbraio e il 15 marzo 1995) per 14 volte lacrimò sangue e che è custodita nella chiesetta di Pantano.

 

Sono stato informato da alcuni amici che erano presenti e immediatamente hanno temuto che la cosa venisse interpretata in modo superstizioso, come è avvenuto per altri episodi recenti, ritenuti da qualcuno (perlopiù dai mass media laici) dei cupi segni del Cielo, specialmente per il papato di Francesco.

 I CASI

 Molto si è strologato, per esempio, il 26 gennaio scorso quando papa Bergoglio – com’è tradizione – ha fatto volare le colombe dalla finestra del palazzo apostolico. La colomba, si sa, è simbolo della pace, ma per i cristiani anche dello Spirito Santo.

Già con Giovanni Paolo II e con Benedetto XVI era accaduto che le due colombe bianche, appena uscite nel mondo, rientrassero nella finestra pontificia (a volte andando a posarsi proprio sul Santo Padre).

Il 26 gennaio scorso invece il povero volatile appena fuori dalla finestra è stato attaccato da un gabbiano e poi da una cornacchia che l’ha ammazzato. Un incidente che è stato caricato di significati apocalittici e simbologie fantasiose.

Così come quello – ben più tragico – accaduto al giovane Marco Gusmini in gita con l’oratorio a Cevo, in Val Camonica. Per una strana coincidenza, il ragazzo, che abitava in via Papa Giovanni XXIII, è morto per il crollo di un’alta croce che era stata dedicata a papa Wojtyla.

Questo tragico incidente, proprio due giorni prima della canonizzazione dei due papi voluta da Francesco, è stato ovviamente interpretato da qualcuno in modo dissacratorio. E superstizioso.

Dopo tali precedenti è comprensibile che sabato a Pantano si sia prodotto un certo smarrimento. E’ accaduto infatti questo.

 

L’INCIDENTE

 

Nel pomeriggio si è svolta una celebrazione bella e commovente. Il vescovo emerito di Civitavecchia, monsignor Girolamo Grillo, che visse proprio i giorni delle lacrimazioni e che – inizialmente ostile – assisté alla quattordicesima lacrimazione di sangue, ha deciso di far fondere la sua preziosa croce pettorale d’oro per ricavarne una corona da porre sulla testa della Madonnina.

E’ una bella corona con i simboli dello stemma di papa Francesco e – a lato – quelli dell’attuale vescovo di Civitavecchia e di monsignor Grillo.

La statuetta della Vergine è stata perciò incoronata durante quella solenne cerimonia presieduta da monsignor Marrucci, attuale titolare della diocesi, insieme a monsignor Grillo e a monsignor Marra.

Per la verità la statuetta aveva già una corona che era stata benedetta da Giovanni Paolo II, il quale aveva anche posto sulla mano della Vergine un rosario da lui benedetto, ma quella corona regale del papa era troppo grande e non era stata mai collocata sulla statuina (si trova nella teca).

Dunque sabato la Madonnina è stata insignita con l’oggetto donato da monsignor Grillo. Sennonché più tardi, appena la statua è stata ricollocata nella teca della chiesina di Pantano, la corona è caduta ed ha colpito e staccato la mano della Madonnina che teneva la corona del rosario donatale da Giovanni Paolo II.

I fedeli che erano lì in preghiera sono rimasti scossi e preoccupati per quello che i giornali avrebbero potuto scriverne. In ogni caso tutto è stato subito restaurato e ripristinato.

 

IL RACCONTO DEL MONSIGNORE

 

L’indomani, saputo dell’incidente, ho telefonato a monsignor Grillo che ha minimizzato l’accaduto, declassandolo a banale infortunio (gli uomini di Chiesa, grazie al cielo, sono proprio impermeabili alle superstizioni).

Chiedo anche se la cerimonia solenne di sabato non significhi il riconoscimento di fatto, da parte della Chiesa, del prodigio delle lacrimazioni. Monsignor Grillo non risponde perché ovviamente lascia ogni pronunciamento all’attuale vescovo.

Però mi ricorda che lui stesso, per volere di Giovanni Paolo II, portò riservatamente la statuetta al papa in Vaticano. Il Santo Padre volle benedire per essa – come si è detto – una corona e un rosario.

Poi, dopo aver pregato a lungo davanti ad essa, disse a Grillo: “un giorno dirà al mondo che Giovanni Paolo II ha venerato la Madonna di Civitavecchia”.

Negli anni successivi si è venuti a sapere che probabilmente il Papa polacco, per sue vie misteriose, aspettava un segno e lesse proprio questa vicenda come un messaggio rivolto a sé.

Le successive indagini, delle commissioni tecniche e della magistratura, hanno affermato l’inspiegabilità scientifica del fenomeno delle lacrimazioni, perché non c’è alcun imbroglio e alcun marchingegno che abbia fatto sgorgare gocce di sangue umano dagli occhi di questa statuina di gesso pieno.

Fra l’altro è il sangue di un solo individuo, per tutte le lacrimazioni. Ma siccome hanno assistito al fenomeno ogni volta delle persone diverse (in molti casi anche vigili e forze dell’ordine), bisogna concluderne che quell’uomo misterioso era sempre presente ma non era…visibile.

Il significato teologico è chiaro. Papa Wojtyla ne era personalmente certo. Monsignor Grillo mi racconta che a volte il Papa veniva anche in incognito a Pantano a venerare la Madonnina. C’è un aneddoto buffo al riguardo.

“Un giorno” spiega il prelato “le suore che si erano stabilite lì al santuario mi riferiscono che la mattina erano arrivate delle guardie svizzere che avevano venerato la Madonnina e poi avevano circondato la Chiesa. Quindi, mi dissero le suore, arrivarono due cacciatori, uno grande e uno piccolo, e anch’essi venerarono la statuetta”.

Due cacciatori?

“Non li avevano riconosciuti”, dice divertito monsignor Grillo. “Erano il papa e il suo segretario. Quando raccontai l’episodio a Dziwisz si mise a ridere. Il fatto è che ogni tanto papa Wojtyla, in abiti civili, usciva dal Vaticano e andava a trovare dei frati polacchi, suoi amici, a Santa Severa. Poi faceva una passeggiata sui monti della Tolfa e quella volta volle venire dalla Madonnina”.

Grillo sottolinea che Giovanni Paolo II ebbe un ruolo fondamentale nella vicenda, “perché io, dopo le prime lacrimazioni, non ci credevo affatto.

Quella storia non mi piaceva e avevo dato ordine di distruggere la statuetta. Fu il Papa che mi fece telefonare dal cardinal Sodano per consigliarmi prudenza e attenzione.

Finché la Madonna abbatté tutte le mie resistenze lacrimando nelle mie stesse mani il 15 marzo 1995”.

 

IL SEGNO

 

E’ evidente comunque che un segno simile – lacrime di sangue – è un monito preoccupante. Sono le lacrime della Madre di Dio per i suoi figli smarriti. Mentre il sangue appartiene al suo Gesù che ha dato la vita per noi. Siamo salvati per quel sangue…

La vicenda della Madonnina di Civitavecchia è clamorosa. Eppure curiosamente, dopo il primo clamore dei media, una volta che tutte le indagini hanno confermato che si è trattato di un fatto soprannaturale, non si più è tornati a raccontare quegli eventi e a riflettere sul loro significato.

Magari oggi i media fanno considerazioni superstiziose su eventi naturali come quelli citati o – appena lo si saprà – sull’incidente della Madonnina, ricavandone oscuri e inconsulti presagi, mentre snobbano accuratamente le inspiegabili lacrimazioni e tutti quei messaggi veri ed espliciti che il Cielo invia all’umanità.

In questi tempi scristianizzati si irridono gli avvertimenti soprannaturali della Madonna e poi magari si crede nella iettatura e si va dai maghi. Anche noti intellettuali laici sono dichiaratamente superstiziosi.

Poi magari gli stessi ridacchiano scettici di fronte ai messaggi espliciti che il Cielo ha inviato tramite la Madonna a Fatima o a Medjugorje (da dove peraltro arriva la statuetta di Civitavecchia). Eppure sono messaggi confermati da molti segni, prodigi e miracoli sui quali la scienza si dichiara incapace di dare spiegazioni.

E’ il paradosso di un’epoca futile e di un’umanità cieca.

 Antonio Socci


Coordin.
00lunedì 12 maggio 2014 13:43

I SOLONI, I TROMBONI … E DUE PICCOLE-GRANDI DONNE CRISTIANE


“In principio era il Verbo, alla fine le chiacchiere”. Temo possa essere questo aforisma di Stanislaw Lec una possibile critica al Salone del libro di Torino.



Premetto che ritengo intelligente e molto promettente la scelta del tema di quest’anno: il Bene. Così come ottima è l’apertura di Susanna Tamaro, una persona autentica, che dice cose vere.


Buona anche la decisone di avere il Vaticano come ospite d’onore perché i temi religiosi sono oggi quelli che tirano nell’editoria, ma ancora una volta il mondo laico rischia di sprofondare nel clericalismo perché identifica la cultura cattolica con lo stato della Città del Vaticano: i cattolici sanno che le due cose sono molto diverse (due grandi geni cattolici come Dante e Manzoni per esempio non ebbero rapporti facili con la Curia, al pari di diversi santi).


CHIACCHIERONI


 Trattandosi poi di una manifestazione sui libri è naturale e giusto che avesse al centro la parola. Il problema non è la parola, ma la chiacchiera.


La parola è preziosa, perché può essere un riflesso del Logos, può dare vita, può testimoniare la verità e la pietà, può chiedere giustizia, può custodire la memoria e la speranza, può gridare libertà, può annunciare salvezza, può comunicare amore.


Invece la chiacchiera ammazza l’intelligenza, annoia, svuota il cuore, confonde, annebbia. La chiacchiera è una peste universale che colpisce qualunque credo ideologico o religioso o laico. E’ il deserto che avanza. Dappertutto.


Addolora però, per quanto mi riguarda (ed è giusto che ciascuno guardi anzitutto in casa propria), che navighino allegramente nei mari dell’aria fritta anche quei “vip cattolici” (o tonache catodiche), che dovrebbero testimoniare il Sommo Bene crocifisso per amore. Anche al Salone si sono visti dei Soloni in tonaca.


Mesi fa un mio amico mi diceva di certi ecclesiastici di sua conoscenza: “Ogni tanto dicono anche belle parole, ma le facce…”.


Intendeva dire che più delle chiacchiere ci vorrebbe quella “faccia da risorti” che Nietzsche cercava nei cristiani. Avremmo bisogno più di testimoni che di maestri, più di storie che di citazioni.


Insomma il Lingotto per i cattolici è stata una bella occasione persa: tante chiacchiere sul bene, ma nessun volto illuminato dalla resurrezione. O almeno pochissimi.


 


TRAGEDIA


 


Questo d’altronde è il tempo del “bene parlato”, ma non testimoniato. E’ l’esibizione parolaia del bene.


Esemplare è la tragica vicenda – tuttora in corso – delle 276 studentesse nigeriane rapite dai talebani di Boko Haram in una scuola di Chibok.


E’ immaginabile quello che devono subire. Del resto saranno vendute come schiave. Le famiglie sono disperate. E implorano aiuto, non discorsi.


Tuttavia questa vicenda ha scatenato i vip parolai d’occidente che hanno inondato twitter di retorici appelli per la loro liberazione, da Michelle Obama a Piero Pelù, passando per Gad Lerner e Laura Boldrini.


La corsa alla chiacchiera umanitaria da salotto naturalmente è gratificante, fa sentire buoni, ma è del tutto inutile. E c’è pure chi si chiede se non sia dannosa, perché certe campagne planetarie amplificano l’eco dei crimini di Boko Haram (come loro desiderano) e perché rischia di far lievitare l’eventuale prezzo del riscatto delle ragazze.


Non tutti però, davanti a queste tragedie, fanno chiacchiere. C’è chi è stato ed è pronto silenziosamente a donare se stesso e la propria vita. Per esempio, chi, in Italia, conosce suor Rachele Fassera?


 


IL CUORE DI RACHELE


 


E’ una suorina esile che è stata venti anni missionaria in Africa: oggi potete incrociarla per le vie di Roma senza che nessuno si accorga di lei. In effetti da noi non la conosce nessuno.


In America invece sono rimasti così colpiti da quello che lei ha fatto da dedicarle un film, uscito due anni fa col titolo “Girl soldier”, dove la suora lombarda è interpretata da Uma Thurman (suor Rachele nel 2011 era stata anche premiata da una fondazione statunitense).


La sua vicenda è analoga a quella in corso. Nel 1996 il Nord dell’Uganda era terrorizzato dai sanguinari guerriglieri della LRA, dediti a incendiare villaggi, massacrare, violentare, fare schiavi donne e bambini che venivano pure costretti a combattere e perfino ad ammazzarsi fra loro.


La sadica specialità del LRA era la mutilazione delle sue vittime per i motivi più banali.


Questi criminali il 9 ottobre 1996 irruppero nella scuola femminile di Aboke e rapirono 139 ragazzine fra i 13 e i 16 anni. Per i soliti scopi.


Suor Rachele, che allora aveva 50 anni ed era insegnante e vicepreside di quella scuola, angosciata e indignata decise follemente di andare nella foresta per raggiungerle e farle liberare.


Sapeva che quasi certamente sarebbe stata massacrata, ma andò ugualmente con un coraggio da leoni e soprattutto una sconfinata fede in Dio e un infinito amore per quelle ragazzine.


Raggiunta la banda criminale fu portata dal pazzo sanguinario che la comandava. La suora si inginocchiò davanti a lui chiedendogli di liberare le giovinette.


Trattò per sei ore e alla fine ne riportò a casa 109. Provò in tutti i modi e salvare anche le altre trenta, si offrì in cambio di loro, ma non riuscì.


In seguito ad Aboke dette vita a un’organizzazione per la liberazione delle ragazze rapite (e altre nove furono salvate) ottenendo l’appoggio pure di Giovanni Paolo II e di parlamentari occidentali.


In questi giorni un blog cattolico, “La nuova bussola quotidiana”, ha ricordato questa vicenda con un articolo di Anna Bono. La storia di suor Rachele è stata raccontata anche da Rodolfo Casadei nel libro “Tribolati, ma non schiacciati. Storie di persecuzione e di speranza”.


Suor Rachele è una vera testimone del bene. E la Chiesa è piena di persone così straordinarie, perlopiù lontane dai riflettori. Ignorate dai media.


 


LA LEZIONE DI ASIA


 


Vogliamo parlare dell’eroica mamma pakistana Asia Bibi, da anni incatenata in un lurido e buio carcere (e condannata a morte) solo perché cattolica?


Il caso di questa mamma coraggio che non rinnega Gesù Cristo e non ha mai parole di odio per i suoi aguzzini interessa a qualcuno?


Carlo De Benedetti, chiamato “il Sor genio”, di recente ha elegantemente definito “una fogna” il Vaticano. Tuttavia nei suoi giornali – laicisti e clericali al tempo stesso – si dedicano pagine e pagine a tonache e curiali vari, non a testimoni come suor Rachele o Asia Bibi.


Invece – come ebbe a dire il cardinale Ratzinger – “le vie di Dio sono diverse: il suo successo è la croce… non è la Chiesa di chi ha avuto successo ad impressionarci, la Chiesa dei papi o dei signori del mondo, ma è la Chiesa dei sofferenti che ci porta a credere, è rimasta durevole, ci dà speranza. Essa è ancora oggi segno del fatto che Dio esiste e che l’uomo non è solo un fallimento, ma può essere salvato”.


 


TRAGEDIA DEI CRISTIANI


 


Un’ultima osservazione. La campagna internazionale su Twitter – di cui si è detto – è stata lanciata da Malala Yousafzai, la giovane pakistana che subì un attentato e che si batte per il diritto all’istruzione delle donne.


Evidentemente è per questo che la vicenda delle studentesse nigeriane ha colpito l’attenzione dei salotti che contano.


Se si fosse saputo che erano state catturate perché cristiane (in effetti in gran parte sono cristiane) è probabile che invece di tanta attenzione ci sarebbe stata indifferenza.


Come in altri casi analoghi (di recente anche dei missionari cattolici sono stati rapiti dai terroristi in Africa, ma nessuno se ne interessa).


In alcuni paesi islamici come il Pakistan, il paese di Malula, sono centinaia ogni anno le ragazze cristiane rapite, violentate, picchiate, costrette a farsi musulmane e poi vendute o forzate a sposare un musulmano. E’ una notizia delle settimane scorse della stampa internazionale, ripresa in Italia da “Tempi” (che ha riferito, per esempio, la storia della quindicenne cristiana del Pakistan Nadia Naira).


