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VANTAGGI E SVANTAGGI PER CREDENTI E NON CREDENTI

Ultimo Aggiornamento: 07/02/2019 12:12
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09/06/2011 14:34
 
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I credenti che desiderano essere coerenti, sono chiamati a vivere secondo la legge morale, in particolare osservando i Comandamenti e cercando di acquisire le virtù, il che richiede anche un certo sforzo personale; questo, da una parte costituisce un impegno non trascurabile perchè occorre una vigilanza e una lotta costante contro i propri impulsi, il proprio carattere, i condizionamenti e gli orientamenti della società; dall'altra parte però conferisce una progressiva padronanza sulle proprie istintività e la conquista di una serenità interiore, anche quando vi fossero delle cadute lungo il percorso di maturazione, perchè consapevoli della misericordia di Dio.
Questa pace interna, nonostante le possibili ed anzi immancabili avversità esterne, è sicuramente un grande vantaggio, ancor più perchè il credente crede e spera che al termine di questi combattimenti spirituali, che rendono più forti nell'affrontare positivamente le tante condizioni spesso sfavorevoli della quotidianità, saranno alla fine anche coronati dall'abbraccio di Colui per amore del quale hanno combattuto, e che li farà partecipi di una eredità eterna.
In ultima analisi un non trascurabile vantaggio per la vita presente, a prescindere dalla esistenza o meno di una vita futura.

Il non credente, è vero, ritenendo di non dover necessariamente osservare nessuna norma morale (anche se molti hanno un proprio codice morale anche più impegnativo di quello dei credenti) può essere più disinibito in tutto quello che fa senza il bisogno di fare rinunce o abbracciare sacrifici o rispettare un qualsiasi precetto per dovere di coscienza. 
Questo potrebbe sembrare un vantaggio notevole e molti non credenti si concedono tranquillamente ogni genere di piacere, lecito o illecito (per i non credenti ogni cosa in linea generale può essere lecita), arrivando anche ad eccessi sregolati, fino al limite estremo. 
Sembra quindi ad una osservazione superficiale, che essi si godano la vita, che vivano nella tranquillità della coscienza e senza inibizioni. 
Accade però molto spesso che ogni brama non frenata ma alimentata, divenga sempre più pressante e imperiosa tanto da aumentare il suo dominio sulla volontà. Non è raro, salvo ovviamente delle eccezioni, che si cada in un vortice di vizi che possono  rendere schiavi e condurre a situazioni di estremo pericolo per la vita.
Non solo. Ma provoca uno stato di malessere interiore,  almeno per chi avverte comunque il richiamo della propria coscienza, che si fa sentire.
E poi la non tranquilla aspettativa dell'eventuale giudizio finale, che rimane in ogni caso una possibilità che ognuno che abbia un minimo di ragionevolezza, dovrebbe mettere in debito conto.
Nella mente del non credente si potrebbe far strada il timore di dover rendere conto a "Qualcuno" della propria vita disordinata.
Tutto questo costituisce quindi una pena in questa vita, e una aspettativa temibile per l'altra, a prescindere se si viva nei piaceri oppure no.
In conclusione una serie di svantaggi per la vita presente dei non credenti, a prescindere dalla esistenza di una vita futura.

Ma ciò che potrebbe rappresentare il vantaggio o lo svantaggio di gran lunga più importante per la vita di ognuno è  l'esistenza effettiva di una vita ultraterrena:
Il credente che avesse vissuto coerentemente e si trovasse un giorno di fronte al Creatore, oltre ai vantaggi presenti otterrebbe anche quelli di una eterna felicità. Invece il non credente che avesse vissuto in opposizione e rifiuto di Dio fino al suo ultimo istante di vita, oltre agli svantaggi summenzionati avrebbe la tragica e irrimediabile eterna infelicità, perchè solo con Dio si può essere felici.  
   Pertanto se vogliamo calcolare bene e soppesare vantaggi e svantaggi della vita presente e futura, dobbiamo concludere che è molto più avveduto essere credenti coerenti, anzichè scegliere di vivere come se Dio non ci fosse, soprattutto alla luce di un logico calcolo matematico che pone l'esistenza di Dio come altamente probabile e la sua inesistenza come altamente improbabile, alla luce di approfondite osservazioni scientifiche. (vedasi il seguente argomento:
http://freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=9092291 

    Non sciupiamo perciò il tempo di cui disponiamo, utilizzandolo per fare la scelta azzeccata, che oltre a renderci felici nel presente  ci introduce alla felicità più piena e senza fine.

Una volta gli apostoli chiesero al Maestro:
Mat 19,27 ... «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne otterremo?».

Mat 19,28 E Gesù disse loro: «In verità vi dico:...
29 Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna. 

La Scrittura contiene anche altre citazioni che dovrebbero farci comprendere che i CREDENTI sono avvantaggiati proprio grazie alla loro fede in Dio.

Prov 3,7 Non credere di essere saggio, temi il Signore e stà lontano dal male. 8 Salute sarà per il tuo corpo e un refrigerio per le tue ossa.

Prov 4,20 Figlio mio, fà attenzione alle mie parole, porgi l'orecchio ai miei detti; 
21 non perderli mai di vista, custodiscili nel tuo cuore, 
22 perché essi sono vita per chi li trova e salute per tutto il suo corpo.  

Cosa gioverebbe all'uomo aver acquistato anche tutto il mondo ma perdesse la sua anima? 

Riflettiamo bene su questo monito fatto da Cristo e che interpella ciascuno di noi.
[Modificato da Coordin. 22/08/2012 16:24]
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09/06/2011 14:35
 
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In questa sezione, che si prefigge di evidenziare i vantaggi per chi crede rispetto a chi purtroppo non è credente per una serie di motivi che non sta a noi giudicare,  riporteremo anche diversi studi scientifici a carattere statistico, che indicano una stretta correlazione tra la salute psico-fisica e la fede.


Rimandiamo a questo collegamento per controllare le fonti:

http://www.uccronline.it/2010/08/10/la-fede-cristiana-rende-piu-felici-intelligenti-e-sani-psico-fisicamente /


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Secondo una metanalisi i cristiani vivono meglio e più a lungo

Un nuovo studio scientifico, intitolato “Health benefits of Christian faith”, indica che coloro che credono in Dio vivono generalmente una vita più sana, ma possono anche più frequentemente vivere 14 anni in più. Lo hanno rilevato ricercatori inglesi del Christian Medical Fellowship (un ente che riunisce 4350 medici e ricercatori e 980 studenti di medicina) attraverso una metanalisi (cioè lo studio di tutte le ricerche pubblicate su un certo argomento).

L’81% degli studi pubblicati dimostra che i cristiani affrontano meglio la malattia, recuperano più velocemente e sono maggiormente protetti da malattie future. I Drs. Bunn Alex e David Randall hanno dichiarato: «La ricerca pubblicata suggerisce che la fede è associata ad una maggiore durata della vita e a una vasta gamma di benefici per la salute. In particolare, la fede è associata ad una migliore salute mentale». L’analisi si è basata su più di 1.200 studi e 400 recensioni. Questi benefici sono riassumibili in: benessere psicofisico, felicità e soddisfazione di vita, speranza e ottimismo, scopo e significato nella vita, maggiore autostima, migliore adattamento al lutto, maggiore sostegno sociale e meno solitudine, tassi inferiori di depressione e più veloce recupero, tassi più bassi di suicidio, meno ansia, meno psicosi e meno tendenze psicotiche, tassi più bassi di alcol e droga, meno delinquenza e criminalità, maggiore e soddisfatta stabilità coniugale.

Il Rev. Ewan Aitken, della Chiesa di Scozia, ha commentato dicendo: «queste conclusioni sottolineano che l’esperienza religiosa è positiva. Se lo si vede in termini di atteggiamenti di vita e l’affronto delle difficoltà, penso che ci sia una chiara connessione tra la fede e la buona salute». La notizia è ripresa da Times of India e News.scotsman.

[Modificato da Credente 02/05/2012 22:28]
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10/11/2011 21:55
 
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University of Missouri:

chi è religioso ha migliore salute mentale e fisica

Essere Cristiani e praticanti aiuterebbe nel momento del bisogno. Detto così potrebbe sembrare una banalità ma indubbiamente non lo è se ad evidenziarlo è uno studio dei ricercatori dell’Università del Missouri pubblicato sull’autorevole “Journal of Religion, Disability & Health”.

Il gruppo di ricercatori di psicologia della salute ha infatti constatato con entusiasmo come gli ultimi risultati ottenuti confermino per l’ennesima volta l’idea che «la religione possa aiutare ad attenuare le conseguenze negative derivanti da un male cronico». Lo studio ha evidenziato come la frequenza ad attività religiose e spirituali è associata ad una migliore salute mentale per le donne e mentale e fisica per gli uomini affetti da una malattia cronica o disabilità.

Per le prime, il miglioramento è collegato a esperienze di spiritualità e perdono quotidiano, che suggerisce implicitamente come vivere anche in semplice coerenza con il Vangelo, toccando la pienezza misericordiosa della fede aiuti nel lungo e doloroso percorso contro le patologie croniche. Per gli uomini –evidenzia la ricerca- un ruolo primario è costituito dal supporto pastorale e della comunità.

Dai risultati dello studio, emerge anche, in contrasto con quanto sostenuto da altre pubblicazioni,  che entrambi i sessi approfondiscono l’esperienza di fede e comunitaria in egual misura, nonostante gli uomini siano mediamente considerati meno “religiosi” o “spirituali” delle donne. «Per quanto le donne sono generalmente più religiose o spirituali degli uomini, abbiamo constatato come entrambi possano aumentare il loro affidamento alle proprie risorse religiose o spirituali nell’affrontare il peggioramento di una malattia o di una disabilità» ha commentato Brick Johnstone, uno degli autori della ricerca.
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19/11/2011 22:08
 
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Nuovo studio:

 le donne che frequentano la chiesa sono meno depresse

I ricercatori della Yeshiva University, guidati da Eliezer Schnall, professore associato di psicologia clinica, si sono concentrati sulle donne, verificando uno stretto legame tra ottimismo/felicità e la frequenza alle funzioni religiose.

Coloro che partecipano ai servizi religiosi, infatti, risultano avere il ​​56% in più di probabilità di possedere una visione positiva e ottimistica della vita rispetto a quelli che non lo fanno. Inoltre, hanno il ​27% di probabilità in meno di essere depresse, dicono gli studiosi. La ricerca è pubblicata sull’ultimo numero di “Journal of Religion and Health” e il campione utilizzato è stato di 92.539 donne, in postmenopausa, provenienti da ambienti diversi e di età superiore ai 50 anni. Schnall ha però avvertito, correttamente, che non c’è un determinato principio di causalità tra l’andare in Chiesa e la felicità, potrebbe anche essere l’inverso, ovvero che le persone più positive scelgano di andare in Chiesa.

La ricerca oltre a confermare pienamente uno studio abbastanza simile pubblicato nel 2010, appare decisamente in linea con tutta una serie sterminata di risultati di ricerche precedenti che dimostrano il fortissimo legame tra l’essere praticanti e l’essere felici. Tanto che perfino la rivista dell‘American Psychological Association (APA), ha in qualche modo voluto consigliare agli psicologi di promuovere il coinvolgimento religioso ai propri pazienti vittime di disturbi mentali, come la depressione (cfr. Ultimissima 7/3/11).  Abbiamo raccolto tutti questi tipi di studi scientifici nel dossier presente sul nostro sito web: “Fede e benessere psicofisico”.

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19/11/2011 22:14
 
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La fede cristiana rende più felici e sani psico-fisicamente

Spesso gli atei militanti di fronte ai numeri crescenti dei credenti nel mondo rispondono che è meglio la “qualità” della “quantità”, sottintendendo che l’esistenza di un non credente è più facile, spensierata ed intellettualmente più soddisfacente. Eppure oggi la psicologia dimostra che questa “esistenza lieta” non è affatto presente in chi decida di impostare la sua vita senza Dio, ma -al contrario- una serie di studi scientifici e sociologici dimostra che l’uomo religioso ha una capacità razionale migliore, vive una vita più lunga, sana e felice, si comporta in modo più civile e soffre meno depressione e ansia.

Blaise Pascal avanzava questa scommessa: «Se Dio esiste, si ottiene la salvezza. Se ci sbagliamo, si è vissuto un’esistenza lieta rispetto alla consapevolezza di finire in polvere». Gli studi che elenchiamo qui sotto amplificano questo assunto filosofico, dimostrando che -indipendentemente dalla verità- l’esistenza del credente cristiano (il 90% degli studi è svolto negli USA o comunque in aree di forte substrato cristiano) è realmente più “lieta”. Si potrebbe dire che egli “vince” sia che abbia ragione, sia che abbia torto.

Occorre però un’avvertenza: che la fisiologia umana trovi piena corrispondenza, e non un ostacolo, dalla fede cristiana è certo un segno di grande valore. L’animo e la psiche hanno certo da guadagnare anche fisiologicamente dalla religiosità, tuttavia non bisogna cadere nell’errore di ridurre la religiosità a un meccanismo di cui si vede e si cerca solo un automatico riscontro sulla salute o sulle nostre legittime richieste. E’ sbagliato pensare che gli effetti della gratuita misericordia di Dio siano misurabili, che il “potere” della preghiera non sia di origine divina ma puramente immanente e che il suo effetto e l’intervento trascendente di Dio si limiti ad effetti determinati dalla nostra psiche. Possono agire anche attraverso di essi, certo, ma l’azione miracolosa può essere anche ben altro. D’altra parte gli stessi scienziati che affrontano questi studi spesso ribadiscono che la questione non è certo spiegabile completamente guardando gli effetti benefici di una vita religiosa (con tutte le sue conseguenze immanenti).

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19/11/2011 22:37
 
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In questa sezione riporteremo una serie di studi scientifici a carattere statistico, che indicano una stretta correlazione tra la salute psico-fisica e la fede.

Rimandiamo a questo collegamento per controllare le fonti:

http://www.uccronline.it/2010/08/10/la-fede-cristiana-rende-piu-felici-intelligenti-e-sani-psico-fisicamente /
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19/11/2011 22:38
 
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Nel giugno 1997 i ricercatori dello Human Population Laboratory della California hanno analizzato il sodalizio -già ampiamente provato- tra partecipazione alle funzioni religiose e il basso tasso di mortalità, allo scopo di determinare se questa associazione è spiegata dalla vita più salutare e le migliori relazioni sociali di cui giovano i cosiddetti “frequentanti frequenti”, cioè coloro che frequentano la chiesa più di una volta a settimana. Lo studio si è bastao su 5.386 soggetti sopra i 28 anni. Ancora una volta è emerso che i “frequentanti frequenti” hanno tassi di mortalità inferiori rispetto ai “frequentanti infrequenti” (cioè coloro che frequentano la chiesa meno di una volta a settimana). Gli scienziati hanno rilevato che le persone più religiose avevano anche più probabilità di smettere di fumare, aumentare l’esercizio fisico, aument
  • are i contatti sociali e rimanere sposati. il basso tasso di mortalità per i “frequenti frequentanti” si spiega però solo in parte con lo stile di vita più salutare, la moltiplicazione dei contatti sociali e matrimoni più stabili. La questione rimane ancora aperta[1].

 

  • Nell’aprile 1998 sono apparsi i risultati di un nuovo studio della Duke University Medical Center sugli effetti della religione sulla salute negli anziani. Avere una fede religiosa può accelerare la guarigione dalla depressione nei pazienti più anziani, dicono i ricercatori. Su 87 pazienti depressi e ospedalizzati per patologie come malattie cardiache e ictus, quelli che presentavano un forte livello di “religiosità intrinseca” hanno recuperato più velocemente rispetto ai non religiosi. I risultati dello studio, finanziato dal National Institute of Mental Health, sono stati pubblicati sull’American Journal of Psychiatry. «Questo è il primo studio che dimostra come la fede religiosa di per sé, indipendentemente da un intervento medico e dalla qualità della vita, può aiutare gli anziani a recuperare da un grave disturbo mentale», ha dichiarato il dr. Harold Koenig, uno psichiatra della Duke University e autore principale dello studio. Infatti, mentre studi precedenti a questo hanno dimostrato un forte legame tra l’attività religiosa e la buona salute fisica e mentale, nessuno fino ad ora aveva dimostrato una relazione causa-effetto, per cui la fede religiosa di fatto accelera i tempi di recupero. Lo psichiatra ha teorizzato che le credenze religiose forniscano una visione del mondo, dell’uomo e della malattia che permette di comprendere e accettare meglio la sofferenza e la morte e che le credenze religiose forniscono una base per la stima di sé che è più resistente rispetto ad altre fonti di autostima – come i beni materiali o capacità fisiche – che diminuiscono con l’aumentare dell’età e del peggioramento di salute. Gli studi si basano sull’intervallo di tempo tra il novembre 1993 e il marzo 1996[2].

