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La SUMMA TEOLOGICA

Ultimo Aggiornamento: 12/10/2019 08:45
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24/02/2010 23:57
 
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è composta da un file compresso di circa 9,5 MB da scompattare.
 
Summa Theologiae   






::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::

Per chi non sapesse cos'è la SUMMA TEOLOGICA, riportiamo la descrizione desunta da Wikipedia:

Summa Theologiae
Da Wikipedia 


La Summa Theologiae è la più famosa delle opere di Tommaso d'Aquino. Fu scritta negli anni 1265–1274, negli ultimi anni di vita dell'autore. La terza e ultima parte rimase incompiuta.

È il trattato più famoso della teologia medioevale, e la sua influenza sulla filosofia e sulla teologia posteriore, soprattutto nel cattolicesimo, è incalcolabile.

Concepita come un manuale per lo studio della teologia più che come opera apologetica di polemica contro i non cattolici, nella struttura dei suoi articoli è una esemplificazione tipica dello stile intellettuale della scolastica. Deriva da un'opera anteriore la Summa Contra Gentiles, che era di contenuto più apologetico.

Tommaso la scrive tenendo presenti le fonti propriamente religiose, cioè la Bibbia e i dogmi della chiesa cattolica, ma anche le opere di alcuni autori dell'antichità: Aristotele è l'autorità massima in campo filosofico, e Agostino di Ippona in campo teologico. Sono citati frequentemente anche Pietro Lombardo, teologo e autore del manuale usato all'epoca, gli scritti del secolo V del Pseudo-Dionigi l'Areopagita, e Mosè Maimonide, studioso giudeo non molto anteriore a Tommaso, del quale egli ammirava l'applicazione del metodo investigativo.
Struttura dell'opera [modifica]

Scritta in latino, la Summa è costituita da articoli che hanno tutti la stessa struttura: una serie di questioni circa il tema trattato, formulate come domande; ad ogni questione si enunciano anzitutto gli argomenti od osservazioni che sono contro la tesi proposta (videtur quod, "sembra che"), poi un argomento decisivo a favore (sed contra, "ma al contrario"), poi nel corpo principale si sviluppa la risposta alla questione (respondeo, "rispondo"), e infine si contestano una ad una le obiezioni iniziali.

L'opera è divisa in tre parti, la seconda delle quali si suddivide in due sezioni, in maniera che lo schema risultante è il seguente:

* I: Prima parte (Prima pars), 119 cuestiones
o La sacra dottrina
o Dio uno
o Dio trino
o la creazione
o il male
o gli angeli
o l'uomo e il cosmo
* I-II: Seconda parte, prima sezione (Prima secundae), 114 cuestiones
o il fine ultimo dell'uomo
o l'atto umano
o Le passioni
o gli abiti
o le virtù
o il peccato
o la legge antica e la nuova
o la grazia e il merito
* II-II: Seconda parte, seconda sezione (Secunda secundae), 189 cuestiones
o le virtù teologali: fede, speranza, carità.
o le virtù cardinali: prudenza, giustizia, fortezza, temperanza
o i carismi
o gli stati di vita
* III: Terza parte (Tertia pars), 90 cuestiones; incompiuta
o Cristo: incarnazione, vita, passione e risurrezione
o i sacramenti: Battesimo, Cresima, Eucaristia, Penitenza
* Supplemento alla Terza parte (Supplementum tertiae), 99 cuestiones; completata dai discepoli in base a scritti giovanili
o Ordine sacro, Matrimonio e Unzione dei Malati
o il giudizio finale
o i novissimi
* Appendice al Supplemento alla Terza parte (Appendix ad Supplementum tertiae partis), 2 cuestiones
o il Purgatorio
o il peccato originale
[Modificato da Credente 12/10/2019 08:45]
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30/06/2010 10:22
 
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Riportiamo alcuni articoli IN ITALIANO tratti dalla SUMMA TEOLOGICA:


La Trinità

(San Tommaso d'Aquino, Compendio di Teologia)

Capitolo 37

Come intendere il Verbo in Dio

Da quanto è stato detto sopra si ricava che Dio pensa e ama se stesso; e ancora che in Dio il pensare e il volere non sono altra cosa che il suo essere. Ora, poiché Dio pensa se stesso, e ogni cosa pensata è in colui che pensa, bisogna ammettere che Dio sia in se stesso come la cosa pensata è in colui che pensa. Ma la cosa pensata, in quanto è in colui che pensa, è in un certo modo il verbo dell'intelletto. Noi infatti esprimiamo con la parola esterna ciò che comprendiamo interiormente: dice infatti il Filosofo che le parole sono segni dei pensieri. Dobbiamo quindi ammettere che in Dio vi sia il Verbo di se stesso.

Capitolo 38

In Dio il Verbo si dice "concezione"

Ciò che è contenuto nell'intelletto come verbo interiore, secondo il comune modo di parlare viene definito concezione dell'intelletto. Infatti si dice fisicamente concepito ciò che viene formato da una forza vitale nell'utero dell'animale vivente per l'azione attiva del maschio e passiva della femmina, nella quale avviene il concepimento; e in questo modo l'essere che viene concepito appartiene alla natura di entrambi, ed è ad essi conforme secondo la specie.

Ciò che invece pensa l'intelletto viene formato nell'intelletto fungendo l'intelligibile da agente e l'intelletto quasi da paziente. E ciò che è pensato dall'intelletto, esistendo nell'intelletto, è conforme sia all'intelligibile che muove (del quale è una similitudine), sia all'intelletto, che è passivo secondo che ha l'essere intelligibile. E così ciò che è compreso dall'intelletto viene chiamato giustamente concezione dell'intelletto.

Capitolo 39

In quale rapporto sia il Verbo nei confronti con il Padre

È qui necessario considerare che esiste una differenza. Essendo infatti ciò che concepisce l'intelligenza una similitudine della cosa pensata, e rappresentandone la specie, ne segue che può essere considerata come un suo figlio. Quando infatti l'intelletto pensa qualche cosa di diverso da sé, la cosa pensata può essere considerata come il padre del concetto che è concepito in esso, e l'intelligenza ha piuttosto la funzione della madre che ha il compito di concepire. Quando invece l'intelletto conosce se stesso, allora il verbo concepito è rispetto a colui che pensa come un figlio rispetto al padre. Di conseguenza, quando parliamo del Verbo secondo il quale Dio pensa se stesso, è necessario considerare lo stesso Verbo nei confronti di Dio, di cui è il Verbo, come il Figlio rispetto al Padre.

Capitolo 40

Come deve essere compresa la generazione del Verbo

Si comprende allora perché nella Regola della fede cattolica si insegni a confessare l'esistenza del Padre e del Figlio quando si dice: "Credo in Dio Padre e nel suo Figlio". E perché nessuno, sentendo il nome del Padre e del Figlio, possa pensare a una generazione carnale, come quando noi parliamo di padre e di figlio, l'evangelista S. Giovanni, al quale sono stati rivelati i segreti celesti, invece di Figlio scrive Verbo, affinché noi sappiamo riconoscere che si tratta di una generazione intellettuale.

Capitolo 41

Il Verbo (cioè il Figlio) ha lo stesso essere e la stessa essenza del Padre

Ma si deve tener presente che, essendo in noi distinto l'essere naturale dal pensare, il verbo concepito nel nostro intelletto, avendo soltanto l'essere intelligibile, è necessariamente di un'altra natura ed essenza dal nostro intelletto, che ha un essere naturale.

In Dio invece l'essere e il pensare sono la medesima cosa. Quindi il Verbo di Dio, che è in Dio, del quale è Verbo secondo l'essere intelligibile, ha lo stesso essere con Dio, del quale è Verbo. Di conseguenza deve essere della stessa natura ed essenza, e tutto ciò che si dice di Dio lo si deve dire anche del Verbo di Dio.