Ma di queste ragazze cristiane il mondo occidentale si disinteressa. Impegnato com’è a twittare, a cianciare di bene e a lanciare disprezzo sulla Chiesa.


 


Antonio Socci



Coordin.
00venerdì 23 maggio 2014 07:51

CHE PARLI IL PAPA! TUONI PER SALVARE MERIEM DAL BOIA! MEDITIAMO SULLA SUA TESTIMONIANZA EROICA. SOPRATTUTTO QUEI PRELATI SEMPRE PRONTI A SVENDERE GESU’ PER AVERE UN APPLAUSO DAI GIORNALONI LAICISTI
Posted: 17 May 2014 11:40 PM PDT
La giovane mamma sudanese Meriem sarà impiccata perché si è rifiutata di rinnegare Gesù Cristo e di convertirsi all’Islam. Sarà salvata da quella tragica sorte solo se la pressione internazionale si farà insostenibile per la crudele tirannia di Karthoum.

Al momento resta infatti valida la condanna a morte già decretata e non c’è nessuna vera garanzia che il verdetto possa essere rivisto, come qualcuno frettolosamente ha affermato.

Non si può credere infatti a quello che fa trapelare il regime col solo scopo di allentare la pressione internazionale: basti pensare che qualche anno fa la Corte Suprema sudanese stabilì che per gli apostati, che avevano abbandonato la pratica religiosa islamica, convertendosi al cristianesimo, era costituzionale addirittura la crocifissione.

Inoltre per Meriem resta in ogni caso certa la condanna alle cento frustate come pena per aver sposato un cristiano.

Per questo è necessario che l’indignazione si faccia sentire come è accaduto finora e che aumenti.



APPELLO AL PAPA



Dunque, come già ha fatto la nunziatura apostolica in Sudan, vorrei fare appello anche io a papa Francesco, sempre così solerte e incisivo.

Ma sono sicuro che non ha bisogno della nostra richiesta e farà sentire il suo (ben noto) “Vergogna! Vergogna! Vergogna!” ai despoti sudanesi e in tutte le sedi internazionali.

Anche perché nessuno, domani, possa imbastire processi morali sui suoi silenzi come quello che fu imbastito contro Pio XII (che in realtà parlò e più volte, sebbene il Vaticano fosse circondato dalle truppe naziste e contro il papa fosse già stato preparato un piano di deportazione).

Parlerà, papa Francesco, non dubitate.

E le sue non saranno due parolette formali alla fine dell’Angelus, ma farà sentire alta la sua voce e la sua indignazione per questa sanguinaria barbarie contro una povera madre indifesa e innocente.

Oltretutto c’è bisogno non solo che venga cassata la sentenza di condanna a morte, ma pure che venga cancellata la pena delle cento frustate e soprattutto che Meriem venga subito liberata: questo è l’obiettivo immediato e più urgente.

Perché le condizioni luride del carcere (pieno di insetti) hanno già fatto ammalare il primo figlio di Meriem, che ha un anno e mezzo e che è detenuto lì con lei.

Inoltre non è ammissibile tenere una ragazza all’ottavo mese di gravidanza – già sottoposta al terribile stress di un processo e di una condanna a morte – in una galera fetida e disumana.

Come se non bastasse suo marito Daniel Wani – il cristiano che Meriem ha sposato e da cui ha avuto due figli (per il regime le era proibito sposare un cristiano) – è invalido.

Si trova da tempo sulla sedia a rotelle e, come ha dichiarato alla Cnn, è “disperato, frustrato”, e non sa che fare.

Questo poveretto, per le sue condizioni, non è autosufficiente e per la vita quotidiana dipende totalmente da Meriem. La quale è da mesi in galera.

Ieri si è anche saputo che probabilmente se venisse eseguita la sentenza i due figli di Meriem e Daniel potrebbero essere sottratti al padre (perché il matrimonio è stato annullato dal regime) e affidati a una famiglia musulmana per essere educati secondo i precetti del Corano.

Considerati tutti questi terrificanti aspetti appare ancor più eroica la scelta di Meriem di non rinnegare Gesù Cristo.



IMMENSA TESTIMONIANZA



Per qualunque cristiano ci vuole già una grandissima fede, un coraggio sconfinato e un immenso amore al Signore per rifiutare l’abiura e dire sì al martirio per impiccagione.

Ma in questo caso a fare una scelta di per sé già eroica è una giovane donna con un figlio piccolo e uno nel proprio grembo. Sottoposta alle torture di quel carcere, all’angoscia per la sorte di quei bambini e per quella dell’uomo che ha sposato e che ama, che si trova solo e impossibilitato a provvedere a se stesso.

Con tutto questo Meriem ha scelto di non rinnegare Gesù Cristo. Siamo di fronte a una testimonianza di fede e di amore al Signore che sta al livello dei grandi martiri e dei grandi santi.

Che avrebbe dovuto toccare il cuore anche degli infami aguzzini che sono andati a far pressioni su di lei in carcere per ottenere la conversione all’Islam.

Le bastava un piccolo “sì” e avrebbe avuto salva la vita e avrebbe portato via dal carcere e dall’incubo anche i suoi due figli.

Ma questa ragazza insegna silenziosamente a noi, pusillanimi cristiani d’occidente, che nulla vale la libertà della propria coscienza dove arde la fede in Dio.

E insegna a un mondo ripiegato sulla sua pancia, sui suoi vizi, sulle sue misere volgarità edonistiche, che l’uomo è fatto per l’eternità e la sua dignità divina non può essere svenduta al proprio comodo sollazzo di un giorno.

La giovane Meriem, pur così amante della vita da innamorarsi, da sposare il suo uomo, da mettere al mondo due bambini, così intelligente da studiare e diventare medico in un Paese del Terzo Mondo, questa giovane – dicevo – ci insegna silenziosamente, al prezzo dell’impiccagione, che vale la pena di vivere perché qualcosa – o meglio Qualcuno – vale più della vita. E questo Qualcuno è il Salvatore di tutti, l’Amore stesso fatto uomo.

E’ significativo che una così struggente ed eroica testimonianza venga data da una giovane donna cristiana del Terzo Mondo. Giovane, donna e cristiana dell’Africa.



UNA LEZIONE PER I PRELATI



Sono certo che il Papa in tutti i modi vorrà difendere questa meravigliosa testimone di Cristo. E credo che debba essere indicata ad esempio per tutti i cristiani. Per tutti noi che nella vita quotidiana rinneghiamo Cristo per un nonnulla.

Ma anche per i tanti ecclesiastici che spesso appaiono pronti a svendere a pezzi la loro fede e le loro convinzioni pur di avere gli applausi del mondo. Quei prelati che sbavano per avere l’approvazione dei giornaloni laicisti e gli elogi di certi tromboni anticlericali.

Mediti quella parte di Chiesa che – come disse don Giussani nella sua ultima intervista – si vergogna di Cristo.

Ci riflettano specialmente quei prelati che sono pronti – per apparire moderni e riformatori agli occhi del mondo – a gettare alle ortiche il Magistero di sempre della Chiesa, le parole di Gesù nel Vangelo e i propri doveri di pastori. Verrà un giorno in cui tutto sarà giudicato.



Antonio Socci



Da “Libero”, 18 maggio 2014

Facebook: “Antonio Socci pagina ufficiale”


L’ORRIBILE CASO DI MARIAM IN SUDAN: CRISTIANI PERSEGUITATI E MASSACRATI SOTTO TANTI REGIMI. MA ANCHE EMARGINATI E DISCRIMINATI IN OCCIDENTE. E – TALORA – DISPREZZATI E REPRESSI NELLA CHIESA. DA CHE PARTE STANNO I NOSTRI PASTORI ?
Posted: 17 May 2014 12:49 AM PDT
Il “cattoprogressista” Enzo Bianchi, onnipresente sui giornali laicisti, nei programmi di Fabio Fazio, sulle tribune dei vescovi, ieri per la “Repubblica” ha dovuto commentare la condanna a morte della giovane cristiana sudananese Mariam Yahya Ibrahim.



CUOR DI LEONE



Bianchi è riuscito, per un intero articolo, a non dire chi sono i persecutori e carnefici di questa povera ragazza e perché ciò accade in Sudan.

Infatti nel suo pezzo non troverete mai la parole islam o musulmani, né sharia (la legge islamica con cui si condanna Mariam).

Leggendo Bianchi nessuno saprà che alla ventisettenne cristiana, laureata in medicina, incinta all’ottavo mese e incarcerata con l’altro figlio, il tribunale musulmano aveva imposto di convertirsi all’Islam, dandole tre giorni di tempo: siccome lei ha dichiarato che resta cristiana, il giudice musulmano ha decretato che verrà impiccata.

E prima dell’assassinio dovrà subire anche cento frustate perché – per il regime islamista – avendo lei sposato un cristiano ha commesso il reato di “adulterio”.

Bianchi queste cose sui carnefici islamisti non le dice. Pur di non nominare l’Islam mena il can per l’aia per migliaia di battute.

Questo cuordileone – che di solito non lesina critiche ai cattolici – non spende una sola parola critica sull’Islam. Perché?

Non vuol mettere a repentaglio la sua fama cattoprogressista ed ecumenista? O forse si chiede: chi sono io per giudicare questi religiosi musulmani?

I lettori di Bianchi così non sapranno che il regime assassino del Sudan, imponendo la sharia, nel 1983 lanciò la jihad contro i villaggi del sud cristiano e ha perpetrato in venti anni il genocidio di due milioni di persone, provocando lo sfollamento di altri cinque milioni.

Almeno 200 mila sono state le donne e i bambini cristiani catturati e venduti come schiavi nel Sudan islamico.



ABBANDONATI



Ma il cattoprogressismo nostrano non ama raccontare queste cose, come non ha mai amato denunciare i crimini e i genocidi del comunismo (chi siamo noi per giudicare quelle brave persone che sono stati i comunisti?).

Da una parte dunque c’è la grande tragedia dei cristiani perseguitati e massacrati in tanta parte del mondo.

Dall’altra un cattoprogressismo che si fa celebrare nella mondanità dei ricchi salotti laicisti ed evita di esporsi troppo per quelle periferie esistenziali che sono le luride galere sudanesi o pakistane o cinesi o nordcoreane, dove marciscono altre povere madri cristiane, come Asia Bibi, condannate a morte per la loro fede.

Così tanti poveri cristiani continuano ad essere perseguitati (e abbandonati) sotto molti regimi.

Ma da alcuni anni i cristiani sono di nuovo disprezzati e discriminati pure in Occidente.



ABBANDONATI ANCHE NOI ?



Nell’Europa del laicismo intollerante e pure in Italia dove – fra un po’ – non potranno nemmeno dire la loro sulla famiglia, sull’ideologia gender, sulla vita, su quella che Benedetto XVI e il cardinal Bagnasco hanno giustamente definito “dittatura del relativismo”.

I pastori in effetti dovrebbero difendere così la fede dei cristiani. Ma oggi vanno per la maggiore quelli che non vogliono scontrarsi col mondo: preferiscono prenderci amabilmente un thè portando i pasticcini.

Penso (è solo l’ultimo esempio) a monsignor Galantino, il nuovo segretario della Cei che smania per apparire moderno nelle sue comparsate su giornali e tv, da “Ballarò” a Tv2000.

Lui vuole che si segua l’aria che tira e che nella Chiesa si volti pagina e si parli “senza tabù di preti sposati, eucaristia ai divorziati e di omosessualità”. Addirittura si è mostrato sprezzante verso i cristiani che pregano il rosario davanti alle cliniche degli aborti.

Il popolo cristiano – sulla difesa della vita – invece che Galantino preferisce seguire le testimonianze di Madre Teresa e di Giovanni Paolo II. E’ un popolo fedele e generoso e – come ha detto nei giorni scorsi papa Francesco – vive spesso con vero eroismo e ha molti santi nascosti.

E’ il popolo accorso in migliaia e migliaia a Roma alla recente “Marcia per la vita” e all’incontro delle scuole cattoliche, ma si sente spesso trattato con freddezza da quei pastori che dovrebbero confortarlo e difenderlo.

Non ci sono infatti molti pastori che amano queste pecore tanto da prendere il loro odore. Si vedono piuttosto ecclesiastici che seguono il profumo Chanel n. 5 del potere mondano e dei salotti mediatici progressisti, quelli che contano.

Credo che come cattolici dovremmo dar loro una strigliata. Seguendo l’invito di papa Francesco che proprio domenica scorsa ha esortato i fedeli a “importunare” i pastori, a chiedere loro di fare il loro dovere, di difendere il gregge e dispensare la dottrina, il conforto e la grazia.

Perché accadono fatti che lasciano sgomenti.

Spesso i cristiani più fedeli – già disprezzati nel mondo – sono trattati a pesci in faccia pure nella Chiesa, mentre invece vengono premiati quelli che combattono e denigrano la fede cristiana.



DAGLI AL CREDENTE !



A volte sembra che la fede cattolica convinta sia considerata da certi ecclesiastici progressisti come un pericolo da estirpare.

Prendiamo il caso più clamoroso. Attualmente circa 3 mila persone ogni anno lasciano l’abito religioso. Una tragedia.

Gli ordini religiosi tradizionali vanno a picco (dal 1965 al 2005, i gesuiti sono a meno 45 per cento, i salesiani a meno 24, i Frati minori a meno 41, i Cappuccini a meno 29, i Benedettini a meno 35 e i Domenicani a meno 39).

E gli attuali capi della Congregazione vaticana per la vita consacrata che fanno? Commissariano o riformano gli ordini che stanno crollando?

No. Hanno commissariato e distrutto l’unica famiglia religiosa – i Francescani dell’Immacolata – che aveva un boom di vocazioni, la famiglia religiosa, amata da Wojtyla e Ratzinger, nota per la sua ortodossia, per la sua rigorosa povertà e disciplina e per la forte dimensione di preghiera e missionaria.

Proprio quella è stata distrutta e i fondatori costretti a subire una prepotenza che è l’esatto opposto della misericordia e della mitezza raccomandate da papa Francesco.

Un altro esempio. Sono stati proibite quelle intense giornate di preghiera che da anni venivano organizzate – con i veggenti di Medjugorje – e raccoglievano 10 o 15 mila persone, spesso convertite, tornate alla fede.

Non si capisce perché i pastori – che non si allarmano per le chiese progressiste vuote – vanno su tutte le furie per i palazzetti dello sport pieni di fedeli che recitano il rosario, partecipano ai sacramenti e ascoltano testimonianze di fede e di carità.

Al S. Uffizio rispondono: perché non c’è ancora nessun riconoscimento delle apparizioni di Medjugorije. Va bene, però ci sono i frutti e sono tantissime conversioni e spesso veri e propri miracoli.

Possibile che tutto questo ben di Dio allarmi il S. Uffizio mentre invece non lo allarma quello che certi famosi preti progressisti proclamano o ciò che si insegna in tanti seminari e facoltà teologiche da teologi che spesso vanno contro il Magistero della Chiesa?



KASPER E IL MISSIONARIO



Se è considerato “pericoloso” che migliaia di persone preghino e frequentino i sacramenti, come si deve considerare quell’inaudita relazione (sulla famiglia) che il cardinale Kasper ha tenuto in apertura del Concistoro (contestata vivacemente dall’85 per cento dei cardinali) e che lo stesso Kasper va ripetendo in giro per il mondo?

All’alto prelato tedesco, che viene dall’episcopato più ricco e potente, ha risposto un bravo missionario del Pime, Carlo Bussi, 71 anni, da quaranta in Banghladesh, un uomo di Dio che per difendere i più poveri ha rischiato il martirio: “se si procede sulla strada tracciata da Kasper” ha scritto il missionario “si faranno grossi danni, si renderà la Chiesa superficiale e accomodante, si dovrà negare l’infallibilità della Cattedra di Pietro perché è come se tutti i papi precedenti abbiano sbagliato, e si dovrà prendere per stupidi tutti quanti hanno dato la vita come martiri per difendere questo sacramento”.

Per i cristiani è un’ora di tenebre fitte.


Antonio Socci
Coordin.
00lunedì 9 giugno 2014 19:07

L’ITALIA STA PRECIPITANDO (NON SOLO ECONOMICAMENTE). COSI’ SI UCCIDE LA LIBERTA’
Posted: 08 Jun 2014 12:31 AM PDT
Si dice che sia stato un verso di Paul Verlaine cantato da Charles Trenet (“il lamento dei violini è stanco”), a dare il segnale in Francia del D-Day, lo sbarco in Normandia.

Così settant’anni fa, il 6 giugno 1944, tornava la libertà in Europa.