 

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19/11/2011 22:39
 
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Il 27 ottobre 1998 su un numero speciale di Health Education & Behavior, i due ricercatori ohn M. Wallace e A. Forman dell’University of Michigan, hanno rilevato che gli adolescenti religiosi sono anche coloro che hanno comportamenti più sani: meno propensi a bere prima di guidare, propensi ad impegnarsi in attività insalubri e più propensi a mangiare bene. «Le istituzioni religiose sono un importante alleato, anche se spesso ignorato, nello sforzo della nazione per promuovere la salute dei giovani di oggi e degli adulti di domani», hanno dichiarato. Hanno poi spiegato di aver indagato le risposte di un campione rappresentativo a livello nazionale di 5.000 scuole superiori, chiedendo agli intervistati, fra le altre cose, anche della frequenza di partecipazione in chiesa e le loro credenze religiose. Almeno un terzo degli intervistati ha detto di partecipare alle funzioni religiose una volta alla settimana e che la religione era molto importante per loro. Wallace e Forman hanno anche rilevato che questi adolescenti altamente religiosi erano meno propensi a portare un’arma, ad usare tabacco o marijuana o a fare a botte. Essi sono risultati avere maggiori probabilità di indossare le cinture di sicurezza, seguire una dieta sana, fare esercizio fisico ed avere un sonno adeguato. I risultati suggeriscono che «la religione non solo condiziona semplicemente il comportamento, ma incoraggia anche e promuove gli adolescenti a proteggere o migliorare la loro salute», scrivono i due riceractori americani. Per arrivare a questo risultato è stata anche tenuta in considerazione -ovviamente- la varietà dei fattori sociali e demografici, tra cui razza, struttura familiare, educazione dei genitori, regione di residenza ecc..[3].

 

  • Nel maggio 1999 sulle maggiori riviste scientifiche è apparso uno studio americano del National Health Interview Survey-Multiple Cause of Death, il quale si è occupato dei legami tra la vita religiosa, la salute psico-fisica e il tasso di mortalità. I ricercatori hanno stabilito che le persone che non frequentano le funzioni religiose hanno l’1,87 di probabilità di morte in più, rispetto alle persone che frequentano la chiesa più di una volta alla settimana. Questo -calcolano gli studiosi- si traduce in una differenza media di sette anni di vita in più per le persone religiose e in meno per quelle non religiose. Le persone che non frequentano la Chiesa hanno anche maggiori probabilità di essere malate. La partecipazione ad una comunità religiosa permette anche una maggiore possibilità di legami sociali e comportamente salutari che aiutano a ridurre i rischi di morte[4].

 

  • Sempre nel maggio 1999, una ricerca condotta in parte presso l’Università del Colorado ha scoperto che coloro che frequentano regolarmente la chiesa, vivono più a lungo rispetto alle persone che ci vanno raramente o non ci vanno proprio. Per la prima volta, sostengono i ricercatori, la durata extra della vita è stato quantificata: infatti chi va in chiesa una volta o più alla settimana ha più probabilità di vivere circa sette anni in più di coloro che non lo fanno. I risultati sono contenuti in uno studio condotto congiuntamente da Rick Rogers, del CU-Boulder, da Hummer e Christopher Robert Ellison, dell’Università del Texas, e da Charles Nam, della Florida State University. Questi studiosi hanno valutato che la speranza di vita al di là dei 20 anni, è in media di altri 55,3 anni (75 anni), per chi non frequenta la chiesa e 62,9 anni (83 anni), per coloro che la frequentano più di una volta alla settimana. La ricerca ha anche dimostrato coloro che non hanno mai partecipato a funzioni religiose hanno un rischio dell’87% di mortalità in più rispetto a coloro che vi hanno partecipato più di una volta alla settimana. La questione si amplifica poi se i soggetti sono donne e neri. Lo studio si è basto un dati raccolti da National Health Interview Survey su più di 28.000 persone e focalizzato su più di 2.000 morti tra il 1987 e il 1995. I ricercatori hanno anche scoperto che le persono meglio educate ed istruite, che avevano minor tasso di mortalità, mostravano più probabilità di andare in chiesa, e queste persone erano in genere meno propense ad impegnarsi in comportamenti a rischio elevato per la salute come il l’abuso di fumo e di alcool. Il sociologo Rogers ha sottolineato che questa ricerca sancisce l’importanza del coinvolgimento religioso come fattore incidente sui tassi di mortalità. I risultati della ricerca sono stati pubblicati nell’ultima edizione della prestigiosa rivista National Journal Demography[5].

 

  • Nel luglio 1999 alcuni ricercatori della Duke University of Medical Center hanno studiato per circa 7 anni un campione di 3.968 adulti tra i 64 e i 101 anni residenti in un’area ristretta come la regione del Piedmont nella Carolina del Nord. Una parte del programma consisteva nello studiare gli effetti della partecipazione a funzioni religiose sulla salute psico-fisica e il tasso di mortalità. Durante questi anni, 1.777 soggetti (il 29,7%) sono deceduti. Si è valutato che fra essi, coloro che partecipavano alle funzioni religiose una volta alla settimana o più (i cosiddetti “frequentanti frequenti”), ne sono morti il 22,9% rispetto al 37,4% di coloro che frequentavano la chiesa meno di una volta alla settimana (“frequentatori infrequenti”). Il tasso di mortalità per i “frequentanti frequenti” è risultato del 46% in meno dei “frequentanti infrequenti”. I ricercatori americani Koenig, Hays e Larson concludono: «Gli anziani, e in particolare le donne, che partecipano a funzioni religiose almeno una volta alla settimana godono di un tasso di mortalità minore rispetto a coloro che frequentano la chiesa più raramente»[6].

 

  • Il 1 marzo 2000 è apparsa la conclusione di uno studio su religione, depressione e disperazione, condotto da Patricia Murphy, del Department of Religion, Health and Human Values at Rush-Presbyterian-St. Luke’s Medical Center di Chicago e dai ricercatori del Loyola College nel Maryland, secondo cui la religione determina una riduzione dei livelli di depressione e ha un impatto ancora maggiore sui livelli più bassi di disperazione. La ricercatrice afferma: «Le persone che vedono il mondo con un punto di vista senza speranza sono più inclini alla depressione. La ricerca dimostra che la religione ha la sua maggiore potenza nel compensare la depressione grazie alla sua capacità di contrastare la disperazione». La religione aiuta quindi le persone depresse, dando loro un visione del mondo che le rende meno disperate di coloro che non sono religiose. Questo genere di informazioni, continua la ricerca, potrebbero aiutare gli operatori sanitari che hanno in cura le persone depresse, così di utilizzare al meglio le convinzioni religiose della persona per aiutarle nel recupero. I risultati dello studio sono stati presentati presso il 58° meeting scientifico annuale della Psychosomatic Society. Un numero crescente di studi -continua l’articolo- ha evidenziato i benefici in campo sanitario della religione. Tuttavia, nessuno studio aveva ancora esaminato l’effetto nelle persone con diagnosi di depressione. L’inchiesta ha coinvolto 271 adulti, religiosi e non religiosi in trattamento per depressione presso un ospedale o un ambulatorio[7].

 

  • Il 4 aprile 2000 una ricerca realizzata dall’Ohio State University e pubblicata sul Journal for the Scientific Study of Religion ha suggerito che il desiderio di indipendenza è la differenza chiave, in termini psicologici, che separa le persone religiose e non religiose. Dopo aver campionato 558 studenti e professionisti, i ricercatori hanno notato che la differenza più grande è stata che le persone religiose hanno espresso un forte desiderio di interdipendenza con gli altri, mentre coloro che non erano religiosi hanno mostrato una maggiore necessità di essere autosufficienti e indipendenti. Steven Reiss, co-autore dello studio e professore di psicologia e psichiatria presso la Ohio State University, ha dichiarato: «Gli scritti di molte religioni esprimono il desiderio di diventare uniti in Dio. Al contrario, le persone non religiose amano non aver bisogno di nessuno, nemmeno di Dio». Tuttavia -specifica lo psicologo-, il forte desiderio di interdipendenza non significa certo che le persone religiose sono deboli o sottomesse. I risultati hanno mostrato che le persone religiose non erano diverse rispetto alle altre nel loro desiderio di potere, che comprende obiettivi di leadership e dominanza. Continua il ricercatore: «Le persone che hanno mostrato uno score elevato per l’indipendenza sono coloro che vogliono prendere le loro decisioni senza appoggiarsi su altre persone. Al contrario, le persone religiose preferiscono trovare la forza contando anche sull’aiuto degli altri, incluso Dio». Storicamente, la dipendenza religiosa da Dio è stata criticata come un segno di debolezza, continua Reiss. Famosi filosofi, come Nietzsche e Marx, credevano che la religione insegnava alla gente il valore della debolezza. Anche recentemente la religione organizzata è vista da qualcuno come un imbroglio, una stampella per le persone deboli di mente. Tuttavia, «questa ricerca dimostra che il desiderio di interdipendenza è estraneo a qualsiasi desiderio di debolezza. Le persone religiose hanno ottenuto un punteggio basso verso l’indipendenza, riflettendo probabilmente il loro desiderio di dipendenza da Dio. Ma contemporaneamente hanno anche mostrato uno score medio di potere, e questo implica che non cercano la sottomissione ai leader. Così Nietzsche e Marx hanno commesso un errore quando hanno affermato che la religione incoraggia la gente verso la debolezza». I risultati hanno anche mostrato che le persone religiose erano più motivate dall’onore (desiderio di essere fedeli alla moralità dei genitori e del gruppo etnico), dal desiderio di famiglia e della cura dei propri figli rispetto alle persone non religiose. Non solo, ma si è registrato sempre per le persone religiose, un basso desiderio di vendetta ma anche di romanticismo[8].

 

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19/11/2011 22:40
 
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  • Il 4 giugno 2000 la American Psychological Association (APA) ha pubblicato una ricerca secondo la quale la regolarità della frequenza alle funzioni religiose è legata alla più lunga vita. La meta-analisi di 42 studi che hanno esaminato 125.826 persone stabilisce che «le probabilità di sopravvivenza per le persone religiose sono state del 29 per cento superiori a quelle delle persone meno religiose», ha detto lo psicologo e l’autore Michael E. McCullough del National Institute for Healthcare Research. Essere coinvolti nella religione sembra spiegare una piccola parte del motivo per cui alcune persone vivono più a lungo rispetto ad altre, hanno detto gli autori. «Inoltre», ha continuato, «i risultati sembrano indicare che le persone con un alto livello di coinvolgimento religioso sono anche meno obese». I benefici per la salute possono anche essere in parte dovuti al sostegno sociale e di amicizia derivati ​​dalla frequenza alle funzioni religiose. Gli autori suggeriscono che le persone che sono attivamente religiose tendono a prendersi più cura di se stessi in ambiti sanitari e anche questo può in parte spiegare il loro stato longevità[9].

 

  • Sempre nel giugno 2000 un rapporto della RAND Corporation, un istituto di ricerca senza scopo di lucro, ha dimostrato che frequentare la chiesa e le attività religiose possono svolgere un ruolo importante nella risposta all’HIV e all’AIDS nell’America centrale. Mentre il ruolo dei gruppi religiosi viene spesso visto come limitato perché solitamente non supportano alcune misure di prevenzione come i profilattici -dicono i ricercatori-, in realtà sulla base del loro ruolo tradizionale essi costituiscono un’importante opportunità per migliorare una serie di servizi a sostegno. «Le organizzazioni basate sulla fede sono importanti per gli sforzi contro l’HIV in America Latina perché hanno un’ampia portata di influenza e giocano un ruolo fondamentale di sostegno e di assistenza alle persone colpite dalla malattia», ha detto Kathryn Pitkin Derose, autore principale dello studio e ricercatore presso la RAND. «Non tutte le comunità in America centrale hanno operatori sanitari, ma la maggior parte di esse sono organizzazioni religiose». I ricercatori spiegano che queste organizzazioni, che storicamente hanno svolto un ruolo chiave nel fornire servizi sanitari e sociali nei paesi in via di sviluppo, potrebbero svolgere un ruolo ancora più importante nel contribuire l’accrescere della consapevolezza sull’HIV e ridurre la diffusione dell’HIV e dell’AIDS. Lo studio è stato finanziato dal National Institute of Child Health and Human Development[10].

 

  • Nel novembre 2001 sono apparsi i risultati di uno studio sociologico effettuato dall’University of Florida Institute. «Frequentare le funzioni religiose o cambiare religione nel momento del bisogno, non aumenta nella persona la sensazione di benessere o la rende meno impaurita della morte, almeno tra le persone in età avanzata», spiega la psicologa Monika Ardelt. «La vera chiave della contentezza e della soddisfazione sta nel trovare uno scopo alla vita». Il suo studio, presentato nel 2001 alla riuonione annuale a Chicago del Gerontological Society, ha dimostrato che le persone che danno un signficato, uno scopo alla vita, non solo sono più propense a sperimentare un senso generale di benessere ma tendono anche a mostrare meno sintomi depressivi e meno paura della morte. Hanno anche meno difficoltà a parlarne. «Questo studio -spiega la ricercatrice- ha mostrato che non si può semplicemente andare in chiesa per poi aspettare di sentirsi meglio. Deve anche portare ad uno scopo nella vita. Andare semplicemente in chiesa o soltanto essere religiosamente affiliato potrebbe essere addirittura pericoloso se ciò non si traduce in una proposta di vita, in uno scopo». I partecipanti che avevano questo questo senso di uno scopo nella vita, sono stati anche coloro che hanno mostrato meno probabilità di sintomi di depressione e un maggiore senso di benessere». Spiega ancora la ricercatrice: «Se la religione porta ad uno scopo nella vita, vi aiuterà a far fronte e ridurre la paura della morte. Ma per le persone a cui basta andare in chiesa una volta a settimana, stare lì per un’ora e poi non pensarci più, allora non sarà d’aiuto». E’ un paradosso, informa ancora la Ardelt, coloro che «trovano un significato e uno scopo nella vita sono più pronti a morire. E quelle persone che hanno la sensazione che il tempo stringe, e che dovrebbero aver compiuto qualcosa e non hanno fatto, non riescono davvero a “lasciarsi andare”». I partecipanti intrinsicamente religiosi, hanno anche mostrato una forte tendenza ad avvicinarsi alla morte in modo positivo. La sociologa Ardelt ha concluso che «i risultati sembrano indicare la necessità per le persone di diventare più intrinsecamente motivate attraverso il nutrimento spirituale e il pensiero auto-riflessivo. Gli eventi attuali sono un momento opportuno per realizzare questo. Penso che un’infusione di spiritualità sia necessaria»[11].

 

  • Nel 2002 l’Human Population Laboratory, del Public Health Institute della California ha analizzato il legame fra la frequente partecipazione alle funzioni religiose di un soggetto e una minore mortalità, legame indipendente da tutte le altre cause socio-demografiche. I ricercatori hanno preso in esame i risultati di uno studio effettuato dal 1965 al 1996 su 6.545 residenti della contea di Alameda, in California. Paragonando fra loro le stesse età e la stessa condizione di salute, è emerso che i non praticanti o coloro che frequentano la chiesa meno di una volta a settimana avevano tassi significativamente più alti tassi di presenza di cancro, malattie all’apparato digerente, respiratorio e tasso di mortalità. Ancora una volta i ricercatori hanno concluso che i risultati sono coerenti con l’ipotesi che il coinvolgimento religioso sia un fattore di protezione generale. Gli autori sottolineano la necessità di ulteriori studi per determinare maggiormente se gli effetti indipendenti della religione sono mediati da stati psicologici o da altri fattori sconosciuti[12].

 

  • Nel marzo 2002 la conclusione di una ricerca apparsa sull’American Journal of Health Promotion sostiene che «L’attività religiosa e i modelli positivi tra coetanei e adulti, proteggono i giovani dall’uso del tabacco». Questo studio è il primo a esaminare la relazione tra le specifiche influenze positive e l’uso del tabacco, nella vita degli adolescenti. «9 su 10 fumatori adulti hanno iniziato ad usare il tabacco prima di raggiungere i loro 18 anni», dice l’autore principale dello studio, Leslie A. Atkins del Department of Health Promotion Sciences at the University of Oklahoma Health Sciences Center. «Pertanto, abbiamo bisogno di trovare nuovi modi per ridurre l’uso del tabacco in età adolescenziale». I ricercatori hanno intervistato i genitori e i loro figli adolescenti, di età tra i 13 e i 19 anni. Complessivamente erano 1.350 famiglie scelte a caso nei quartieri del centro città del Midwest. Trascorrere del tempo seguendo le attività religiose in chiesa e seguendo modelli positivi sembrava avere il massimo effetto protettivo contro l’uso del tabacco. I giovani che usufruivano di uno di questi due beni avevano 2,5 volte minor probabilità di fare uso di tabacco. «Questi risultati suggeriscono che gli adolescenti sono meno propensi ad avere comportamenti dannosi se nella loro vita sono presenti attività positive», osserva Atkins. Lo studio è stato sostenuto attraverso un accordo di cooperazione dal Centers for Disease Control and Prevention e l’Oklahoma Institute for Child Advocacy[13].

 

  • Nel luglio 2002 un rapporto dell’American Journal of Geriatric Psychiatry dedicato alla comprensione delle cause del suicidio tra gli anziani, ha stabilito che la forte fede religiosa e le maggiori relazioni sociali degli anziani afro-americani possono essere i due fattori chiave per spiegare il motivo dei minori suicidi rispetto ai bianchi. La ricerca è guidata dalla psicologa geriatrica Giovanna M. Cook del Department of Veterans Affairs (VA) Medical Center di Philadelphia e dell’Università della Pennsylvania. I risultati a cui è arrivata sono che gli afro-americani con forti legami religiosi e sociali sono meno propensi ad avere pensieri suicidi. Nel 1998, il tasso di suicidi di uomini bianchi over 65 anni era del 33,1 per 100.000, rispetto al 11,7 corrispondente agli uomini neri della stessa fascia di età. Per le donne la differenza era ancora maggiore. L’equipe della psicologa si è basata su interviste a 835 residenti degli alloggi pubblici a Baltimora nel corso degli anni 1990. «Abbiamo rilevato che il 90% degli intervistati ha riferito di aver ottenuto un grande sostegno e conforto dalla religione, e che questo ha protetto dai problemi legati alla salute mentale e ai pensieri di suicidio», ha riferito la dott. Cook[14].

