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GENETICA E BIOCHIMICA

Ultimo Aggiornamento: 10/07/2019 10:43
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17/04/2011 23:02
 
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GENETICA E BIOCHIMICA

"La probabilità di una formazione spontanea della vita dalla materia inanimata è pari a 1 seguito da 40000 zeri... E' abbastanza grande da seppellire Darwin e l'intera teoria dell'evoluzione." (C. Wickramasinghe, professore di matematica applicata e astronomia presso la University College di Cardiff, Galles)
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17/04/2011 23:03
 
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Dal DNA alle proteine

Il codice genetico consiste nella corrispondenza fra terne di basi nella struttura del DNA, o acido desossiribonucleico, e amminoacidi delle proteine.

E' un codice universale e, dal punto di vista chimico, arbitrario, sulla cui origine "invece che di "problema", si dovrebbe parlare ai enigma. Il codice non ha senso se non è tradotto. Il meccanismo traduttore della cellula moderna comporta almeno cinquanta costituenti macromolecolari, anch'essi codificati nel DNA. Il codice genetico può dunque essere tradotto solo dai prodotti stessi della traduzione. E' questa l'espressione moderna dell'omne vivum ex ovo. Ma quando e come questo anello si è chiuso su se stesso? E' molto difficile anche solo immaginarlo" (1) dice Monod, che qui, nel suo campo specifico, è rigoroso, salvo poi pretendere, poco dopo, di spiegare tutto con il solito binomio caso-necessità (2).

Spieghiamo meglio questo paradosso: il processo di traduzione necessita di proteine ed enzimi che vengono prodotti grazie ad un processo anch'esso (ovviamente) di traduzione. Quale selezione casuale avrebbe potuto portare ad evolvere un sistema che per costruire anche i primi "operai" necessari alla sua produzione necessita di quegli stessi "operai"? Si trattava praticamente di adempiere ad un compito che non esisteva in quanto senza di loro quel processo non poteva compiersi.

A questa si aggiunge un'altra enorme difficoltà: la distinzione fra i primi coacervati e le prime cellule viventi è stata la possibilità per queste ultime di duplicarsi lasciando ad ognuna delle nuove entità le proprie caratteristiche, il proprio genoma. Questo nelle cellule primitive sarebbe stato un proto-DNA, cioé un DNA molto semplice, ma sempre un DNA.

Questo, per attuare il proprio processo di replicazione -prima fase della creazione di due cellule "figlie" che crea due DNA uguali da ripartire nella successiva divisione-, avrebbe avuto bisogno di quelle stesse proteine che abbiamo visto sopra, ma che non era ancora capace di tradurre perché erano ancora troppo pochi evoluti i vari meccanismi biochimici cellulari (non esistevano le proteine giuste, i vari RNA necessari, ecc.).

Senza dividersi in due cellule -attraverso un primordiale processo mitotico- la cellula non solo non la si sarebbe potuta definire vivente, ma sarebbe stata destinata a "morire" dopo periodi variabili, ma non troppo lunghi. Non esistono infatti cellule che vivano per sempre, se non "rinnovandosi" attraverso la loro duplicazione. Ma se quella cellula era destinata a morire in breve tempo, come si sarebbe mai potuta evolvere in milioni di anni?



***
(1) Jacques Monod, Il caso e la necessità. Saggio sulla filosofia naturale della biologia contemporanea, tr. it., 7a ed., Mondadori, Milano 1974, p. 139.
(2) Ibid., pp. 140-142.
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17/04/2011 23:04
 
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Le proteine sfidano il caso

Le proteine sono molecole giganti che consistono di unità più piccole dette "amminoacidi", i quali vengono disposti secondo una sequenza particolare in certe quantità e strutture. Queste molecole costituiscono i blocchi da costruzione delle cellule viventi.

Perché una proteina ottemperi alla sua specifica funzione, è necessario che ognuno dei suoi amminoacidi si trovi nel posto giusto e nell'ordine corretto.