Quale Verlaine e quale Trenet oggi potrebbero accendere gli animi nel nostro Paese se nemmeno ci rendiamo conto che stiamo progressivamente perdendo quella libertà così drammaticamente conquistata?

Siamo tanto vessati e rassegnati da non accorgercene neanche. Eppure tutti gli indicatori segnano allarme rosso. Credete che stia esagerando? Pensate che sia il solito allarmismo enfatico degli apocalittici?

Premesso che io mi colloco da sempre – come opinione e come visione del mondo – fra i moderati e che ho sempre combattuto come la peste estremismi, radicalismi, utopismi, catastrofismi di ogni genere, provo a mettere in fila una serie di fatti e di dati recenti.

Partiamo dalle libertà economiche.



DISASTRO



Il Rapporto 2014 della Corte dei Conti nei giorni scorsi è tornato a dirci che siamo il Paese più tartassato d’Europa: alla fine del 2013 il 43,8 per cento del Pil se n’è andato in tasse, tre punti più del 2000 e quattro punti in più rispetto alla media degli altri Paesi Ue (poi, com’è noto, c’è chi fornisce dati ancora più cupi).

In pratica siamo a livelli da esproprio (per non parlare degli immobili).

Lavoriamo gratis per un padrone, lo Stato, più di metà dell’anno, senza avere in cambio servizi almeno decenti. Ma anzi con uno spettacolo di sprechi, ruberie e corruzione che fanno ribollire il sangue.

Nonostante un così pesante dissanguamento non è che stiano rimettendo le cose a posto.

Anzi, il macigno del debito pubblico che grava su di noi e sui nostri figli invece di diminuire, come avevano previsto per quest’anno Monti (118 per cento) e Letta (129 per cento), aumenta e proprio quest’anno sfonderà il 135 per cento: è il quarto debito pubblico del mondo (2.100 miliardi di euro).

Non siamo alla frutta, ma alla grappa.

E nessuno vuole ammettere di aver sbagliato strada (lo stesso Renzi pare sulla stessa via). Intanto la nostra economia – un tempo fiorente – è stata messa in ginocchio.

Nei giorni scorsi abbiamo perso un altro posto nella classifica delle potenze industriali del pianeta (ormai ottavi).

Siamo già al terzo anno di cura “illuminata” dell’economia e in due anni ventimila aziende hanno chiuso i battenti. In totale dal 2007 la produzione è crollata del 25,5 per cento (mentre nel mondo aumentava del 10 per cento). Dal 2001 abbiamo perso più di un milione di posti di lavoro.

Così a questa (op)pressione fiscale e all’esplosione del debito pubblico si aggiunge il vertiginoso aumento della disoccupazione, oggi al 13,6 per cento, che fra i giovani diventa un tragico 46 per cento.

E si aggiungono le mille oppressioni burocratiche che limitano o rendono impossibile la libertà di intrapresa e la nostra competitività (il nostro cuneo fiscale è al 47,8 per cento, mentre la media Ue è al 42).

Possiamo facilmente concludere che la nostra libertà economica è morta. O almeno morente.



SUDDITI



E le libertà politiche sono in coma. E’ noto infatti il principio liberale su cui sono nate le democrazie moderne: “no taxation without representation”.

Tale principio dice che – contrariamente a quanto si pensa in Italia, specie a sinistra – le tasse non sono un salasso dovuto al sovrano-Stato perché sperperi miliardi, magari sotto la bandiera ideologica (fasulla) della redistribuzione del reddito, come se i contribuenti fossero dei rei da punire per i soldi guadagnati che – secondo gli statalisti – sarebbero sottratti ai “poveri”.

Al contrario sono nuova ricchezza prodotta col loro lavoro.

Nelle moderne democrazie i contribuenti non sono né rei da punire né sudditi da spennare: sono i veri sovrani e le tasse che pagano devono avere una contropartita vera in servizi efficienti, con uno Stato al servizio dei cittadini e non viceversa.

E tale tributo deve essere governato da coloro che i (tar)tassati hanno eletto per amministrare i loro soldi.

Questo meccanismo – che poi si chiama democrazia – è stato scardinato a livello nazionale in molti modi.

Anche con leggi elettorali dove non è più ammesso scegliere né candidati né partiti (ci hanno perfino persuaso che ci sottraevano le preferenze “per il nostro bene”) e da “leggi truffa” (presenti e future) dove delle minoranze finiscono per avere abnormi maggioranze parlamentari.



FINE DELL’INDIPENDENZA



A livello internazionale poi quel principio è stato travolto da progressive e colossali cessioni di sovranità che ci hanno sottratto il governo della moneta, delle politiche fiscali ed economiche cosicché tutti oggi ci sentiamo governati da tecnocrazie che non abbiamo eletto (dalla Bce alla Commissione europea) o da governi, come quello tedesco, eletti da altri (con annessa Bundesbank).

E siamo in balia di altre tecnocrazie sovranazionali (come il Fmi o il Wto) che decidono le sorti dei popoli e degli stati (il caso greco, ma anche il caso italiano, dovrebbero farci chiedere se siamo ancora popoli che possono eleggere i loro governi).

Ma l’agonia delle nostre libertà ha pure indicatori spiccioli.

Per esempio quelli che mostrano un raddoppio di furti e rapine al Centro-Nord: l’insicurezza della persona e dei suoi beni (e l’inefficienza dello Stato a garantirli) fa parte di questa erosione della libertà personale.

Evidente pure nella sfera della vita privata.

Ieri i giornali riportavano la notizia di Vodafone che ha dovuto consentire alle autorità di 29 Stati di intrufolarsi nelle utenze telefoniche e il primato – guarda caso – spetta all’Italia: nel 2013 sono stati forniti i dati di ben 605.601 utenze su richiesta di procure e forze dell’ordine. Cifra abnorme a cui vanno aggiunte le istanze inviate agli altri gestori (Telecom in testa) e poi le vere e proprie intercettazioni.

Tutto questo mentre lo scandalo “Datagate” di Snowden qualche mese fa ha svelato che siamo tutti sotto controllo da Oltreoceano e non solo. E’ la tomba della privacy e della libertà.

Ma non basta.



TIRANNIA



Ora in Italia c’è in cantiere addirittura una legge, quella contro la cosiddetta omofobia, che rischia di introdurre perfino il reato d’opinione. Inconcepibile in democrazia.

C’è inquietudine pure fra molti giuristi che si chiedono, come Ferrando Mantovani, professore emerito di Diritto penale all’Università di Firenze, se “il prevedibile esito della proposta di legge (se approvata) stante la sua indeterminatezza, sia quello di perseguire penalmente, in quanto atti di discriminazione fondati sulla omofobia, anche il sostenere l’inammissibilità del matrimonio omosessuale, l’esigenza dei bambini di avere un padre e una madre, il divieto di adozione di bambini da parte delle coppie omosessuali, il formulare giudizi di disvalore degli atti omosessuali sulla base delle Sacre Scritture, della tradizione della Chiesa cattolica e del pensiero di altre religioni; il semplice citare pubblicamente passi evangelici sulla sodomia; il dibattere se l’orientamento sessuale sia modificabile o immodificabile e se la modificazione sia un’affermazione scientificamente fallace o meno; l’applicare a persone omosessuali, che liberamente lo richiedano, le cosiddette terapie riparative per correggere l’orientamento sessuale o considerare meritevole di aiuto il disagio esistenziale di cui soffrono certi omosessuali. Con la conseguente violazione dei diritti, costituzionalizzati, della libertà di manifestazione del pensiero, della libertà religiosa e della libertà di educazione dei genitori verso i figli, comprendente anche l’educazione sessuale”.

Peraltro il movimento delle “Sentinelle in piedi”, costituito in molte città per opporsi a questo Ddl, in queste settimane, durante le sue manifestazioni silenziose, è stato sottoposto in più casi ad atti di intolleranza inammissibili, di fronte ai quali le autorità e i media sono pressoché indifferenti.

Così muore la libertà di un Paese.



Antonio Socci

Coordin.
00lunedì 16 giugno 2014 12:37

I MONDIALI DI CALCIO SECONDO RATZINGER. ALLA RICERCA DEL PARADISO NEL CAMPO DI CALCIO. E POI LEOPARDI, AGOSTINO, KEROUAC, MARSHALL E IL GIOVANOTTO CHE BUSSA AL BORDELLO…


La febbre planetaria dei Mondiali di calcio è un fenomeno che nessuno sa spiegare.



Il banale conformista celebrerà l’evento come la solita festa della fraternità, con la retorica dell’agonismo leale, del dialogo fra i popoli, contro il razzismo e la guerra (tutti gli slogan grigi del politically correct).


Il moralista col birignao – che è l’altra faccia del banale conformista e a volte pure la stessa persona – lamenterà la superficialità di un mondo che – con tutti i problemi che ha – impazzisce per il calcio, poi dirà che il calcio è l’oppio dei popoli e s’indignerà per tutti i miliardi spesi mentre la gente (pure in Brasile) muore di fame.


Tutto vero, ma anche tutto ovvio, noioso e superficiale.


Però, grazie al Cielo, nel mondo accade a volte il miracolo, accade che ci sia qualche vero poeta o perfino un profeta, un genio di quelli che vedono la profondità delle cose e colgono l’oceano nella goccia d’acqua e l’eterno nell’istante.


 


IL POETA


 


Uno di questi rari uomini liberi è Joseph Ratzinger, fino a pochi mesi fa Sommo Pontefice della Chiesa Cattolica e oggi umile mendicante dell’infinito, orante pellegrino della Bellezza.


Ecco lui è uno di quei rari profeti che i popoli dovrebbero andare a cercare alla maniera del “Profeta” di Gibran.


A questo personaggio, nel poema omonimo, rivolgevano le domande della vita: cosa è l’amore o l’amicizia e cosa sono i figli.


A uno così potreste chiedere cosa è il gioco o questa passione planetaria per il calcio sicuri di non ottenere risposte banali, ma vere e proprie folgorazioni, suggestioni che ti fanno stupire ed emozionare.


Infatti qualche anno fa Ratzinger ha scritto pagine stupefacenti sul calcio. Ma sapete dove? Ha fatto una vera e propria teologia del calcio in un libro intitolato “Cercate le cose di lassù”.


Vi direte: e che c’entra una partita di calcio col Paradiso?


C’entra enormemente. Non sottovalutate il gioco, perché il gioco è una cosa molto seria, come sanno i bambini. E come sanno gli antropologi e i filosofi.


Per i bambini il gioco è il modo per conoscere il mondo. Ma ai grandi fa conoscere se stessi. Proprio come consigliava Socrate in quella che fu – non a caso – la culla del pensiero filosofico e dello sport (cioè delle olimpiadi).


Ratzinger notava che se – ogni quattro anni – l’evento dei Mondiali riesce a catalizzare l’attenzione e gli entusiasmi di tutto il pianeta significa che “tocca un qualche elemento primordiale dell’umanità”.


Perciò non si può snobbare con disprezzo come “panem et circenses”, come lo svago “di una società decadente che non ha altri obiettivi più elevati”.


 


NOSTALGIA DEL PARADISO


 


Anzi, Ratzinger rovescia questa logica moralistica chiedendosi proprio qual è il fascino di un gioco (circenses) che viene messo sullo stesso piano del “pane”.


Dice: “Si potrebbe rispondere, facendo ancora riferimento alla Roma antica, che la richiesta di pane e gioco era in realtà l’espressione del desiderio di una vita paradisiaca, di una vita di sazietà senza affanni e di una libertà appagata”.


Infatti  il “gioco” in fondo è questo, “un’azione completamente libera, senza scopo e senza costrizione, che al tempo stesso impegna e occupa tutte le forze dell’uomo. In questo senso il gioco sarebbe una sorta di tentato ritorno al Paradiso: l’evasione dalla serietà schiavizzante della vita quotidiana e della necessità di guadagnarsi il pane, per vivere la libera serietà di ciò che non è obbligatorio e perciò è bello”.


Dunque ciò che vi cerchiamo è “più che un po’ di divertimento”, è un mondo dove “l’uomo non vive di solo pane, il mondo del pane è solo il preludio della vera umanità, del mondo della libertà”.


Ratzinger sottolinea altri due elementi preziosi contenuti nel calcio, che sono identici all’avventura cristiana verso Dio, cioè la necessità del sacrificio in vista di una conquista (“il calcio costringe l’uomo a imporsi una disciplina in modo da ottenere con l’allenamento, la padronanza di sé; con la padronanza, la superiorità e con la superiorità, la libertà”) e il “noi” dove si realizza la felicità dell’io (“il calcio insegna soprattutto un disciplinato affiatamento: in quanto gioco di squadra costringe all’inserimento del singolo nella squadra. Unisce i giocatori con un obiettivo comune”).


In sostanza, per Ratzinger, questo gioco ci attrae perché lo viviamo come “l’esercitazione alla vita e il superamento della vita in direzione del paradiso perduto”.


E’ il rovesciamento del moralismo.


E’ come se dicesse: guardate che, senza rendervene conto, perfino divertendovi a una partita della Nazionale in realtà con la bandiera della patria cercate la Patria perduta, cercate il Paradiso, cercate Dio.


 


IL PIACERE


 


Anche Leopardi nello Zibaldone nota che l’uomo è tutto teso al “piacere, ossia alla felicità”, ma è evidente a tutti l’ “insufficienza di tutti i piaceri a riempirci l’animo” da qui “la tendenza nostra verso un infinito che non comprendiamo” perché “quando l’anima desidera una cosa piacevole, desidera la soddisfazione di un suo desiderio infinito, desidera veramente ‘il’ piacere e non un tal piacere”.


Infatti – come notava sant’Agostino (che aveva ampiamente esperito tutti i piaceri del mondo) – il Creatore ha fatto il nostro cuore così inquieto e insoddisfatto da potersi appagare solo in Lui.


Non è proprio “sommo piacere” il nome che Dante dà a Dio nel Paradiso?


Gli uomini, senza rendersene conto cercano Dio nei modi più disparati e più disperati.


Alla banalità diffusa che considera la religione come un surrogato dell’istinto sessuale, il grande Bruce Marshall rispondeva rovesciando i termini della questione.


E faceva dire, acutamente, a un personaggio di un suo romanzo: “Io preferisco pensare che l’istinto sessuale sia un surrogato della religione e che il giovanotto che suona il campanello per cercare un postribolo, stia cercando Dio senza saperlo”.


La provocazione è molto più profonda di quanto si creda. Basterebbe confrontare la convulsa e opprimente ripetitività della letteratura erotica che replica un piacere sempre insoddisfacente e fugace nelle cose morenti, con le folgoranti pagine dei mistici che raccontano una felicità infinita e indescrivibile, un godimento senza limiti nell’estasi che fa desiderare di lasciare subito questa terra di dolore.


Parlava spesso di questa ricerca spasmodica di Dio il grande convertito  Olivier Clément. E ne parlava proprio a proposito della moderna maniacale erotomania e a proposito della droga come fenomeno di massa.


Infatti  la droga stessa – spiegava lo stesso Ratzinger in una conferenza – non è la ricerca, sia pure folle e autolesionista, dell’estasi?


Non è una fuga dalla prigione grigia del quotidiano verso un’illusione di piacere senza limiti? Non è la promessa, falsa, di un viaggio verso la libertà assoluta?


Anche il mito del viaggio contiene questa nostalgia della Meta assoluta. L’autore di “On the road”, ispiratore della Beat generation, Jack Kerouac scriveva:  “La vita non è abbastanza. Allora cosa voglio? Voglio una decisione per l’eternità, qualcosa da scegliere e da cui non mi allontanerò mai […]. Qui sulla terra non c’è abbastanza da desiderare”.


E’ per questo che alla fine Kerouac ha riscoperto il cattolicesimo della giovinezza. La vera avventura. Roba per uomini liberi e per uomini veri. Che amano godersi e vincere la grande partita della Vita.


Antonio Socci


Coordin.
00lunedì 30 giugno 2014 10:12

L’EROISMO E LA FEDE DEI PADRI E DELLE MADRI E’ LA SPERANZA DEL NOSTRO PAESE


 



Sembrano così lontani il nostro Meridione e il nostro Settentrione. Invece nel profondo sud di Scampia e nel profondo nord di Brembate Sopra, ci sono padri e madri che hanno lo stesso cuore, che condividono lo stesso dolore per lo strazio di un figlio ucciso e sanno dire parole cristiane, parole di amore, dove tutto griderebbe rabbia e vendetta.  


 


LUCE A SCAMPIA


 


Ventimila persone erano presenti ai funerali di Ciro Esposito, il giovane napoletano che il 3 maggio era andato a Roma per vedere una partita di calcio ed è stato assurdamente ammazzato senza motivo (è stato in agonia per cinquanta giorni).