 

  • Nel dicembre 2002, una ricerca pubblicata sul Journal of Happiness Studies, ha eaminato le esperienze di benessere associate alle vacanze natalizie. Maggiori livelli di felicità sono stati osservati quando le esperienze familiari e religiose erano particolarmente salienti. Bassi livelli di benessere si sono invece verificati quando predominava una visione consumistica della festa natalizia. In sintesi, la ricerca dimostra che gli aspetti materialistici con cui sono vissute le festività natalize possono compromettere il benessere della persona, mentre le attività familiari e spirituali possono aiutare le persone a sentirsi più soddisfatte[15].

 

  • Sempre nel dicembre 2002 è apparso uno studio dell’University of North Carolina il quale dimostra che gli alunni religiosi delle scuole superiori americane possiedono una significativamente più alta stima di sé e hanno un atteggiamento più positivo verso la vita di quanto non facciano i loro coetanei meno religiosi. La ricerca, parte del più ampio National Study of Youth and Religion, ha rilevato un’associazione statistica tra la religione e una maggiore autostima dei 17-18enni che frequentano la chiesa almeno una volta a settimana o chi professa un punto di vista spirituale molto radicato. «Questo è in contrasto con l’opinione di alcuni che ritengono la religione associata a nevrosi o disfunzione psicologica», ha detto il dr. Christian Smith, autore principale dello studio . «Questi risultati sembrano suggerire il contrario, cioè che la religione è associata ad una prospettiva costruttiva della vita». La ricerca è basata sui dati raccolti attraverso un campione rappresentativo a livello nazionale raccolto dall’Università del Michigan, il quale comprende 2.478 scuole superiori ed è tra le più complete ricerche sul legame tra la religione e gli atteggiamenti positivi negli adolescenti. «I fattori più comunemente legati a questi atteggiamenti positivi, risultano essere la presenza al servizio religioso e l’importanza dichiarata della religione», ha continuato il sociologo. I ricercatori affermano anche di non poter dire con certezza cosa causi il legame tra religione e atteggiamenti positivi, perché il loro studio non è stato progettato per rispondere a questa domanda. «Ci piace sempre dire che la correlazione non è causalità. Proprio perché le cose sono statisticamente associate non significa necessariamente che uno sia causa dell’altro. Potrebbe essere che le persone che sono più positive verso la vita sono più interessaei ad andare in chiesa. Ma potrebbe anche essere che più si va in chiesa e più si sviluppano atteggiamenti positivi verso la vita». Altre possibilità, ha detto Smith, è che almeno per alcuni adolescenti, «il coinvolgimento religioso dà loro un maggior senso del loro posto nel mondo e del loro destino nella vita e che ci possa essere un Dio che si prende cura di loro. Un’altra possibilità è che l’impegno sociale nelle istituzioni religiose, come gruppi di giovani adolescenti, fornisce con maggiore efficacia risorse che possono aiutarli ad affrontare difficoltà o incertezze». Si è anche notato che tra il 10 e il 20 per cento degli adolescenti che vive una vita religiosa, continui comunque la lotta con i sentimenti di disperazione e di senso. Questo dato, spiegano i ricercatori, dimostra che «la religione non ha il ruolo di panacea». Precedenti studi hanno mostrato che i giovani religiosi erano meno propensi a fumare, bere e usare di droghe e coloro che ne facevano uso, mostravano comunque un consumo più moderato. Inoltre sono più propensi a indossare le cinture di sicurezza, meno propensi al taccheggio, al furto, alla violazione di domicilio e al procurare incendi. Non è finita, perché intervistando i genitori, Smith rivela che «si è scoperto che gli adolescenti più religiosi hanno “marinato” meno la scuola, hanno ricevuto meno sospensioni ed espulsioni»[16].

 

  • Nel gennaio 2003 il Department of Preventive Medicine del St. Luke’s Medical Center di Chicago, ha stabilito che in soggetti sani vi è una forte riduzione del rischio di mortalità se essi partecipano regolarmente alle funzioni religiose in chiesa. Tale riduzione è di circa il 25%, dopo aver escluso ovviamente fattori socio-demografici. La religione e la spiritualità, dicono, «protegge dalle malattie cardiovascolari, sopratutto grazie al salutare stile di vita che queste persone adottano». Gli autori concludono sostenendo che la partecipazione alla vita di chiesa «protegge le persone sane dalla morte». Ulteriori studi rimangono comunque necessari[17].

 

  • Il 31 marzo 2003 i risultati ottenuti dai ricercatori dell’Albert Einstein College of Medicine, apparsi sul Psychology of Addictive Behaviors pubblicato dall’American Psychological Association (APA), rivelano che quando gli adolescenti percepiscono la religione come importante nella loro vita, allora questo abbassa i tassi di fumo di sigaretta, dell’abuso di alcool e marijuana. Hanno anche rilevato l’importanza della religione per i ragazzi che affrontano molti stress della vita. Gli psicologi Thomas Ashby Wills, Alison M. Yaeger e James M. Sandy, autori della ricerca, sono concordi nell’affermare che «la religiosità può influenzare gli atteggiamenti e i valori di una persona, i quali danno il senso e lo scopo della vita. Potrebbe anche aiutare le persone a vedere i problemi in modo diverso. Essere coinvolti in una religione può anche creare sani legami sociali». La ricera è stata finanziata dal National Institute on Drug Abuse[18].

 

  • Nel dicembre 2003 la psicologa Dott. Stephen Joseph dell’Università di Warwick ha affermato in una ricerca condotta dal Mental Health, Religion & Culture: «Le persone religiose sono più felici di quelle senza spiritualità nella propria vita». Inoltre, «coloro che celebrano l’originale significato cristiano del Natale sono, nel complesso, più felici di quelli che celebrano le feste natalizie nel pieno spirito del consumismo». I risultati sono apparsi in una accurata ricerca, titolata: “La religiosità e la sua associazione con la felicità, scopo della vita e auto-realizzazione”. Essa suggerisce anche che la ragione per cui le persone religiose sono più felici è perchè riescono a dare un senso, uno scopo più adeguato alla loro vita rispetto alle persone non religiose: «Le persone religiose sembrano avere uno scopo più grande nella vita, è per questo che sono più felici. Guardando le evidenze emerse dalla ricerca, sembra che coloro che celebrano il significato cristiano del Natale sono quelle più felici. La ricerca mostra che il troppo materialismo nella nostra vita può essere terribile per la felicità»[19].

 

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  • Nel dicembre 2004 un’equipe di ricercatori della Population Research Center and Department of Sociology dell’University of Texas ha pubblicato uno studio in cui si sottolinea come «la comunità scientifica abbia recentemente riservato un serio interesse per la relazione tra coinvolgimento religioso e il rischio di mortalità degli adulti». Hanno così esaminato la lettura scientifica in merito -medicina, epidemiologia e scienze sociali- evidenziando i principali risultati, i limiti e le sfide future. «Nel loro insieme -evidenziano-, la ricerca attuale indica la presenza di un legame tra vita religiosa e il minor tasso di mortalità. L’evidenza diventa più forte se si tratta di una partecipazione alle funzioni religiose di specifiche confessioni religiose e meno evidente se si tratta di un coinvolgimento religioso privato, personale». Questo porta a pensare che i meccanismi attraverso i quali la religione sembra influenzare la mortalità comprendono aspetti di integrazione sociale, norme sociali e risorse psicologiche. Le conclusioni sono apparse sul sito del prestigioso National Institutes of Healthe[20].

 

  • Nel marzo 2005 i Dipartimento di Sociologia dell’Università del Texas ha gli effetti della partecipazione religiosa sul rischio di mortalità dei messicani americani oltre i 65 anni. Lo studio si è svolto tra la popolazione ispanica che vive negli Stati Uniti. Nel complesso, i risultati mostrano che coloro che vanno in chiesa una volta alla settimana presentano il 32% di riduzione del rischio di mortalità rispetto a coloro che non partecipano alle funzioni religiose. I benefici della partecipazione religiosa -secondo i ricercatori- influiscono anche sulla salute cardiovascolare, le attività della vita quotidiana, le funzioni cognitive, la mobilità fisica, il sostegno sociale, la salute mentale e la salute soggettiva[21].

 

  • Nell’agosto 2005 il Centers for Disease Control and Prevention del National Center for Health Statistics ha analizzato un campione di 18.774 americani di 20 anni e oltre, per valutare il legame tra la frequenza di partecipazione alle funzioni religiose e il fumo di sigaretta. Dopo aver messo a confronto i soggetti con la stessa età, sesso, gruppo etnico, istruzione, regione e stato di salute, è emerso che i “frequentatori rari” (< 24 volte/anno) avevano molta più probabilità di essere fumatori rispetto ai frequentatori frequenti (> 1 volta/settimana). I ricercatori hanno così concluso che «una maggiore frequenza alle funzioni religiose è associata ad una minor esigenza di nicotina»[22].

 

  • Sempre nell’agosto 2005, la psicologa Elizabeth A. Rippentrop ha pubblicato un articolo apparso sul sito web dell’American Psychological Association intitolato: “A Review of the Role of Religion and Spirituality in Chronic Pain Populations”. Dopo aver esaminato letteratura scientifica sul rapporto tra religiosità-spiritualità e i risultati sulla salute nella popolazione affetta da dolori cronici, ha concluso che l’aumento delle ricerche in questo settore è giustificato da diverse ragioni. In primo luogo, molte persone affette da dolore cronico si affidano alla loro fede religiosa per affrontare meglio il dolore. In secondo luogo, una relazione tra religione, spiritualità e miglioramento della salute è stata effettivamente documentata. In terzo luogo, vi è una mancanza di ricerca sulla potenzialità mediatrice tra la religione e la salute nella popolazione affetta da dolore cronico[23].

 

  • Il 18 maggio 2006, durante l’Annual Scientific Meeting dell’American Society of Hypertension svoltosi a New Yorrk, sono stati presentati i risultati di uno studio condotto su più di cinquemila afroamericani, il quale ha rilevato che gli individui coinvolti o che partecipano ad attività religiose (cristiane) hanno la pressione sanguigna significativamente più bassa rispetto a quelli che non lo fanno. I ricercatori dello studio, guidati da Sharon Wyatt dell’Università del Mississippi, introducono dicendo «l’ipertensione è il fattore di rischio più importante per la salute degli afro-americani». Continuano poi: «I nostri risultati dimostrano che l’integrazione della religione e della spiritualità -la vita di chiesa e la preghiera- possono diminuire l’esposizione allo stress e ritardare gli effetti deleteri dell’ipertensione». La Jackson Heart Study ha studiato 5.302 volontari per valutare gli effetti della religione e della spiritualità sulla pressione diastolica e sistolica. L’analisi statistica è stata condotta tenendo ovviamente conto della condizione di vita del soggetto, del suo benessere psicofisico e delle sue abitudini (fumatore, vegetariano ecc..). Si è subito valutato che i soggetti che avevano una maggiore attività religiose, avevano anche valori significativamente più bassi di pressione sanguigna diastolica e di pressione arteriosa sistolica. Lo studio comunque conferma la letteratura scientifica precedente, la quale all’unanimità dimostra un effetto protettivo (di «tampone») verso i rischi per la salute[24].

 

  • Il 29 novembre 2006 è apparso uno studio dal titolo: «Andare in chiesa potrebbe aiutare a respirare meglio». E’ stato svolto dalla ricercatrice Joanna Maselko della Temple University e pubblicato sul prestigioso Annals of Behavioral Medicine. La funzione polmonare, spiega la scienziata, «è un importante indicatore della salute respiratoria, ma poco si sa circa i fattori psicosociali che possono predire questa funzione. Al tempo stesso, l’attività religiosa sta emergendo come potenziale fattore per la salute, soprattutto negli anziani. Abbiamo voluto così verificare se ci fosse una connessione tra i due fattori». L’articolo è stato condotto mentre la Maselko era docente di Sanità pubblica presso la Harvard University: utilizzando il picco di flusso espiratorio (PEFR), i ricercatori hanno misurato la funzione polmonare di 1.189 soggetti di età compresa tra 70-79 anni. Hanno così scoperto che coloro, uomini e donne, che frequentavano la chiesa settimanalmente, presentavano un più lento declino della funzione polmonare tra gli uomini e le donne, rispetto a coloro che non erano “praticanti”. I risultati, spiegano i ricercatori, non potevano essere spiegati da differenze tra fumatori o chi praticava attività fisica. La Maselko ed i suoi colleghi credono che questo sia il primo studio che esamini direttamente la relazione tra impegno religioso e la funzionalità polmonare nel tempo. Nel complesso, andare in chiesa fornisce maggiori contatti sociali, un valido sostegno emotivo e un benessere psicologico, riducendo così l’isolamento e la disabilità mentale che affligge molti anziani[25].

 

  • Il 21 maggio 2007 il Dipartimento di Society, Human Development and Health dell’Università di Harvard ha commentato i numerosissimi studi scientifici che rilevano una correlazione tra vita religiosa e salute psico-fisica. «Ci sono prove scientifiche di una correlazione positiva tra la partecipazione religiosa e gli indicatori di salute», hanno dichiarato i ricercatori di Harvard. La più forte evidenza esiste tra la partecipazione alle funzioni religiose e il basso tasso di mortalità. La vita salutare e i maggiori legami sociali sono fattori importanti attraverso i quali la religione può incidere sulla salute, altre possibili strade includono l’apporto di sistemi di significato verso la vita e la sensazione di forza per far fronte a stress e avversità. Queste spiegazioni però non sembrano esaurire la questione[26].

 

  • Nel 2008 in un estratto apparso sul prestigioso sito web dell’American Psychologist Association, si legge che «gli studi empirici hanno individuato legami significativi tra la religione, la spiritualità e la salute». Le ragioni però di questa associazione non sono chiare, spiegano gli autori. In genere, la religione e la spiritualità sono misurate attraverso gli indici globali, come ad esempio, la frequenza in chiesa, l’auto-valutazione del livello di religiosità, che però non specificano come e perché la religione e la spiritualità riesca ad incidere sulla salute psico-fisica. Gli psicologi evidenziano ribadiscono infine che nonostante l’incertezza sulle motivazioni, «appare comunque sempre più evidente il contributo distintivo che la religiosità ha verso la salute e il benessere umano»[27].

 

  • Nel febbraio 2008 la Division of Vital Statistics del National Center for Health Statistics del Maryland ha analizzato il forte legame tra la frequenza di partecipazione alle funzioni religiose e il basso tasso di mortalità. I dati sono stati valutati per un campione di 8.450 americani, uomini e donne dai 40 anni, esaminati per un periodo di circa 8,5 anni (1988-1994). I soggetti deceduti durante questo range di tempo sono stati 2058. Traendo le conclusioni, dopo aver tenuto conto delle condizioni socio-demografiche dei soggetti, i ricercatori hanno dichiarato che: «dall’analisi si dimostra che i soggetti maggiormente religiosi, soprattutto i cristiani, hanno presentato un minor rischio di morte indipendentemente da fattori socio-demografici, rispetto ai soggetti meno religiosi»[28].

 

  • Il 18 settembre 2008 sono apparse sul sito della Baylor University le conclusioni di una delle indagini più vaste mai condotte sugli atteggiamente degli americani verso la religione. La ricerca è stata eseguita dai sociologi Byron Johnson, Christopher Bader, Rodney Stark e Carson Mencken, e pubblicata con il titolo “What Americans Really Believe”. In una conferenza stampa a New York gli autori hanno detto di aver lavorato su un campione di 1.648 adulti, scelti casualmente per tutti gli Stati Uniti e i sondaggi sono stati effettuati dal Baylor Institute for Studies of Religion (ISR) e condotti dal Gallup. Tra i risultati, l’indagine ha rilevato che la religione cristiana diminuisce notevolmente la credulità, misurata in termini di convinzioni in cose come sogni, Bigfoot, UFO, case infestate, comunicazione con i morti e l’astrologia. Eppure -notano i ricercatori-, resta diffusa l’opinione che le persone religiose siano particolarmente credulone. Tuttavia i conservatori religiosi americani sono molto meno propensi a credere nell’occulto e nel paranormale degli altri americani, mentre coloro che si auto-identificano come teologi liberali e coloro che si dicono “irreligiosi” hanno molta più probabilità di essere creduloni. I ricercatori hanno concluso che questo dimostra come non sia la religione in generale a sopprimere tali credenze, ma solo la religione cristiana conservatrice[28,1].

 

  • Nell’ottobre 2008 una nuova ricerca della Temple University ha suggerito che le persone religiose, sia che partecipino attivamente alla vita della comunità della chiesa o che preferiscano pregare o meditare in privato, sono più protette dalla depressione. In uno studio pubblicato on-line sul Psychological Medicine, i ricercatori hanno confrontato i vari livelli di religiosità presenti nel 918 intervistati confrontandoli con il rischio di depressione. Dai risultati è emerso che coloro che partecipavano alle funzioni religiose frequentemente avevano il 30% in meno di probabilità di soffrire di depressione nel corso della loro vita. Il capo-ricercatore Johanna Maselko, ha dichiarato che la chiesa offre la possibilità di interagire con la comunità e questo è un fattore importante nella prevenzione della depressione. Ha aggiunto anche che le persone con alti livelli di benessere esistenziale hanno un forte senso del loro posto nel mondo. «Le persone con alti livelli di benessere esistenziale tendono ad avere una buona base che li rende molto centrati emotivamente», ha detto la psicologa. «Le persone che sono a maggior rischio di depressione potrebbero anche rivolgersi alla religione per far fronte alla depressione», ha concluso[29].