Una proteina di media dimensione è composta di 288 amminoacidi. Questi possono essere disposti in 10300 modi diversi. Questo numero astronomicamente grande consiste di un 1 seguito da 300 zeri. Di tutte queste possibili sequenze, soltanto una forma la desiderata molecola proteica. Il resto di esse sono catene di amminoacidi che possono risultare o del tutto inutili o potenzialmente dannose per gli esseri viventi.

In altre parole, la probabilità della formazione di una sola molecola proteica è pari a "1 su 10300". La probabilità che questo "1" accada è praticamente impossibile. (In matematica, le probabilità inferiori a 1 su 1050 sono considerate "probabilità zero").

Per di più una molecola proteica di 288 amminoacidi è piuttosto modesta se paragonata ad alcune molecole proteiche giganti composte di migliaia di amminoacidi. Qualora si applichi il calcolo delle probabilità a queste proteine giganti, la parola "impossibile" diventa inadeguata.

William Stokes, un geologo americano, nel suo libro Essential of Earth History fa notare che tale possibilità è così remota "che essa (la proteina) non sarebbe potuta apparire neppure nel corso di miliardi di anni su miliardi di pianeti, ognuno dei quali ricoperto da un manto di soluzione di acqua concentrata dei necessari amminoacidi."

Avanzando di un passo nella direzione dello schema dello sviluppo della vita, osserviamo che una sola proteina non significa nulla per se stessa. Uno dei più piccoli batteri mai scoperti, il Mycoplasma Hominis H39, contiene 600 tipi di proteine. In questo caso dovremmo ripetere gli stessi calcoli delle probabilità prima applicati ad una sola proteina per ognuno di questi 600 tipi differenti. Il risultato rende assurdo anche il concetto stesso di impossibilità.

Robert Shapiro, professore di chimica preso l'Università di New York e esperto di DNA, ha calcolato la probabilità di formazione accidentale dei 2.000 tipi di proteine trovati in un singolo batterio. Il numero che si ottenne fu 1 su 1040000: questo è un numero incredibile, che si ottiene aggiungendo 40000 zeri all'1 (1).

Ebbene in ogni cellula umana vi sono 20.000 differenti tipi di proteine (10 volte più che nei batteri).
[Modificato da Credente 17/04/2011 23:09]
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17/04/2011 23:06
 
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La contro-evoluzione biochimica

Nel biochimismo degli organismi viventi si ritrovano moltissimi casi in cui ciò che si vede non riesce a trovare alcuna spiegazione sulla base del meccanismo evolutivo. Vediamo alcuni casi.

Piante e prodotti "secondari"
I prodotti cosiddetti "secondari" delle piante rappresentano una categoria molto numerosa ed eterogenea di sostanze naturali alle quali è difficile assegnare precisi significati metabolici e fisiologici. L'attributo "secondari" sta a significare proprio che questi prodotti non partecipano a quei processi metabolici essenziali al mantenimento della vita in un organismo vegetale.

D'altra parte non si può neppure sostenere che i prodotti secondari derivino dai primari in quanto molti di essi si originano da specifiche vie di biosintesi prive di connessioni con il metabolismo primario.

L'ipotesi che i prodotti secondari fossero prodotti finali e quindi si accumulassero nelle cellule della pianta è stata abbandonata in quanto studi accurati hanno dimostrato la loro continua sintesi e degradazione.

E' certamente azzardato, allo stato attuale delle conoscenze, tentare di assegnare un significato fisiologico alle sostanze che stiamo considerando.

Ora, se la morfologia delle piante è stata sottoposta nel tempo a forte pressione selettiva -come la teoria evoluzionistica afferma- non vi è motivo per non credere che analoga sorte sia toccata alla biochimica delle piante.

In virtù di questa, si sarebbe dovuta formare nelle diverse specie una quantità molto elevata di prodotti secondari dei quali sarebbero dovuti rimanere -per selezione- solo quelli capaci di conferire alla pianta uno specifico vantaggio evolutivo. Ciò, come detto sopra, non si è verificato.


La fotorespirazione
Per rimanere nel campo del biochimismo delle piante, non si può trascurare la stranezza della fotorespirazione.