La madre Antonella si è espressa così davanti a tutti:


“Noi abbiamo tanto pregato, abbiamo pregato da prima che sapessimo che Ciro era il ferito grave. Quando l’ho saputo non ho perso la pace che ho trovato con la preghiera. Questo ragazzo aveva mille motivi per bestemmiare e invece ringraziava e onorava il Signore. Ed anche io oggi ringrazio Dio per la forza che ha dato a me e alla mia famiglia. Voglio ringraziare le migliaia di persone che ci sono state vicine lì al Gemelli, dalle più umili alle più importanti. La memoria di Ciro porti gioia, pace ed amore. Grazie a tutti, mantenete alta la bandiera dello Sport e dell’Amore”.


Anche la fidanzata, Simona, ha fatto appello alla tifoseria napoletana – “Sotterrate la violenza!” – perché non ci si abbandoni a una spirale di odio e vendette per la morte di Ciro (e speriamo che queste testimonianze di pace facciano breccia nel cuore di tutti).


 


LUCE A BREMBATE


 


In circostanze e luoghi del tutto diversi – nella bergamasca – il giorno dell’arresto di Massimo Giuseppe Bossetti, per l’uccisione di Yara Gambirasio, il papà della ragazzina, Fulvio, ha detto a don Corinno, il parroco di Brembate Sopra: “prega per tutti, anche per la famiglia della persona fermata, anche per lui, c’è bisogno di preghiera”.


Pochissime parole, confidate al suo parroco, ma sconvolgenti sulle labbra di un padre che ha vissuto una tragedia così crudele.


Non hanno nemmeno bisogno di essere spiegate e commentate. Sono parole semplici e vertiginose, da rileggere e custodire nel cuore.


Ricordano quelle scritte da uno scultore trecentesco su una piccola pergamena nascosta poi dentro un crocifisso ligneo che egli aveva scolpito: “abbi pietà di tutta l’umana generazione”.


Nel primo caso, la madre di Ciro ha dovuto e voluto parlare pubblicamente per prevenire e scongiurare qualunque tipo di violenza e vendetta fosse progettata da certi ambienti nel nome del ragazzo napoletano.


Nel secondo caso, in cui non c’era da calmare bollenti tifoserie calcistiche, i genitori di Yara si sono negati totalmente ai riflettori. Ma in entrambi i casi si è manifestata la stessa pietà.


Lo stesso desiderio di sottrarre i propri figli al circo della violenza o al circo mediatico della chiacchiera e del rimestare nel fango.


Infatti ore e ore di trasmissioni televisive sono state dedicate al caso di Yara Gambirasio (di nuovo in questi giorni, per l’arresto di Bossetti e la svolta delle indagini), ma mai, nemmeno per un nanosecondo, il padre e la madre di Yara si sono concessi ai microfoni e alle telecamere.


Fiumi di inchiostro sono corsi sulle pagine dei giornali in questi anni sulla ragazzina di Brembate, scomparsa e poi ritrovata crudelmente uccisa, ma nemmeno una parola si è potuta attribuire fra virgolette alla povera e dolente famiglia della vittima.


Dei due genitori si hanno solo pochissime immagini catturate durante i loro fugaci e silenziosi passaggi nei giorni in cui entravano nella caserma dei carabinieri o in procura.


Quel papà e quella mamma, sempre gentili nei modi (mai irritati o infastiditi), hanno costantemente rifiutato con ferma decisione di rilasciare dichiarazioni.


Con un passo svelto e con un mesto sorriso di cortesia che impedisce alle telecamere di “rubare” loro perfino un’espressione del volto da cui traspaia l’immensità del dolore che hanno nel cuore e che hanno sofferto fino ad ora.


Nella società del frastuono mediatico e della spettacolarizzazione del crimine, il loro silenzio è stato rivoluzionario. Non voglio certo puntare il dito moralisticamente sui media o sui colleghi che fanno il loro lavoro.


Ma – almeno per un momento – bisognerebbe riuscire a soffermarsi su quel silenzio e sulla scelta dei genitori di Yara.


Soprattutto quando poi – per interposta persona – veniamo a conoscere parole immense come quelle che papà Fulvio ha detto al suo parroco.


Antonella, la madre di Ciro, Fulvio, il padre di Yara, con le loro famiglie, sono persone meravigliose. Altri come loro – andando a ritroso in questi anni – ci hanno commosso per lo stesso amore, la stessa pace interiore e la stessa pietà. Penso al signor Carlo Castagna o alla signora Margherita Coletta.


 


LUCE A ERBA E A NAPOLI


 


Ricordate? Il signor Castagna nel delitto di Erba, l’11 dicembre 2006, aveva perduto la figlia, la moglie e il nipotino.


Ma, pur dentro il suo immenso dolore, quest’uomo buono e profondamente cristiano, disse: “Li perdono e li affido al Signore. Bisogna perdonare in questi momenti. Bisogna finirla con l’odio”.


Commosse tutto il Paese anche la testimonianza di Margherita Coletta, vedova del brigadiere dei Carabinieri Giuseppe Coletta, ucciso il 12 novembre 2003 nella strage di Nasiriyah con altri diciotto colleghi: “Se amate quelli che vi amano che merito avete? Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori”.


Era il giorno della strage e a ricordare a tutti queste parole di Gesù davanti alle telecamere era una giovane sposa e madre, di 33 anni, che già aveva perso un bambino per leucemia e che aveva appena appreso dell’uccisione del suo uomo in missione di pace.


La signora Margherita, davanti ai giornalisti che avevano invaso la sua casa di Napoli, quel giorno, con una figlia di due anni in braccio, pur soffrendo in modo spaventoso, volle ricordare quelle parole e indicando il Vangelo aggiunse: “La nostra vita è tutta qua dentro”.


Poco tempo dopo ha spiegato: “E’ Gesù che ha fatto sì che io potessi rispondere con l’amore all’odio. Non mi sono domandata chi avesse ucciso mio marito. Senza perdono non siamo cristiani”.


Certamente sono parole così immense che non vanno considerate per nulla ovvie o automatiche. Non c’è nulla di automatico in esse, sono un miracolo, sono un dono di grazia. Noi uomini da soli non ne saremmo capaci.


Infatti ricordando poi la morte del figlio Paolo, a sei anni, per leucemia, Margherita aggiunse:


“Dio mi ha sorretto in questi dolori; davanti a mio figlio con grossi aghi sulla schiena per la chemioterapia, davanti a mio marito che non c’è più. Le difficoltà sono tante, forse ce ne saranno anche altre, ma io mi sono aggrappata a Cristo e alla sua Croce, unica salvezza per tutti”.


Periodicamente la cronaca ci spalanca davanti agli occhi questa Italia profonda, forte e buona, piena di fede e capace di perdono e di compassione. Un’Italia commovente e veramente eroica nella vita quotidiana.


Un’Italia che normalmente sembra non esistere nelle nostre cronache. E invece è quella che resiste. E’ un immenso tesoro di sapienza e di amore. Spesso bistrattata con disprezzo certe élite intellettuali e politiche. E’ lì la speranza per tutti. 


Antonio Socci




Coordin.
00martedì 8 luglio 2014 07:35

LA POESIA DI DIO PER UOMINI E DONNE (CHE PRESTO SARANNO “ABOLITI” DALLA DITTATURA DEL RELATIVISMO ?)
Posted: 06 Jul 2014 06:51 AM PDT
La cancellazione di “madre” e “padre” con “Genitore 1” e “Genitore 2”, avvenuta in diverse scuole, appare come un piccolo caso provinciale a confronto dell’operazione che, su vasta scala, ha lanciato Facebook per annacquare “maschi” e “femmine” nell’indistinto mare dell’ideologia Gender.

Per la quale essere uomo o donna è un’opinione fra tante altre, non un dato di natura. Questo impone il nuovo dogma dell’epoca obamiana.

Perciò sul famoso social network ora si potrà “definire la propria identità di genere in ben 58 modi diversi”, come annuncia esultante “Repubblica”: negli spazi dove fino a ieri stavano scritti solo “maschio” e “femmina” adesso si potrà fare anche una scelta “personalizzata”.

Infatti “sotto la stretta supervisione dell’Arcigay” si offrono decine di possibilità: intersessuale, agender, bigender, fluido, neutro, trans e pure femminiello. C’è perfino la distinzione tra “femmina trans” e “trans femmina”.



VIVA LA REALTA’



Per la verità, a noi, affezionati alla razionalità, alla natura e alla realtà, pare che – in barba a Obama – continuino a nascere solo uomini e donne. Insieme al buon senso e alle ostetriche, lo dicono la scienza, la fisiologia e la biologia.

Non a caso la regola dice che nel Dna sta scritto che si è maschi oppure femmine. E anche se uno si sottopone a un’operazione chirurgica privandosi dei suoi organi genitali il Dna continua a dare il responso originario.

Il Dna dunque parla come la Sacra Scrittura, perché la natura è il linguaggio di Dio: si nasce maschi o femmine. Non è un’opzione culturale, che uno può decidere arbitrariamente, ma un dato di natura.

Il linguaggio simbolico della Bibbia poi rivela anche qualcosa di più profondo: ci spiega infatti che Dio fece la donna dalla costola di Adamo dormiente. Cosa vorrà dire quest’immagine simbolica?

Sono fiorite in proposito molte risposte scherzose. Secondo certi buontemponi Dio creò Adamo prima di Eva perché non voleva essere assillato dai consigli mentre faceva l’uomo.

Le donne da parte loro hanno ribattuto che Dio prima fece una brutta copia, per prova, poi – considerati gli errori fatti – fece la “bella copia”.

C’è pure una barzelletta secondo cui Adamo sarebbe andato da Dio per chiedergli: “Signore, perché hai fatto la donna così bella?”. E Dio: “affinché tu la amassi”. Replica dell’uomo: “E perché l’hai fatta così stupida?”. Risposta dell’Onnipotente: “affinché lei ami te”.

Tuttavia, scherzi a parte, dovrebbe far riflettere noi maschi il fatto che – nella simbologia biblica – Adamo fu tratto dalla terra, dal fango, mentre Eva fu tratta dalla parte dell’uomo più vicina al cuore.

C’è qualcosa di più nobile ed elevato nelle donne che ha a che fare con una più grande capacità di amare. E c’è una bellezza speciale.

Olivier Clément, teologo francese e grande convertito, diceva che la donna nasce non nel sonno, ma nell’estasi dell’uomo. Lo conferma il memorabile grido di entusiasmo e felicità di Adamo la prima volta che vide Eva (è riportato nella Bibbia, Gen. 2, 23).

Nella Bibbia c’è anche quella formidabile differenza di reazione quando i due vengono scoperti, dopo l’atto di disobbedienza.

Adamo – antesignano di generazioni e generazioni di maschietti –a Dio, che gli chiedeva cosa aveva combinato, rispose dando la colpa alla donna e a Dio stesso: “La donna che tu mi hai posta accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato”.

Perché errare è umano, ma dare la colpa agli altri ancora di più. Eva invece rispose dicendo la verità e riconoscendo l’origine del male: “Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato”.

Da migliaia di anni la storia dell’umanità è racchiusa in questo rapporto fra maschi e femmine, rapporto fatto di somiglianza e diversità, di complementarità, curiosità, passione, carnalità, fascino, amore, scontri e incontri.

Tutte le civiltà sono nate da qui. Cosa c’è di più evidente della nostra natura maschile e femminile? Del resto tutti, ma proprio tutti, siamo nati da questo primordiale slancio unitivo di un uomo verso una donna e di una donna verso un uomo: “e i due saranno una sola carne”.

Non c’è un solo essere umano – anche fra i più fanatici sostenitori dell’ideologia gender – che non sia nato da un uomo e una donna.

I fatti sono testardi. E la Natura è ineliminabile. Per quanto le ideologie pretendano di forzarla, cercando di raddrizzarne il legno storto (e provocando catastrofi), essa resta sovrana.

Del resto la scienza (dalla fisiologia, alla psicologia, dalla biologia alla neurologia) ci dice che l’essere maschi e femmine non implica solo una diversità degli apparati genitali. E’ tutto il corpo che è diverso ed è diverso il funzionamento del cervello, come è diversa la psiche.



ECOLOGIA DELL’UOMO



L’ideologia Gender pretende invece di affermare che la Natura non esiste e che il genere è semplicemente un fatto culturale, una scelta.

Altro che l’estinzione della foca monaca e del lupo d’appennino. La dittatoriale ideologia gender pretende di abolire la natura umana “tout court”.

Se riuscisse a prevalere (privandoci perfino del diritto di dissentire) si potrebbe considerare secondo me il più colossale disastro ecologico di tutti i tempi. L’umanità infatti è la parte più importante della natura.

E’ angosciante veder devastare un paesaggio, disseccare un fiume, inquinare il mare. E’ tragico veder abbattere le Dolomiti o abolire il chiaro di luna.

Ma abolire la natura maschile e femminile dell’uomo, degradando il genere a opinione culturale è invece una conquista? Tutti parlano di salvaguardia del creato. Ma l’uomo?

Quell’ecologia umana che aveva auspicato il grande Benedetto XVI chi la difende?

Molti dei “progressisti” che vogliono la natura incontaminata nei fiumi, sui monti e nel mare, poi negano perfino che esista una natura per l’uomo. Molti di coloro che vedono come fumo negli occhi i pomodori geneticamente modificati, poi magari sono a favore della sperimentazione sugli embrioni umani.

Molti che si riempiono la bocca di terzomondismo, poi non hanno nulla da dire se una povera donna del Terzo Mondo, per fame e miseria, accetta in cambio di poche monete di essere usata come utero, come contenitore di ovuli, da ricche coppie d’occidente (etero o omo) che poi si prendono il figlio che lei ha appena partorito.

E’ questo il mondo dove vogliamo vivere? Per me è un mondo spaventoso.



LA POESIA DI DIO



Invece come appare grandioso e liberante ciò che la Sacra Scrittura ci rivela di noi. Essa dice che “Dio creò l’uomo a sua immagine, maschio e femmina li creò. E Dio li benedisse e disse loro: ‘Crescete e moltiplicatevi e soggiogate la terra’ ”.

Una dignità altissima (a immagine di Dio). La signoria sul creato. Maschi e femmine al tempo stesso uguali come valore (uguaglianza proclamata tremila anni fa), ma diversi. Due modi diversi e complementari di realizzare l’umanità.

E Adamo dice di Eva: “è carne della mia carne”. Giovanni Paolo II osservava: “alla luce di questo testo comprendiamo che la conoscenza dell’uomo passa attraverso la mascolinità e la femminilità, che sono come due incarnazioni della stessa metafisica solitudine, di fronte a Dio e al mondo, come due modi di ‘essere corpo’ ed insieme uomo che si completano reciprocamente”.

Aggiungeva: “proprio la funzione del sesso, che è, in un certo senso, ‘costitutivo della persona’ (non soltanto ‘attributo della persona’), dimostra quanto profondamente l’uomo con tutta la sua solitudine spirituale, con la sua unicità e irripetibilità propria della persona sia costituito dal corpo come ‘lui’ o ‘lei’. La presenza dell’elemento femminile accanto a quello maschile ed insieme con esso ha il significato di un arricchimento per l’uomo in tutta la prospettiva della sua storia, ivi compresa la storia della salvezza”.

In questo, nell’essere fatti – anche fisicamente – per unirci e dare la vita a un altro essere c’è la traccia di Dio che è Trinità, cioè comunione di persone. La radice del nostro essere è amore. Non ideologia.



Antonio Socci
Coordin.
00lunedì 4 agosto 2014 07:53

NELLA BELLISSIMA, STRUGGENTE LETTERA DI LIDIA, SCRITTA POCO DOPO AVER INCONTRATO DON GIUSSANI (E POCO PRIMA DI ESSERE CRUDELMENTE ASSASSINATA), 30 ANNI FA, C’E’ ANCHE LA MIA STORIA… COSI’ FIORI’ LA NOSTRA GIOVINEZZA…


 



Lidia Macchi, studentessa universitaria varesina attiva nei boy scout e militante di Comunione e Liberazione, venne ritrovata uccisa con 29 coltellate il 7 gennaio 1987 in una radura nei pressi dell’ospedale di Cittiglio, Varese, dove era andata a trovare un’amica. Aveva 21 anni. Lo scorso venerdì 25 luglio, dopo 27 anni che il caso giaceva insoluto presso la procura di Varese e avendolo avocato a sé soltanto otto mesi orsono, il sostituto procuratore generale di Milano Carmen Manfredda ha depositato presso la Corte d’Appello del capoluogo lombardo l’avviso della conclusione delle indagini e una richiesta di archiviazione della posizione di un sacerdote che il pm di Varese Agostino Abate non aveva mai ufficialmente espunto dall’albo degli indagati .