 

  • Il 30 dicembre 2008 sono apparsi i risultati di uno studio dell’Università di Miami su Psychological Bulletin, ricerca guidata dal docente di psicologia Michael McCullough, il quale ha constatato che le persone religiose possiedono più autocontrollo di quanto non facciano le loro controparti meno religiose. Questi risultati implicano anche che le persone religiose possono perseguire e raggiungere meglio obiettivi a lungo termine che sono per loro importanti. Queste conclusioni, a loro volta, potrebbero aiutare a spiegare perché le persone religiose tendono ad avere tassi più bassi circa l’abuso di sostanze, un rendimento scolastico migliore, meno delinquenza, migliori comportamenti di salute, meno depressione, e una vita più lunga. Lo psicologo ha valutato 80 anni di ricerche sulla religione condotte con diversi campioni di persone provenienti da tutto il mondo trovando, attraverso una varietà di fattori all’interno le scienze sociali, comprese le neuroscienze, l’economia, la psicologia e la sociologia, la prova convincente che la fede religiosa e i comportamenti religiosi sono in grado di incoraggiare la gente ad esercitare l’autocontrollo e regolamentare in modo più efficace le loro emozioni e comportamenti, in modo che possano perseguire gli obiettivi prefissati. Dichiara lo psicologo americano: «L’importanza dell’autocontrollo e dell’autoregolamentazione per la comprensione del comportamento umano sono ben noti agli scienziati sociali, ma la possibilità che i legami tra la religiosità e l’autocontrollo potrebbero spiegare i collegamenti tra la religiosità e una maggiore salute non ha ricevuto finora molta attenzione esplicita. Ci auguriamo che la nostra ricerca correggerà questa svista della letteratura scientifica». Tra le conclusioni più interessanti che il team di ricerca ha effettuato sono le seguenti: 1) la preghiera e la meditazione incidono nelle aree del cervello umano che sono le più importanti per l’auto-regolazione e auto-controllo. 2) Quando la gente vede i suoi obiettivi come “sacri”, accade di mettervi più energia e impegno nel perseguimento e, quindi, probabilmente li raggiungeranno più efficacemente. 3) Uno stile di vita religioso può contribuire al self-control fornendo alle persone norme chiare di comportamento, inducendole a controllare il proprio comportamento più da vicino. 4) Il fatto che le persone religiose tendono ad avere un più elevato self-control aiuta a spiegare perché le persone religiose hanno meno probabilità di usare droghe, abusare di alcol e avere a che fare con la criminalità e la delinquenza. Tra le implicazioni più pratiche dello studio vi è il fatto che le persone religiose possono avere a loro disposizione una serie di particolari risorse psicologiche per poter rispettare i loro obiettivi nel tempo[30].

 

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  • Il 2 febbraio 2009 uno studio del dipartimento di Psichiatria dell’Università del Manitoba afferma che chi non crede in Dio ha il doppio delle probabilità di diventare un suicida. Daniel Rasic, il principale autore della ricerca, ha esaminato il collegamento fra la regolare frequenza religiosa e il tentato suicidio usando i dati di uno studio sulla situazione sanitaria nazionale canadese su trentasettemila persone compiuto da Statistics Canada. Lo studio è stato pubblicato sul Journal of Affective Disorders. Rasic afferma che le persone che frequentano servizi religiosi hanno meno probabilità di voler tentare il suicidio, di nutrire pensieri di suicidio di quelli che non lo fanno. «Quelli che sono andati in chiesa almeno una volta all’anno hanno abbassato la quota di tentati suicidi» ha detto Rasic, docente all’Università di Dalhouise a Halifax. «E quelli che non lo hanno fatto hanno il doppio di possibilità di aver tentato il suicidio». Secondo Rasic le persone interpellate che si sono definite semplicemente “spirituali” e non facevano parte di un’organizzazione religiosa hanno la stessa quota di tentati suicidi dei non credenti. Tim Wall, direttore esecutivo dell’Associazione canadese per la prevenzione dei suicidi sostiene che il suicidio spesso nasce da un sentimento di sentirsi isolati dalla famiglia o dagli amici. Le persone religiose tendono a trovare sia un senso di appartenenza che un significato alla loro vita nella fede[31].

 

  • Il 24 febbraio 2010 il Journal of Clinical Psychology. ha reso noti i risultati di una ricerca, la quale suggerisce che la fede religiosa aiuta a proteggere contro i sintomi della depressione. Il test si è rivolto a 136 pazienti con diagnosi di depressione clinica, è durato 8 settimane e lo strumento utilizzato è stato il Beck Hopelessness Inventory. Si è trovato che i soggetti con forti convinzioni in un Dio personale hanno il 75% di probabilità in più di sperimentare un miglioramento dopo il trattamento medico per la depressione clinica. La dottoressa Patricia Murphy ha però precisato: «Nel nostro studio, la risposta positiva ai farmaci aveva poco a che fare con il sentimento di speranza che accompagna di solito le convinzioni spirituali. E’ invece legata specificamente alla fede in un Dio amorevole. I medici devono essere consapevoli del ruolo della religione nella vita dei loro pazienti. E’ una risorsa importante nella pianificazione delle loro cure»[32].

 

  • Il 4 agosto 2010 la rivista americana “Liver Transplantation” ha pubblicato un interessante studio fatto da ricercatori del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) di Pisa e del Centro trapianti di fegato dell’università di Pisa, diretti dallo psicologo Franco Bonaguidi. Essi riguardano il rapporto tra la religiosità del paziente e la sua eventuale guarigione dopo un trapianto di fegato. Lo studio mostra che il livello di sopravvivenza è maggiore in quelli in cui il fenomeno “religiosità” è presente in maniera attiva, cioè coloro che si affidano a Dio, hanno fede in Lui e cercano di percepire la Sua volontà anche nella malattia[33].

 

  • Il 5 agosto 2010 su “Psychological Science” sono apparsi i risultati di alcuni esperimenti di due psicologi dell’Università di Toronto, Michael Inzlicht e Alexa Tullett, i quali hanno registrato l’attività cerebrale di un gruppo di persone analizzando le onde cerebrali associate a un particolare tipo di stress, che insorge quando si commettono degli errori. Gli scienziati hanno così verificato che, quando i partecipanti al test pensavano a Dio o in generale alla religione, sia consciamente che inconsciamente, reagivano meglio all’errore. Al contrario, negli atei, indotti a pensare a Dio, aumentava l’attività cerebrale ‘spia’ di stress da errore. Lo psicologo Inzlicht ha spiegato: «Pensare alla religione regala calma quando si è sotto pressione. Rende meno stressati quando si fanno degli errori. Nel mondo l’85% delle persone ha un sentimento religioso. Questo studio può aiutarci a capire qualcosa di realmente interessante su chi ha fede e sugli effetti ‘terapeutici’ della preghiera. Esistono alcune evidenze scientifiche secondo cui le persone religiose vivono più a lungo e tendono a essere più sane e più felici». Ma improvvisarsi devoti senza crederci davvero non paga: l”effetto infatti non vale per gli atei[34].

 

  • Il 31 agosto 2010 uno studio condotto dai ricercatori dall’University of the Negev (BGU) ha rivelato che le donne negli Stati Uniti sono generalmente più felici di partecipare ad una funzione religiosa di domenica piuttosto che andare a fare shopping. La pubblicazione dello studio è apparsa su rinomate riviste scientifiche e canali di divulgazione scientifica. La ricerca ha dimostra che le donne che scelgono attività secolari, come lo shopping, non sono più felici e che l’abrogazione delle “leggi blu”, che permettono ai negozi di restare aperti la domenica e incidono così sul livello di partecipazione alla Messa, ha diminuito la probabilità relativa di essere almeno “abbastanza felice” rispetto al “non felice” del 17% circa. Secondo il Dr. Danny Cohen-Zada del Dipartimento di Economia, «abbiamo scoperto che esistono prove dirette dell’effetto positivo che la partecipazione religiosa causa sulla felicità di una persona. Inoltre, una parte importante del declino della felicità delle donne nel corso degli ultimi tre decenni può essere spiegato dal declino della partecipazione religiosa». Continua l’esperto: «La gente sceglie lo shopping o guarda la televisione perché ciò fornisce una soddisfazione immediata. La soddisfazione dura per il momento in cui è consumata e non molto più tempo. La soddisfazione nel partecipare alla vita di chiesa, d’altro canto, non è immediata. Richiede invece la persistenza per un periodo di tempo». I ricercatori hanno analizzato i dati del General Social Survey (GSS) e hanno scelto gli intervistati che abitano negli stati in cui c’è stato un netto cambiamento, chiaro e significativo del divieto di attività di commercio al dettaglio la domenica (almeno 10 stati) o dove invece non vi è stato alcun cambiamento (sei stati). Sono stati intervistati cattolici e protestanti, poiché sono i più propensi ad andare in chiesa la domenica[35].

 

  • Il 15 settembre 2010 uno studio dell’Università di Berna, pubblicato dal periodico specializzato “International Journal of Epidemiology”, ha rivelato che l’identikit dello svizzero che ha meno tendenza a togliersi la vita è cattolico, sposato e residente in Ticino. Lo studio ha incrociato i dati del censimento 2000, relativi a oltre tre milioni di persone di età compresa fra i 35 e i 94 anni, con le statistiche della mortalità fino al 2005. La scoperta principale è che la religione ha un ruolo importante: su 100mila abitanti il tasso di suicidio è del 39% per chi non ha una confessione, 29% per i protestanti e 20% per i cattolici. Secondo il gruppo di ricerca condotto da Matthias Egger la religione è un’importante forza sociale: si lasciano accompagnare alla morte cinque volte più uomini atei che cattolici (per le donne addirittura sette volte in più). Lo studio dell’istituto bernese mostra anche come il tasso di suicidi degli sposati sia la metà di quello di single, vedovi e divorziati. Non sono invece state scoperte differenze significative riguardo al livello formativo. Lo studio dunque conferma le ricerche effettuate nel 1897 dal sociologo francese Emile Durkheim, che aveva notato tassi di suicidio più elevati nei cantoni svizzeri protestanti rispetto a quelli cattolici. Egli aveva avanzato l’ipotesi che nelle comunità cattoliche la coesione sociale fosse migliore[36].

 

  • Il 23 settembre 2010 uno studio sociologico dimostra come le persone che lasciano la religione hanno più probabilità di peggiorare loro salute psico-fisica rispetto a coloro che vi rimangono. A guidare la ricerca statistica è stato Christopher Scheitle, il quale commenta: «Abbiamo dimostrato un’associazione tra appartenenti ad un gruppo religioso e risultati positivi per la salute. Ci siamo interessati a cosa accadrebbe alla salute in caso di abbandono religioso». Circa il 40% dei membri utilizzati per lo studio statistico, prima di lasciare la religione, godevano di ottima salute. Tuttavia, solo il 20% è rimasto in buona salute dopo aver abbandonato la fede. I ricercatori hanno segnalato i loro risultati sull’ultimo numero del “Journal of Health Behavior and Social”[37].

 

  • Il 28 ottobre 2010 un’analisi sociologica ha mostrato che gli americani molto religiosi hanno livelli più elevati di benessere rispetto a chi è meno religioso e a chi non lo è affatto. L’analisi si è basata su oltre 550.000 interviste, condotte nel corso dell’ultimo anno dagli esperti del Gallup, noto centro di indagini statistiche americane. Sono stati valutati diversi fattori, che vanno dalla salute fisica ed emotiva all’auto-valutazione della vita, fino alle percezioni dell’ambiente di lavoro. «Questo studio non consente una determinazione precisa del perché di questi dati. E’ possibile che gli americani che hanno un maggiore benessere possono essere più inclini a scegliere di essere religiosi rispetto a quelli con minore benessere. E’ anche possibile che la relgiosità, intesa come vita attiva di fee e partecipazione ai servizi religiosi, a sua volta porti ad un maggiore livello di benessere personale», dice un esperto del Gallup, Frank Newport. Ha poi suggerito ironicamente: «Ora abbiamo la soluzione alla crisi sanitaria. Se siamo interessati a ridurre i costi di assistenza sanitaria in America, dobbiamo aumentare la prevalenza di religione»[38].

 

  • Il 13 dicembre 2010 sulla “American Sociological Review” è apparso uno studio secondo il quale la religione è proprio “l’ingrediente segreto” che rende le persone più felici. «Che ci sia uno stretto legame tra una vita soddisfacente e la vita religiosa è noto da tempo», hanno detto i ricercatori. Lim Chaeyoon, docente di sociologia presso l’Università del Wisconsin-Madison, ha continuato: «Il nostro studio offre una prova convincente che sono gli aspetti sociali della religione che conducono ad una vita soddisfacente. In particolare, siamo convinti che siano le amicizie costruite all’interno delle comunità religiose ad essere l’ingrediente segreto che rende la gente più felice»[39].

 

  • Il 22 febbraio 2011 sull’“American Psychologist”, prestigiosa rivista dell’American Psychological Association (APA) è apparso uno studio di Roger Walsh, psicologo della University of California e dell’Irvine’s College of Medicine, il quale ha studiato gli effetti di quella che è chiamato il “Therapeutic Lifestyle Changes” o TLC (cioè il “cambiamento di vita terapeutico”). I disturbi mentali, compresa la depressione e l’ansia, possono essere curati e trattati anche con cambiamenti dello stile di vita, determinati anche per la guarigione di malattie come il diabete e l’obesità. Gli stili di vita presi in considerazione, associati a una maggior sanità psicofisica e alleati alla guerra verso la depressione e l’ansia, sono: l’esercizio fisico, una dieta ricche di verdure, frutta e pesce, il contatto con la natura, buone relazioni interpersonali e il coinvolgimento religioso e spirituale. Rispetto a quest’ultimo, lo psicologo afferma che «aiuta a ridurre l’ansia, la depressione e l’abuso di sostanze stupefacenti, promuovendo uno stato di benessere». Sopratutto se ci si concentra sull’amore, sul perdono e sull’altruismo, cioè un’estrema sintesi del messaggio cristiano. La raccomandazione che l’American Psychologist fa ai terapeuti, in seguito a questo studio, è di «imparare sempre più i benefici del TLC e dedicare più tempo a promuoverlo tra i pazienti»[40].

 

Il 14
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19/11/2011 22:43
 
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Il 14 marzo 2011 i risultati di una ricerca, apparsi sull’“Interdisciplinary Journal of Research on Religion”, dimostrano l’impatto che la riduzione della frequenza di partecipazione alla chiesa provoca sulla felicità nel mondo femmine degli Stati Uniti. E’ stata realizzata da G. Alexander Ross, docente dell’Institute for the Psychological Sciences in Virginia. Analizzando i dati raccolti dal General Social Survey durante gli anni 1972-2008, si è scoperto che buona parte della diminuzione di felicità tra le donne (maggiore rispetto agli uomini) in questo periodo è attribuibile al calo della frequenza alla chiesa. La ricerca ha anche dimostrato che le donne americane sono più propense degli uomini a partecipare regolarmente alle funzioni religiose. Diversi studi precendenti hanno osservato che frequentare la chiesa offre anche una protezione contro le tendenze anomiche ed egoistiche offerte dalla società moderna e permette un maggior contesto di benessere psico-fisico. E’ evidente che il cammino cristiano permetta all’uomo di acquisire un adeguato significato e scopo da dare alla vita, e questo non può che giovare alla persona nella sua interezza, aiutandola a valorizzare la vita e perfino a valutare positivamente anche gli stess che si incontrano (Stark and Smith, 2010). La vita della chiesa, l’amicizia tra i cristiani, permette anche di costruire forti e sopratutto sane relazioni sociali, inibendo l’isolamento sociale (Baumeister and Leary, 1995). Sicuramente -continua lo psicologo- ciò è amplificato proprio nel cristianesimo, dove il rapporto tra Dio e l’uomo è basato sull’amore e sul perdono. La direzione causale -ci tiene a suggerire- può però essere invertita. Per esempio, l’infelicità di un individuo o la depressione possono inibire il suo desiderio di impegnarsi socialmente o scoraggiare la presenza in chiesa. Sicuramente è un influenza bidirezionale. Il declino della felicità femminile negli ultimi tre decenni e mezzo, continua lo psicologo, è anche dovuto alla conseguenza del calo di una frequenza regolare in chiesa, indebolendo la concezione di un signfiicato e di un fine della propria vita, venendo così a mancare una prospettiva positiva e piena di speranza. Inoltre, i cambiamenti che la nostra società ha vissuto negli ultimi decenni, hanno avuto un impatto negativo sulla felicità delle donne e l’analisi conferma che chi frequenta la chiesa risulta essere meno sensibile a tale impatto. In particolare, le donne che andavano in chiesa meno di una volta all’anno hanno visualizzato un significativo calo di felicità nel corso degli ultimi tre decenni e mezzo[41].

 

  • Il 25 aprile 2011 uno studio scientifico, intitolato “Health benefits of Christian faith”, ha indicato che coloro che credono in Dio vivono generalmente una vita più sana, ma possono anche più frequentemente vivere 14 anni in più. Lo hanno rilevato ricercatori inglesi del Christian Medical Fellowship (un ente che riunisce 4350 medici e ricercatori e 980 studenti di medicina) attraverso una metanalisi. L’81% degli studi pubblicati dimostra infatti che i cristiani affrontano meglio la malattia, recuperano più velocemente e sono maggiormente protetti da malattie future. I Drs. Bunn Alex e David Randall hanno dichiarato: «La ricerca pubblicata suggerisce che la fede è associata ad una maggiore durata della vita e a una vasta gamma di benefici per la salute. In particolare, la fede è associata ad una migliore salute mentale». L’analisi si è basata su più di 1.200 studi e 400 recensioni. Questi benefici sono riassumibili in: benessere psicofisico, felicità e soddisfazione di vita, speranza e ottimismo, scopo e significato nella vita, maggiore autostima, migliore adattamento al lutto, maggiore sostegno sociale e meno solitudine, tassi inferiori di depressione e più veloce recupero, tassi più bassi di suicidio, meno ansia, meno psicosi e meno tendenze psicotiche, tassi più bassi di alcol e droga, meno delinquenza e criminalità, maggiore e soddisfatta stabilità coniugale[42].