Capitolo 42

La fede cattolica insegna queste cose

Ecco perché nella regola della fede cattolica ci viene insegnato a confessare che il "Figlio è consostanziale al Padre". E in questo modo vengono esclusi due errori. Innanzitutto si sottolinea che il Padre e il Figlio non vanno intesi secondo la generazione carnale, perché questa comporta la separazione della sostanza del figlio da quella del padre: nel qual caso il Figlio non sarebbe consostanziale al Padre. Il secondo errore è questo: non si devono intendere il Padre e il Figlio secondo la generazione intelligibile, così come è concepito il verbo nella nostra mente, perché in noi esso sopravviene quasi accidentalmente all'intelletto, e non ha l'essere dalla sua essenza.

Capitolo 43

In Dio non vi è alcuna differenza del Verbo dal Padre, né di tempo o di specie o di natura

Nelle cose che sono identiche nell'essenza non è possibile che vi siano differenze nel tempo o nella specie o nella natura. Ora, essendo il Verbo consostanziale al Padre, necessariamente non vi sono differenze nei confronti del Padre secondo queste tre cose.

Prima di tutto il Verbo non può differire nel tempo. Essendo infatti il Verbo presente in Dio per il motivo che Dio pensa se stesso concependo intelligibilmente il suo Verbo, se per un certo tempo non fosse esistito il Verbo, Dio non avrebbe pensato se stesso; ma Dio ha sempre pensato se stesso, perché il suo intendere è il suo essere: quindi fu sempre presente in Dio il proprio Verbo. Per questo nella regola della fede cattolica diciamo che il Figlio di Dio è "nato dal Padre prima di tutti i secoli".

Né è possibile che il Verbo di Dio differisca da Dio secondo la specie, quasi che sia minore del Padre, dal momento che Dio pensa se stesso così come egli è, e non meno. E il Verbo ha la specie perfetta perché ciò di cui è Verbo pensa perfettamente: è quindi necessario che il Verbo sia del tutto perfetto nella specie della divinità. Vi sono invece alcune cose che procedono da altre ma che non raggiungono la specie perfetta delle cose dalle quali procedono. Ciò si verifica in un primo caso nelle generazioni equivoche: il sole, per esempio, non genera un altro sole, ma un qualche animale. Per escludere dunque tale imperfezione dalla divina generazione noi confessiamo che il Verbo è nato "Dio da Dio". In un secondo caso ciò si verifica quando una cosa che procede da un'altra ne differisce per un difetto di purezza. Come quando da una cosa che è in sé semplice per l'applicazione alla materia esterna viene prodotta un'altra cosa che è lontana dalla prima specie. Ad es. l'idea della casa nella mente dell'architetto è diversa dalla sua realizzazione; e così la luce proiettata su un corpo genera i colori, il fuoco aggiunto ad altri elementi genera qualcosa di misto e il raggio che colpisce un corpo provoca l'ombra. Per escludere dunque ciò dalla generazione divina si aggiunge "luce da luce". In un terzo caso ciò si verifica quando ciò che procede da altro non raggiunge la perfezione della specie per un difetto di verità, perché non riceve la stessa natura, ma solo una similitudine: come l'immagine dell'uomo riflessa in uno specchio o in una pittura o scultura; e così pure la similitudine di una cosa che è nell'intelletto o nel senso: infatti l'effige di un uomo non è detta uomo vero, ma suo ritratto, "né la pietra è nell'anima - come dice Aristotele -, ma soltanto l'immagine della pietra". Ora, affinché tutto ciò sia escluso dalla generazione divina si aggiunge "Dio vero da Dio vero".

È infine impossibile che il Verbo differisca da Dio, di cui è Verbo, secondo la natura, perché è naturale che Dio pensi se stesso. Ogni intelletto infatti conosce naturalmente alcune cose: ad es. il nostro intelletto conosce naturalmente i primi principi. Molto più dunque Dio, la cui intelligenza è il proprio essere, pensa naturalmente se stesso. Il Verbo dunque procede da Dio naturalmente: non come le realtà che sono prodotte fuori della loro causa naturale, come da noi procedono le realtà artificiali che noi diciamo di fare, mentre diciamo di generare quelle cose che procedono da noi naturalmente, come un figlio. Affinché dunque non si pensi che il Verbo non procede da Dio naturalmente, ma secondo il potere della sua volontà, si dice "generato, non creato".
[Modificato da Credente 24/04/2013 16:38]
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30/06/2010 10:23
 
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Capitolo 44

Conclusione di quanto è stato premesso

Risulta chiaramente dalle premesse che tutte le predette condizioni della divina generazione mostrano che il Figlio è consostanziale al Padre, e perciò alla fine si aggiunge quasi in sintesi: "della stessa sostanza del Padre".

Capitolo 45

Dio è in se stesso come l'amato nell'amante

Come la cosa pensata è in colui che pensa in quanto è pensata, così anche l'amato è presente in colui che ama in quanto è amato. Infatti chi ama è in qualche modo mosso dall'amato per un'intima inclinazione: per questo, essendo colui che muove in contatto con la realtà mossa, necessariamente l'amato deve essere presente in colui che ama. Come quindi Dio pensa se stesso, così ama necessariamente se stesso: il bene pensato è infatti in se stesso amabile. Perciò Dio è in se stesso come l'amato nell'amante.

Capitolo 46

In Dio l'amore viene chiamato Spirito

Essendo la realtà pensata in colui che pensa e l'amato in colui che ama, dobbiamo ora considerare il diverso modo di essere nell'altro in entrambi i casi. La conoscenza infatti avviene per una certa assimilazione di colui che pensa all'oggetto pensato, per cui quest'ultimo deve essere presente in colui che pensa mediante una sua similitudine. L'amare invece provoca una certa mozione dell'amato su colui che ama: l'amato infatti attira a sé lo stesso amante. Perciò l'amore non si compie con la similitudine dell'amato, come invece la conoscenza si compie con la similitudine dell'oggetto inteso, ma si compie con l'attrazione dell'amante verso lo stesso amato. Ora, la trasmissione di una somiglianza avviene principalmente nella generazione univoca, quale si verifica nei viventi e nella quale colui che genera è chiamato padre e colui che è generato è chiamato figlio; e anche in essi la prima mozione avviene secondo uno spirito vitale. Perciò nella realtà divina, come il modo con il quale Dio è in Dio come pensato viene espresso chiamando Figlio il Verbo di Dio, così il modo con il quale Dio è in Dio come l'amato nell'amante viene espresso dicendo che vi è in Dio lo Spirito, che è l'Amore di Dio. Perciò secondo la regola della fede dobbiamo credere nello Spirito.

Capitolo 47

Lo Spirito che è in Dio è Santo

Avendo presente che il bene amato ha ragione di fine, e che il moto della volontà è reso buono o cattivo dal fine, ne segue che l'amore con il quale è amato il sommo bene, che è Dio, ha necessariamente una bontà eminente. Ora, questa bontà prende il nome di santità, sia che si intenda "santo" nel senso di "puro" secondo l'uso greco, dato che in Dio la bontà è purissima, esente da ogni difetto, sia che si intenda "santo" nel senso latino di "fermo", perché in Dio la bontà è immutabile. Per questa ragione anche tutto ciò che ha riferimento a Dio si dice "santo", come il tempio, i vasi del tempio e tutto ciò che è destinato al culto divino. Opportunamente quindi lo Spirito, per mezzo del quale viene infuso in noi l'amore con il quale Dio ama Dio viene chiamato Spirito Santo; e per questo motivo la regola della fede cattolica chiama "Santo" il predetto Spirito quando dice: "Credo nello Spirito Santo".

Capitolo 48

L'amore in Dio non comporta nulla di accidentale

Come il pensare di Dio è il suo stesso essere, così anche il suo amare è il suo essere. Di conseguenza Dio non ama se stesso per mezzo di qualcosa che sopravvenga alla sua essenza, ma secondo la sua essenza. Amando dunque se stesso secondo che Egli è in se stesso come l'amato è nell'amante, Dio amato non è in Dio amante in un modo accidentale (come le cose amate sono in un modo accidentale in noi amanti), ma Dio è in se stesso come l'amato nell'amante in modo sostanziale.

Quindi lo stesso Spirito Santo, per mezzo del quale viene infuso in noi l'amore, non è qualcosa di accidentale in Dio, ma è una realtà sussistente nell'essenza divina, come il Padre e il Figlio. Per questa ragione nella regola della fede cattolica viene insegnato che lo Spirito Santo deve essere adorato e glorificato insieme con il Padre e il Figlio.