Qui di seguito riportiamo la lettera in cui Lidia confida a un’amica la circostanza del suo primissimo incontro con don Luigi Giussani, fondatore di Comunione e Liberazione. La lettera, risalente agli anni in cui Lidia è già iscritta e frequenta l’Università statale di Milano, proviene dall’archivio personale del direttore di Tempi e all’epoca fu trascritta e fatta circolare dai ciellini in forma di ciclostilato.

****************************

Carissima Mara,

abbiamo appena appeso il telefono ed io mi sono con amarezza resa conto che in fondo ti ho raccontato solo le cose più banali della mia vita di adesso. A me sta capitando una cosa straordinaria e un po’ confusa ma veramente grande; è come se in me adesso ribollissero con chiarezza un sacco di domande e di desideri sulla vita. Il desiderio d’essere felice, d’essere libera, cioè di trattare con libertà, senza essere schiacciata od appesantita da tutte le circostanze della vita, il desiderio di amare con profondità le persone che mi sono care, gli amici; il desiderio di costruire anch’io un pezzetto di storia perché altrimenti la storia ce la fanno gli altri sulla nostra testa e noi viviamo la nostra vita completamente indifferenti a ciò che accade fuori dal nostro cantuccio, che per quanto comodo è pur sempre meschino e determinato da piccole stupidaggini ed angherie quotidiane.

Ecco è come se la mia incoscienza, il fare sempre solo ciò che istintivamente mi salta in mente, mi avesse profondamente annoiato con la sua stupidità e superficialità. Mai come adesso la vita mi sembra profonda e grande e soprattutto misteriosa.

È proprio un mistero grandissimo che io ci sia, esista, che sia un fragile puntolino su questo pianeta che ruota con leggi straordinariamente perfette intorno al sole, ed il sole non è che un microbo nell’immensità spaziale e temporale del cosmo.

Ma cavoli, basta sollevare gli occhi al cielo di notte per intuire che la vita di tutto questo universo è un mistero grandioso e noi che siamo uomini e abbiamo e possiamo avere la coscienza di ciò, sprechiamo il nostro tempo afflitti da piccole banalità e da piccoli dolori, senza chiederci – perché ci fa troppa paura ascoltarci per un attimo, ascoltare quella voce che parla in noi, che grida che la vita non può non avere un senso – senza chiederci perché ci siamo, perché siamo fatti così uno diverso dall’altro, eppure al fondo, tutti con lo stesso desiderio.

Dio mio, ma perché se queste domande e desideri ci sono noi ci rassegniamo, viviamo in fondo disperati cioè non attendendoci niente dal domani, chiudendoci in una gabbia che diventa la nostra tomba al limite concedendoci qualche ricordo nostalgico dei bei tempi? Ma quali tempi! È inutile piagnucolare, siamo noi che per primi abbiamo presuntuosamente rinunciato ad essere seri, a prendere in considerazione tutti i grandi desideri che si agitano in noi, perché ci fa comodo piagnucolare, stare nel nostro brodo, fare dei piccoli e miseri peccatucci per credere che se almeno non siamo santi, beh, un po’ cattivelli però lo siamo; invece i nostri peccati fanno ridere i polli, consistono al massimo nella sensualità, in trasgressioni che in realtà fanno tutti, sono alla portata di tutti, perché in fondo siamo solo dei mediocri. Magari si incontrasse qualche grande peccatore profondamente abbagliato dal male!

E quand’anche io sappia tutto, come funziona l’universo intero, e come faccio a respirare, a camminare, a mangiare, chi si sogna per un attimo di ascoltarti quando ti chiedi chi sei, che cosa ci fai sulla faccia di questa terra? Di queste domande hanno tutti paura e nessuno ne parla… Ma perché oggi ci sei, domani muori, e buonanotte…

Buonanotte un corno! Io ci sono, le domande ci sono e voglio sapere, fossi anche l’unica con questo desiderio, in questo mondo superficiale – perché vuole essere tale – urlerò fino a squarciagola, finché morirò, quello che io sento.

Un mese fa mi è capitato, quasi per caso, di andare alla Cattolica con dei miei amici di Varese e di ascoltare uno che si chiama don Giussani, che faceva una lezione di teologia o morale, qualcosa del genere, perché questi esami lì sono obbligatori, e al posto di parlare dei santi e tutto il resto, parlava proprio di queste domande, con un entusiasmo ed una forza che mi hanno molto colpito e spiegava tutti i procedimenti tecnici e pratici che gli uomini escogitano per non starle ad ascoltare, per fare come se non ci fossero o non fossero importanti. Mi sembrava che parlasse proprio di me e ritrovavo tutti i nostri comportamenti abituali spiegati così chiaramente.

Io ero andata lì quasi per caso perché queste persone di Varese e altre di Milano che lo conoscono, mi avevano invitato ed io sono andata lì pensando di ascoltare le solite cose, e invece no.
È strano perché più delle sue parole, mi ha colpito lui, il suo sguardo profondo e attento, qualcosa di inafferrabile, un uomo libero, aperto, non arrabbiato o irato con la vita. Non so dirti niente di più preciso ma è come se custodisse un segreto, una forza non sua.

Io sento che devo parlargli, che lui non ha calpestato le domande che si agitano dentro di me, avrei molte cose da chiedergli, in un modo o nell’altro devo incontrarlo ancora.
Adesso non mi sembra più di essere sola alla ricerca disperata di qualcosa di cui tutti se ne fregano; è come se qualcuno, facendomi sobbalzare, perché è arrivato inaspettatamente, mi avesse detto: “Ehi, sono qui, non urlare e non disperarti, perché seguendo questa strada usciremo dalla foresta”.

E io voglio uscire dalla foresta, perché la vita è mare, cielo, monti e pianure, case, alberi, volti umani, stelle, sole e vento e noi siamo fatti per questo Infinito che c’è; basta solo guardarsi in giro e per questo seguire questo “Qualcuno” che mi è venuto incontro nel groviglio della foresta e che mi dice: “Guarda lassù tra le foglie, vedi, c’è un pezzettino di cielo blu, blu, usciamo a vederlo”.

Lidia Macchi

da www.tempi.it


Credente
00venerdì 3 ottobre 2014 12:06
Ultimamente lo stimato e acuto scrittore-giornalista Antonio Socci, diversamente da come aveva fatto fino a qualche tempo fa, difendendo cioè il papa da attacchi vari, ha iniziato a pubblicare articoli polemici di contrarietà verso papa Francesco, fino ad arrivare a mettere in dubbio la validità della sua elezione, nel libro ormai uscito in vendita dal titolo "Non è Francesco".

Devo esprimere purtroppo un certo rammarico per questa sua presa di posizione che ritengo possa far molto male alla Chiesa, e proprio da parte di una persona che finora ha sempre lavorato strenuamente per aiutarla in tutti i modi.
Nel caso in questione sarebbe stato più opportuno che esprimesse le sue obiezioni alle persone competenti in modo da ricevere tutti i chiarimenti necessari, prima di insinuare dubbi nel mondo e soprattutto nei cattolici.


Riporto qui di seguito un articolo che riferisce la vicenda e che mi sento di condividere, salvo un ripensamento in positivo, da parte di Socci, come io mi auguro.


----------------------------------

Il thriller vaticano è un genere che tira. Una nuova vena letteraria. Un filone di successo. Basta azzeccare gli ingredienti giusti e il caso è creato. Un buon titolo. Uno stimato autore con buon seguito di lettori.

 

Una potente casa editrice. Caso letterario? Caso teologico? Caso ecclesiastico? Forse tutti e tre insieme, bingo. Oppure nessuno: a volte mettere troppa carne al fuoco serve a non cuocerla bene e a tenersi la fame.

Non è Francesco è l'indovinato titolo del nuovo saggio di Antonio Socci, da oggi in vendita per Mondadori. Prima ancora del suo sbarco nelle librerie ha scatenato un putiferio di polemiche e, assicura Libero che ne ha anticipato stralci per due giorni di fila, già «agita il Vaticano». Di sicuro fa discutere i vaticanisti e gli osservatori più attenti del nuovo papato. Ieri sul Foglio , solitamente critico con Francesco, il vicedirettore Maurizio Crippa ha seccamente stroncato la nuova opera di Socci, archiviandola alla voce «ciarpame senza pudore», già coniata per tutt'altre vicende. Ce n'è abbastanza per alimentare nuovi fiumi di parole. Trame di corvi e complotti nei sacri palazzi hanno predisposto quote crescenti di cattolici, devoti, militanti, prelati e papa-boys ad appassionarsi all'ultimo giallo sotto il cupolone. I polpettoni di Dan Brown hanno fatto il resto.

Antonio Socci ha scritto in passato libri memorabili, in particolare raccontando la vicenda di «un padre nella tempesta» dopo l'improvvisa malattia che cinque anni fa ha colpito sua figlia Caterina. Oltre che una testimonianza di provata fede, è certamente una delle intelligenze più colte e raffinate della scena cattolica contemporanea. Ma mischiando dottrina e fantascienza complottarda, teologia e atmosfere thriller, se procedono in splendida solitudine anche le intelligenze migliori rischiano di toppare. Già nel precedente I giorni della tempesta , Socci aveva sostenuto, ricorrendo alle rivelazione di Maria Valtorta, che la salma di San Pietro non si trovasse sotto la tomba in Basilica, ma nella periferia romana dove ipotizzava che un futuro Papa avrebbe trasferito la sua residenza per stare più vicino alla gente comune. Ora in questo nuovo lavoro condensa le convinzioni che lo accompagnano da prima delle clamorose dimissioni di Benedetto XVI che, gli va dato atto, aveva anticipato sulle pagine di Libero . Purtroppo Socci non si è mai rassegnato ad accettarle per ciò che erano: il riconoscimento che le «forze, per l'età avanzata ( ingravescente aetate ) non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino» (Benedetto XVI, 11 febbraio 2013 al termine del Concistoro). Ci ha intravisto sempre qualcos'altro e qualcosa di più che non si è mai ben capito cosa fosse. Forse, viziato da quel sospetto, Socci ha presto iniziato a prendere contropelo quasi tutto ciò che ha detto e fatto il successore di Ratzinger. A dire il vero, citando Elisabette Piqué, «una brava giornalista argentina», ha messo in discussione la validità stessa della elezione di Bergoglio al Soglio pontificio. Secondo la ricostruzione della Piqué contenuta in Francesco. Vita e rivoluzione , alla quinta votazione il cardinale scrutatore contò 116 foglietti anziché 115 come dovevano essere. «Sembra che, per errore, un porporato abbia deposto due foglietti nell'urna: uno con il nome del suo prescelto e uno in bianco, rimasto attaccato al primo». La votazione viene annullata «e si procede a una sesta votazione». Secondo Socci, che si appella all'articolo 69 del Regolamento per la elezione dei Papi, la votazione successiva doveva slittare al giorno dopo perché le votazioni possono essere solo quattro al giorno. E in una notte Bergoglio, che già nel Conclave dell'aprile 2005 risultò il secondo più votato dopo Ratzinger, avrebbe potuto essere giubilato. Così, appellandosi a queste norme, conclude «che l'elezione al papato di Bergoglio semplicemente non è mai esistita». Né più né meno.

E se l'elezione è nulla Bergoglio potrebbe «tornare nella pampa». Socci ne parla come di «una tentazione forse cresciuta di fronte agli enormi problemi di governo della Chiesa per i quali l'ex arcivescovo di Buenos Aires si scopre inadeguato, inadatto». Suffragata da una serie di lacune elencate dopo una breve premessa, la sentenza è senz'appello. «Ho sostenuto papa Francesco come potevo, per mesi, sulla stampa», scrive l'autore nel primo capitolo. Ma a un certo punto non ce l'ha più fatta. Troppe cose non lo convincono. A cominciare dal mancato «soccorso dei cristiani massacrati nel Califfato islamico del nord Iraq». Per proseguire con l'espressione «chi sono io per giudicare una persona» usata da Francesco per rispondere a chi lo interrogava in materia di rapporti e comportamenti omosessuali. Poi la consuetudine con Eugenio Scalfari, forse dimentico che anche Gesù si auto-invitava a casa di Zaccheo. Infine, la dichiarazione di Bergoglio di non voler «fare proselitismo», consapevole che il cristianesimo si comunica «per attrazione». Per tutto questo, Bergoglio non è Francesco. Non è Papa. Mentre lo è Benedetto XVI, che dopo le dimissioni non è tornato al precedente stato di cardinale. Il thriller apocalittico è servito. La realtà invece è nelle parole dello stesso Ratzinger che in una lettera autografa al teologo svizzero Hans Kung ha confidato: «Io sono grato di poter essere legato da una grande identità di vedute e da un'amicizia di cuore a Papa Francesco. Io oggi vedo come mio unico e ultimo compito sostenere il suo Pontificato nella preghiera».


Credente
00lunedì 13 ottobre 2014 11:42
In merito alle obiezioni sollevate da Antonio Socci sulla validità della elezione papale, nel suo libro "Non è Francesco", ecco la risposta che ha motivato invece la piena validità di tale elezione:

-------------------------------------

«È Francesco», parola di canonista
di G. Cerrelli e M. Introvigne
Elezione di Papa Francesco

Il libro di Antonio Socci «Non è Francesco» solleva dubbi, che turbano molti suoi lettori, sulla regolarità dell’elezione di Papa Francesco. L’elezione, afferma il giornalista, è avvenuta in modo irregolare, così che il cardinale Bergoglio «non è Francesco» e il legittimo Papa è ancora Benedetto XVI. In questo breve saggio Giancarlo Cerrelli, avocato specializzato in Diritto canonico, e Massimo Introvigne, sociologo ma con anche una laurea in legge, confutano la tesi di Socci.

Dopo la pubblicazione del suo libro «Non è Francesco», Antonio Socci contesta chi identifica la sua posizione con quella dei sedevacantisti, per cui la sede apostolica è vacante. In effetti, per lui non è vacante ma è occupata da Benedetto XVI. Poiché però il Papa emerito non intende esercitare il ministero petrino, e anzi invita a obbedire a Francesco, quello di Socci è un sedevacantismo pratico. È anche un sedevacantismo a orologeria, perché la sede diventerebbe vacante alla morte di Benedetto XVI.

Il problema della validità dell’elezione – Socci lo sa – è del tutto distinto dal giudizio sul pontificato di Francesco. Come scrive Socci, se ha ragione lui il conclave non avrebbe veramente eletto un Papa neppure se avesse scelto il più conservatore dei cardinali.

Su che cosa fonda Socci la sua tesi sensazionale, che – aggiunge – dovrebbe indurre il Papa a fare le valigie e tornarsene in Argentina? Su un resoconto relativo al conclave della giornalista argentina Elisabetta Piqué, dove si legge, a proposito della quinta votazione che elesse Papa Francesco: «Dopo la votazione e prima della lettura dei foglietti, il cardinale scrutatore, che per prima cosa mescola i foglietti deposti nell’urna, si accorge che ce n’è uno in più: sono 116 e non 115 come dovrebbero essere. Sembra che, per errore, un porporato abbia deposto due foglietti nell’urna: uno con il nome del suo prescelto e uno in bianco, che era rimasto attaccato al primo. Cose che succedono. Niente da fare, questa votazione viene subito annullata, i foglietti verranno bruciati più tardi senza essere stati visti, e si procede a una sesta votazione».

Da questa affermazione Socci ricava che l’elezione è stata nulla, per due motivi diversi. Primo, perché, anziché annullare la votazione, si sarebbe dovuto procedere comunque allo scrutinio, che avrebbe potuto dare un esisto diverso dall’elezione del cardinale Bergoglio. Secondo, perché si procedette subito alla sesta votazione, mentre si sarebbe dovuto attendere il giorno dopo. 

Senonché l’argomento di Socci è infondato in fatto e in diritto. In fatto, perché nessuno può sapere se quanto riferisce la Piqué è vero. Curiosamente, in un libro dove nulla è certo e tutto è fallibile, compresi i pronunciamenti e i documenti del Papa, è attribuita una sorta d’infallibilità solo alle poche righe della Piqué, con il pretesto che del suo libro hanno parlato bene il vaticanista Andrea Tornielli, Radio Vaticana e «L’Osservatore Romano» – il quale ha scritto che il libro propone «dettagli inediti sul conclave» –, e che la Piqué è amica del Papa. Solo chi non legge «L’Osservatore Romano» può pensare che un libro recensito su quelle colonne diventi Magistero, e si sa che i giornalisti amano infiorare i loro racconti. "E Socci sa benissimo che nessun cardinale può smentire la Piqué perché parlare del conclave è vietato graviter onerata ipsorum conscientia e in alcuni casi, per altri, è punito con la scomunica". Da quando esiste la stampa moderna, i giornalisti raccontano la qualunque sui conclavi, e nessuno che al conclave ci sia stato davvero li smentisce, perché smentendoli si esporrebbe a essere scomunicato.