 

  • Il 24 maggio 2011 uno studio realizzato da Ali Ahmed della Linnaeus University e Osvaldo Salas della University of Gothenburg ha dimostrato che le persone tendono a comportarsi in modo migliore se sperimentano, o sono stati educate a pensieri religiosi. Hanno testato 224 studenti della Pontificia Universidad Católica de Valparaíso in Cile attraverso due classici esami per analizzare la “generosità” e “l’egoismo”, e cioè il Dictator Game e il Prisoner’s Dilemma. Il primo test misura il grado di “altruismo”, mentre il secondo valuta la capacità di cooperazione. Coloro che avevano ricevuto un’educazione religiosa tendevano ad essere più generosi e cooperativi, indipendentemente dal fatto che essi concepivano loro stessi come persone religiose.I ricercatori hanno proposto due possibili interpretazioni dei risultati: 1) Sentire la presenza di Dio stimola le persone a comportarsi bene. Se questo è vero, i non religiosi devono avere un qualche tipo di istinto sull’esistenza di Dio (magari dovuta dalla loro educazione o dalla loro biologia), indipendentemente dalle loro convinzioni coscienti. 2) L’educazione religiosa promuove comportamenti pro-sociali, e ciò rimane valido anche per chi non è più credente[43].

 

  • Il 16 giugno 2011 durante le Giornate Pisane di Psichiatria e Psicofarmacologia Clinica è stato presentato uno studio sulle condizioni post-traumatiche degli abitanti de L’Aquila, a seguito del sisma del 6 aprile 2009. I ricercatori si sono basati sulle diverse reazioni umane a eventi traumatici di gravità estrema, esattamente come può essere un terremoto. «Dai risultati che abbiamo avuto dai test sulla spiritualità emerge che la fede riveste un grande ruolo protettivo nei confronti della psicopatologia», spiega la prof.ssa Dell’Osso, guida della prestigiosa Clinica Psichiatrica dell’Università di Pisa[44].

 

  • Il 28 giugno 2011 su Rehabilitation Psychology sono stati pubblicati i risultati di uno studio, condotto dagli psicologi Brigid Waldron-Perrine e Lisa J. Rapport, che ha affrontato gli effetti della religione sulla riabilitazione dopo un trauma cranico. I ricercatori sono partiti dai risultati di precedenti ricerche, per le quali è evidente come «tra gli adulti in buona salute, la religione e la spiritualità hanno dimostrato una forte associazione con la soddisfazione della vita e migliori risultati di salute fisica e mentale», ha detto Waldron-Perrine. Hanno così sottoposto a test neuropsicologici 88 individui vittime di trauma cranico (quasi tutti cristiani), scoprendo che la maggior parte dei partecipanti che hanno riportato livelli più elevati di benessere religioso, aveva risultati migliori di riabilitazione emotiva e fisica. Hanno così concluso: «la religione può assumere anche un grande potere come risorsa psico-sociale»[45].

 

  • Sempre nel giugno 2011 uno studio ha dimostrato che l’andare in chiesa è associato a differenze sostanziali nel modo in cui giovani uomini si comportano. L’autore, Byron R. Johnson, criminologo, docente di Scienze Sociali presso la Baylor University e membro del Consiglio di coordinamento per la Giustizia Minorile e Prevenzione della delinquenza ha pubblicato il libro “More God, less crime”, e dimostra come l’aumento della religiosità non solo riduce la criminalità e la delinquenza, ma promuove anche un sano comportamento sociale. Arriva così alla conclusione che la religione cristiana può essere un potente antidoto contro la criminalità. I dati mostrano che il “fattore fede” può diventare un potente catalizzatore per mobilitare gli sforzi per affrontare efficacemente i problemi cronici del sistema di giustizia penale americana. Nel libro sono raccolti tutti gli studi tra il 1944 e il 2010 che hanno misurato i possibili effetti della religione sulla criminalità, cioè circa 273. Il 90% di questi hanno mostrato che avere “più religiosità” porta a meno criminalità e solo il 2% ha trovato che la religione produce più criminalità (il restante 8% non ha trovato alcuna relazione)[46].

 

  • Nell’agosto 2011 i ricercatori del McLean Hospital, affiliato all’Università di Harvard, hanno concluso in seguito ad una ricerca che coloro che credono in un Dio benevolo, come cristiani ed ebrei, tendono a preoccuparsi meno ed essere più tolleranti verso le incertezze della vita. Lo studio, pubblicato sul Journal of Clinical Psychology, è stato realizzato dal Dr. David H. Rosmarin del Dipartimento di Psichiatria dell’Harvard Medical School, ed è stato presentato durante la riunione annuale della prestigiosa American Psychological Association[47].

 

  • Nel novembre 2011 sulla rivista “Journal of Religion, Disability & Health”, i ricercatori dell’Università del Missouri hanno pubblicato uno studio i cui risultati confermano l’idea che «la religione possa aiutare ad attenuare le conseguenze negative derivanti da un male cronico». Lo studio ha evidenziato come la frequenza ad attività religiose e spirituali è associata ad una migliore salute mentale per le donne e mentale e fisica per gli uomini affetti da una malattia cronica o disabilità.[48].

 

  • Sempre nel novembre 2011, i ricercatori della Yeshiva University, guidati da Eliezer Schnall, professore associato di psicologia clinica, si sono concentrati sulle donne, verificando uno stretto legame tra ottimismo/felicità e la frequenza alle funzioni religiose. Coloro che partecipano ai servizi religiosi, infatti, risultano avere il ​​56% in più di probabilità di possedere una visione positiva e ottimistica della vita rispetto a quelli che non lo fanno. Inoltre, hanno il ​27% di probabilità in meno di essere depresse, dicono gli studiosi. La ricerca è pubblicata sull’ultimo numero di “Journal of Religion and Health” e il campione utilizzato è stato di 92.539 donne, in postmenopausa, provenienti da ambienti diversi e di età superiore ai 50 anni. Schnall ha però avvertito, correttamente, che non c’è un determinato principio di causalità tra l’andare in Chiesa e la felicità, potrebbe anche essere l’inverso, ovvero che le persone più positive scelgano di andare in Chiesa.[49].

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19/11/2011 22:46
 
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NOTE

[1]^ http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/9224176
[2]^ http://www.scienceblog.com/community/older/1998/A/199800845.html
[3]^ http://scienceblog.com/community/older/1998/B/199801154.html
[4]^ http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/10332617
[5]^ http://www.scienceblog.com/community/older/1999/D/199903290.html
[6]^ http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/10462170
[7]^ http://scienceblog.com/community/older/2000/D/200003946.html
[8]^ http://scienceblog.com/community/older/2000/D/200003354.html
[9]^ http://www.apa.org/news/press/releases/2000/06/religion.aspx
[10]^ http://scienceblog.com/34604/faith-based
[11]^ http://scienceblog.com/community/older/2001/D/200114964.html
[12]^ http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/12075917
[13]^ http://scienceblog.com/community/older/2002/G/20021554.html
[14^ http://www.scienceblog.com/community/older/2002/A/20026986.html
[15]^ http://www.ingentaconnect.com/content/klu/johs/2002/00000003/00000004/05103299
[16]^ http://scienceblog.com/494/religious-high-schoolers-more-optimistic-have-better-self-esteem/
[17]^ http://psycnet.apa.org/journals/amp/58/1/36/
[18]^ http://scienceblog.com/1354/more-religion-means-fewer-drugs-in-adolescents
[19]^ http://www.scienceblog.com/community/older/2003/A/20037338.html
[20]^ http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/15646761
[21]^ http://www.uccronline.it/2011/03/14/universita-del-texas-%C2%ABgli
[22]^ http://www.sciencedirect.com/science?_ob= e su http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/15917059#
[23]^ http://psycnet.apa.org/index.cfm?fa=buy.optionToBuy&id=2005-09798-012
[24]^ http://www.health.am/hypertension/more/religion_and_spirituality_on_blood_pressure/
[25]^ http://scienceblog.com/12091/go-to-church-and-breathe-easier/
[26]^ http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/17516883
[27]^ http://psycnet.apa.org/index.cfm?fa=search
[28]^ http://www.annalsofepidemiology.org/article/S1047-27 e http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pu
[28,1]^ http://www.uccronline.it/2011/04/18/ricerca-della-bayl
[29]^ http://scienceblog.com/17632/spirituality-protects-against-depression-better-than-church-attendance/
[30]^ http://scienceblog.com/18125/does-religion-lead-to-more-self-control/
[31]^ http://www.lastampa.it/_web/CMSTP/tmplrubri
[32]^ http://www.uccronline.it/2010/09/03/science-daily-chi-crede-in-dio-e-protetto-dalla-depressione/
[33]^ http://www.uccronline.it/2010/08/18/malattia-e-psicologia-i-credenti
[34]^ http://www.uccronline.it/2010/08/27/universita
[35]^ http://scienceblog.com/38017/american-women-are-happi
[36]^ http://www.uccronline.it/2010/10/01/universita-di-berna-s
[37]^ http://www.uccronline.it/2010/10/04/ricercatori-americani-le-pers
[38]^ http://www.uccronline.it/2010/11/05/indagine-gallup-le-person
[39]^ http://www.uccronline.it/2010/12/22/nuova-ricerca-sociolo
[40]^ http://www.uccronline.it/2011/03/07/american-psych
[41]^ http://www.uccronline.it/2011/03/16/institute-f
[42]^ http://www.uccronline.it/2011/04/29/secondo-una
[43]^ http://www.uccronline.it/2011/06/16/chi-riceve-uneducazione-religiosa-
[44]^ http://www.uccronline.it/2011/06/21/ricercatori-ital
[45]^ http://www.uccronline.it/2011/07/12/nuova-ricerca-chi-e-
[46]^ http://www.uccronline.it/2011/06/13/uno-studio-dimostra-che
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15/12/2011 23:27
 
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Università dell’Arizona:

 la preghiera aiuta effettivamente la guarigione

La stretta alleanza fra scienza e fede appare molto più evidente nelle università e sulle riviste scientifiche piuttosto che sui quotidiani di cronaca. Può la scienza occuparsi della preghiera e dei suoi effetti sull’uomo? Pare di si. E’ quanto riportano ScienceDaily e Physorg.com. Lo studio, effettuato nel 2007 dall’Arizona State University, è stato guidato da David R. Hodge.

Egli ha condotto un’analisi completa di 17 importanti studi sugli effetti della preghiera per intercessione – cioè, la preghiera che viene offerta a vantaggio di un’altra persona -rivolta a persone con problemi psicologici o fisici. Egli ha trovato un effetto positivo. Intervistato dalla Social Work Practice, una delle più prestigiose riviste nel campo del lavoro sociale, ha dichiarato: «In questi anni ci sono stati una serie di studi sulla preghiera per intercessione. Abbiamo condotto quindi una meta-analisi su essi, prendendo in considerazione l’intero corpo della ricerca empirica. Utilizzando questa procedura abbiamo trovato che la preghiera offerta a nome di un altro, produce effettivamente risultati positivi su quest’ultimo».

Il ricercatore ha osservato che lo studio della sua equipe è molto importante perché è un’analisi di vari documenti e non un lavoro unico (la meta-analisi è sostanzialmente un riassunto dei risultati provenienti da varie ricerche sullo stesso argomento). «Questo studio ci permette di guardare il quadro generale -ha continuato-. Attualmente è il più completo ed esaustivo studio di questo tipo su questo tema. Inoltre suggerisce che la ricerca su questo argomento è giustificata, dato che la preghiera verso persone con problemi psicologici o medici può aiutare effettivamente a farle recuperare».

I risultati hanno avuto un’ampia diffusione e, oltre ad essere inclusi nel Social Work Practice, sono apparsi sul Journal of Social Service Research, Journal of Marital and Family Therapy, e Families in Society. Hodge ha anche scritto un libro intitolato: “Assistenza spirituale: un manuale per aiutare i professionisti”.

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15/12/2011 23:30
 
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Ricercatori italiani:

la fede ha un grande ruolo protettivo sulla psicopatologia

Uno studio sulle condizioni post-traumatiche degli abitanti de L’Aquila, a seguito del sisma del 6 aprile 2009, è stato presentato in anteprima durante le Giornate Pisane di Psichiatria e Psicofarmacologia Clinica organizzate da Liliana Dell’Osso e Giulio Perugi. I ricercatori si sono basati sulle diverse reazioni umane a eventi traumatici di gravità estrema, esattamente come può essere un terremoto. Ne ha parlato Il Riformista in un articolo intitolato: “Per la scienza la religione rende più forti”.

«Dai risultati che abbiamo avuto dai test sulla spiritualità emerge che la fede riveste un grande ruolo protettivo nei confronti della psicopatologia», spiega la prof.ssa Dell’Osso, guida della prestigiosa Clinica Psichiatrica dell’Università di Pisa. I risultati quindi corrispondono a quelli raggiunti dallo studio pubblicato qualche mese fa sull’American Psychologist, prestigiosa rivista dell’American Psychological Association (APA), dove si dimostrava come il coinvolgimento religioso «aiuta a ridurre l’ansia, la depressione e l’abuso di sostanze stupefacenti, promuovendo uno stato di benessere» (cfr. Ultimissima 7/3/11). Riteniamo che una spiegazione di questi risultati possa essere individuata nelle parole che Benedetto XVI ha scritto nell’enciclica Spe Salvi, e cioè che per i cristiani è Dio stesso «il fondamento della speranza. Non un qualsiasi dio, ma quel Dio che possiede un volto umano e che ci ha amati sino alla fine: ogni singolo e l’umanità nel suo insieme. Il suo regno non è un aldilà immaginario, posto in un futuro che non arriva mai, il suo regno è presente là dove Egli è amato e dove il suo amore ci raggiunge». Così «il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto ed accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino».

 

LA MALATTIA NON E’ GENETICA. La specialista rivela anche che dallo studio (in parallelo a quello svolto a 20 giorni dal crollo delle Torri Gemelle di New York) emerge come la malattia non è una questione genetica, cioè, «possedere nel proprio DNA un dato gene non significa possedere la malattia a lui associabile, ma servono dei fattori scatenanti in grado di attivare la componente genetica. Fattori ambientali e agenti patogeni ai quali ciascun individuo è esposto nella sua vita dal momento del concepimento e che, nel 90% dei casi, fanno la differenza». Sono dunque i fattori ambientali i responsabili della malattia e non tanto la genetica con cui l’uomo è creato.

CONSEGUENZE DEL DIVORZIO SUI FIGLI. La Dell’Osso ha parlato anche dei tanti eventi stressanti precoci, i quali finiscono per creare una sorta di cicatrice, uno stato di vulnerabilità, sul cui terreno eventi tardivi innescano numerose malattie psichiche. E cita così i diffusissimi casi della sfera affettiva, come le conseguenze del divorzio dei genitori, che porta i figli a «sprofondare nella depressione. Il divorzio dei genitori diventa così una vera e propria ferita momentaneamente rimarginata, ma pronta a riprendere a sanguinare nel caso ci siano nuove rotture».

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11/02/2012 19:29
 
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Pontifex.Roma

La preghiera ha caratteristiche terapeutiche.

Lo conferma il noto psichiatra professor Alessandro Meluzzi. Professor Meluzzi, é dunque vero che la preghiera fa bene a corpo e mente? "certo, questa non é una invenzione, ma appartiene a fatti scientificamente provati ed accertati. La preghiera in sé stessa aiuta corpo ed anima. Un'anima distesa e disposta al trascendente sa allontanarsi maggiormente dalle vicende e dalle angustie del quotidiano e in questo modo funziona da medico sia della mente che del corpo. In poche parole ha  una potente azione psicosomatica, buona per il complessivo equilibrio della nostra salute". Dunque saper meditare aiuta: "certo, consente all'uomo di fare una pausa nella routine e nella frenetica attività. E'scientificamente provato che specie chi appartiene ad un gruppo di preghiera si ammala di meno. Per esempio, negli Usa le assicurazioni applicano per coloro che si ...

... riuniscono in gruppi di orazione, di qualunque credenza, un massimale diverso, valutando che hanno meno possibilità di ammalarsi".

Poi precisa: "questo é quello che la scienza ha accertato ed é inoppugnabile anche  a livello ormonale, di mente e di formazione di difese immunitarie, ma é anche sotto investigazione un altro fatto".

Ovvero? "si ammalano di meno quelle persone nei confronti delle quali altri pregano senza che loro lo sappiano. Ossia la preghiera indiretta  e disinteressata ha effetto, specie quando il destinatario non lo sa. Non vi é niente di provato, ma accade. Si vedrà in futuro".

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06/03/2012 22:38
 
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Le persone di fede hanno minore ipertensione e maggiore salute

Recenti studi internazionali continuano a confermare quello che è una Verità empirica da qualche millennio: essere religiosi fa bene alla salute e alla psiche.