Capitolo 49

Lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio

Bisogna ancora considerare che il pensare proviene dalla capacità intellettiva dell'intelletto, e quando l'intelletto pensa in atto l'oggetto pensato è presente nell'intelletto. Il fatto dunque che l'oggetto inteso sia in colui che intende procede dalla virtù intellettiva di quest'ultimo, e questo è il suo verbo, come si è detto. E similmente ciò che è amato è nell'amante in quanto è amato in atto. Ora, che una cosa sia amata in atto deriva e dalla capacità di amare di chi ama e dal bene amabile conosciuto dall'intelletto. Perciò che l'amato sia nell'amante proviene da due cose: dal principio che ama e dall'intelligibile appreso, cioè dall'idea concepita del bene amabile.

Siccome in Dio che pensa e ama se stesso il Verbo è il Figlio e Colui del quale è Verbo - come si è detto - è il Padre del Verbo, necessariamente lo Spirito Santo, che appartiene all'amore secondo che Dio è in se stesso come l'amato nell'amante, procede dal Padre e dal Figlio. Per cui nel Simbolo si dice: "che procede dal Padre e dal Figlio".

Capitolo 50

In Dio la Trinità delle Persone non ripugna all'unità dell'essenza

Da tutto quanto è stato detto finora dobbiamo concludere che in Dio vi è una Trinità, che tuttavia non ripugna all'unità e alla semplicità dell'essenza divina. Si deve infatti ammettere che Dio è, che esiste per la sua stessa natura, che conosce e ama se stesso. Ciò avviene però in modo diverso in Dio e in noi. Essendo infatti l'uomo nella sua natura una sostanza, mentre il suo pensare e amare non sono la sua sostanza, se si considera l'uomo secondo la sua natura esso è una realtà sussistente, ma se si considera ciò che vi è nel suo intelletto questo non è una realtà sussistente, ma l'idea di una realtà sussistente; e similmente in quanto l'uomo è in se stesso come l'amato nell'amante. Quindi, benché nell'uomo si possano considerare queste tre cose: l'uomo esistente nella sua natura, l'uomo esistente nel suo intelletto e l'uomo esistente nel suo amore, queste tre cose non sono una cosa sola, perché il suo pensare non è il suo essere e neppure lo è il suo amore. E di queste tre cose una sola è una realtà sussistente, cioè l'uomo esistente nella sua natura. In Dio invece essere, pensare e amare sono la stessa cosa. Perciò Dio esistente nel suo essere naturale, Dio esistente nel suo intelletto e Dio esistente nel suo amore sono una sola cosa, e tuttavia ognuna di esse è sussistente. E siccome le realtà sussistenti in una natura spirituale sono dette dai Latini persone e dai Greci ipostasi, per questa ragione i Latini parlano di tre Persone in Dio e i Greci di tre Ipostasi, cioè del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

Capitolo 51

Sembra esservi incompatibilità nel porre in Dio la Trinità delle Persone

Da quanto è stato detto sembra però sorgere una certa incompatibilità con la ragione. Se infatti si pone in Dio il numero ternario e si considera che ogni numero comporta una divisione, bisognerà porre in Dio una qualche differenza in forza della quale i Tre siano fra loro distinti; ma in questo modo non ci sarebbe più in Dio la somma semplicità. Se infatti i Tre in qualche cosa convengono e in qualche altra differiscono, vi sarebbe necessariamente una composizione, il che va contro a quanto è stato detto.

D'altra parte, se è necessario ammettere un solo Dio - come si è visto -, e se nessuna cosa può procedere da se stessa, sembra impossibile che vi sia un Dio generato o un Dio che procede. È dunque falso porre in Dio il nome del Padre e del Figlio e dello Spirito che procede da entrambi.

Capitolo 52

Soluzione dell'obiezione. In Dio non vi è distinzione che secondo le relazioni

Per risolvere questa difficoltà occorre avere presente il principio secondo cui in realtà diverse vi è un modo diverso di nascere o di procedere. Infatti nelle realtà prive di vita che non muovono se stesse, ma possono essere mosse solo dall'esterno, una cosa nasce da un'altra quasi alterata e mutata dall'esterno: come dal fuoco ha origine il fuoco e l'aria dall'aria. Nei viventi invece, la cui proprietà è di muovere se stessi, ciò che è generato è in colui che genera, come il feto degli animali e il frutto delle piante. Nei viventi poi bisogna considerare il diverso modo di nascere secondo la diversità delle loro potenze e delle loro operazioni. Vi sono infatti in loro delle potenze le cui operazioni si estendono solo ai corpi, essendo materiali, come appare nelle potenze dell'anima vegetativa, quali la capacità di nutrirsi, di crescere e di generare. Ora, secondo questo genere di potenze dell'anima vegetativa non si genera se non qualcosa di corporeo, fisicamente distinto e tuttavia in qualche modo congiunto nei viventi a ciò da cui deriva. Vi sono però alcune facoltà le cui operazioni, benché non trascendano i corpi, tuttavia si estendono alle "specie" dei corpi ricevendole senza materia, come avviene nelle facoltà dell'anima sensitiva: il senso infatti, come dice il Filosofo, è ricettivo delle forme senza la materia. Tali facoltà comunque, benché ricevano in certo qual modo le forme delle cose immaterialmente, tuttavia non le ricevono senza un organo corporeo. Se si trova dunque in queste facoltà dell'anima una qualche processione, ciò che è generato non sarà qualcosa di corporeo, o fisicamente congiunto o distinto da ciò da cui deriva, ma sarà qualcosa che procede in certo qual modo incorporalmente e immaterialmente, benché non senza l'aiuto di un organo corporeo. Così infatti negli animali nascono le forme delle realtà immaginate, che si trovano nell'immaginazione non come un corpo in un corpo, ma in un certo modo spirituale: per cui anche S. Agostino chiama "spirituale" la visione immaginaria.

Ora, se già nell'operazione dell'immaginazione viene originato qualcosa non in modo corporale, a maggior ragione ciò avviene nell'operazione della parte intellettiva, che nella sua operazione non ha bisogno di un organo fisico, essendo la sua operazione del tutto immateriale. Infatti il verbo procede secondo l'operazione dell'intelletto come esistente nell'intelletto di colui che lo dice, non però contenuto quasi localmente, né fisicamente separato, ma esistente in esso secondo la potenza dell'operazione naturale, e tuttavia distinto secondo l'ordine dell'origine. E la stessa cosa si può dire della processione che si verifica nell'operazione della volontà, secondo la quale, come si è detto sopra, la realtà amata è in colui che ama.

Ora, benché le facoltà intellettuali e sensitive secondo la loro natura siano più nobili di quelle dell'anima vegetativa, tuttavia nel caso degli uomini o degli animali nella processione della parte immaginativa o sensitiva non si genera niente di sussistente nella medesima specie, ma ciò si verifica solo nella processione propria della vita vegetativa: e questo perché nei composti di materia e forma gli individui di una stessa specie si moltiplicano secondo la loro specie per la divisione della materia. Per questa ragione negli uomini e negli altri animali, essendo essi composti di materia e forma, gli individui si moltiplicano nella medesima specie secondo la divisione corporale propria della processione che è secondo l'operazione dell'anima vegetativa, e non nelle altre operazioni dell'anima. Invece nelle realtà che non sono composte di materia e forma non vi può essere se non una distinzione "formale". Ma se la forma per la quale una cosa si distingue dalle altre è la sostanza di quella cosa, necessariamente la distinzione è quella delle realtà sussistenti; il che non accade se la forma non è la sostanza della cosa.

Da quanto abbiamo detto risulta chiaramente che è comune a ogni intelletto il fatto che quanto viene concepito dall'intelletto proceda in qualche modo da colui che pensa in quanto pensa, e che in forza di questa sua processione sia distinto da lui così come il concetto dell'intelletto - che è l'intentio pensata - si distingue dall'intelletto che pensa. E così pure è necessario che l'affetto dell'amante, per il quale l'amato è nell'amante, proceda dalla volontà dell'amante in quanto ama.