Basterebbe questo per chiedersi di che cosa esattamente Socci stia parlando. Ma ammesso – e assolutamente non concesso – che le cose siano andate come scrive la Piqué, il ragionamento di Socci non sta comunque in piedi in diritto. Le sue contestazioni sono due, e derivano dalla costituzione apostolica di san Giovanni Paolo II «Universi dominici gregis» del 1996, che fissa le regole per il conclave. La prima si riferisce agli articoli 68 e 69 della costituzione. L’articolo 68 stabilisce che, prima dello spoglio, si procede a un conteggio delle schede. «Se il numero delle schede non corrisponde al numero degli elettori, bisogna bruciarle tutte e procedere subito ad una seconda votazione». L’articolo 69 prevede che «qualora nello spoglio dei voti gli Scrutatori trovassero due schede piegate in modo da sembrare compilate da un solo elettore, se esse portano lo stesso nome vanno conteggiate per un solo voto, se invece portano due nomi diversi, nessuno dei due voti sarà valido; tuttavia, in nessuno dei due casi viene annullata la votazione». 

Socci sostiene che «se […] il 68 regolasse la fase del conteggio e il 69 quella dello scrutinio avremmo due articoli che danno due soluzioni opposte per il medesimo problema (una scheda in più). Sarebbero dunque in totale contraddizione». Per evitare questa contraddizione, propone un’interpretazione alternativa a quella più consueta: i due articoli non si riferirebbero a fasi diverse dello scrutinio, ma a casi diversi. Il 68 si riferirebbe al caso in cui si trova una scheda in più, ma tutte le schede sono separate; il 69 al caso in cui la scheda in più è piegata insieme con un’altra in modo che due schede possano essere ricondotte a un solo elettore. 

A Socci però, che non è un giurista, sfugge – quasi celata dal dettaglio –l’architettura complessiva delle norme. L’articolo 66, che non a caso non cita mai, stabilisce che lo scrutinio comprende tre fasi separate: «1) la deposizione delle schede nell'apposita urna; 2) il mescolamento ed il conteggio delle stesse; 3) lo spoglio dei voti». Dopo di che gli articoli 67, 68 e 69 regolano ciascuno una delle tre fasi. Dando l’interpretazione letterale e comune tra i canonisti – l’articolo 68 regola la fase del conteggio e l’articolo 69 quella dello spoglio – non si crea in realtà nessuna contraddizione. In diritto si chiama contraddizione l’esistenza di norme che danno soluzioni diverse allo stesso problema. Ma il 68 e il 69 danno soluzioni diverse a problemi diversi: se la scheda in più si scopre nella fase di conteggio, si applica il 68; se la si trova nella fase di spoglio – ovvero se non c’è nessuna scheda in più ma comunque due schede sembrano «compilate da un solo elettore» – il 69. È possibile che la scheda in più sfugga durante la fase del conteggio ed emerga solo al momento dello spoglio? Sì, è possibile, precisamente nel caso in cui un cardinale abbia piegato due foglietti insieme: è possibile che solo aprendo quella che durante il conteggio era sembrata una sola scheda si scopra che in realtà sono due. Ammettendo che la Piqué abbia ragione, la scheda che non doveva esserci emerse nella fase del conteggio, non in quella dello spoglio, e fu quindi applicato correttamente l’articolo 68 procedendo a bruciare le schede e non a scrutinarle.

La seconda contestazione di Socci riguarda l’articolo 63 della stessa costituzione di san Giovanni Paolo II, il quale prescrive che in ogni giorno di conclave «si dovranno tenere due votazioni sia al mattino sia al pomeriggio», dunque quattro in totale. Secondo la Piqué il 13 marzo vi furono cinque votazioni e non quattro. Qui sì Socci potrebbe vedere una contraddizione con l’articolo 68, il quale prevede come abbiamo visto che qualora in fase di conteggio emerga una scheda in più, occorre bruciare tutte le schede e procedere «subito» a una nuova votazione. «Subito» anche se quel giorno ci sono già state quattro votazioni? Ma in tal caso non si viola l’articolo 63? In realtà no, perché – applicando elementari principi generali del diritto, anche canonico – l’articolo 63 si riferisce a quattro votazioni valide e complete, cioè arrivate fino allo spoglio. Se si bruciano le schede a norma dell’articolo 68 prima di procedere allo spoglio non si è completata la votazione, che dunque non va conteggiata fra le quattro del giorno. Se le cose fossero andate come afferma la Piqué, la cosiddetta «quinta» votazione sarebbe stata in realtà la quarta, perché quella non portata a termine tramite lo spoglio ma interrotta bruciando le schede non poteva entrare nel conteggio.

Socci, dunque, non ha ragione su nessuno dei due punti che solleva. Ma se avesse ragione, e ci fossero state davvero cinque votazioni nello stesso giorno, ovvero si fosse annullata una votazione che andava invece scrutinata, per questo Francesco non sarebbe Papa? In realtà no, neppure in questo caso. Socci, ancora da non giurista, interpreta l’articolo 76 della costituzione «Universi dominici gregis» in modo letterale e formalistico. L’articolo prescrive che «se l’elezione fosse avvenuta altrimenti da come è prescritto nella presente Costituzione o non fossero state osservate le condizioni qui stabilite, l’elezione è per ciò stesso nulla e invalida». Ma questo non significa, come pensa Socci, che qualunque violazione formale renda nulla una cosa tanto importante come l’elezione del Papa. 

Facciamo un esempio: l’articolo 67 prescrive che se un cardinale è infermo gli si portino le schede e la cassetta «su un piccolo vassoio». Se per errore si usasse un vassoio grande anziché piccolo, pensa Socci che l’elezione del Papa sarebbe invalida? L’esempio è paradossale, ma serve a chiarire che l’avverbio «altrimenti» e il riferimento alle «condizioni» si riferisce allo schema essenziale del conclave, e non a singoli elementi, per quanto utili all’ordinato svolgimento delle votazioni. 

La dottrina canonistica più autorevole anzi ritiene che, per evitare incertezze e altri gravi inconvenienti, i requisiti di validità del voto per l’elezione del Romano Pontefice, o tecnicamente per la «provvista dell'ufficio primaziale», siano stati ridotti al minimo: è sufficiente che il procedimento sia stato segreto e che si sia avuto con consenso naturalmente sufficiente. Non rendono nullo il voto, pertanto, né l'errore, né la paura: e neppure un fatto gravissimo come la simonia (art. 78 della costituzione). Solo se lo schema essenziale dell’elezione fosse stato stravolto si potrebbe dire che si è tenuto un conclave «altrimenti» da come prescrive la Chiesa e senza osservare le «condizioni» che questa prescrive. E davvero, se lo schema essenziale del conclave fosse stato stravolto, non un solo cardinale avrebbe protestato?

Riassumendo: nessuno può sapere se le cose siano andate come dice la Piqué, ma anche se fosse così non ci sarebbe stata nessuna irregolarità. Se ci fosse stata – ma non ci fu – qualche irregolarità formale, non tale da alterare lo schema essenziale dell’elezione, questa non invaliderebbe il conclave. Del resto, a differenza di quanto avveniva nel caso degli antipapi del Medioevo, l’elezione di Francesco è stata accettata da tutti i cardinali, i vescovi e i fedeli del mondo, tranne Socci, qualche suo amico e qualche veggente di dubbie intenzioni e costumi morali. 

Le catastrofiche conseguenze prospettate da Socci – se «l’elezione di Bergoglio è nulla, non è mai esistita» cadono le sue nomine episcopali, le canonizzazioni, gli atti di governo – rimangono dunque, per fortuna, frammenti della fervida e certamente brillante immaginazione del giornalista. Per i fedeli comuni, come per qualunque canonista, la risposta al dubbio sollevato da Socci è ovvia: «è Francesco», è il Papa, è stato validamente eletto e validamente governa. Il resto è chiacchiera. 


Credente
00domenica 18 gennaio 2015 15:36

Risposta alle tesi di Antonio Socci (11/01/15)




Francesco ha spiegato che questo fondamentalismo«rifiuta Dio stesso, relegandolo a un mero pretesto ideologico». Così ha invitato la comunità internazionale a non essere indifferente, auspicando che «i leader religiosi, politici e intellettuali specialmente musulmani, condannino qualsiasi interpretazione fondamentalista ed estremista della religione, volta a giustificare tali atti di violenza». Ha voluto così giustamente scindere la religione islamica dalla sua deriva fondamentalista, chiedendo però -come già fece il 30/11/14- ai leader musulmani una presa di posizione di condanna.


Abbiamo fatto notare che proprio il giorno prima lo scrittore Antonio Socci aveva pubblicato l’ennesimo articolo anti-bergogliano, accusando il Papa di non citare l’Islam nei suoi discorsi sul terrorismo, una«reticenza» frequente. Tuttavia, dopo il discorso di ieri, il giornalista della destra conservatrice non ha chiesto scusa al Papa ma nemmeno si è ricordato che anche Benedetto XVI operava questa scissione: frequenti sono infatti suoi attestati di stima per l’Islam e i musulmani (come ad esempio fece il 7/01/10), i quali «rendono culto a Dio soprattutto con la preghiera, l’elemosina e il digiuno» scrisse nella Ecclesia in Medio Oriente. In questo documento il Papa emerito scrisse anche: «Da parte loro, i musulmani condividono con i cristiani la convinzione che in materia religiosa nessuna costrizione è consentita, tanto meno con la forza […]. Lancio un accorato appello a tutti i responsabili religiosi ebrei, cristiani e musulmani della regione, affinché cerchino col loro esempio e il loro insegnamento di adoperarsi in ogni modo al fine di sradicare questa minaccia che tocca indistintamente e mortalmente i credenti di tutte le religioni». Nessun accenno “all’islamismo” nemmeno in Benedetto XVI, dunque, nessuna equiparazione dei musulmani ai terroristi, nessuna invocazione alla guerra Santa contro la religione di Maometto, come vorrebbe sentir dire Antonio Socci.


Il giornalista di “Libero” ha anche cercato di trovare una contraddizione tra le parole di condanna di Papa Francesco al terrorismo religioso e le parole “relativiste” che avrebbe detto a Eugenio Scalfari sul fatto che ognuno dovrebbe essere «incitato a procedere verso quello che lui pensa sia il Bene». E’ utile far notare che tutte le accuse di contraddizione che il “tradizionalismo” rivolge al Papa si riducono sempre alle famose due interviste a Scalfari, è la loro ossessione, un po’ come le Crociate per il laicismo. Peccato che le due interviste siano state anche le uniche che la Santa Sede ha ritenuto «inattendibili nelle singole formulazioni», anche perché lo stesso Scalfari ha ammesso di averle manipolate (sono poi state pubblicate, assieme a tutte le altre interviste a Francesco, in un libro edito dalla Libreria Editrice Vaticana come espressione del rapporto con la stampa, padre Federico Lombardi aveva infatti spiegato«è stato ritenuto più corretto lasciargli la sua natura giornalistica, con l’intervista pubblicata su Repubblica, e non il testo sul sito della Santa Sede». Non aveva senso, infatti, censurarle a causa di due frasi ambigue e scalfarizzate).


In ogni caso Francesco è ritornato sullo stesso concetto, facendo ben capire come la pensa e quel che in realtà disse a Scalfari (e che Scalfari manipolò). Infatti, nel discorso al Parlamento Europeo ha invitato l’uomo a«fare appello alla sua natura, alla sua innata capacità di distinguere il bene dal male, a quella “bussola” inscritta nei nostri cuori e che Dio ha impresso nell’universo creato». Parla chiaramente della legge naturale, individuabile dal credente come dal non credente attraverso la ragione, alla quale ogni uomo può fare appello per una vita morale. Lo stessoBenedetto XVI spiegava che «la legge morale naturale costituisce così la base per entrare in dialogo con tutti gli uomini che cercano la verità e, più in generale, con la società civile e secolare». Allora Socci era cattolico e papista e non si stracciò le vesti accusando Benedetto XVI di relativismo.


Infine, lo scrittore ha sparato un’altra munizione per tentare di contrapporre Benedetto XVI a Francesco: nel 2006 il portavoce dell’arcidiocesi di Buenos Aires, padre Guillermo Marcó, non approvò il famoso discorso a Ratisbona del Papa emerito. Socci, venuto a saperlo soltanto in questi giorni, ha subito usato questo episodio come ennesima prova della sua spy-story di un Francesco abusivo in Vaticano a causa di un conclave nullo -bufala smentita da una nota canonista, la prof.ssa Geraldina Boni-, e di un Benedetto XVI ancora regnante -bufala smontata proprio da quest’ultimo che l’ha definita «speculazione semplicemente assurda», così come dal suo segretario personale, mons. Georg Gänswein, che ha parlato di «sciocchezza teologica e anche logica».


Tornando ai fatti citati da Socci, il vaticanista Andrea Tornielli aveva già chiarito come andarono le cose scrivendo: «l’ultima – nel senso della più recente – puntata di questa “guerra” contro il successore di Pietro combattuta con la carta e il web s’inventa un’opposizione tra l’allora cardinale Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires, e Papa Benedetto, sul caso Ratisbona». Dopo aver descritto la vicenda ha precisato: «L’intervista di padre Guillermo Marcó fece ovviamente scalpore, anche in Vaticano. Egli spiegò di aver rilasciato l’intervista non in quanto incaricato dei media della diocesi, ma come presidente dell’Istituto per il dialogo interreligioso. Leggendola appare del tutto evidente che il sacerdote parlava a titolo personale (“quelle parole non MI rappresentano”), senza alcun mandato della diocesi né tantomeno dell’allora arcivescovo di Buenos Aires. Ciononostante, visto il comprensibile imbarazzo che quell’intervista – e anche altre dichiarazioni – avevano provocato, padre Marcó, venne rimosso dal suo incarico di responsabile dei rapporti con la stampa, per volere del cardinale Bergoglio, e destinato altrove. Una circostanza che quanti hanno scovato e rilanciato la presunta notizia si guardano dal raccontare, perché rovinerebbe questa nuova pretestuosa accusa. Attribuire al futuro Papa le parole di Marcó, per contrapporlo a Benedetto XVI è dunqueun’operazione propagandistica».





Lo ha fatto con un articolo il quale, però, contiene ben dieci argomenti discutibili (dette appositamente o per disinformazione) a cui abbiamo risposto:

 

1) La prima accusa di Socci è che Francesco vorrebbe la«legittimazione della violenza fisica». Si riferisce ad una battuta umoristica di Francesco nel dialogo informale con i giornalisti e in risposta ad una domanda sull’esistenza di una illimitata libertà d’espressione, in seguito all’attentato a Charlie Hebdo. Il Papa ha spiegato che invece dev’esserci un limite, «abbiamo l’obbligo di dire apertamente, avere questa libertà, ma senza offendere». Per farlo capire meglio ha quindi fatto una battuta: «Perché è vero che non si può reagire violentemente, ma se il dott. Gasbarri, grande amico, mi dice una parolaccia contro la mia mamma, gli arriva un pugno! E’ normale! Non si può provocare, non si può insultare la fede degli altri, non si può prendere in giro la fede. E questa è un’eredità dell’illuminismo. Tanta gente che sparla delle religioni, le prende in giro, diciamo “giocattolizza” la religione degli altri, questi provocano, e può accadere quello che accade se il dott. Gasbarri dice qualcosa contro la mia mamma. C’è un limite. Ogni religione ha dignità, ogni religione che rispetti la vita umana, la persona umana. E io non posso prenderla in giro. E questo è un limite. Ho preso questo esempio del limite, per dire che nella libertà di espressione ci sono limiti come quello della mia mamma».

Fingendo di non aver capito che si trattava di una metafora ironica, il giornalista di “Libero” ha avviato la ramanzina moralista sul Papa contrario «alla civiltà giuridica e soprattutto cestina il Vangelo», che è tornato alla «legge del taglione», così da oggi «si può rispondere con i pugni». Mentre Francesco si riferiva al limite della libertà d’espressione, la cosa più tragica è che Socci è arrivato a sostenere che il Papa avrebbe in questo modo anche legittimato il fanatismo religioso a uccidere i cristiani in Medio Oriente a suon di pugni, «mentre se si è cristiani bisogna subire e zitti». Ha quindi incolpato Francesco se i gesuiti (come Bergoglio) francesi hanno pubblicato per solidarietà alcune vignette satiriche di Charlie Hebdo, ma non ha onorato il Papa per il fatto che altri gesuiti (come Bergoglio) hanno replicato molto perplessi all’iniziativa.