Secondo un vasto studio longitudinale dell’Università Norvegese di Scienza e Tecnologia (NTNU), effettuato su un campione di 120.000 persone e pubblicato su “The International Journal of Psychiatry in Medicine”, ci sarebbe una potente correlazione fra una minore ipertensione e una maggiore frequenza alle funzioni religiose. Ad onor del vero, tuttavia, gli scienziati non hanno specificato se fosse l’attività religiosa a causare questo netto miglioramento di salute o l’andare in chiesa sia dovuto ad una bassa ipertensione e al generico benessere psicofisico.

Un altro studio realizzato dal centro “Gallup” ha invece confermato la correlazione fra religiosità e benessere mentaleed emotivo dell’individuo: su un campione di oltre 676.000 persone, il maggior wellbeing (termine anglosassone che comprende il benessere fisico, emotivo e mentale) sarebbe posseduto da individui molto religiosi, mentre mano a mano che la fede viene meno, tale valore di qualità della vita di abbassa in proporzione diretta. Bene per gli Ebrei e i Mormoni, che godono del podio assieme ai Musulmani, mentre i Cattolici hanno un onorevole quarto posto, nonostante il regime fortemente anti-cattolico della politically correctness internazionale, contro la quale sicuramente ogni cattolico si sarà scontrato, accumulando inevitabile stress. Atei e agnostici hanno, nemmeno a volersi sorprendere,l’ultimo posto nella classifica. In questa pagina abbiamo raccolto un elenco di studi che raggiungono lo stesso identico risultato.

Insomma: le “norme assurde” e i “dogmi intollerabili” che dovrebbero creare tensione, frustrazione e dolore interiore e dal quale l’Umanità dovrebbe “liberarsi” sono invece un toccasana fisico, psicologico e spirituale più accessibile e più economico delle decennali terapie dagli analisti e delle ore spese a coltivare il Nulla nelle palestre e nei centri massaggi.

Marzio Morganti

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02/04/2012 21:18
 
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Studio USA: chi frequenta la chiesa sperimenta miglior umore

Su Livescience.com è stato pubblicato un articolo a firma Stephanie Pappas che riporta i dati di una recente analisi di Gallup, il cui risultato è che gli americani che regolarmente partecipano alle funzioni religiose sono più felici di quelli che non lo fanno. L’effetto è particolarmente elevato la domenica quando chi si reca in chiesa vede aumentare il suo buon umore, mentre chi frequenta meno lo vede diminuire.

L’analisi si è basata su 300.000 interviste raccolte nel 2011 e ha rilevato, su base giornaliera, che chi frequenta i riti della propria religione ha più emozioni positive e meno emozioni negative di chi invece frequenta molto meno. Per chi si reca in chiesa almeno una volta a settimana, ad esempio, riporta 3.36 emozioni positive e 0.85 emozioni negative al giorno, contro le 3.08 emozioni positive e le 1.04 emozioni negative di chi non vi si reca mai. La domenica è il giorno della settimana in cui il benessere dei praticanti e quello dei non praticanti diverge in modo significativo, con un netto incremento dei praticanti e una netta deflessione dei non praticanti. Questa ulteriore differenza si può forse spiegare perché «alcuni americani laici cominciano a temere il ritorno al lavoro del lunedì o limitare le loro attività sociali o di svago domenicale per preparare l’inizio della settimana lavorativa», spiegano i ricercatori.

 

Qui sotto il confronto tra benessere e partecipazione in chiesa

Qui sotto il confronto tra malessere e partecipazione in chiesa

Sul sito di Gallup viene citato Daniel Kahneman, il quale scrive che tutto ciò «suggerisce che il numero amicizie dei fedeli praticanti spiega la soddisfazione di vita più elevata tra di loro. Inoltre, la ricerca ha scoperto che l’amicizia in chiesa è più fortemente correlata con la soddisfazione di vita per amicizie in altri contesti, come ad esempio sul posto di lavoro o in eventi culturali». Diversi studi precedenti hanno già messo in evidenza un collegamento tra l’essere religiosi e l’essere felici, proprio su UCCR esiste un lungo elenco di studi di questo genere.

Davide Galati

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05/04/2012 00:33
 
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Studio asiatico: la religione non serve per scongiurare la morte

Secondo una visione naturalistica della religione, essa avrebbe senso soltanto come consolazione verso la tragedia della morte (teoria “del comfort”). L’uomo sarebbe religioso non perché Dio si sia reso incontrabile nella storia, ma perché “l’invenzione di Dio” aiuterebbe la persona a fuggire dall’idea della morte, a non temerla.

In poche parole siamo di fronte ad una fallacia argomentativa in quanto si scambia arbitrariamente un possibile effetto con la causa. Va detto comunque che certamente esiste chi, magari vecchio e malato, sceglie di abbracciare la religione come motivo di consolazione. Ma, come ha giustamente scritto Simone Weil«la religione in quanto fonte di consolazione è un ostacolo alla vera fede, e in questo senso l’ateismo è una purificazione» (Quaderni II, 1940/42, postumo, 1953), cioè è un aiuto verso chi abbraccia forme fideiste, è un pungolo che spinge a rivedere la propria posizione per abbracciare il contenuto vero della fede. Anche perché, secondo l’antropologo dell’Università di OxfordJonathan Lanman, «dal punto di vista psicologico, abbiamo poche prove che le nostre menti crederanno in qualcosa solo perché sarebbe confortante farlo».

Il messaggio cristiano non serve come consolazione, ma è l’unico a rendere pienamente sensato vivere ora,  dando un significato vero e adeguato “qui e ora” (“hic et nunc”). Non c’è altro motivo della felicità nell’istante, del condurre un’esistenza all’altezza della propria umanità. Come veniva riportato su“Avvenire”, citando il teologo Giussani: «l’avvenimento cristiano non identifica solo qualcosa che è accaduto e con cui tutto è iniziato, ma ciò che desta il presente (…). Il nostro io non può essere mosso, commosso, cioè cambiato, se non da una contemporaneità: un avvenimento. Cristo è qualcosa che mi sta accadendo ora». Al cristiano interessa vivere fino in fondo l’istante, nessuna consolazione. Se fosse vero che i cristiani sono concentrati solo sull’”altra vita”, non si capirebbe perché abbiano creato tanta cultura nella storia umana (musica, arte, scienza…). Come ha scritto il sempre ottimo Claudio Magris«il cristiano crede che il paradiso, una società perfetta realizzata una volta per tutte, non sia possibile sulla terra, ma questo è di per sé un fermento progressivo, che aiuta a resistere contro le delusioni che puntualmente avvengono quando si attende una rivoluzione che risolva tutto e per sempre». Inoltre, gli ha risposto il cardinale Agostini, prefetto emerito della Congregazione per le Chiese Orientali, «c’è per ogni cristiano la responsabilità di ciò che accade a lui e ai suoi fratelli, cosicché è chiamato ad adoperarsi continuamente perché questa vita sia meno ingiusta [...]. Se ti salvi non puoi farlo come se fossi solo, lo devi fare vivendo con gli altri ed aiutando gli altri. Il cristiano è colui che annuncia; è missionario, e non può ignorare la condizione degli altri, che è fatta di aspettative, di incertezze, di negazioni. Questa è la condivisione, la responsabilità e la solidarietà con il mondo». Altro che indifferenza per “questa vita”!

Tornando al tema principale, se la religione servisse davvero per scongiurare il pensiero della morte (la cosiddetta “fuga religiosa”), non si capisce perché i credenti spendano mediamente più soldi per prolungare la loro vita in caso di malattia, come dimostra questa ricerca. In questi giorni è stato pubblicato un altro interessante studio da parte di ricercatori dell’University of Malaya i quali, intervistando circa 5000 studenti in Malesia, Turchia, e Stati Uniti, hanno scoperto che le persone religiose (islamiche, in particolare) temono maggiormente la morte di quelle non religiose. A questo punto avrebbe dunque ragione chi sostiene che in realtà sia l’ateismo ad essere consolatorio rispetto alla morte, sopratutto in chi ha vissuto o vuole vivere una vita disordinata e “autoreferente”. La cosa certa è che l’irreligiositàbanalizza ogni fase dell’esistenza (“l’uomo non è nient’altro che..”, si sente ripetere dagli ateologi) sopratutto la sua fine: verso questa interpretazione vanno le ricerche in cui si mostra che i non credentihanno elevati tassi di suicidioaddirittura il doppio di chi crede in Dio.

Luca Pavani

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17/04/2012 12:25
 
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L’attaccamento a Dio:   una forma di legame che dà sicurezza


 
di Maria Beatrice Toro
*psicologa e psicoterapeuta

 

«Molti aspetti delle credenze e dei comportamenti religiosi possono essere interpretati in maniera utile e significativa anche in termini di dinamiche d’attaccamento» (Kirkpatrick). Il presente contributo rappresenta l’ideale continuazione del lavoro svolto in precedenza e pubblicato sul sito UCCR, a proposito del legame tra religiosità e benessere psichico, intendendo approfondire le dinamiche interiori che si attivano nell’esperienza di Dio. In particolare, ciò che mi accingo a illustrare è una possibile chiave di lettura della relazione tra l’uomo e Dio alla luce delle teorie elaborate in merito al legame di attaccamento tra il bambino e il suo caregiver, ovvero la persona (o le persone) che lo accudiscono,rispondendo, come oggi si sa, ai suoi bisogni relazionali prima ancora che a quelli alimentari (come aveva, diversamente, teorizzato Freud, immaginando che le prime pulsioni del bambino fossero indirizzate verso il soddisfacimento del bisogno orale-alimentare).

Con il termine “attaccamento”,  Bowlby vuole indicare ( (Bowlby, J., “Una base sicura”, Raffaello Cortina, Milano 1988)  il primo legame affettivo, intimo, duraturo, estremamente significativo dal punto di vista emotivo, che si stabilisce fin dalla nascita tra un bambino e una figura di riferimento, madre, padre, surrogato, che si prende cura di lui, lo protegge e lo sostiene nei tentativi di esplorazione dell’ambiente circostante. Questo legame garantisce al piccolo la sopravvivenza dal punto di vista fisico e psicologico e gli consente di adattarsi all’ambiente sociale che lo circonda. Il legame di attaccamento si basa su una serie di comportamenti messi in atto da entrambi i componenti della relazione: sorrisi, vocalizzi, pianti e rispettive reazioni del caregiver, compresi avvicinamenti e allontanamenti. Tutti i bambini nei primi anni della loro vita costruiscono questo legame verso le figure genitoriali, inclusi i bambini vittime di maltrattamenti o abusi. Non tutti, però, lo stabiliscono nella dimensione della sicurezza, infatti la qualità del legame dipenderà dalla tipologia degli scambi interattivi tra genitore e bambino. La relazione che scaturisce dal legame di attaccamento, sia esso sicuro o insicuro, una volta interiorizzata, verrà utilizzata anche come modello di riferimento da attuare in tutte le relazioni intime che verranno a crearsi nelle successive fasi evolutive. Tali modelli operativi interni, per attenerci sempre al gergo utilizzato da Bowlby, subiscono l’influenza degli eventi che si susseguono nel corso della vita per cui con lo sviluppo, verso il raggiungimento della fase adulta, tali modelli relazionali vengono riproposti nei rapporti con i pari, con il partner, verso il proprio figlio qualora si scegliesse di diventare genitore ma anche nella relazione di amore con Dio.

Uno dei primi studiosi che ha applicato la teoria dell’attaccamento al vissuto di fede religiosa è Lee A. Kirkpatrick. Lo psicologo americano ritiene che l’applicazione del modello d’attaccamento alla fede religiosa per certi versi appare “più chiara rispetto a quella delle relazioni di coppia” anzi «sotto molti aspetti la fede religiosa può fornire una visione unica dei processi di attaccamento nell’età adulta» (Kirkpatrick, L., A., “Attaccamento e rappresentazioni e comportamenti religiosi”, In Cassidy, J., Shaver, P.R. (Eds.). Manuale dell’attaccamento, Fioriti, Roma, 1999). L’elemento centrale del pensiero di Kirkpatrick è l’idea che Dio sia percepito come figura d’attaccamento, per cui il credente percepisce di vivere una personale esperienza di relazione caratterizzata dagli elementi della vicinanza e della sicurezza, che subiscono diverse sorti nella storia personale del singolo.

La fede è dunque – dal punto di vista psicologico – un’esperienza di relazione: in essa il credente si abbandona completamente e con fiducia ad un Altro diverso da sé, Dio. L’esperienza di fede, quindi, è preparata dalla profonda esperienza emotiva e affettiva del sentirsi amati, accettati e accolti (Diana, M., “Dio e il bambino. Psicologia ed educazione religiosa”, Elledici, Leumann, Torino, 2007), oppure del sentirsi nell’insicurezza e nel pericolo, alla ricerca di una cura.  Un elemento cardine della fede cristianaconsiste nella certezza che Dio è amore: questo è proprio il sentimento che si pone a fondamento del rapporto duale Dio-uomo fintanto che, spesso, la conversione è stata paragonata all’esperienza dell’innamoramento. L’intima relazione tra l’uomo e Dio, dal punto di vista psicologico, può esser letta come legame di attaccamento, caratterizzato da quattro elementi specifici (Kirkpatrick, L. A., op. cit.):

  • La ricerca e il mantenimento della prossimità a DioEsistono diverse modalità per sentire la vicinanza a Dio, un esempio consiste nel credere all’onnipresenza e ritenersi pertanto sempre in prossimità rispetto a Dio, o, ancora, il fedele si reca nei “luoghi di culto sacri”, per esperire una forte vicinanza al Signore. La massima espressione della prossimità consiste nella preghiera contemplativa e meditativa; attraverso la preghiera il credente si percepisce vicino al suo Dio poiché può instaurare un silenzioso ma intenso dialogo mediante cui stabilire un contatto diretto.
  • Dio come rifugio sicuro. La religione sembra essere un appiglio di fondamentale importanza nei momenti di maggiore difficoltà che la vita ci chiama ad affrontare, questi vengono vissuti come elementi stressogeni da un punto di vista fisico e psichico. Basti pensare a condizioni in cui si vive una malattia grave, una situazione avversa o ancora peggio la perdita improvvisa o meno di un proprio caro. In tali situazioni Dio viene vissuto come un rifugio immateriale, come colui che può offrire sostegno.
  • Dio come base sicura. Il concetto di “base sicura” è un caposaldo della teoria dell’attaccamento, in ambito religioso si ritiene che ogni fedele percepisce la figura divina come un entità onniessente, disponibile, in grado di comprendere anche l’incomprensibile. La si potrebbe definire come la base sicura ideale, dal momento che, a differenza dei genitori spesso impegnati nel lavoro o in altro, Dio si può invocare in ogni momento, anche il più intimo, anche il più tragico, per ricevere la forza di cui necessitiamo in quel particolare frangente della nostra esistenza.
  • Reazioni alla separazione o alla perdita. «la separazione da Dio è la vera essenza dell’inferno» (Kirkpatrick, L., A., op. cit.). Il processo di attaccamento è riscontrabile anche nelle reazioni alla separazione o alla perdita della figura d’attaccamento; la perdita della fede si può vivere, in una prospettiva psicologica, analogamente alla fine di relazioni interpersonali importanti.

 

Conclusioni.
Le teorie oggi prevalenti in psicologia ci insegnano a considerare che il primo bisogno umano sia la relazione, piuttosto che l’oralità. Nella relazione si costruiscono identità, percezione dell’altro, ponendo le basi per il proprio modo di vivere e dare significato alla vita. Alla luce di tali considerazioni viene da chiedersi cosa riserverà il futuro a coloro che durante l’infanzia non hanno avuto modo di saggiare un legame basato sulla fiducia. I bambini che hanno sviluppato un legame di attaccamento insicuro verso i propri genitori, crescendo, potranno fare riferimento alla relazione tessuta con il partner, con un amico o con una figura formativa rilevante quale un educatore, un insegnante, un sacerdote. Questo ripiegamento emotivo consentirà di modificare la struttura del proprio modello insicuro finora interiorizzata per dirigersi verso la sicurezza. Questi stessi bambini potranno, quale opzione di crescita, rivolgersi a Dio, come figura in grado di colmare le lacune vissute. Quanto costruito in passato si potrà mettere in discussione ed essere oggetto di una profonda trasformazione, attraverso una nuova relazione d’amore, duratura nel tempo e caratterizzata da sicurezza, accoglienza, reciprocità.

Si ringrazia la Dott.ssa Claudia Romani per il confronto sul tema oggetto del presente articolo.

 

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Bibliografia

Bowlby, J., Una base sicura, Raffaello Cortina, 1988, Milano
Simonelli, A., Calvo, V., L’attaccamento: teoria e metodi di valutazione, Carocci, 2002, Roma
Cassibba, R., Attaccamenti multipli, Unicopli, 2003, Milano
Fizzotti, E., Psicologia dell’atteggiamento religioso. Percorsi e prospettive, Centro Studi Erickson , 2006, Gardolo;
Diana, M., Dio e il bambino. Psicologia ed educazione religiosa, Elledici, 2007, Leumann, Torino
Ainsworth, M., D., S., Blehar, M., C., E., Waters, S., Wall, Patterns of attachment: a psychological study of the strange situation, Erlbaum, Hillsdale, 1978
Roveran, R., Attaccamento e relazione tra uomo e Dio, in «Famiglia Oggi», 4, 2007
Bruno, S., Le radici affettive del rapporto con Dio: un possibile percorso di educazione alla fede,in «Vita pastorale», 4, 2008
Kirkpatrick, L., A., Shaver, P., R., An attachment theoretical approach to romantic love and religious belief, in «Personality and Social Psychology Bulletin», 18, 1992
Kirkpatrick, L., A., Attaccamento e rappresentazioni e comportamenti religiosi, In Cassidy, J., Shaver, P.R. (Eds.). Manuale dell’attaccamento, Fioriti, Roma, 1999
Attachment and Religious Representations and Behavior, in J.Cassidy – Shaver, P., R., (a cura di), Handbook of attachment. Theory, Research and Clinical Applications, The Guilford Press, 1999, New York

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17/04/2012 12:27
 
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Nuova ricerca:

chi è religioso recupera meglio dopo un trauma cranico

Sulla rivista Rehabilitation Psychology sono stati recentemente pubblicati i risultati di uno studio, condotto dagli psicologi Brigid Waldron-Perrine e Lisa J. Rapport, che ha affrontato gli effetti della religione sulla riabilitazione dopo un trauma cranico.