Ma è proprio dell'intelletto divino, il cui pensare è il proprio essere, che la concezione dell'intelletto, che è l'intentio pensata, sia la sua sostanza; e lo stesso si dica dell'amore in Dio stesso che ama. Resta dunque provato che l'intentio dell'intelletto divino, che è il suo Verbo, non si distingue da Colui che lo produce in ciò che è l'essere sostanza, ma solo secondo la relazione di processione dell'uno dall'altro. E la medesima cosa va detta dell'affezione amorosa in Dio che ama, che riguarda lo Spirito Santo.

Così è chiaro che niente proibisce al Verbo di Dio, che è il Figlio, di essere una sola cosa con il Padre quanto alla sostanza, e tuttavia di distinguersi da Lui secondo la relazione di processione, come si è detto. Per cui è evidente che una cosa non nasce né procede da se stessa, perché il Figlio procedendo dal Padre è da Lui distinto; e la stessa ragione vale dello Spirito Santo rispetto al Padre e al Figlio.

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30/06/2010 10:24
 
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Capitolo 53

Le relazioni per le quali si distinguono il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono reali e non solo di ragione

Queste relazioni per le quali il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo si distinguono a vicenda sono reali, e non solo di ragione. Le relazioni di ragione infatti sono quelle che non nascono da qualcosa che è nella natura delle cose, ma da qualcosa che è solo nella mente: come per una pietra la "destra" o la "sinistra" non sono relazioni reali, ma solo di ragione, perché non derivano da una proprietà reale esistente nella pietra, ma dal punto dal quale viene vista la pietra: ad es. è "a sinistra" perché è a sinistra di un animale. Per un animale invece la "sinistra" o la "destra" sono relazioni reali, perché provengono da determinate proprietà esistenti in determinate parti dell'animale.

Ora, essendo le predette relazioni per le quali si distinguono il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo realmente esistenti in Dio, tali relazioni devono essere reali e non soltanto di ragione.

Capitolo 54

Queste relazioni non sono accidentalmente inerenti all'essenza divina

Non è possibile d'altra parte che tali relazioni siano accidentalmente inerenti all'essenza divina, sia perché le operazioni alle quali seguono direttamente le relazioni sono la stessa sostanza di Dio, sia perché, come abbiamo già mostrato, in Dio non vi possono essere accidenti. Perciò, se le predette relazioni sono realmente in Dio, non possono inerire in modo accidentale, ma solo essere sussistenti. Come poi ciò che nelle altre cose è accidente possa trovarsi in Dio sostanzialmente, è manifesto da quanto è stato detto.

Capitolo 55

Per le predette relazioni viene costituita in Dio la distinzione delle Persone

Poiché in Dio la distinzione avviene per le relazioni, che non sopraggiungono a modo di accidenti, ma sono sussistenti, e poiché in ogni natura intellettuale la distinzione delle realtà sussistenti è personale, necessariamente in Dio la distinzione delle Persone è costituita dalle predette relazioni. Quindi il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo sono tre Persone, e similmente tre Ipostasi, perché "hypostasis" significa qualcosa di "sussistente e di completo".

Capitolo 56

È impossibile che in Dio vi siano più di Tre Persone

È impossibile che in Dio vi siano più di Tre Persone, non essendo possibile moltiplicare le divine Persone per divisione della sostanza, ma solo per la relazione di una qualche processione; e non di una qualsiasi processione, ma solo di quella che non termina a qualcosa di estrinseco. Se infatti la processione terminasse a qualcosa di estrinseco non avrebbe la natura divina, e quindi non potrebbe essere la Persona o l'Ipostasi divina. Ora, in Dio la processione che non termina all'esterno può essere considerata o secondo l'operazione intellettuale dalla quale procede il Verbo, o secondo l'operazione della volontà dalla quale procede l'Amore, come risulta chiaramente da quanto abbiamo detto. Non vi può essere dunque nessuna persona divina che procede se non come Verbo, che noi chiamiamo Figlio, o come Amore, che noi chiamiamo Spirito Santo.

Ancora. Poiché Dio con un solo intuito della sua intelligenza comprende tutte le cose, e similmente con un solo atto della sua volontà ama tutte le cose, è impossibile che in Dio vi siano più verbi o più amori: se quindi il Figlio procede come Verbo e lo Spirito Santo come Amore è impossibile che in Dio vi siano più Figli o più Spiriti Santi.

Parimenti. Perfetto è ciò al di fuori del quale nulla esiste: pertanto ciò che suppone al di fuori di sé un'altra realtà dello stesso genere non è perfetto in senso assoluto; per questo motivo le realtà che per la loro natura sono perfette in assoluto non sono moltiplicate numericamente: come Dio, il sole, la luna e altre cose del genere. Ma sia il Figlio che lo Spirito Santo sono in assoluto perfetti, essendo come si è visto entrambi Dio: dunque è impossibile che vi siano più Figli o più Spiriti Santi.

Inoltre, ciò per cui una realtà sussistente è distinta dalle altre non può essere moltiplicato numericamente, perché l'individuo non può essere predicato di molti. Ma per la filiazione il Figlio è questa Persona divina in sé sussistente e distinta dalle altre, così come per i principi individuanti Socrate è questa persona umana. Come dunque i principi individuanti per i quali Socrate è "questo uomo" non possono convenire che a uno solo, così la filiazione in Dio non può convenire che a uno solo. E la stessa cosa si può dire della relazione del Padre e dello Spirito Santo. È quindi impossibile che in Dio vi siano più Padri o Figli o Spiriti Santi.

Ancora. Le cose che sono uno per la forma non si moltiplicano numericamente se non per la materia: come la bianchezza si moltiplica perché si trova in molti soggetti. Ma in Dio non c'è materia. Così dunque, tutto ciò che è uno per specie o forma in Dio è impossibile che si moltiplichi numericamente. Ma tali sono la paternità, la filiazione e la processione dello Spirito Santo: è dunque impossibile che in Dio vi siano più Padri o Figli o Spiriti Santi.

Capitolo 57

Le proprietà o nozioni in Dio. Quante sono nel Padre

Stabilito in questo modo il numero delle Persone divine, è necessario che anche le proprietà delle Persone, per cui, si distinguono fra di loro, siano in un certo numero. Ora, esse convengono necessariamente al Padre: una per la quale si distingue dal solo Figlio, e questa è la paternità; una seconda per la quale si distingue da entrambi, cioè dal Figlio e dallo Spirito Santo, e questa è la innascibilità, perché il Padre non è Dio procedente da altro, mentre il Figlio e lo Spirito Santo procedono da un'altra Persona; la terza per la quale lo stesso Padre assieme al Figlio si distingue dallo Spirito Santo, e questa è chiamata spirazione comune.

Non è invece necessario assegnare una proprietà per la quale il Padre si distingua dal solo Spirito Santo perché, come si è detto, il Padre e il Figlio sono un unico principio dello Spirito Santo.

Capitolo 58

Le proprietà del Figlio e dello Spirito Santo. Quali e quante sono

Al Figlio convengono necessariamente due proprietà: una per cui si distingue dal Padre, ed è la filiazione; l'altra per cui assieme al Padre si distingue dallo Spirito Santo, ed è per la seconda volta la spirazione comune. Non è necessario invece assegnare una proprietà per la quale il Figlio si distingua dal solo Spirito Santo perché, come si è detto, il Figlio e il Padre sono uno stesso principio dello Spirito Santo. E così pure non è il caso di assegnare una proprietà per la quale lo Spirito Santo e il Figlio si distinguano assieme dal Padre: il Padre infatti si distingue da loro per un'unica proprietà, cioè per l'innascibilità, in quanto non procede. Siccome invece il Figlio e lo Spirito Santo procedono non con un'unica processione, ma con più processioni, ne viene che essi sono distinti dal Padre per due proprietà. Lo Spirito Santo infine ha una sola proprietà, per la quale si distingue simultaneamente dal Padre e dal Figlio e che è detta processione. Da quanto è stato detto appare poi chiara la ragione per cui non vi può essere una proprietà per la quale lo Spirito Santo si distingue dal solo Figlio o dal solo Padre.