La fotorespirazione è un normale ciclo respiratorio cellulare che, per il fatto di avvenire in contemporanea con la fotosintesi, avviene con una velocità particolarmente elevata, senza nessun vantaggio per la pianta e con un dispendio energetico notevolmente maggiore del necessario: essa cioè condiziona la resa netta della fotosintesi e riduce la produttività delle piante.

E' un processo così illogico che i fisiologi vegetali parlano di una necessità delle piante a subire e quindi ad adattarsi a questo ciclo biochimico: "le piante terrestri si sono ben adattate a convivere con la fotorespirazione, mentre un certo numero hanno imparato non tanto a tollerarla quanto a ridurla al minimo" (1).


Negli animali, la perdita di enzimi (enzimaferesi) coll'aumento del livello di organizzazione è nota in molti casi e rappresenta un esempio di quella che, con una disinvolta contraddizione in termini, è detta "evoluzione regressiva" (2).



***
(1) A. Alpi, P. Pupillo e C. Rigano, Fisiologia delle piante, SES, p. 104.
(2) G. Sermonti e R. Fondi, Dopo Darwin, Critica all'evoluzionismo, Rusconi 1980, p. 71.
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17/04/2011 23:12
 
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GENETICA

Mutationi e selezione genetica (1)

[...] Attualmente, pur nella grande varietà delle posizioni dei singoli ricercatori, la maggior parte degli evoluzionisti concorda su spiegazioni dell'evoluzione che combinano le acquisizioni della genetica sulla eredità e sulle mutazioni, con l'idea originale di Darwin intorno alla selezione naturale: le teorie attuali sui meccanismi della evoluzione non sono altro che messe a punto di questa "teoria-base" detta "mutazioni-selezione". Vediamo che cosa afferma.

La genetica, branca della biologia che si occupa della eredità, mostra che il patrimonio ereditario di ciascun individuo è strutturato secondo unità microscopiche perfettamente individuate, dette geni. I geni sono localizzati nei cromosomi, situati nel nucleo di ogni cellula, secondo un ordine ben determinato: ciascun gene, o una data sequenza di essi, corrisponde a una serie complessa di funzioni, che la cellula è o sarà chiamata a svolgere. Il corredo di geni di ogni individuo contiene, in altri termini, la descrizione dell'individuo stesso, il suo progetto o piano di montaggio: è questo corredo di geni che, per esempio, è all'origine dello sviluppo dell'uomo così come di ogni animale pluricellulare. Esso stabilisce i tempi e le modalità della crescita del feto: quando e come si deve formare il tessuto nervoso, quando e come quello osseo, quando e come gli occhi, i capelli, e così via.

Accade, tuttavia, che nel corso dello sviluppo di un individuo, o durante la sua vita, il suo patrimonio genetico subisca mutazioni, cioè alterazioni di struttura. Ricorrendo alla immagine del piano di montaggio, è come se le linee di esso fossero state in qualche modo alterate. Ciò che la genetica ha accertato intorno al fenomeno delle mutazioni si può riassumere nelle seguenti proposizioni:
> le mutazioni si trasmettono ereditariamente secondo le leggi di Mendel;
> il loro tasso è estremamente basso: presso gli animali superiori è appena di 1 ogni 10.000 / 100.000 individui;
> fanno generalmente apparire delle anomalie, delle tare, a volte delle vere e proprie mostruosità, che limitano notevolmente gli individui colpiti;
> se l'organo colpito è un organo fondamentale, l'individuo muore prematuramente, spesso allo stadio di embrione;
> il carattere delle mutazioni è profondamente casuale, cioè non si conosce alcun agente mutageno con azione specifica;
> il numero delle mutazioni letali è da 10 a 15 volte superiore a quello delle mutazioni "vitabili", cioè delle mutazioni che mantengono comunque in vita l'individuo colpito.

Per la teoria evoluzionistica "mutazioni-selezione", le mutazioni costituiscono la fonte della variabilità del mondo vivente, alla quale attinge la selezione naturale per trattenere gli individui nei quali le mutazioni hanno incrementato il tasso di natalità o diminuito quello di mortalità, cioè gli individui favoriti dalle mutazioni.