Oltre a ricordare che Socci non si scandalizza affatto quando Gesùrovescia i tavoli e scaccia violentemente i mercanti davanti al Tempio di Gerusalemme o quando afferma: «È meglio per lui che gli sia messa al collo una pietra da mulino e venga gettato nel mare, piuttosto che scandalizzare uno di questi piccoli» (Lc 17,1-6), tanto meno lo accusa di istigazione all’omicidio, di essere contro il Vangelo e di augurare la violenza verso chi si comporta in modo che riteniamo sbagliato, bisogna sottolineare che lo scrittore si dichiara discepolo di don Luigi Giussani, il fondatore di Comunione e Liberazione, anch’egli amante di metafore colorite:«Quando uno mi viene a dire: “Ma io voglio bene a questa ragazza, è un pezzo che siamo insieme, però non sono più innamorato di lei!»gli darei un pugno, perché l’unico modo per rispondere è quello di fargli capire che c’è qualcosa di storto (il naso, per esempio!)». (L. Giussani, “Uomini senza patria, 1982-1983″, Bur 2008, p. 332). Lo disse nel 1983 quando Socci aveva 24 e militava in CL, eppure lo scrittore non accusò il celebre teologo ed educatore di aver legittimato la violenza dei preti contro i fidanzati, come oggi fa contro Bergoglio. Don Giussani si rivolgeva direttamente ai giovani e Papa Francesco era in un informale dialogo con i vaticanisti, tanto da citare l’organizzatore dei voli papali, suo grande amico, come vittima di questo ipotetico pugno. Il senso era di sottolineare un limite alla libertà di satira, non certo una legittimazione alla violenza o al terrorismo religioso.

 

2) La seconda accusa di Socci è che il Papa avrebbe taciuto sui massacri dei cristiani: «in agosto e per giorni Bergoglio tacque» sulla persecuzione, scrive il giornalista. Peccato che invece intervenne il 20 luglio, l’8 agosto,  il10 agosto, il 18 agostoil 3 settembre ecc. Ha quindi aggiunto che «le sue sporadiche dichiarazioni evitarono accuratamente di nominare i carnefici e di condannare la loro ideologia islamista». Peccato che Francesco abbia più volte fatto appello ai leader islamici a condannare il terrorismo, operando giustamente una distinzione tra islam e fondamentalismo religioso («sarebbe bello che tutti i leader islamici parlino chiaramente e condannino quegli atti ecc..»). Anche pochi giorni fa lo ha fatto, ovviamente Socci si è ben guardato di parlarne: «Nel sollecitare la comunità internazionale a non essere indifferente davanti a tale situazione, auspico che i leader religiosi, politici e intellettuali specialmente musulmani, condannino qualsiasi interpretazione fondamentalista ed estremista della religione, volta a giustificare tali atti di violenza».

D’altra parte, nemmeno Benedetto XVI volle mai condannare “l’islamismo”, ovvero creare la generalizzazione equiparando l’islam al terrorismo come vorrebbe il giornalista conservatore, preferendo restare sul generale: il 18/07/05, parlò solo di “orribile attentato”; il 19/04/06, parò di “atto terroristico”; il 9/05/09, parò di “perversione della religione”; il15/05/09 /parlò di “terrorismo”)l’11/11/10, parlò di “discriminazione e violenza”; il 2/01/11, parlò di “strategia di violenza!; il 25/01/11, parlò di “grave atto di violenza”; il 20/10/12, parlò di “terribile attentato”; il7/01/13 parlò di “pernicioso fanatismo di matrice religiosa” e di “falsificazione della religione stessa” ecc. Tanto che nel 2009 la Chiesa di Benedetto XVI fu accusata dal rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, di avere “reazioni ammiccanti all’islam”.

 

3) La terza accusa di Socci è che «Bergoglio ha evitato sempre di chiedere l’“ingerenza umanitaria” per salvare la vita a popolazioni inermi». Invece il Pontefice ha rivolto numerosi appelli a «quanti hanno responsabilità politiche a livello locale e internazionale affinché si intraprenda una vasta mobilitazione di coscienze in favore dei cristiani perseguitati», come ad esempio ha detto nel novembre scorso, nell’agosto 2014 ecc.

 

4) La quarta accusa di Socci è che Francesco, solo quando «si sentì “costretto” a dire che la vita di quella povera gente andava difesa, aggiunse che non lo si doveva fare con la forza (e come si fermano gli sgozzatori e gli stupratori dell’Is?)». Un’altra manipolazione del pensiero del Papa il quale, nella conferenza durante il viaggio in Corea, disse un’altra cosa:  «dove c’è un’aggressione ingiusta, posso soltanto dire che è lecito fermare l’aggressore ingiusto. Sottolineo il verbo: fermare. Non dico bombardare, fare la guerra, ma fermarlo. I mezzi con i quali si possono fermare, dovranno essere valutati. Fermare l’aggressore ingiusto è lecito. Ma dobbiamo anche avere memoria! Quante volte, con questa scusa di fermare l’aggressore ingiusto, le potenze si sono impadronite dei popoli e hanno fatto una vera guerra di conquista! Una sola nazione non può giudicare come si ferma un aggressore ingiusto». Parole sagge e prudenti, lontane dall’interventismo violento e armato tanto caro ai conservatori tradizionalisti. Socci oggi accusa Francesco di tradire il Vangelo per una battuta di spirito, ma nel frattempo vorrebbe iniziare la guerra contro il mondo islamista. Questo sarebbe evangelico per lui.

 

5) La quinta accusa di Socci è che Francesco avrebbe detto che «era disposto a dialogare con quelle belve sanguinarie e poi se la prese duramente contro quello che chiamò il “terrorismo di stato”, riferendosi a quei paesi che si difendevano dal terrorismo con le armi, come Israele e Usa». In realtà Francesco in quell’occasione disse ancora una volta una cosa diversa: «Io mai do per persa una cosa, mai. Forse non si può avere un dialogo, ma mai chiudere una porta. E’ difficile, puoi dire ‘quasi impossibile’, ma la porta sempre aperta […]. C’è la minaccia di questi terroristi. Ma anche un’altra minaccia, ed è il terrorismo di Stato. Quando le cose salgono, salgono, salgono e ogni Stato per conto suo si sente di avere il diritto di massacrare i terroristi, e con i terroristi cadono tanti che sono innocenti. E questa è un’anarchia di alto livello che è molto pericolosa.Con il terrorismo si deve lottare, ma ripeto quello che ho detto nel viaggio precedente: quando si deve fermare l’aggressore ingiusto, si deve fare con il consenso internazionale». Francesco non critica affatto chi si difende con le armi dai terroristi, come ha affermato Socci, ma spiega che bisogna lottare ma la strategia di difesa va decisa tra gli Stati, optando per una difesa che coinvolga il meno possibile vittime innocenti.  Si nota in modo evidente come Socci costantemente manipoli i discorsi del Papa.

 

6) La sesta accusa di Socci è un must della sua critica antipapista, ovvero l’ormai famosa intervista a Scalfari in cui avrebbe detto “io credo in Dio. Non in un Dio cattolico, non esiste un Dio cattolico” sostenendo che il Papa stia «declassando i cattolici a dei “senza Dio”». Come sempre ricordiamo che la Santa Sede è intervenuta in merito a questa intervista -e solo questa- ritenendola «attendibile in senso generale ma non nelle singole formulazioni». Scalfari, oltretutto, ha ammesso di aver manipolato l’intervista. Inoltre, Francesco ha più volte indicato l’esatto opposto di quanto Scalfari gli ha fatto dire nell’intervista, ad esempio ha detto«Non si capisce un cristiano senza Chiesa. E per questo il grande Paolo VI diceva che è una dicotomia assurda amare Cristo senza la Chiesa; ascoltare Cristo ma non la Chiesa; stare con Cristo al margine della Chiesa. Non si può. E’ una dicotomia assurda. Il messaggio evangelico noi lo riceviamo nella Chiesa e la nostra santità la facciamo nella Chiesa, la nostra strada nella Chiesa. L’altro è una fantasia o, come lui diceva, una dicotomia assurda». Ma l’intervista a Scalfari è una sorta di ossessione del conservatorismo antipapista dell’estrema destra, la ritroveremo citata migliaia di altre volte.

 

7) La settima accusa di Socci è che Bergoglio valorizzerebbe tutte le religioni mentre «al cattolicesimo toccano quasi sempre e solo durezze e bastonate». A parte il fatto che se gran parte dei cattolici italiani sono d’accordo con la militanza antipapista Socci evidentemente queste bastonate del Pontefice sono più che meritate, in ogni caso Francesco ha dichiarato proprio l’opposto: «dobbiamo però fare attenzione a permettere ai fedeli di tutte le confessioni cristiane di vivere la loro fede in maniera inequivocabile e libera da confusione, e senza ritoccare cancellando le differenze a scapito della verità. Quando, per esempio, con il pretesto di un certo andarsi incontro dobbiamo nascondere la nostra fede eucaristica, non prendiamo sufficientemente sul serio né il nostro patrimonio, né quello del nostro interlocutore». 

 

8) L’ottava accusa di Socci è che il Papa sarebbe sincretista per essere andato a «pregare (e adorare) nella Moschea blu di Istanbul rivolto alla Mecca (mentre i cristiani sono massacrati da musulmani)». Eppure ancheBenedetto XVI nel 2006 si recò nella Moscha Blu accompagnato dal Gran Mufti, si tolse le scarpe e si fermò davanti al Mihrab, l’edicola islamica rivolta in direzione della Mecca verso la quale indirizzano le loro preghiere i fedeli musulmani (come descrisse Andrea Tornielli). Padre Federico Lombardi precisò anche in quell’occasione: «Davanti al Mihrab, nella Moschea Blu, il Papa ha sostato in meditazione e certamente ha rivolto a Dio il suo pensiero». Lo stesso Francesco ha spiegato così il suo gesto nella moschea: «Sono venuto come pellegrino, non come turista. Ma poi, quando sono andato in Moschea, io non potevo dire: “No, adesso sono turista”. No, era tutto religioso. E ho visto quella meraviglia! Il muftì mi spiegava bene le cose, con tanta mitezza, e anche con il Corano, dove si parlava di Maria e di Giovanni il Battista, mi spiegava tutto… In quel momento ho sentito il bisogno di pregare. E ho detto: “Preghiamo un po’?” – “Sì, sì”, ha detto lui. E io ho pregato: per la Turchia, per la pace, per il muftì… per tutti. E ho pregato per la pace, soprattutto. Ho detto: “Signore, finiamola con la guerra…”. Così, è stato un momento di preghiera sincera». Sull’accaduto è intervenuto anche uno dei maggiori studiosi di Islam turco,Padre Alberto Fabio Ambrosio, domenicano, e professore associato presso il dipartimento di teologia dell’Università di Metz in Francia, che ha valorizzato il gesto di Francesco spiegando che non vi è nulla di sincretistico, blasfemo o relativistico.

 

9) La nona accusa di Socci è che il Papa, durante la visita in Sri Lanka,«non ha trovato il tempo per la benedizione della neonata Università Cattolica, ma l’ha trovato per un fuori programma: la visita al tempio buddista». Innanzitutto, come si evince dal programma ufficiale, il viaggionon prevedeva affatto una visita in Sri Lanka all’Università Cattolica, Socci si è confuso (volontariamente?) con la visita che Francesco farà domenica 18 all’Università Cattolica a Manila. Ma, se anche fosse stato vero, si tratta di retorica di bassa lega: allo stesso modo si potrebbe accusare Socci di non aver trovato il tempo per scrivere un articolo sui cristiani perseguitati indicando il modo concreto per aiutarli, ma l’ha invece trovato per un articolo di militanza contro il Papa. Per quanto riguarda lavisita al tempio buddista, nemmeno questa era prevista dal programma: Francesco doveva incontrare i vescovi ma, essendo questi in ritardo all’appuntamento, ha deciso di accettare l’invito rivoltogli il giorno prima dal capo del tempio, il monaco Banagala Upatissa. Per il dispiacere dello scrittore, ricordiamo che anche Giovanni Paolo II osò visitare un tempio buddista durante il viaggio in Thailandia nel 1984.

 

10) La decima accusa di Socci è ancora sul presunto sincretismo del Papa poiché sarebbe favorevole ad un «minestrone di religioni diverse: il Concilio che parla di “unica vera religione”. Non mi pare che Bergoglio ripeta queste parole, anzi lancia segnali che – forse anche contro la sua volontà – possono creare enormi equivoci». Oltre al fatto che la “Nostra Aetate” afferma anche che «la Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini», Papa Francesco ha più volte parlato contro il minestrone sincretista delle religioni. Un esempio: «In questo dialogo, sempre affabile e cordiale, non si deve mai trascurare il vincolo essenziale tra dialogo e annuncio, che porta la Chiesa a mantenere ed intensificare le relazioni con i non cristiani. Un sincretismo conciliante sarebbe in ultima analisi untotalitarismo di quanti pretendono di conciliare prescindendo da valori che li trascendono e di cui non sono padroni. La vera apertura implica il mantenersi fermi nelle proprie convinzioni più profonde, con un’identità chiara e gioiosa, ma aperti “a comprendere quelle dell’altro” e “sapendo che il dialogo può arricchire ognuno”»(Evangelii Gaudium).

Ecco cosa si nasconde dietro l’antipapismo di Socci: dieci menzogne e tanta manipolazione.

 

Post scriptum 
Antonio Socci ha bannato un nostro collaboratore dalla sua pagina Facebook dopo che è stato pubblicato, tra i commenti, il link a questo articolo (cancellando ovviamente il link). Ci domandiamo perché una persona che dice di agire in onore alla verità assuma questo comportamento. Perché aver paura di ricevere critiche? Perché aver paura che i suoi fans si confrontino con punti di vista differenti? Lo scrittore accusa il Papa di tradire il Vangelo e poi usa (evangelicamente?) il potere della censura per zittire le critiche.

dal sito UCCR


Credente
00martedì 20 gennaio 2015 16:22

 



Francesco FIlippinePapa Francesco ha appena terminato il bellissimo viaggio in Sri Lanka e Filippine, al centro dell’attenzione ha ovviamente messo la povertà, la centralità dei poveri. Durante la messa conclusiva hanno partecipato 7 milioni di persone, un record storico. Per molti che lo hanno seguito è stato commovente osservare quanto è avvenuto.


Purtroppo, però, il pontificato di Francesco è perseguitato da un gruppetto di«cristiani che sembrano avere uno stile di Quaresima senza Pasqua», come li chiama lui. «Ma un cristiano non può vivere così, sempre cercando di lamentarsi»ha detto. Non può vivere ripetendo: «“Hai visto che cosa è successo?”. Questo non è cristiano! E fa male trovare cristiani con la faccia amareggiata, con quella faccia inquieta dell’amarezza, che non è in pace. Mai, mai un santo o una santa ha avuto la faccia funebre, mai! I santi hanno sempre la faccia della gioia. O almeno, nelle sofferenze, la faccia della pace». Spiace dirlo, ma tra questi campioni della lamentela c’è anche Antonio Socci, che, ad ogni intervento pubblico di Francesco, spulcia i discorsi e sottolinea i presunti aspetti anticristiani, scomunicando pubblicamente il Pontefice.


Lo ha fatto anche in questa circostanza. Nel suo ennesimo articolo (ormai scrive solo se c’è da punire il Papa) e nella sua prima accusa, ha infatti accusato Francesco nientemeno di aver colpito le famiglie numerose che «si sono sentite paragonare ai “conigli”, già sono tartassate dallo stato e dai sarcasmi della mentalità dominante. Si aspettavano, almeno dal Papa, comprensione e incoraggiamento, e hanno avuto randellate». Ovviamente citando l’onnipresente suo “caro amico” che si è offeso alle parole del Papa. E’ una ennesima manipolazione di quanto ha detto Francesco. Innanzitutto occorre ricordare che pochi giorni prima di partire per le Filippine, il 29 dicembre 2014, Francesco ha proprio incontratol’Associazione nazionale delle Famiglie numerose affermando«Giustamente voi ricordate che la Costituzione Italiana, all’articolo 31, chiede un particolare riguardo per le famiglie numerose; ma questonon trova adeguato riscontro nei fatti. Resta nelle parole. Auspico quindi, anche pensando alla bassa natalità che da tempo si registra in Italia, una maggiore attenzione della politica e degli amministratori pubblici, ad ogni livello, al fine di dare il sostegno previsto a queste famiglie. Ogni famiglia è cellula della società, ma la famiglia numerosa è una cellula più ricca, più vitale, e lo Stato ha tutto l’interesse a investire su di essa!». Ovviamente Socci non ha mai riportato queste parole ai suoi fans.