Vi sono dunque cinque proprietà che vengono attribuite alle Persone, cioè l'innascibilità, la paternità, la filiazione, la spirazione comune e la processione.

Capitolo 59

Per quale ragione queste proprietà sono dette nozioni

Queste cinque proprietà possono essere dette nozioni perché per mezzo di esse noi possiamo conoscere in Dio la distinzione delle Persone; tuttavia queste cinque nozioni non possono essere dette proprietà se nel concetto di "proprietà" si considera "proprio" ciò che conviene a uno solo: infatti la spirazione comune conviene al Padre e al Figlio. Ma se noi intendiamo "proprio" di alcune cose ciò che è in riferimento ad altro, come l'uomo e l'uccello sono bipedi rispetto ai quadrupedi, niente proibisce di chiamare "proprietà" anche la spirazione comune.

Tuttavia, siccome in Dio le Persone si distinguono per le sole relazioni, mentre le nozioni consentono solo di conoscere la distinzione delle Persone, necessariamente tutte le nozioni appartengono in qualche modo alle relazioni. Di queste però quattro sono vere relazioni per le quali le Persone divine si trovano in rapporto reciproco; la quinta nozione invece, cioè l'innascibilità, appartiene sì alla relazione, ma come negazione della relazione: infatti le negazioni si riconducono al genere delle affermazioni e le privazioni al genere degli abiti, come il "non uomo" al genere dell'uomo ed il "non bianco" al genere della bianchezza.

È necessario tuttavia sapere che fra le relazioni per le quali le Persone sono in reciproco rapporto, alcune hanno un nome, come la paternità e la filiazione, che significano propriamente una relazione; altre invece non hanno un nome, e sono quelle relazioni per le quali il Padre e il Figlio sono in rapporto con lo Spirito Santo e lo Spirito Santo con loro: in questo caso al posto delle relazioni usiamo i nomi di origine. È infatti chiaro che la spirazione comune e la processione significano l'origine, ma non le relazioni che sono conseguenti all'origine. Il che invece si può arguire dalle relazioni del Padre e del Figlio. Generazione infatti significa l'origine attiva dalla quale deriva la relazione di paternità, mentre nascita significa l'origine passiva del Figlio dalla quale deriva la relazione di filiazione. Similmente dalla spirazione comune segue una relazione, e così dalla processione; siccome però queste relazioni non hanno nome, al posto dei nomi delle relazioni usiamo i nomi dei loro atti.
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30/06/2010 10:25
 
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Capitolo 60

Benché in Dio le relazioni sussistenti siano quattro, tuttavia non vi sono che Tre Persone

Dobbiamo ora considerare perché in Dio non vi possano essere, secondo il numero delle relazioni, quattro o cinque persone, pur costituendo le relazioni sussistenti, come si è visto, le Persone divine. Il numero infatti comporta una certa distinzione, poiché come l'unità è indivisibile o indivisa, così la pluralità è divisibile o divisa. Ora, per la pluralità delle Persone si richiede che le relazioni abbiano la forza distintiva a motivo dell'opposizione. Infatti la distinzione formale è data solo dall'opposizione. Se noi dunque esaminiamo le predette relazioni vediamo che la paternità e la filiazione hanno fra loro un'opposizione relativa e non sono compatibili in uno stesso soggetto: quindi la paternità e la filiazione sono necessariamente due Persone sussistenti. L'innascibilità invece è opposta sì alla filiazione, ma non alla paternità; per cui la paternità e l'innascibilità possono convenire a una sola e medesima Persona. Similmente la spirazione comune non è opposta né alla paternità né alla filiazione e neppure all'innascibilità. Nulla vieta quindi che la spirazione comune si trovi sia nella Persona del Padre che in quella del Figlio, e per questa ragione la spirazione comune non è una Persona sussistente distinta dal Padre e dal Figlio. La processione invece ha un'opposizione relativa alla spirazione comune per cui, convenendo la comune spirazione sia al Padre che al Figlio, la processione sussistente è una Persona distinta da quelle del Padre e del Figlio.

È allora chiaro perché non si possa dire che Dio è "quino" perché le nozioni sono cinque, ma bensì "Trino" per la Trinità delle Persone: le cinque nozioni non sono infatti cinque realtà sussistenti, mentre lo sono le Tre Persone.

Benché tuttavia più nozioni o proprietà convengano a una Persona, tuttavia solo una è costitutiva della Persona: infatti la Persona non è costituita quasi della composizione di più proprietà, ma per il fatto che la proprietà relativa sussistente è Persona: se quindi si dovessero intendere le diverse proprietà separatamente come per sé sussistenti, sarebbero più persone e non una. Bisogna dunque comprendere che di più proprietà o nozioni solo quella che procede secondo l'ordine della natura è costitutiva della Persona; le altre proprietà che convengono a una persona vanno invece comprese come inerenti alla Persona già costituita. È chiaro così che l'innascibilità non può essere la prima nozione del Padre che costituisce la sua persona, sia perché la negazione non costituisce nulla, sia perché secondo natura l'affermazione precede la negazione. E così la spirazione comune presuppone secondo l'ordine di natura la paternità e la filiazione; come pure la processione dell'Amore presuppone quella del Verbo, per cui nemmeno la spirazione comune può essere la prima nozione del Padre, e neppure del Figlio.

Di conseguenza bisogna dire che la prima nozione del Padre è la paternità, quella del Figlio è la filiazione, mentre dello Spirito Santo solo la processione è nozione. Si conclude perciò dicendo che tre sono le nozioni che costituiscono le Persone, vale a dire la paternità, la filiazione e la processione. E necessariamente queste nozioni sono anche proprietà: infatti ciò che costituisce una persona deve convenire solo a quella, dato che i principi individuanti non possono convenire a più di un oggetto. Per questa ragione le predette tre nozioni si chiamano "proprietà personali", come costituenti le persone nel modo predetto; le altre due vengono invece dette "proprietà o nozioni delle persone", e non personali, perché non costituiscono una persona.

Capitolo 61

Se si fa astrazione dalle proprietà personali non rimangono le ipostasi

Da ciò risulta che se si fa astrazione dalle proprietà personali non rimangono le ipostasi. Infatti nell'astrazione fatta dall'intelletto, separata la forma, resta il soggetto della forma: come astratto il bianco rimane la superficie, e fatta astrazione dalla superficie rimane la sostanza, e rimossa la forma resta la materia prima; se invece si rimuove il soggetto non resta niente. Ora, le proprietà personali sono le stesse Persone come sussistenti; né costituiscono le Persone come se si aggiungessero a dei soggetti preesistenti, perché in Dio niente di ciò che è detto in modo assoluto può essere distinto, ma solo ciò che è detto in modo relativo. Si può dunque concludere che se l'intelletto fa astrazione dalle proprietà personali non rimangono più le ipostasi; mentre invece se vengono rimosse le nozioni non personali le ipostasi distinte rimangono.

Capitolo 62

Rimosse con l'astrazione le proprietà personali rimane l'essenza divina

Se uno poi domandasse se, rimosse con l'astrazione dell'intelletto le proprietà personali, resti l'essenza divina, bisogna dire che secondo un aspetto l'essenza divina rimane e secondo un altro no.

Vi sono infatti per l'intelletto due modi di fare astrazione. Nel primo modo si astrae la forma dalla materia: e secondo questo modo si procede da ciò che è più formale a ciò che è più materiale: infatti ciò che è il primo soggetto rimane ultimo, mentre si rimuove per prima l'ultima forma. Nel secondo modo invece si astrae l'universale dal particolare seguendo in qualche modo l'ordine inverso: infatti prima sono rimosse le condizioni materiali individuanti per cogliere ciò che è comune. Ora, sebbene in Dio non vi sia materia né forma universale o particolare, vi è tuttavia ciò che è comune e ciò che è proprio, e vi è il supposito di una natura comune: infatti, secondo il nostro modo di intendere, le Persone sono paragonate all'essenza come i suppositi propri alla natura comune. Perciò secondo il primo modo con cui l'intelletto astrae, rimosse le proprietà personali, che sono le stesse Persone sussistenti, non rimane la natura comune, mentre invece l'essenza divina rimane nel secondo modo di astrarre.