Anche la selezione naturale è un fatto di osservazione, definitivamente acquisito alla scienza. Le sue modalità di azione, quando possono esplicarsi, sono estremamente incisive. Per esempio, se in una coltura di un milione di batteri compare un individuo mutato, o mutante, il cui ritmo di duplicazione è superiore dell'1 % rispetto agli altri, dopo 4000 generazioni, cioè qualche giorno su scala batterica, il rapporto di popolazione sarà invertito: un individuo originale per milione di mutanti.

La selezione naturale, utilizzando i prodotti delle mutazioni e con l'effetto dell'isolamento geografico delle popolazioni, rende perfettamente conto di quelle modificazioni limitate in seno alle specie, note da sempre ai naturalisti, che talvolta prendono il nome di microevoluzione. Una delle sue manifestazioni più conosciute è la formazione di razze all'interno di una specie.

La microevoluzione, però, non ha nulla a che vedere con l'evoluzionismo: tra essi esiste una differenza di natura. Quasi sempre gli evoluzionisti trascurano tale differenza con disinvoltura colpevole, così che fenomeni microevolutivi vengono interpretati come esempi di evoluzione (2). La microevoluzione implica modificazioni organiche limitate ed esclude completamente la comparsa di nuovi organi o di nuove funzioni; l'evoluzionismo, invece, per rendere conto delle differenze organiche e funzionali tra i gruppi di viventi passati e attuali, deve postularle: la microevoluzione è indifferente o regressiva, l'evoluzionismo è progressivo.

La teoria evoluzionistica dunque, parte da basi concrete - le mutuazioni, la selezione -, in grado di rendere conto delle modificazioni limitate dei viventi, realmente riscontrabili in natura, per spiegare la comparsa di nuovi gruppi della classificazione sistematica attraverso modifiche profonde e apparizioni di funzioni e di organi nuovi negli esseri viventi. Per rendere plausibili questi fantomatici passaggi, gli evoluzionisti ricorrono a sofismi e a mistificazioni, con i quali il ruolo delle mutazioni e della selezione viene completamente alterato.



***
(1) Tratto da Luciano Benassi, Mistificazioni evoluzionistiche e matematica, in Cristianità n. 95 (1983).
(2) G. Montalenti, L'avesse saputo Darwin, in Scienza e Vita nuova, anno IV, 4-5-1982. Montalenti riporta come "un classico" della evoluzione l'esempio della Biston betularia, la falena di cui sono sopravvissuti soltanto individui scuri. Quelli chiari, al tempo della rivoluzione industriale, risaltavano particolarmente sui tronchi di betulla ricoperti di fuliggine, diventando facile preda degli uccelli. Un tipico esempio di azione della selezione naturale è diventato un caso di evoluzione in atto!
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17/04/2011 23:14
 
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Biochimica e "complessità irriducibile"

Il concetto di "complessità irriducibile" viene elaborato da Michael Behe, biochimico della Leighton University, per descrivere quei meccanismi il cui funzionamento dipende dall'interazione di molte parti. Questi sistemi non possono formarsi per lenta evoluzione, ma debbono necessariamente essere progettati e assemblati tutti in una volta.

Come afferma anche Michael Behe, troppi apparati delle creature viventi presentano una complessità irriducibile. Come esempio di complessità irriducibile, Behe porta il caso della trappola per topi. Costituita di cinque pezzi - una molla, la fagliela, il gancetto che tiene la tagliola in posizione, l'esca, la tavoletta su cui il tutto è inchiodato - è una macchina molto semplice. Ma la sua semplicità "non può essere ridotta" cioè la macchina non può essere resa più semplice di com'è. Se manca un solo pezzo, non è che la trappola funzioni meno bene; non funziona affatto. Dunque, non può essersi formata a poco a poco, con aggiunte e miglioramenti; la trappola è stata progettata fin dall'inizio così. Molti apparati di esseri viventi sono ugualmente "irriducibili". Non funzionano se mancano anche solo di un componente (1).

I meccanismi biochimici che vengono studiati a livello molecolare non sono altro che delle "macchine composte di molecole" e come tali vanno osservate.