In secondo luogo, Francesco durante la conferenza stampa ha usato come esempio una donna «perché era incinta dell’ottavo dopo sette cesarei. “Ma lei vuole lasciare orfani sette?”. Questo è tentare Dio». Per questo ha detto: «ma questa è una irresponsabilità. “No, io confido in Dio”. “Ma guarda, Dio ti da i mezzi, sii responsabile”. Alcuni credono che – scusatemi la parola, eh? – per essere buoni cattolici dobbiamo essere come conigli, no? No. Paternità responsabile. Questo è chiaro e per questo nella Chiesa ci sono i gruppi matrimoniali, ci sono gli esperti in questo, ci sono i pastori, e si cerca. E io conosco tante e tante vie d’uscita lecite che hanno aiutato a questo». Socci ha evitato anche di citare le paroledel presidente delle Famiglie numeroseGiuseppe Butturini, che ha elogiato le parole del Papa, concordando con lui sull’irresponsabilità del comportamento di questa madre.


Per chi è in buona fede è evidente che Francesco stia smontando il vecchio luogo comune anticattolico sul sesso solo per procreazione, dimenticando gli insegnamenti sui metodi naturali (nel Sinodo sulla Famiglia si è parlato di «maternità e paternità responsabile» nel capitolo contro la contraccezione e a favore dei metodi naturali). Parla di “vie d’uscita lecite” e invece molti opinionisti anticlericali (Massimo Gramellini, Carlo Tecce ecc. stanno affermando che il Papa avrebbe aperto alla contraccezione, incredibilmente lo ha scritto anche la vaticanista Franca Giansoldati). Lo aveva già detto Giovanni Paolo II«il pensiero cattolico è sovente equivocato, come se la Chiesa sostenesse un’ideologia della fecondità ad oltranza, spingendo i coniugi a procreare senza alcun discernimento e alcuna progettualità. Ma basta un’attenta lettura dei pronunciamenti del Magistero per constatare che non è così». Peccato che in quell’occasione Socci non criticò Wojtyla di accusare le famiglie numerose di “procreare senza alcun discernimento”. Due pesi e due misure, come sempre accade a chi tradisce il buon senso.


Nella sua seconda accusa, lo scrittore ha sostenuto che Francesco si sia «rimangiato lo scivolone sul “pugno” e mi viene da ridere a pensare come faranno ora a fare marcia indietro tutti quegli zuavi pontifici che – col solito zelo – si erano messi a giustificare la reazione violenta all’insulto verbale». Facendolo, ha sostenuto Socci, avrebbe fatto «la toppa peggio del buco perché – per rimangiarsi la gaffe – ha detto che “in teoria” il Vangelo dice che non si deve rispondere con la violenza. E così il Vangelo diventa una “teoria” di un sognatore». Anche in questo caso è una mistificazione della realtà: Francesco non ha rimangiato nulla, gli è stato chiesto di chiarire meglio il suo discorso a causa di alcune strumentalizzazioni mediatiche e lui lo ha fatto, riproponendo lo stesso identico concetto: «Questo volevo dire: che in teoria siamo tutti d’accordo. C’è libertà di espressione, una reazione violenta non è buona, è cattiva sempre. Tutti d’accordo. Ma nella pratica fermiamoci un po’, perché siamo umani e rischiamo di provocare gli altri e per questo la libertà deve essere accompagnata dalla prudenza. Quello volevo dire». Francesco sta chiaramente invitando gli uomini, cristiani e non, alla prudenzanell’uso della libertà d’espressione: è vero che il Vangelo chiede di porgere l’altra guancia ma non si può confidare sul fatto che tutti ascoltino il Vangelo, e c’è il rischio serio di provocare reazioni violente. Il discorso è talmente chiaro e cristallino che ci si stupisce di come possa essere manipolato ancora, a meno che si sia pregiudizialmente contro il Papa. Esattamente come coloro che affermano che Gesù istighi alla violenza quando disse: “Non sono venuto a portare pace, ma una spada” (Mt 10,34). Basta mettere da parte l’ideologia, contestualizzare la frase e si capisce il vero senso della frase.


 


Parlando di questa campagna antipapista di Antonio Socci bisogna comunque riflettere su una cosa. Conosciamo tutti la sua devozione verso la Madonna di Medjugorje, è anche l’autore di un bellissimo libro su questo. Bene, il 17 agosto 2014 durante l’apparizione a Ivan, uno dei veggenti di Medjugorje, la Madonna ha chiesto«in modo particolare, cari figli in questo tempo pregate per il mio amatissimo Santo Padre, pregate per la sua missione, la missione della pace», un’indicazione decisamente rara nei messaggi di Medjugorje. Nessuno si aspettava questa richiesta, Francesco è molto amato…eppure, misteriosamente Antonio Socci non solo ha evitato di riportare le parole di Maria sul suo “amatissimo Santo Padre”, ma per una strana coincidenza proprio verso la fine dell’estate scorsa ha intensificato la sua opposizione al Santo Padre. Poche settimane dopo la richiesta della Madonna di pregare per la missione di Francesco, Socci ha pubblicato il suo libro intitolato “Non è Francesco” dove, addirittura ha messo in dubbio l’elezione complottando un conclave farlocco (tesi completamente smontata, tanto che lui non ne parla più evitando altre gaffe). Non solo, esattamente due mesi dopo la richiesta di Maria di intensificare le preghiere per “il mio amatissimo Santo Padre”, Socci ha definito il Papa «la bandiera e il simbolo del cattoprogressismo», profetizzando «la spaccatura della Chiesa».


Antonio Socci pare davvero non ascoltare più i messaggi e le richieste delle apparizioni (e non chiede ai suoi lettori di farlo, come faceva un tempo), anzi ne ha contrastato i contenuti. Inoltre, a causa del diffuso fenomeno di antipapismo che ha generato, molti stanno davvero iniziando a sospettare che sia lui stesso -e l’armata tradizionalista dalla faccia funebre che lo segue- uno dei motivi per cui la Madonna quest’estate -poche settimane prima l’uscita del suo libro contro il Papa- ha chiesto di pregare per «il mioamatissimo Santo Padre». E’ un’ipotesi, ovviamente, ma chi ha orecchie per intendere, intenda.


maria3


La redazione di UCCR



......................................
ndr
Condivido  l’interpretazione da dare alle parole del Papa fatta dalla redazione di UCCR. Il Papa purtroppo, dato che spesso parla in modo spontaneo e diretto, usa termini che si prestano facilmente ad essere equivocati o manipolati. Questo però favorisce anche una maggiore attenzione da parte di tutti, e anzi il Papa è amato da tanti proprio per questo .
Sono molto dispiaciuto per l’attuale posizione di Socci nei confronti del Papa che aveva inizialmente difeso in diverse occasioni, come risulta riportato anche tra i vari suoi articoli raccolti in precedenza in questa stessa pagina.
Sono convinto che la sua posizione attuale sul papa, sia conseguente alla sua convinzione che l’elezione papale non sia valida, perchè altrimenti avrebbe con buona probabilità, un atteggiamento diverso, considerato la sua preparazione e il suo senso morale.

Prego per lui, che in tante occasioni ha espresso con molto coraggio i valori cristiani, affinchè comprenda che invece ora sta facendo un servizio ai nemici della fede, combattendo  contro il legittimo vicario di Cristo.
Credente
00venerdì 13 febbraio 2015 12:55

Continuano le accuse contro Papa Francesco 



FrancescoNuovo articolo di accusa al Santo Padre da parte del giornalista di “Libero” Antonio Socci. La liquidità delle obiezioni fa quasi rimpiangere la quotidiana militanza del vaticanista Marco Politi de “Il Fatto Quotidiano”contro Benedetto XVI durante il suo pontificato, il quale per lo meno esponeva la sua personale insofferenza verso il Papa emerito basandosi su “riflessioni” un pochino più complesse e articolate.


L’accusa principale di Socci, come sappiamo, è stata dubitare dell’autenticità dell’elezione di Francesco, è stato ignorato dai più ma qualche canonista ha risposto: Giancarlo Cerrelli e Massimo Introvigne su “La Nuova Bussola Quotidiana” e Geraldina Boni su “L’Espresso”. Il giornalista ha replicato recentemente a quest’ultima e la prof.ssa Boni, contattata da UCCR, ha voluto soltanto affermare: «non mi sembra il caso di rispondere, vorrei evitare di scivolare in oziose polemiche. Socci non ha considerato con attenzione la mia ricostruzione giuridica oppure non l’ha capita, nonostante avessi cercato di essere il più semplice possibile, rivolgendomi ad un pubblico di non canonisti. Un esempio per tutti: l’obiezione che si debba motivare la vigenza del principio che un atto nullo tamquam non esset, ovvero giustificare la sua mancata esplicita previsione in ogni testo normativo, francamente per un giurista (ma anche per uno studente al primo anno di Giurisprudenza) non merita alcuna replica. Comunque a breve sarà pubblicato sulla rivista “Archivio giuridico” il mio intervento corredato di note ed ulteriori spiegazioni (che avrebbero appesantito troppo il testo online)». Nell’accusa di Socci, dunque, non c’è nulla di serio o preoccupante.


Il resto delle obiezioni si basa su alcune frasi che il giornalista ha trovato spulciando i discorsi di Francesco -in particolare quelli pronunciati “a braccio”-, e su singoli episodi citati in serie, come fossero un elenco della spesa. Nell’ultimo articolo ri-presenta infatti il classico calderone di accuse: ai partiti (di sinistra), alla politica, alla società e alla Chiesa, «diventata liquida col pontificato Bergoglio». Socci parla di un «trans-cristianesimo» perché Francesco avrebbe fatto una «preghiera alla moschea (con vista sulla Mecca), visita al tempio buddista, abbraccio al pastore pentecostale e accoglienza in basilica alla vescova anglicana, elogio  dell’interreligiosità e pure legittimazione oggettiva delle nuove unioni», nonché la «demonizzazione dei “cattolici identitari”, laddove l’identità diventa una colpa, sospetta di fondamentalismo o pure peggio».


Offriamo giusto qualche risposta: Francesco è entrato in moschea (con vista sulla Mecca) tanto quanto ha fatto Benedetto XVI nel 2006 quandosi recò nella Moscha Blu: accompagnato dal Gran Mufti di Istanbul, Mustafa Cagrici, si fermò davanti al Mihrab, l’edicola islamica rivolta in direzione della Mecca verso la quale indirizzano le loro preghiere i fedeli musulmani. Padre Federico Lombardi precisò anche in quell’occasione: «Davanti al Mihrab, nella Moschea Blu, il Papa ha sostato in meditazione e certamente ha rivolto a Dio il suo pensiero». Dunque ha pregato. La notizia della “preghiera di Benedetto XVI nella moschea” raggiunse subito i media, ma nessuno lo accusò di sincretismo o relativismo, tanto meno Antonio Socci. Ricordiamo anche che il teologo domenicano Padre Alberto Fabio Ambrosio, tra i maggiori studiosi di Islam turco, ha risposto alle accuse di relativismo arrivate contro Francesco dal mondo tradizionalista, valorizzando il suo gesto ecumenico.


Francesco ha visitato il tempio buddista? Uno “scandaloso gesto” compiuto anche da Giovanni Paolo II durante il viaggio in Thailandia nel 1984. Francesco ha incontrato la vescova anglicana? Un'”eresia” che però commise volontariamente anche Benedetto XVI nel 2010 durante il suo viaggio nel Regno Unito. Francesco invoca l’interreligiosità? Si, lo ha fatto citando direttamente il Concilio Vaticano II: «Quando leggiamo quello che ci dice il Concilio Vaticano II sui valori nelle altre religioni – il rispetto – è cresciuta tanto la Chiesa in questo. E sì, ci sono tempi oscuri nella storia della Chiesa, dobbiamo dirlo, senza vergogna, perché anche noi siamo in una strada di conversione continua: dal peccato alla grazia sempre. E questa interreligiosità come fratelli, rispettandosi sempre, è una grazia». Nulla di nuovo dunque, se poi il problema fosse che parla di “interreligiosità” al posto di “dialogo interreligioso” (ma davvero a questo si riducono le critiche a Francesco?), ricordiamo che di “interelligiosità” parlò il parroco di Santa Dorotea in Trastevere davanti a Benedetto XVI senza venire corretto, anzi il Papa emerito lo ringraziò «per questa testimonianza di una parrocchia veramente multidimensionale e multiculturale. Mi sembra che lei abbia un po’ concretizzato quanto discusso in precedenza con il confratello indiano: questo insieme di un dialogo, di una convivenza rispettosa, rispettandoci gli uni con gli altri, accettando gli uni gli altri, come essi sono nella loro alterità, nella loro comunione». Parole molto simili a quelle usate di Francesco.


Socci parla anche di «legittimazione oggettiva delle nuove unioni» da parte di Papa Francesco. Lo avrebbe dedotto dai titoli dei giornali del 27 gennaio scorso, «metafora della rivoluzione planetaria in corso perché il Vaticano stesso ha permesso all’evento di assumere un significato simbolico: “Un trans con la fidanzata in udienza dal papa” (Corriere della sera); “Un transessuale in Vaticano, l’ultimo strappo di Francesco” (La Repubblica); “Francesco abbatte un altro tabù. Incontro con un trans” (La Stampa)». Se la stampa fosse esistita quando Gesù venne trovato abanchettare con pubblicani e peccatori avrebbe titolato le stesse parole, inoltre il Vaticano non ha affatto diffuso la notizia (tanto meno ne ha dato un significato simbolico) e non ne ha parlato perché si è trattato di un incontro privato del Pontefice, scoperto da un quotidiano spagnolo. Il transessuale ha portato anche la fidanzata? Sono decenni che i Pontefici incontrano pubblicamente coppie di persone unite in modo irregolare per la Chiesa e mai nessuno ha affermato che il Vaticano abbia così legittimato tali unioni (tanto più se l’incontro è privato, come in questo caso). Peccato infine che il giornalista abbia ignorato altri titoli di quotidiani, come ad esempio: “Unione tra l’uomo e la donna”. Il matrimonio secondo Francesco” (“Il Foglio”, 2/02/14); “Papa: il matrimonio tra uomo e donna è l’icona dell’amore di Dio” (“Rainews.it”, 02/04/14); “Francesco: “Nella Costituzione il matrimonio è uomo-donna” (“Gay.it”, 12/09/13); “Papa Francesco: “Matrimonio uomo-donna tutelato dalla Costituzione” (Fanpage, 12/09/13); “Papa Francesco cita la Costituzione: “Famiglia uomo donna bene di tutti” (“Il Fatto Quotidiano”, 12/09/13) ecc. Evidentemente non c’è alcuna legittimazione delle nuove unioni, tanto che si è costretti a teorizzare e dedurre vaghe simbologie da incontri privati, quando ci sono affermazioni dirette del Papa che contraddicono tale tesi.


Infine l’ultima accusa è che Francesco avrebbe demonizzato con spregio i “cattolici identitari”. Abbiamo fatto una ricerca ma non ci pare che il Papa abbia mai utilizzato questa espressione, l’unico riscontro utile dall’archivio sul sito web della Santa Sede è questa frase: «ci sono tanti cristiani che sono talmente identitari che non riescono a fare spazio all’amore, non riescono a vivere l’amore». Peccato che sia stata pronunciatadal pastore evangelico Traettino, in apertura di un incontro con Papa Francesco.


Come lo stesso Socci scriveva pochi mesi fa, criticando i critici del Pontefice: «chi sta col “randello” del pregiudizio in mano con l’unico obiettivo di coglierlo in fallo, non sente ragioni, si attacca a ogni pretesto ed è sempre pronto a colpire». Appunto, a noi sembra che tutto questo sia proprioattaccarsi ad ogni pretesto per colpire Papa Francesco e, tuttavia, non riuscire a cavare fuori un’accusa reale ma soltanto un minestrone di fatti -sconnessi gli uni dagli altri e svincolati dalla loro complessità-, da citare a ripetizione per foraggiare il fenomeno del catastrofismo apocalittico (il Papa lo chiama «allarmismo catastrofico») che profetizza una Chiesa destinata all’auto-rovina. Meno male che Benedetto XVI ha preso da tempo le distanze da questo antipapismo, scrivendo (parole confermate direttamente dal Papa emerito): «Io sono grato di poter essere legato da unagrande identità di vedute e da un’amicizia di cuore a Papa Francesco. Io oggi vedo come mio unico e ultimo compito sostenere il suo Pontificato nella preghiera». 



Questa è la versione 'lo-fi' del Forum Per visualizzare la versione completa clicca qui
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 07:44.
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com