Capitolo 63

Il rapporto degli atti personali rispetto alle proprietà personali

Da quanto è stato detto appare chiaro quale sia l'ordine, secondo l'intelletto, tra gli atti personali e le proprietà personali. Le proprietà personali infatti sono le Persone sussistenti. Ora, la persona sussistente, in qualsiasi natura, agisce comunicando la propria natura in virtù della propria natura: infatti la forma di una specie è il principio della generazione di ciò che è simile secondo la specie. Siccome dunque gli atti personali appartengono alla comunicazione della natura divina, bisogna che la Persona sussistente comunichi la natura comune in virtù della stessa natura.

Da ciò si possono trarre due conseguenze. La prima è che la potenza generativa nel Padre è la stessa natura divina: infatti qualsiasi potenza di agire è il principio in virtù del quale qualcosa è fatto. La seconda è che l'atto personale, cioè la generazione, secondo il nostro modo di intendere, presuppone e la natura divina e la proprietà personale del Padre, che è l'ipostasi stessa del Padre, benché tale proprietà, in quanto relazione, sia conseguente all'atto. Ragione per cui, se si considera nel Padre la Persona sussistente si può dire: perché è Padre genera; se invece si considera la relazione sembra di dover dire il contrario: è Padre perché genera.

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30/06/2010 10:26
 
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Capitolo 64

Come bisogna intendere la generazione rispetto al Padre e rispetto al Figlio

Bisogna tuttavia sapere che la generazione attiva rispetto alla paternità deve essere intesa in un modo diverso dalla generazione passiva o nascita rispetto alla filiazione. Infatti la generazione attiva presuppone, secondo l'ordine della natura, la persona del generante, mentre la generazione passiva o nascita, secondo l'ordine della natura, precede la persona generata, dato che la persona generata ha l'essere dalla nascita. Così dunque, secondo il nostro modo di intendere, la generazione attiva presuppone la paternità in quanto è costitutiva della Persona del Padre; la nascita invece non presuppone la filiazione in quanto è costitutiva della Persona del Figlio, ma, secondo il nostro modo di intendere, la precede in entrambi i modi, sia in quanto è costitutiva della Persona, sia in quanto è relazione. E allo stesso modo dobbiamo comprendere ciò che riguarda la processione dello Spirito Santo.

Capitolo 65

Come gli atti nozionali non differiscono dalle Persone se non secondo una distinzione di ragione

Dal rapporto stabilito fra gli atti nozionali e le proprietà nozionali non segue che gli atti nozionali differiscano dalle proprietà personali realmente, ma solo secondo il nostro modo di intendere; come infatti il pensare di Dio è lo stesso Dio che pensa, così la generazione del Padre è lo stesso Dio che genera, benché sia indicato in modo diverso. Similmente, sebbene una sola Persona abbia più nozioni, non vi è tuttavia in essa alcuna composizione: l'innascibilità infatti, essendo una proprietà negativa, non può comportare alcuna composizione. Le due relazioni poi che sono nella Persona del Padre, cioè la paternità e la spirazione comune, sono identiche nella realtà in quanto sono riferite alla Persona del Padre: come infatti la paternità è lo stesso Padre, così anche la spirazione comune nel Padre è il Padre e nel Figlio è il Figlio. Differiscono invece tra di loro secondo le Persone a cui si riferiscono: infatti per la paternità il Padre si trova in relazione con il Figlio e per la spirazione comune con lo Spirito Santo; e similmente il Figlio per la filiazione è in relazione con il Padre e per la spirazione comune con lo Spirito Santo.

Capitolo 66

Le proprietà relative sono la stessa essenza divina

Bisogna ancora dire che le proprietà relative sono la stessa essenza divina. Infatti le proprietà relative sono le stesse Persone sussistenti; ma la Persona sussistente, in Dio, non può essere altro che la divina essenza, la quale è lo stesso Dio, come si è visto sopra; per cui si deve concludere che le proprietà relative sono identiche all'essenza divina.

Ancora. Tutto ciò che è in un altro al di fuori della sua essenza inerisce in modo accidentale; ma in Dio non vi può essere alcun accidente, come si è dimostrato: perciò le proprietà relative non sono nella realtà qualcos'altro dall'essenza divina.

Capitolo 67

Le relazioni non sono qualcosa di aggiunto dall'esterno, come hanno detto i Porretani

Non si può tuttavia dire che le predette proprietà non siano nelle Persone, ma siano ad esse aggiunte dall'esterno, come dissero i Porretani. Infatti nelle cose che sono tra loro in relazione le relazioni devono essere reali: come è evidente nelle creature, nelle quali le relazioni reali sono come accidenti nei soggetti. Ora, come si è visto, in Dio queste relazioni per le quali si distinguono le Persone sono relazioni reali, per cui è necessario che siano nelle Persone divine, non però come accidenti. Infatti anche altre cose che nelle creature sono accidenti, trasferite in Dio perdono il loro carattere di accidenti, come la sapienza, la giustizia e altro, come si è visto sopra.

Inoltre in Dio non vi può essere distinzione se non per le relazioni: infatti tutto ciò che si dice in modo assoluto è comune alle Persone. Se quindi le relazioni fossero esterne alle Persone non resterebbe nelle stesse Persone alcuna distinzione. Le proprietà relative sono dunque nelle Persone, così tuttavia da essere le stesse Persone e anche la stessa essenza divina. Allo stesso modo infatti si dice che la sapienza e la bontà sono in Dio e sono lo stesso Dio e l'essenza divina, come si è detto sopra.

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12/05/2012 09:11
 
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L'ERESIA
 San Tommaso, Summa Theologiae, Seconda parte, Le azioni umane, La fede, L'eresia, Se l'eresia sia una delle specie dell'incredulità, Questione 11, Articolo 1
[2] Op. cit., Questione 11, Articolo 2
[3] Op. cit., Questione 11, Articolo 3
[4] Op. cit., Questione 11, Articolo 4

«Sembra che l'eresia non sia una delle specie dell'incredulità. Infatti: L'incredulità, come abbiamo visto, risiede nell'intelletto. Invece l'eresia non sembra appartenere all'intelletto, ma alla volontà. Scrive infatti S. Girolamo: "Eresia in greco significa elezione, o scelta, per il fatto che ognuno sceglie con essa l'opinione che considera migliore". Ora, l'elezione è un atto della volontà, come sopra abbiamo dimostrato. Dunque l'eresia non è una specie di incredulità». «Un vizio viene specificato soprattutto dal fine. Infatti il Filosofo ha scritto, che "chi commette adulterio per rubare, è più ladro che adultero". Ma l'eresia ha come suo fine un vantaggio temporale e specialmente il dominio e la gloria, che rientrano nel vizio della superbia, o della cupidigia. Infatti S. Agostino afferma che "eretico è colui che produce,...

... o segue opinioni nuove e false, spinto da un vantaggio temporale, e specialmente dal desiderio della propria gloria e del proprio dominio". Dunque l'eresia non è una specie dell'incredulità, ma della superbia».

«L'incredulità, essendo nell'intelletto, non può appartenere alla carne. Invece l'eresia, a detta dell'Apostolo, è tra le opere della carne: "Ora le opere della carne è manifesto quali sono: fornicazione, impurità... divisioni, sette". E queste ultime si identificano con le eresie. Dunque l'eresia non è una specie di incredulità».

«IN CONTRARIO: La falsità si contrappone alla verità. Ma "l'eretico è colui che produce, o segue opinioni nuove e false". Quindi l'eresia si oppone alla verità, su cui invece poggia la fede. Perciò essa rientra nell'incredulità».