I ricercatori sono partiti dai risultati di precedenti ricerche, per le quali è evidente come «tra gli adulti in buona salute, la religione e la spiritualità hanno dimostrato una forte associazione con la soddisfazione della vita e migliori risultati di salute fisica e mentale», ha detto Waldron-Perrine. Ma la ricerca sugli effetti della religione nella riabilitazione da trauma cranico (TBI) in particolare, era ancora carente.

Così hanno sottoposto a test neuropsicologici 88 individui vittime di trauma cranico (quasi tutti cristiani), scoprendo che la maggior parte dei partecipanti che hanno riportato livelli più elevati di benessere religioso, aveva risultati migliori di riabilitazione emotiva e fisica.

Indipendentemente da chi abbia ragione, tra credenti e non credenti, la ricerca scientifica dimostra comunque che i primi vivono mediamente una vita più soddisfacente, hanno una miglior efficienza psico-fisica e ottengono una migliore riabilitazione dai traumi fisici. Così, concludono i ricercatori, «la religione può assumere anche un grande potere come risorsa psico-sociale».

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05/06/2012 23:26
 
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Julian Baggini e la facile tristezza dell’ateo

La cultura miscredente pare avere qualche problema d’immagine, sopratutto con il termine “ateo”. Lo spiega Julian Baggini dalle colonne del “Guardian”: «Il problema con il soprannome di “ateo” è riconosciuto da decenni. E’ troppo negativo, troppo associato al nichilismo amorale».  Dopo le violenze in nome dell’assenza di Dio perpetrate negli ultimi due secoli (Illuminismo e Comunismo), ormai il termine “ateo” è pregiudizialmente abbinato a qualcosa di negativo.

Tanti esponenti hanno fortemente contribuito al solidificare questo abbinamento, pensiamo solamente in Italia al comportamento deviato di Piergiorgio Odifreddi. Anche Richard Dawkins ha sulle spalle gravi responsabilità per la negativa reputazione dell’ateismo, tant’è che vorrebbe risolvere la questione studiando un termine a tavolino -come ha fatto la comunità omosessuale con “gay”- per trasmettere “positività, calore, allegria”Avrebbe quindi pensato a “bright” (“brillante”), come sostituto di “ateo”.  E’ l’ultima pazza idea di un uomo che -come ha ammesso lui stesso- ha completamente fallito, tanto che i suoi successori -come Alain De Bottonnon esitano a dissociarsi da lui volendo creare un  “nuovo ateismo”, come un antidoto «all’aggressivo e distruttivoapproccio di Dawkins alla miscredenza [...] A causa di Richard Dawkins e Christopher Hitchens, l’ateismo è diventato noto solo come una forza distruttiva. Ma ci sono un sacco di persone che non credono, ma non sono aggressive verso le religioni».

Lo stesso Baggini non è convinto dell’idea di Dawkins, anche perché l’ateismo di per sénon è né caldo, né allegro, né brillante. «Gli atei sembrano spesso sottolineare negli ultimi anni il loro lato allegro», commenta l’intellettuale ricordando ad esempio gli “autobus atei” del solito Dawkins, che invitavano a smettere di preoccuparsi e godersi la vita “senza Dio”. Ma «essi», spiega, «devono vivere con la consapevolezza che non c’èsalvezza, nessuna redenzione, nessuna seconda possibilità [...].  Si può davvero dire ai genitori che hanno perso il loro bambino che dovrebbero smettere di preoccuparsi e godersi la vita? A volte la vita è una merda e non c’è nulla da fare. Non c’è molto di brillante in questo fatto». In questo spietato realismo c’è una grande parte di verità: perché infatti vale la pena vivere, faticare, sudare, soffrire in questa “valle di lacrime” se tutto ha una data di scadenza? L’uomo che si priva di un “oltre” non può che concepirsi come un condannato a morte dal momento della nascita, il quale può solo scongiurareil pensiero della scadenza ultima, distraendosi o resistendo stoicamente. Entrambe azioniinadeguate però, perché qualunque cosa farà avrà sempre dentro l’incombente ombradella fine. 

«La ragione dell’essere ateo», spiega Baggini, «è semplicemente che Dio non esiste e noi prefeririamo vivere in pieno riconoscimento di ciò, accettando le conseguenze, anche se ci rendono meno felici». L’affermazione che “Dio non esiste”, tuttavia, è una semplice scelta di queste persone, basata su nessun riconoscimento. Una scelta completamente immotivata che li rende maggiormente infelici, una scelta che appare fortemente masochista, se ci si può permettere. «Penso che sia il momento  per noi atei di confessare e ammettere che la vita senza Dio a volte può essere piuttosto triste», conclude lo scrittore, impegnati come siamo nel «cercare qualche progresso in un universo privo di significato». Una scelta immotivata e contro la loro stessa natura umana, che si rifiuta alla privazione di un significato, tant’è che si intristisce. Non corrisponde alla natura dell’uomo questa scelta di privarsi arbitrariamente di un senso ultimo. Perché allora non prendere sul serio il proprio “io”, la propria umanità, non riconoscere questa inevitabile tristezza come un segno, come un inestirpabile messaggio (un suggerimento) del fatto che l’uomo è fatto per riconoscere e aderire ad un senso più grande di sé, ad un Significato ultimo?

Il convertito Sant’Agostino lo aveva capito benissimo quando scrisse: «Dio ci ha fatti per Lui, e il nostro cuore è inquieto finché non trova quiete in Lui»

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18/07/2012 19:09
 
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Lo dimostrano gli studi: essere religiosi migliora la qualità della vita

Come stanno in verità le cose? Qual è nella realtà il rapporto tra religione e benessere? A questa domanda risponde in maniera più che esaustiva la recente seconda edizione dell’Handbook of Religion and Health (Oxford University, 2012) curato dal massimo esperto mondiale del campo, lo psichiatra statunitense Harold Koenig. In questa monografia, come già accaduto per la prima edizione (2001), gli autori svolgono una meta-analisi (cioè una raccolta e un confronto degli studi disponibili) giungendo a una conclusione netta: «Su circa 2.800 studi quantitativi che esaminano la relazione tra religione/spiritualità e benessere, [...] mentre alcuni studi (4%) riportano una peggiore salute mentale o una minore salute fisica (8,5%), la maggior parte degli studi (più di 1.800, circa 2/3) hanno trovato una relazione positiva tra religione/spiritualità e salute mentale e fisica» (p. 600). La netta maggioranza degli studi esaminati riguarda la fede cristiana.

 

Il manuale elenca dettagliatamente e puntigliosamente gli effetti della religione e della spiritualità nei vari ambiti della salute, che come da definizione dell’OMS (1948) va intesa come un benessere fisico, psichico, sociale. Anche se il manuale può apparire in alcune parti prolisso, ripetitivo e non lineare, questi in breve sono i risultati emersi:

* Dal punto di vista psichico-mentale, la religione è correlata a maggiore estroversione,apertura a esperienze e novità, coscienziosità, amicalità, cooperazione, altruismo, compassione, propensione al perdono, locus of control interno (assumersi meriti e colpe per le proprie azioni), autostima, ottimismo, speranza, avvertire uno scopo nella vita, crescita post-traumatica (superare i traumi subiti), minore psicoticismo e nevroticismo, rabbia, ostilità, sensi di colpa, sensazione di solitudine, depressione, ansia, propensione al suicidio, dipendenza da sostanze (tabacco, alcool, droghe).

* Dal punto di vista medico-fisico, anche se può essere un risultato poco intuitivo, religione e spiritualità producono effetti positivi sulla base di fattori intermedi come lamigliore salute mentale (dunque meno stress e difese immunitarie più efficaci) e lo stile di vita più sano e regolato. Gli effetti positivi si fanno sentire per disturbi di cuore, colesterolo, pressione sanguigna, diabete, ictus, malattie veneree, cancro, percezione del dolore, gestione della disabilità, migliore riposo e appetito. Nel caso del naturale declino causato da vecchiaia o malattie degenerative, la religione comporta una minore o più tarda insorgenza e un declino più benigno. Complessivamente la religione è correlata a unamigliore longevità: preso un dato gruppo in un dato momento, le persone religiose hanno il 37% di possibilità in più di essere ancora vive al momento di un riesame successivo (follow-up).

* Dal punto di vista sociale, le persone credenti hanno migliori risultati scolastici e migliore stabilità lavorativa, migliore supporto e capitale sociale e maggiore stabilità coniugale (elemento fondamentale per i benessere di sposi e figli), minore crimine. Per quanto riguarda gli aspetti sociali propriamente medici, la religione è correlata a unamaggiore attenzione allo screening preventivo e una maggiore complicità (compliance) con il medico curante.

 

Va precisato che in tutti questi ambiti, di fronte alla maggioranza (talvolta schiacciante) di studi con risultati positivi, oltre ad alcuni studi che non hanno trovato correlazioni, unaminoranza di studi ha trovato effetti negativi. Qui si può notare però come i risultati sono cumulativi, aggreganti cioè gli studi relativi a diverse religioni e confessioni. Bisogna considerare che la ricerca sul rapporto tra religione e salute è ancora (come per molti altri ambiti tecnici e umanistici) troppo americo-centrica, e bisogna inoltre considerare la forte presenza negli USA di una componente cristiano-fondamentalista di matrice luterana e calvinista. In tali ambiti c’è il rischio di una visione pessimista dell’uomo con conseguenze negative sulla salute mentale (p.es. la “depravazione totale” calvinista). Oppure c’è il rischio di una esagerata ed alienante fiducia nell’operato di Dio, che può portare a trascurare la complicità e l’impegno dell’uomo nella gestione della propria salute e nel miglioramento della società (p.es. gli avventisti e i Testimoni di Geova, che trascurano l’impegno sociale data la presunta imminenza della parusia).

Complessivamente però i risultati non sono equivoci. La religione fa bene alla salute e migliora la qualità della vita. La scienza psicologica, medica, e sociologica ha trovato conferma dell’evangelico “centuplo quaggiù” promesso. Chi si occupa della religione con presupposti razionali, anche razionalisti, non può che prenderne atto.

Roberto Reggi

 

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29/07/2012 19:51
 
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Nuovo studio: persone religiose sono meno ciniche
e aperte ad un mondo equo

Una recente ricerca, pubblicata sul Journal of Religion and Health, ha voluto approfondire leggermente la questione trovando che le credenze religiose, le quali credono che la morte non sia l’ultima parola sulla vita, vedono aumenta la probabilità di credere che questo mondo sia giusto. In altre parole, queste persone erano più propense a pensare che«tutto è possibile se si lavora sodo» e che «tutti cominciano con le stesse possibilità nella vita».

Le persone religiose, ha continuato a mostrare lo studio, erano meno propense al complottismo e a ritenere che «il mondo è controllato da poche persone potenti» o che«la finanza è un campo dove la gente può diventare ricca senza dare un reale contributo alla società». Un approccio positivo, dunque, forse per qualcuno ingenuo ma comunque puro e privo di scetticismo: «la fede in Dio è associata negativamente con la fede in un mondo cinico e positivamente associata con la fede in un mondo equo», è la conclusione degli studiosi.

I risultati mostrano anche che le persone religiose sono più propense a credere che quel che accade dipende da una volontà o da una ragione, e che il caso e la fortuna hanno poca influenza. Guardando questi dati al contrario, tale responso sembra evidenziare una correlazione significativa tra chi non è religioso e la superstizione.

Gli studiosi hanno inoltre confermato gli studi precedenti, verificando che le persone religiose soffrivano meno di ansia e di altri sintomi psichiatrici, come la paranoia, l’ossessione e la compulsione.

 

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22/08/2012 15:41
 
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Le persone religiose posseggono maggior autocontrollo

Citando le parole del grande teologo italiano Luigi Giussani«la parola “sacrificio” è incominciata storicamente a diventare una grande parola, da quando Dio è diventato uomo [...], il sacrificio era inconcepibile, ributtante, ma c’è un punto della storia in cui il sacrificio è incominciato a diventare interessante: quando Cristo è morto in croce affinché gli uomini potessero essere salvati dalla morte, cioè affinché le cose potessero essere salvate dalla corruzione».

Solo all’interno del cristianesimo ha acquisito un valore positivo, non il sacrificio fine a se stesso ma «diventa valore della vita dell’uomo quando diventa corresponsabilità, cioè risposta, alla morte di Cristo. Per questo si chiama anche offerta: offerta a Cristo del proprio vivere, come partecipazione alla sua morte. Il sacrificio diventa un valore morale per l’uomo, quando l’uomo, attraverso di esso, partecipa all’iniziativa che Dio prende per liberarci dalla morte e dal male. Cioè la morte di Cristo» (L. Giussani, “Si può vivere così?”, Rizzoli 2007, pag. 287-389).

Solo il cristiano dunque può vivere sempre il sacrificio, non come ennesimo colpo di sfortuna da sopportare stoicamente (se non peso a cui soccombere), ma come valore positivo. Non sorprende dunque la recensione apparsa su “Scientific American”, a cura della psicologa Cynthia May, di una serie di studi -apparentemente superficiali- realizzati da Kevin Rounding a colleghi i quali hanno evidenziato come le persone religiose (studio realizzato in America, dunque si può parlare di “persone cristiane”) hanno un maggior auto-controllo e una miglior capacità di accettare il sacrificio. «Se la vostra forza di volontà è debole, un piccolo intervento divino può aiutarvi», ha sintetizzato la May.

Il campione di soggetti per la realizzazione dei test è stato diviso tra persone religiose e non religiose, e prima di offrire loro diversi tipi di tentazioni, le persone religiose sono state indotte a fare memoria della loro appartenenza cristiana e religiosa. Il risultato complessivo è stato quello già anticipato, ovvero che queste ultime hanno mostrato unamaggior capacità di auto-controllodominio di sé e forza di volontà. La conclusione della psicologa è stata: «In un mondo dove le tentazioni sembrano in agguato dietro ogni angolo, può essere prudente adottare un approccio convergente di metodi per mantenere e migliorare l’autocontrollo, attraverso la pratica quotidiana, un buon senso dell’umorismo e, se lo spirito è mosso, attraverso la memoria di Dio».

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01/09/2012 22:30
 
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Richard Dawkins:
«Pascal ha ragione, vale la pena credere in Dio»

Finalmente torna alla ribalta il vecchio leader “new atheist”Richard Dawkins, grazie ad un’intervista per  “Playboy”, la nota rivista  per uomini…. Viene presentato come «il santo patrono dei non credenti» ma le affermazioni che si leggono sono davvero interessanti: le prime in netta controtendenza a quelle promosse durante la carriera da zoologo anti-teista, mentre le seconde riassumono i suoi cavalli di battaglia e dunque quelli dell’ateismo fondamentalista di oggi.

Durante la prima parte, Dawkins ha finalmente preso le distanze dalla sciocca provocazione della teiera di Bertrand Russell, riconoscendo che: «Penso che un dio particolare come Zeus o Geova sia improbabile quanto la fatina dei denti, ma l’idea di un qualche tipo di intelligenza creativa non è del tutto così ridicola».

Ha deciso piuttosto di valorizzare la nota scommessa di Blaise Pascal, che sottolinea la convenienza del credere poiché se Dio esiste, allora si vince la vita eterna, mentre se si crede e poi Dio non esiste, allora si è comunque vissuta una vita più lieta rispetto a quella che ha come prospettiva il definitivo annichilimento, come hanno dimostrato gli studi che mettono in relazione il benessere psicofisico e la propria posizione esistenziale.

Chi non crede perde sempre, in poche parole.

Dawkins ha sorprendentemente ammesso: «Il costo del fallimento è molto elevato [...]. Le probabilità sono estremamente basse, ma comunque ne vale la pena, perché la ricompensa è estremamente elevata». E’ un’ammissione davvero inedita per Dawkins!
Ricordiamo che poco tempo fa ha voluto sottolineare di non essere ateo ma agnostico. (e quindi dimostra già un notevole passo avanti rispetto al passato, sperando che strada facendo sia ancora più illuminato).