Il flagellum
Partendo dalla trappola per topi, lo stesso discorso vale per le "macchine molecolari", e Behe per dimostrarlo ha preso in esame il flagellum, il ciglio degli organismi monocellulari che funziona come una sorta di "motore fuori bordo".

Gli evoluzionisti considerano gli organismi monocellulari, come i batteri, le forme di vita più semplici e primitive, trovandosi al gradino più basso della scala evolutiva attuale.

In realtà non è così: le ricerche dei biochimici dimostrano che non c'è assolutamente niente di "semplice" e che tutt'altro che primitivi, i batteri rappresentano invece un caso di "miniaturizzazione".

Il flagellum è un tipico caso di complessità irriducibile: è un meccanismo molto complesso, risultato dell'azione coordinata di ben 50 geni del DNA.

Semplificando al massimo la descrizione, esso risulta composto da 3 diverse proteine che danno luogo a diverse strutture e funzioni:
- la tubulina per i microtubuli;
- la nexina, che produce una sorta di adesivo gommoso;
- la dyneina che permette il movimento.
Le tre proteine hanno una funzione coordinata che soltanto nell'insieme compone il flagellum e ne permette il funzionamento. Esse devono necessariamente essere esistite tutte e tre sin dall'inizio, né possono essersi formate gradualmente per selezione naturale perché, nell'intertempo tra la formazione dell'una e dell'altra, il flagello sarebbe stato inutilizzabile, non avrebbe consentito il movimento e la struttura – o addirittura i batteri stessi - sarebbero stati esposti alla soppressione da parte della selezione naturale stessa, perché inadatti alla vita.


La coagulazione del sangue
Un altro esempio, più facilmente comprensibile perché ci riguarda da vicino, è il meccanismo di coagulazione del sangue.

Esso prevede una cascata proteica composta da 4 proteine diverse, tutte concorrenti, in un delicato equilibrio, ad ottenere l'effetto coagulante in caso di emorragia. L'intero meccanismo, in realtà, coinvolge una dozzina di proteine che hanno funzione regolatrice, controllando che il coagulo si formi solo dove è necessario, smontandolo quando non è più utile ecc.

La cascata proteica necessita di tutte e 4 le proteine che la compongono ed è un esempio di complessità irriducibile, perché, se anche soltanto una delle proteine non fosse stata presente sin dall'inizio, negli individui portatori della cascata incompleta il meccanismo della coagulazione non avrebbe funzionato ed essi sarebbero in breve morti per emorragia o per trombosi.

Diversi scienziati evoluzionisti hanno tentato di confutare questi studi, tra questi il dott. Russel F. Doolittle, membro della National Academy of Sciences, che in polemica con Behe ha cercato di dimostrare l'errore del ragionamento circa la coagulazione, applicando il consueto metodo "scientifico" degli evoluzionisti:
ha cominciato col dare per certo il principio darwiniano, secondo il quale si possono comporre "alberi genealogici" degli esseri viventi in base alla percentuale di diversificazione delle sequenze di aminoacidi delle proteine che li compongono (maggiore diversità = precoce divergenza delle linee evolutive delle due specie rispetto al progenitore comune);
ha continuato stabilendo che questo meccanismo di "errore-correzione" casuale, che si verifica continuamente nella duplicazione del DNA, è alla base della cascata proteica della coagulazione, nella quale le 4 diverse proteine sarebbero state prodotte da micromutazioni casuali di un'unica proteina iniziale; la dimostrazione di questo "dato scientifico" starebbe nella inutile complessità del meccanismo di coagulazione: «Nessun Creatore avrebbe progettato un sistema così indiretto e macchinoso» ha affermato Doolittle;
ha concluso "leggendo in modo elastico" i risultati di una ricerca eseguita da altri scienziati, su due gruppi di topi ai quali era stato sottratto rispettivamente il gene produttore di due delle proteine della cascata proteica. I topi così manipolati sono andati incontro fatalmente ad emorragie o trombosi, ma, secondo Doolittle, accoppiandoli tra loro, la prole sarebbe stata perfettamente sana, il che avrebbe dimostrato che la coagulazione può avvenire anche in assenza di alcune proteine. Le conclusioni a cui erano giunti i ricercatori, invece, erano ben diverse: la prole di quei genitori deficitari era incapace di formare coaguli e le femmine morivano durante le gravidanze.