«RISPONDO: Il termine eresia implica l'idea di scelta, come si è visto. E la scelta, o elezione, ha per oggetto i mezzi, presupponendo già stabilito il fine, stando alle spiegazioni date. Ora, nel credere il volere accetta una data verità quale bene suo proprio, come sopra abbiamo visto. Infatti la verità principale ha natura di ultimo fine; mentre le verità secondarie hanno natura di mezzi. E quando si aderisce alle parole di qualcuno, la cosa principale, e quasi finale, in ogni atto di fede è proprio colui alla cui parola si crede: sono invece secondarie le cose di cui si occupa in codesta adesione. Perciò chi ha in pieno la fede cristiana aderisce a Cristo con la propria volontà nelle cose che riguardano la sua dottrina. E quindi uno può deviare dalla fede cristiana in due maniere. Primo, rifiutandosi di aderire a Cristo: e costui in qualche modo è mal disposto verso il fine medesimo. E si ha così quella specie di incredulità che è propria dei pagani e degli Ebrei. Secondo, perché, pur volendo aderire a Cristo, uno sbaglia nella elezione dei mezzi: poiché non sceglie le verità che sono state realmente insegnate da Cristo, ma cose a lui suggerite dalla propria intelligenza. Perciò l'eresia è la specie di incredulità propria di coloro che, professando la fede di Cristo, ne corrompono i dogmi».

«SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: L'elezione sta all'incredulità, come la volontà sta alla fede, secondo le spiegazioni date».

«I vizi ricevono la loro specie dal fine prossimo, ma nel fine remoto essi hanno il loro genere e la causa. Quando uno, p. es., commette adulterio per rubare, si ha in questo una specie di adulterio, desunta dal fine immediato e dall'oggetto; ma dal fine ultimo risulta che l'adulterio è nato dal furto, e da questo dipende come effetto dalla causa, e come specie dal suo genere. Ciò fu chiarito nel trattato precedente sugli atti umani in generale. Parimente, nel caso nostro il fine prossimo dell'eresia è l'attaccamento alle proprie false idee: e di qui essa riceve la sua specie. Ma dal fine remoto risulta quale è la sua causa: essa cioè nasce dalla superbia o dalla cupidigia».

«Come eresia viene da scegliere (a??e??), così setta viene da sectari (seguire), secondo la spiegazione di S. Isidoro. Perciò eresia e setta sono la stessa cosa. E appartiene alle opere della carne, non per il rapporto di questo atto di incredulità col suo oggetto prossimo, ma in rapporto alla sua causa: la quale è, o il desiderio di un fine disonesto, nascendo esse dalla superbia o dalla cupidigia, come abbiamo detto; oppure è un'illusione fantastica, la quale, a detta del Filosofo, può essere causa di errore. E la fantasia stessa in qualche modo appartiene alla carne, in quanto i suoi atti sono dovuti a un organo corporeo». [1]

***

«SEMBRA che l'eresia propriamente non abbia per oggetto le cose di fede. Infatti: Come nota S. Isidoro, le eresie esistono tra i cristiani come un tempo esistevano tra gli Ebrei e tra i farisei. Ma il dissidio tra costoro non aveva per oggetto le cose di fede. Perciò l'eresia non ha come proprio oggetto cose di fede».

«Materia di fede sono le cose credute. Invece le eresie non si fermano alle sole cose, ma riguardano le parole, e le interpretazioni della Sacra Scrittura. Infatti S. Girolamo afferma, che "chiunque intende la Scrittura in un senso diverso da quello inteso dallo Spirito Santo, che ne è l'autore, anche se non si allontana dalla Chiesa, si può chiamare eretico". E altrove egli dice, che "dalle parole inconsiderate nascono le eresie". Dunque l'eresia propriamente non riguarda le materie di fede».

«Anche ai Santi Dottori capita di dissentire in cose di fede: così avvenne a S. Girolamo e a S. Agostino, p. es., a proposito della cessazione delle osservanze legali. E tuttavia ciò non implica un peccato di eresia. Perciò l'eresia non ha per oggetto propriamente le cose di fede».

«IN CONTRARIO: S. Agostino così scriveva contro i Manichei: "Nella Chiesa di Cristo sono eretici coloro i quali abbracciano qualche idea corrotta o cattiva, e corretti resistono con ostinazione, rifiutandosi di emendare i loro insegnamenti pestiferi e mortiferi, insistendo a difenderli". Ora, gli insegnamenti pestiferi e mortiferi sono precisamente quelli contrari ai dogmi della fede, mediante la quale, a detta di S. Paolo, "il giusto vive". Dunque l'eresia ha per oggetto suo proprio le cose di fede».

«RISPONDO: Parliamo qui dell'eresia in quanto implica una corruzione della fede cristiana. Ora, alla corruzione della fede cristiana non importa nulla, se uno ha una falsa opinione in cose estranee alla fede, p. es., in geometria o in altri campi; ma solo quando uno ha una falsa opinione sulle cose riguardanti la fede. E una cosa può appartenere alla fede in due modi, come sopra si è detto: primo, in maniera diretta e principale, come gli articoli di fede; secondo, in maniera indiretta e secondaria, come quelle asserzioni dalle quali deriva la negazione di qualche articolo. Ebbene, in tutti e due codesti casi una cosa può essere oggetto dell'eresia, come può esserlo della fede».

«SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: Come le eresie degli Ebrei e dei farisei riguardavano certe opinioni attinenti al giudaismo e al fariseismo, così le eresie dei cristiani riguardano cose attinenti alla fede di Cristo».

«Si dice che uno espone la Scrittura diversamente da quanto intendeva lo Spirito Santo, quando le fa dire con la sua interpretazione cose contrarie a quanto lo Spirito Santo ha rivelato. Perciò sta scritto dei falsi profeti, che "persistevano a confermare il discorso", usando cioè false interpretazioni della Scrittura. - Parimente, uno professa la sua fede con le parole che proferisce: infatti la confessione è, come abbiamo detto, un atto di fede. Perciò un parlare inconsiderato sulle cose di fede può dar luogo a una corruzione della fede. Ecco perché S. Leone Papa scriveva: "Poiché i nemici della croce di Cristo spiano tutte le nostre parole e tutte le nostre sillabe, non dobbiamo dare neppure la più piccola occasione di supporre che noi ci esprimiamo nel senso di Nestorio"».

«Rispondiamo con S. Agostino: "Se uno difende senza animosità e senza ostinazione la propria opinione, sia pure falsa e perversa, e cerca con la dovuta sollecitudine la verità, pronto a seguirla quando la trova, non si può annoverare tra gli eretici": perché non ha la determinazione di contraddire l'insegnamento della Chiesa. E in tal senso alcuni Santi Dottori furono in disaccordo, o su questioni che per la fede sono indifferenti; oppure su cose riguardanti la fede, ma che la Chiesa non aveva ancora determinato.Sarebbe invece un eretico chi si opponesse ostinatamente a una simile definizione, quando fossero state determinate dall'autorità della Chiesa universale. E questa autorità risiede principalmente nel Sommo Pontefice. Nei canoni infatti si legge: "Tutte le volte che si tratta della fede penso che tutti i vescovi nostri confratelli debbano ricorrere a nessun altro che a Pietro, cioè a chi detiene la sua autorità". E contro l'autorità del Pontefice, né S. Agostino, né S. Girolamo, né altri Santi Dottori, osarono difendere la propria sentenza. Scrive infatti S. Girolamo: "Questa è la fede, o Beatissimo Padre, che abbiamo appreso nella Chiesa Cattolica. E se nella nostra formulazione abbiamo detto o posto qualche cosa di inesatto o di avventato, desideriamo di essere corretti da te, che possiedi la fede e la cattedra di Pietro. Ma se questa nostra confessione è approvata dal tuo giudizio apostolico, chiunque vorrà accusarmi dimostrerà di essere ignorante o malevolo; oppure non cattolico, ma eretico"». [2]

***

«SEMBRA che gli eretici debbano essere tollerati. Infatti: L'Apostolo ammonisce: "Un servo del Signore deve essere mansueto, tale che con mitezza ammaestri quelli che si oppongono alla verità, se mai conceda loro Iddio il pentimento per riconoscere la verità, e ritornino in sé liberandosi dai lacci del diavolo". Ora, se gli eretici non sono tollerati, ma messi a morte, si toglie loro la possibilità di pentirsi. Dunque la loro uccisione è contro il comando dell'Apostolo».