Dopo questa straordinaria apertura, cade però in una banalità: «Ma si può anche sprecare la tua vita. Si va in chiesa ogni Domenica, si fa penitenza. Hai una vita orribile, e poi muori e basta». Ragionamento questa volta superficiale perché, oltre ad essere in contraddizione con il responso degli studi sul benessere delle persone religiose, non esiste alcuna correlazione tra l’andare in Chiesa e il vivere come conseguenza “una vita orribile”. Si tratta sempre di una libera scelta dell’individuo che agisce in tale modo proprio perché evidentemente scopre una convenienza umana per la sua vita, e poi ogni cosa fatta per amore diventa leggera e addirittura piacevole…altro che “vita orribile”.
C'è poi da fare un'altra importante osservazione alla pur interesante apertura di questo esimio rappresentante degli atei:
 la probabilità che Dio esista (e che di conseguenza potremmo un giorno essere da Lui giudicati), non è bassissimo, bensì immensamente alto, come  documentato da calcoli matematici applicati alle più recenti acquisizioni scientifiche, al seguente link:

[Modificato da Coordin. 04/09/2012 09:01]
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13/10/2012 22:31
 
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Fede, il vantaggio di essere credenti
 
 
Credenti e creduloni

Coloro che si affidano a Cristo – che è «Luce da Luce», cioè il Logos sostanziale ed eterno di Dio – sono abbastanza difesi dalla tentazione di affidarsi a ciò che è inaffidabile. Questa è una fortuna non da poco. È stato giustamente notato come il mondo che ha smarrito la fede non è che poi non creda più a niente; al contrario, è indotto a credere a tutto: crede agli oroscopi, che perciò non mancano mai nelle pagine dei giornali e delle riviste; crede ai gesti scaramantici, alla pubblicità, alle creme di bellezza; crede all’esistenza degli extraterrestri, al new age, alla metempsicosi; crede alle promesse elettorali, ai programmi politici, alle catechesi ideologiche che ogni giorno ci vengono inflitte dalla televisione. Crede a tutto, appunto. Perciò la distinzione più adeguata tra gli uomini del nostro tempo parrebbe non tanto tra credenti e non credenti, quanto tra credenti e creduloni.

La conoscenza del Padre
Chi è «di Cristo» riceve in dotazione anche la certezza dell’esistenza di Dio. Ma non di un Dio filosofico, che all’uomo in quanto uomo non interessa granché; non di un Dio che viene chiamato in causa solo per dare un cominciamento e un impulso alla macchina dell’universo, e poi lo si può frettolosamente congedare perché non interferisca e non disturbi; non di un Dio che, dopo il misfatto della creazione, parrebbe essersi reso latitante. Questa è, press’a poco, la concezione «deistica», e non ha niente a che vedere né con l’insegnamento del Signore né con la nostra vita. C’è anzi da dire che tra il deismo e l’ateismo, per quel che personalmente ci riguarda, la differenza non è poi molta. Il nostro Dio è «il Padre del Signore nostro Gesù Cristo », come amava ripetere san Paolo. E lo si incontra, incontrando Gesù di Nazaret e il suo Vangelo: «Nessuno conosce il Padre se non il Figlio – lo ha detto lui esplicitamente – e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo» (Mt 11,27).

La sfortuna dell’ateo

Si può intuire quanto sia grande a questo proposito la nostra fortuna, soprattutto se ci si rende conto davvero della poco invidiabile condizione degli atei. I quali, messi di fronte ai guai inevitabili in ogni percorso umano, non hanno nessuno con cui prendersela. Un ateo – che sia veramente tale – non trova interlocutori competenti e responsabili con cui possa discutere dei mali esistenziali, e lamentarsene. Non c’è nessuno contro cui ribellarsi, e ogni sua contestazione, a ben pensarci, risulta un po’ comica. Di solito, in mancanza di meglio, finisce coll’aggredire i credenti; ma è un bersaglio che non è molto appagante, perché i credenti (se sono saggi) se ne infischiano di lui e non gli prestano molta attenzione. Un ateo, se non vuol clamorosamente rinunciare a ogni logica e a ogni coerenza, è privato perfino della soddisfazione di bestemmiare. E questa è la più comica delle disavventure. Clave Staples Lewis (l’autore delle famose Lettere di Berlicche), ricordando il tempo della sua incredulità, confessava: «Negavo l’esistenza di Dio ed ero arrabbiato con lui perché non esisteva».

Un Dio che ama
Gesù poi – rivelandoci, attraverso il mistero della sua passione e della sua gloria, che anche l’umiliazione, la sofferenza, la morte trovano posto in un disegno d’amore che tutto riscatta e alla fine conduce alla gioia – ci preserva anche dalla follìa di chi arriva a ipotizzare, fondandosi sulla sua stessa personale esperienza, che un Dio probabilmente esiste; ma, se esiste, è malvagio e causa di ogni malvagità. È il sentimento espresso, per esempio, nella spaventosa professione di fede di Jago nell’Otello di Verdi all’atto secondo: «Credo in un Dio crudel che m’ha creato simile a sé». Il Dio che ci è fatto conoscere dal Redentore crocifisso e risorto, è un Dio che ci vuol bene e, come dice san Paolo, fa in modo che «tutto concorra al bene per quelli che sono stati chiamati secondo il suo disegno» (cf. Rm 8,28); tutto concorre al nostro bene anche quando noi sul momento non ce ne avvediamo. È la verità consolante ed entusiasmante che Gesù ci confida, quasi suprema sua eredità, nei discorsi dell’ultima cena: «Il Padre vi ama» (Gv 16,27). Il Padre ci ama: con questa certezza nel cuore ogni difficoltà, ogni tristezza, ogni pessimismo diventa per noi superabile.

Chi è l’uomo
Facendoci conoscere il Padre, Gesù ci porta anche alla miglior comprensione di noi stessi: ci fa conoscere chi siamo in realtà, quale sia lo scopo del nostro penare sulla terra, quale ultima sorte ci attenda. «Cristo – dice il Concilio Vaticano II – proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione» (Gaudium et spes 22). Così veniamo a sapere – e nessuna notizia è per noi più interessante e risolutiva di questa – che siamo stati chiamati ad esistere non da una casualità anonima e cieca, ma da un progetto sapiente e benevolo. Veniamo a sapere che l’uomo non è un viandante smarrito che ignora donde venga e dove vada né perché mai si sia posto in viaggio, ma un pellegrino motivato, in cammino verso il Regno di Dio (che è diventato anche suo) e verso una vita senza fine. Il dilemma tra l’essere increduli e l’essere credenti è in realtà il dilemma tra il ritenersi collocati entro un guazzabuglio insensato e il conoscere di essere parte di un organico e rasserenante disegno d’amore. L’alternativa, a ben considerare, sta fra un assurdo che ci vanifica e un mistero che ci trascende; alternativa che esistenzialmente diventa quella tra un fatale avvìo alla disperazione e una vocazione alla speranza. Perciò san Paolo può ammonire i cristiani di Tessalonica a non essere malinconici e sfiduciati come gli altri; «come gli altri – egli dice – che non hanno speranza» (1Ts 4,13). Questa è dunque la sorte invidiabile di coloro che sono «di Cristo»: dal momento che «conoscono le cose come stanno», non sono costretti ad appendere ai punti interrogativi la loro unica vita.
«Dove c’è la fede, lì c’è la libertà»
Un’altra grande fortuna di coloro che sono «di Cristo» è quella di essere liberi. Abbiamo ricevuto a questo riguardo una precisa promessa: «Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,31-32). Il principio di questa prerogativa inalienabile del cristiano è la presenza in noi dello Spirito Santo: «Dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà» (2Cor 3,17); quello Spirito che, secondo la parola di Gesù, ci guida alla verità tutta intera (cf. Gv 16,13). Vale a dire, come abbiamo appena visto, ci chiarifica «le cose come stanno». Sant’Ambrogio enuncia icasticamente questo caposaldo dell’antropologia cristiana, scrivendo in una sua lettera: «Dove c’è la fede, lì c’è la libertà».

Giacomo Biffi
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24/12/2012 11:16
 
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Inglesi: meno credenti e più infelici

Uso di psicofarmaci nel regno unitoQualche giorno fa è uscita la notizia circa un calo nel cristianesimo inglese: in base ai dati dei censimenti nazionali, la quota di coloro che si dichiarano cristiani in Inghilterra e Galles è scesa dal 72% nel 2001 al 59% nel 2011. La notizia è riportata da Radio Vaticana.

Certo, è vero che nell’ultima fotografia i cristiani sono ancora la maggioranza assoluta, che sono più del doppio dei “no religion” (25%), e che coloro che si dichiarano cristiani lo fanno con una certa autoconsapevolezza, come precisa (guardando il bicchiere mezzo pieno) Radio Vaticana. E’ vero anche che il cristianesimo inglese (anglicanesimo) è un cristianesimo particolare, che si prepara tra l’altro ad avere come capo della Chiesa e massimo riferimento spirituale il non proprio amatissimo principe Carlo.

Ma è anche vero che il calo in sè può far riflettere. Bisogna però arrivare a gioire, a salutare il risultato “con particolare soddisfazione”, come vogliono gli atei agnostici razionalisti? Dati alla mano, e sulla base di considerazioni veramente scientifiche, razionali e non ideologiche, la risposta è netta: no di certo.

Gli studi scientifici che si occupano del comportamento umano (psicologia, medicina, sociologia…) ci dicono chiaramente che essere credenti, e nello specifico essere cristiani,significa essere più felici e vivere una vita migliore. La dimostrazione evidente la fornisce il recente Manuale di religione e salute (2012), di cui ci siamo già occupati. Tra i vari fattori di benessere esaminati dal Manuale, si può notare in particolare come la depressione sia inversamente correlata alla fede religiosa: più sei religioso, meno sei depresso. Ed è quello che si può riscontrare anche nel Regno Unito: la religiosità è in calo? Sì. E dunque è in aumento l’infelicità e la depressione.

Questo appare – purtroppo – in maniera evidente dai grafici circa il numero di prescrizioni di farmaci antidepressivi (di tipo SSRI, Inibitore selettivo della ricaptazione della serotonina, e SNRI, Inibitore della ricaptazione della serotonina e della norepinefrina) nel Regno Unito (UK) negli ultimi anni. Secondo il servizio sanitario nazionale, dal 1998 al 2008, si è passati da un totale di 8 milioni di prescrizioni a 24 milioni di prescrizioni di antidepressivi: un aumento del triplo.

 Ora, stanti così le cose, cosa è veramente sensato e razionale: gioire del fatto che le persone tendono a non aderire alla religione, non trovando un senso alla vita? Oppurepreoccuparsi del rischio di una dilagante a-religiosità e infelicità, e cercare di favorire la riflessione esistenziale e religiosa, per una vita e una società migliore?

Roberto Reggi

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12/01/2013 17:27
 
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I Paesi “più felici” del mondo?
Quelli cattolici

Chiesa cattolicaChe la pratica religiosa sia un elemento fondamentale per la vita non solo spirituale ma anche fisica di ogni persona è cosa nota ed anche largamente riscontrata: dalla letteratura scientifica sappiamo infatti che esiste una correlazione fra religione e maggior salute mentale e fisica (Cfr. Koenig H. (2012) Handbook of Religion and Health, 2nd edition. Oxford University), meno depressione e addirittura minori tassi di criminalità.

Con buona pace di quanti ancora credono, con Karl Marx, che la religione sia l’«oppio dei popoli», dobbiamo quindi constatare come questa – da intendersi quale «vincolo che riannoda l’uomo ad una realtà superiore, dalla quale l’uomo crede di dipendere esistenzialmentee il rapporto culturale che, in conseguenza di ciò, l’uomo stabilisce con la realtà» (Ragozzino G. (1990) Il fatto religioso. Introduzione allo studio della religione, Edizioni Messaggero, Padova, p. 185) – rappresenti a tutti gli effetti una importante risorsa.

Chiarito quindi come, oltre ad avere risvolti sociali e conseguentemente anche «politici non secondari» (Carrubba S. Il mercato della religione. «Domenica» n. 262, 25/9/2011, p. 39), la pratica religiosa sia all’origine di tutta una serie di implicazioni positive nella vita delle persone, ora la domanda sorge spontanea:quale religione rende più felici? Ve n’è una in particolare oppure no? Premesso che una risposta che, su questo possa mettere d’accordo tutti, tanto più fra gli studiosi, è pressoché impossibile, ci è comunque possibile tentare una risposta approfondendo una notizia recente e – strano ma vero – accuratamente censurata; o meglio, raccontata a metà. La notizia riguarda gli esiti di un vastissimo sondaggio internazionaleeffettuato dalla Gallup sull’ottimismo internazionale, e dalla quale è emerso come il Paese al mondo più ottimista sia il Panama.

«E’ il Panama, la piccola repubblica dell’istmo – riferisce Sette, il Magazine del Corriere della Sera  il Paese al mondo dove l’ottimismo e i sentimenti positivi sono più diffusi». Bene, ma c’è dell’altro. E questo altro si può appurare riportando l’elenco completo dei 10 Paesi in vetta a questa interessante classifica planetaria dell’ottimismo; si tratta di Panama, Paraguay, El Salvador, Venezuela, Trinidad e Tobago, Thailandia, Guatemala, Filippine, Equador e Costa Rica. Ebbene, non notate qualcosa di piuttosto singolare? Qual è la caratteristica che, fra tutte, più accomuna questi dieci Paesi? Se curiosate in rete potete trovare, nei siti dove si parla della ricerca in questione, svariate ipotesi.

Principalmente troverete la constatazione secondo cui – posto che nessuna delle nazioni è particolarmente ricca - ben 7 dei 10 popoli più felici risultano latino-americani, con la conseguenza che sarebbe detta cultura ad essere più propensa a sentimenti positivi. D’accordo, ma c’è un’altra la caratteristica che più accomuna questi Paesi: ben 9 su 10, cioè praticamente tutti ad eccezione della Thailandia, sono Paesi a larghissima maggioranza cattolica: Panama ha l’80% dei suoi cittadini cattolici, il Paraguay l’ 89,6%, l’Equador il 92,5%e il Venezuela addirittura il 92,7 %. Il solo Paese fra questi 9 dove la maggioranza cattolica non è soverchiante è Trinidad e Tobago, dove si conta una forte componente induista (23%); eppure anche lì – seguiti da protestanti (18,8%) e anglicani (10,9%) – i cattolici, col loro 29,4%, sono la maggioranza (Tutte le percentuali di presenza religiosa qui riportate sono state attinte dal portale web Sapere.it).

La prova del nove, per così dire, della validità di questa costatazione ci deriva considerando gli ultimi tre postidella classifica dell’ottimismo stilata da Gallup occupati da Singapore, Armenia e Iraq , vale a dire tre Paesi dove la percentuale della popolazione cattolica è assai più contenuta; nel primo non arrivano al 5%, mentre nel secondo e nel terzo non arrivano al 10%. Un caso? Difficile. E quindi, anche se fra il dichiararsi cattolici e l’esserlo vi è verosimilmente qualche discrepanza, ed anche se le percentuali di presenza religiosa che abbiamo sopra riportato possono risultare in parte differenti da altre, non c’è dubbio che la principale caratteristica dei paesi oggi più ottimisti al mondo – unitamente ad altri interessanti dati, per esempio l’alto tasso di natalità (il più basso, con 13 nascite ogni 1000 persone è quello del solo Paese non cattolico, la Thailandia) – sia la larga diffusione del cattolicesimo. Peccato che nessuno lo dica.

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15/01/2013 17:55
 
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Spirituali ma non religiosi:
peggiore salute psicofisica

Missioanria in AfricaA volte può capitare di ascoltare persone che si definiscono credenti (“qualcosa ci deve essere”), ma “la Chiesa, la messa, i preti, i comandamenti… non credo servano a niente!”. Questo modo di pensare molto diffuso, in particolare tra gli adolescenti, rimanda alla distinzione traspiritualità e religione in senso proprio.

La prima sarebbe un insieme di idee o concetti, tendenzialmente astratti e fumosi e con generiche coloriture emotive, mentre la religione sarebbe un apparato esteriore fatto di ruoli, relazioni, azioni, istituzioni  che sono – tendenzialmente – giudicati superflui e inutili. Una vera vita religiosa ha ovviamente un nucleo spirituale-personale. Ma un tale modo di pensare, se dicotomizzato, è ovviamente dannoso per un duplice motivo: innanzitutto rischia di creare una religiosità fai-da-te, comoda, non particolarmente impegnativa, che risulta in definitiva sterile nel rendere migliore il mondo e la vita delle persone; in secondo luogo, perde di vista la vera natura della persona umana, che non è una monade intellettuale o sentimentale, ma l’unione inscindibile – secondo la dottrina cristiana – di spirito (la relazione con Dio), anima (la relazione con i propri stati mentali) e corpo (la relazione con gli altri nel mondo).

Tramite seri e rigorosi studi scientifici si può indagare quali sono gli effetti concreti di una religiosità fine a se stessa. E’ di aiuto la recente (novembre 2012) ricerca dello psichiatra britannico Michael King (qui il riassunto dello studio), che come evidenza la recensionedella Duke University, è il più ampio studio fino ad ora compiuto circa la salute mentale di coloro che si definiscono spirituali ma non religiosi. L’intervista ha coinvolto un campione di7.403 inglesi, suddivisi poi tra non credenti, religiosi, spirituali ma non religiosi. Rispetto agli altri, i religiosi mostrano in particolare meno problemi di droga (-27%) e alcol (-19%), e questo risultato non dice nulla di nuovo, ben conoscendo gli effetti positivi della religione sulla salute (vedi Handbook of Religion and Health).

Il risultato interessante riguarda gli spirituali non religiosi, che stanno peggio non solo dei religiosi, ma anche dei non credenti: rispetto a questi, gli spiritualisti” sono più propensi a usare droghe (+24%) e a esserne dipendenti (+77%), ad avere disturbi alimentari (+46%), disturbi d’ansia (+50%), fobie specifiche (+72%), nevrosi (+37%) e a ricorrere a psicofarmaci (+40%).

Va precisato che lo studio non fornisce indicazioni causali: gli spiritualisti stanno peggio, o chi sta peggio tende a diventare spiritualista? In ogni caso, considerazioni simili permettono di far capire che “c’è qualcosa che non va” a coloro che vogliono credere a modo loro. E solo il passo compiuto verso una comunità, con tutto ciò che comporta, permette di compiere un vero avanzamento esistenziale.

Roberto Reggi

 

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