Ben diversamente dai desideri di Doolittle, la ricerca ha dimostrato con prove certe e ripetibili che la cascata proteica della coagulazione è un esempio di complessità irriducibile e che soggetti deficitari anche di una sola proteina non potevano essere intermediari evolutivi, perché meccanismi semifunzionanti non sarebbero stati riconosciuti "vantaggiosi" nella "lotta per la sopravvivenza"; non avrebbero superato "il vaglio severo della selezione naturale" perché la loro utilità si sarebbe rivelata soltanto a posteriori, a processo evolutivo concluso, non durante la comparsa casuale dei singoli componenti del meccanismo (2).


Le proteine istoniche
Un altro esempio di complessità irriducibile è la struttura interna delle proteine istoniche. Queste proteine, in numero di cinque, sono composte. Ciascuna in media di 100 aminoacidi. La loro funzione è importantissima, in quanto esse impacchettano la lunghissima catena del DNA nel nucleo degli eucarioti, impedendo che essa si possa attorcigliare in modo inestricabile o rompersi rendendo impossibile la sua funzione che è quella di duplicarsi e di trascrivere le proteine necessarie alla vita degli organismi.

Senza simili proteine sarebbe stato impossibile lo sviluppo di tutti gli organismi pluricellulari e la terra sarebbe abitata solo da batteri. Orbene gli aminoacidi presenti nella catena di queste proteine sono identici in tutte le posizioni in tutti gli organismi. Ad esempio l'istone 4 del pisello, composto da 100 aminoacidi è identico all'istone 4 della mucca ad eccezione di due soli aminoacidi; ciò vuole dire che la sostituzione anche di un solo aminoacido nella catena è deleterio per ogni organismo: avviene come se in un automobile ci vogliono 100 pezzi per far funzionare il motore, se si elimina un solo pezzo il motore non parte. Così se si sostituisce un solo aminoacido nella catena dell'istone, la proteina non funziona più e la selezione naturale la ha eliminata.

Ecco un esempio di complessità irriducibile all'interno di una sola proteina. La probabilità che il caso cieco abbia dato origine ad una proteina simile all'istone è di 1:20 elevato a 100 che rappresenta un numero davvero enorme (3).



***
(1) M. Blondet Darwin alle corde? in Il Timone, n. 10 Novembre/Dicembre 2000.
(2) Evoluzionismo: Invece, la scienza afferma che ... in Editoriale Il Giglio, 27/10/2005.
(3) N. Nobile Proteine istoniche in Sulle tracce delle origini, 27/10/2005.
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19/02/2014 21:57
 
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Si pensa normalmente, che il dolore ,fisico sia sempre qualcosa di negativo, assolutamente da evitare, per quanto è possibile. Esiste una rara malattia genetica chiamata sindrome da insensibilità congenita al dolore che inizia nei primi anni di vita e che si manifesta con una insensibilità del bambino ad ogni evento traumatico come per esempio ad una caduta ;il bambino affetto non si accorge della caduta e non piange perchè non avverte il dolore del trauma prodotto dalla caduta ,questo può portare a gravi conseguenze perchè il bambino ,non sentendo dolore non si sottrae all'evento traumatico ,come per esempio ad una bruciatura rischiando cosi gravi lesioni.


Questa malattia genetica è causata da una alterazione del recettore di un fattore di crescita del sistema nervoso; il suo malfunzionamento determina l'impossibilità della  crescita  delle strutture nervose deputate al dolore e quindi della loro assenza. Quindi esiste un dolore di tipo adattativo che avvisa l'organismo che da qualche parte accade qualcosa di lesivo e induce a fuggire dalla situazione pericolosa. Le vie nervose del dolore sono diffuse in tutti i tessuti e organi. Le fibre terminali deputate alle sensazioni dolorose si collegano a specifici recettori di membrana ,che sono diversi per tutti gli stimoli termici, meccanici chimici  capaci di produrre il dolore. Ci sono per esempio specifici recettori per il freddo ,per il caldo di 20-40 gradi e per il caldo da 40-65 gradi; ci sono poi i recettori per gli stimoli meccanici e quelli per gli stimoli chimici. Quando uno stimolo di questo genere sufficientemente intenso colpisce questi ricettori avviene immediatamente l'apertura dei canali del sodio presenti vicino ai recettori del dolore, Il canale del sodio è una proteina di forma cilindrica che, aprendosi fa passare il sodio ,secondo un gradiente elettrochimico dall'esterno della  cellula dove è presente a riposo verso il suo interno depolarizzando la cellula e creando cosi un potenziale elettrico d'azione che si trasmette alla fibra nervosa viaggiando attraverso di essa allo stesso modo in cui viaggia la corrente elettrica in un filo di rame.