«Si deve tollerare ciò che nella Chiesa è necessario. Ma nella Chiesa le eresie sono necessarie; infatti l'Apostolo scrive: "Bisogna che vi siano le eresie, perché diventino riconoscibili tra voi quelli degni di approvazione". Quindi gli eretici devono essere tollerati».

«Il Signore ha comandato ai servi della parabola di permettere alla zizzania di crescere fino alla mietitura, cioè fino alla fine del mondo, stando alla spiegazione del testo. Ma i Santi Padri ci dicono nelle loro esposizioni che la zizzania sono gli eretici. Dunque gli eretici vanno tollerati».

«IN CONTRARIO: L'Apostolo insegna: "L'uomo eretico, dopo una o due ammonizioni, evitalo, sapendo che un uomo siffatto è perduto"».

«RISPONDO: A proposito degli eretici si devono considerare due cose: una che proviene da essi; l'altra che è presente alla Chiesa. Da essi proviene un peccato, per il quale hanno meritato non solo di essere separati dalla Chiesa con la scomunica, ma di essere tolti dal mondo con la morte. Infatti è ben più grave corrompere la fede, in cui risiede la vita delle anime, che falsare il danaro, con cui si provvede alla vita temporale. Perciò, se i falsari e altri malfattori sono subito messi a morte giustamente dai principi; a maggior ragione e con giustizia potrebbero essere non solo scomunicati, ma uccisi gli eretici, appena riconosciuti colpevoli di eresia. Alla Chiesa invece è presente la misericordia, che tende a convertire gli erranti. Essa perciò non condanna subito, ma "dopo la prima e la seconda ammonizione", come insegna l'Apostolo. Dopo di che, se l'eretico rimane ostinato, la Chiesa, disperando della sua conversione, provvede alla salvezza degli altri, separandolo da sé con la sentenza di scomunica; e finalmente lo abbandona al giudizio civile, o secolare, per toglierlo dal mondo con la morte. Scrive infatti S. Girolamo: "La carne marcita deve essere tagliata, e la pecora rognosa va allontanata dal gregge, affinché non arda, non si corrompa, non imputridisca, e non muoia tutto: casa, pasta, corpo e gregge. Ario in Alessandria era una scintilla: ma poiché non fu subito soffocato, le sue fiamme hanno devastato tutto il mondo"».

«SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: La mitezza ricordata vuole che l'eretico sia ammonito una, o due volte. Ma se non vuole ravvedersi, deve considerarsi perduto, secondo le parole dell'Apostolo».

«Il vantaggio proveniente dalle eresie è estraneo all'intenzione degli eretici: vantaggi che sono la riprova della costanza dei fedeli, come accennava l'Apostolo; e lo stimolo a uno studio più accurato della Sacra Scrittura, come dice S. Agostino. Invece è intenzione degli eretici corrompere la fede, che è un danno gravissimo. Perciò si deve considerare di più ciò che rientra direttamente nella loro intenzione, e che porta a eliminarli; di quanto non si debbono tenere presenti cose preterintenzionali, che consigliano di sopportarli».

«Come si dice nei Canoni, "una cosa è la scomunica, e un'altra è l'eliminazione. Infatti uno viene scomunicato, "perché il suo spirito sia salvo nel giorno del Signore", secondo le parole dell'Apostolo". - Anzi, neppure l'eliminazione radicale dell'eretico mediante la morte può dirsi contraria a quel comando del Signore, che deve intendersi di quei casi in cui non è possibile estirpare la zizzania, senza estirpare anche il frumento: come abbiamo spiegato sopra parlando dei miscredenti in generale». [3]

***

«SEMBRA che la Chiesa debba accogliere sempre chi lascia l'eresia. Infatti: In Geremia il Signore così parla: "Tu hai fornicato con molti amanti; ma pure torna a me, e io ti riceverò". Ma il giudizio della Chiesa è il giudizio di Dio, stando alle parole del Deuteronomio: "Ascoltate l'umile come il potente, e non guardate alla persona di alcuno; perché deve essere il giudizio di Dio". Perciò anche se uno ha fornicato con l'incredulità, che è una fornicazione spirituale, deve essere accolto senz'altro».

«Il Signore comandò a S. Pietro di perdonare al fratello che pecca non sette volte soltanto, "ma fino a settanta volte sette". Il che significa, a detta di S. Girolamo, che si deve perdonare tutte le volte che uno pecca. Quindi tutte le volte che uno pecca ricadendo nell'eresia, la Chiesa deve accoglierlo».

«L'eresia è una specie di incredulità. Ora, la Chiesa accoglie gli altri increduli che vogliono convertirsi. Dunque deve accogliere anche gli eretici».

«IN CONTRARIO: Si legge nelle Decretali, che "se uno dopo aver abiurato l'errore, si scopre che è ricaduto nell'eresia, deve essere consegnato al giudizio secolare". Perciò la Chiesa non deve accoglierlo».

«RISPONDO: La Chiesa, secondo il comando del Signore, deve estendere a tutti la sua carità, non solo agli amici, ma anche ai nemici e ai persecutori, stando alle parole evangeliche: "Amate i vostri nemici, fate del bene a chi vi odia". Ora, la carità richiede che si voglia e si compia del bene al prossimo: Ma il bene è di due specie. Uno è spirituale, cioè la salvezza dell'anima, che la carità principalmente ha di mira: tutti infatti con la carità devono volere questo bene agli altri. Perciò da questo lato gli eretici pentiti, per quante volte siano ricaduti, devono essere accolti dalla Chiesa col perdono, che apre ad essi la via della salvezza. L'altro bene invece è oggetto della carità in modo secondario: esso è un bene temporale, come la vita corporale, i beni materiali, il buon nome, e le dignità ecclesiastiche o secolari. Questo bene infatti non siamo tenuti a volerlo agli altri in forza della carità, se non in ordine alla salvezza eterna di loro stessi, o di altri. Perciò se l'esistenza di qualcuno di tali beni in un dato individuo potesse impedire la salvezza eterna di molti, la carità non ci obbligherebbe a volergli codesto bene, ma piuttosto a volerne la privazione: sia perché la salvezza eterna va preferita al bene temporale; sia perché il bene di molti va preferito a quello di uno solo. Ora, se gli eretici pentiti venissero accolti, così da conservare la vita e gli altri beni temporali, questo finirebbe col pregiudicare la salvezza degli altri: sia perché ricadendo ancora corromperebbero gli altri; sia anche perché restando essi impuniti, altri potrebbero cadere più facilmente nell'eresia. Si legge infatti nell'Ecclesiaste: "poiché non subito si fa giustizia dei malvagi, perciò senza timore alcuno gli uomini commettono il male". Ecco perché la Chiesa non solo accoglie col perdono quelli che per la prima volta tornano dall'eresia, ma li lascia in vita; e talora con delle dispense li reintegra nelle dignità ecclesiastiche precedenti, se appaiono realmente convertiti. E sappiamo dalla storia che questo è avvenuto spesso, per amore della pace. Ma quando i pentiti ricadono di nuovo, mostrano incostanza nella loro fede. Perciò, se si ravvedono, vengono accolti col perdono, ma non liberati dalla pena di morte».

«SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Nel giudizio di Dio i pentiti sono sempre perdonati: perché Dio scruta i cuori e conosce quelli che sono veramente pentiti. Ma la Chiesa in questo non può imitarlo. E quindi deve presumere che non siano veramente pentiti quelli che, una volta perdonati, sono di nuovo ricaduti. Ecco perché senza negare loro la salvezza eterna, non li libera dal pericolo della morte».

«Il Signore parla così a Pietro dei peccati commessi personalmente contro di lui, e che uno deve sempre perdonare al fratello pentito. Ma le sue parole non vanno applicate ai peccati commessi contro il prossimo, o contro Dio, che, a detta di S. Girolamo, "non spetta a noi perdonare". Ma per questi la misura è stabilita dalla legge, conforme all'onore di Dio e al bene del prossimo».

«Gli altri increduli che non hanno mai ricevuto la fede, nel convertirsi non mostrano dei segni di incostanza nella fede, come gli eretici recidivi. Perciò il paragone non regge». [4]

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