Si è avuta quindi la trasduzione del segnale da chimico, termico o meccanico in elettrico. La prima via nervosa del dolore termina ,attraverso una sinapsi presso i neuroni delle corna posteriori del midollo spinale; da qui parte una seconda via nervosa ,la via spino-talamica che porta il potenziale elettrico al talamo ,una struttura sottocorticale. Da qui parte una terza via ,la talamo -corticale che porta lo stimolo ad alcuni centri corticali per una ulteriore elaborazione di tipo cosciente del dolore. E infatti senza l'elaborazione cosciente del dolore non si ha un vero e proprio dolore. Lungo queste vie del dolore si staccano delle fibre nervose che in parte ritornano indietro  verso i gangli motori spinali e che hanno il compito di comandare ai muscoli della zona colpita dalla noxa dolorosa di allontanare per esempio un arto dalla zona di pericolo; altri fasci invece arrivano ai centri bulbo-pontini neurovegetativi che sono deputati alla circolazione, alla respirazione alla regolazione pressoria e si verificano quindi tutti i fenomeni vegetativi come aumento della frequenza cardiaca e respiratoria che si verificano dopo uno stimolo doloroso intenso.  Ci sono inoltre altre fibre che ritornano indietro e si collegano tramite sinapsi con due popolazioni di cellule presso i gangli posteriori spinali ,cellule off e cellule on . I mediatori chimici delle cellule off sono le così dette encefaline sostanze morfino simili che collegandosi a ricettori specifici postsinaptici inibiscono la trasmissione degli impulsi elettrochimici legati al dolore e quindi inibendolo o eliminandolo del tutto. I mediatori chimici delle cellule on invece amplificano  i potenziali elettrochimici e quindi aumentano le sensazioni dolorose. Queste cellule on o off si accendono o si spengono a seconda delle esigenze diverse dell'organismo: certe volte è utile amplificare il dolore ,certe volte invece è utile spegnerlo quando risulta per la sua intensità e durata più dannoso che utile. Oltre al dolore acuto però esiste anche il dolore cronico più leggero ma più persistente dovuto all'infiammazione .Il processo infiammatorio avviene quando esiste da qualche parte una lesione di un tessuto come una ferita ,una contusione ecc. Il processo infiammatorio ha lo scopo di ripristinare lo stato iniziale o di sostituire il tessuto leso con un tessuto cicatriziale. Durante il processo infiammatorio si ha una vasodilatazione ,un aumento della permeabilità dei vasi capillari e la fuoruscita dai vasi di varie cellule come globuli bianchi e sostanze proteiche che si uniscono ai recettori del dolore provocando questa volta non l'attivazione diretta dei nocicettori ma un abbassamento della soglia al dolore dei nocicettori in modo che stimoli che in condizioni normali non sono dolorosi lo diventano .Si ha quindi il cosiddetto stato di iperalgesia e infatti quando tocchiamo anche leggermente un'area infiammata sentiamo subito dolore. La zona infiammata diventa ipersensibile al dolore e tutto questo termina a guarigione avvenuta. A questo meccanismo partecipano in grande parte le cosi dette prostaglandine  che si formano a partire dai fosfolipidi di membrana e attraverso reazioni enzimatiche da fosfolipidi si forma ac.arachidonico e poi attraverso gli enzini cox 1 e cox2 l'ac. arachidonico si trasforma in prostaglandine. Le prostaglandine si legano a ricettori specifici abbassando la soglia dei nocicettori al dolore. Gli anti infiammatori comuni e anche l'aspirina hanno un'azione antidolorifica perchè si legano agli enzimi cox 1 e cox2 inibendoli e impedendo quindi la formazione delle prostaglandine. Oltre alle prostaglandine fuoriescono dai vasi e dalle cellule anche altre sostanze come le bradichinine, le citochine, e i fattori di crescita del sistema nervoso che tra varie funzioni che hanno si uniscono anche a recettori specifici abbassando anch'esse la soglia del dolore dei nocicettori. Come si può vedere da queste considerazioni il processo del dolore sia acuto che cronico è molto complesso e in esso intervengono molte sostanze proteiche e molti recettori specifici integrati l'uno con l'altro. Una volta che gli impulsi elettrochimici   arrivano    ai centri cerebrali sensoriali del dolore questi impulsi vengono decodificati e si ha la sensazione e percezione cosciente dolorosa. Si può dire che il cervello nelle aree deputate alla sensazione del dolore interpreta e per cosi dire ' inventa' la sensazione del dolore. E infatti se si stimola con un elettrodo la stessa area cerebrale del dolore il soggetto avverte una sensazione di dolore.


 .Ma anche se stimolano collo stesso metodo i centri cerebrali dell'ansia o della paura il soggetto avverte ansia o paura, se si stimolano i centri visivi si hanno allucinazioni visive ecc. Questi esperimenti a prima vista potrebbero rafforzare la concezione materialistica del cervello pensando cioè che tutto quello che sentiamo dipenda dal cervello. A mio avviso però questa è una concezione semplicistica delle cose. Il cervello è una condizione necessaria ma non sufficiente per tutto quello che noi sentiamo e avvertiamo. Gli stessi impulsi elettrochimici sono avvertiti in una parte come dolore ,in un'altra parte come piacere .in un'altra parte come visione e sono in realtà gli stessi impulsi elettrochimici uguali, identici. Esiste cioè un fatto creativo del cervello che non si spiega solo coll'elettrochimica. C'è in altri termini qualcosa che trascende l'elettrochimica




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19/02/2014 22:01
 
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(Tratto da: "Storia Libera" 20/12/2013) - Nel biochimismo degli organismi viventi si ritrovano moltissimi casi in cui ciò che si vede non riesce a trovare alcuna spiegazione sulla base del meccanismo evolutivo. Vediamo alcuni casi. 

Piante e prodotti "secondari"
I prodotti cosiddetti "secondari" delle piante rappresentano una categoria molto numerosa ed eterogenea di sostanze naturali alle quali è difficile assegnare precisi significati metabolici e fisiologici. L'attributo "secondari" sta a significare proprio che questi prodotti non partecipano a quei processi metabolici essenziali al mantenimento della vita in un organismo vegetale.

D'altra parte non si può neppure sostenere che i prodotti secondari derivino dai primari in quanto molti di essi si originano da specifiche vie di biosintesi prive di connessioni con il metabolismo primario. 
 

L'ipotesi che i prodotti secondari fossero prodotti finali e quindi si accumulassero nelle cellule della pianta è stata abbandonata in quanto studi accurati hanno dimostrato la loro continua sintesi e degradazione. 

E' certamente azzardato, allo stato attuale delle conoscenze, tentare di assegnare un significato fisiologico alle sostanze che stiamo considerando.

Ora, se la morfologia delle piante è stata sottoposta nel tempo a forte pressione selettiva -come la teoria evoluzionistica afferma- non vi è motivo per non credere che analoga sorte sia toccata alla biochimica delle piante. 

In virtù di questa, si sarebbe dovuta formare nelle diverse specie una quantità molto elevata di prodotti secondari dei quali sarebbero dovuti rimanere -per selezione- solo quelli capaci di conferire alla pianta uno specifico vantaggio evolutivo. Ciò, come detto sopra, non si è verificato.


La fotorespirazione
Per rimanere nel campo del biochimismo delle piante, non si può trascurare la stranezza della fotorespirazione.

La fotorespirazione è un normale ciclo respiratorio cellulare che, per il fatto di avvenire in contemporanea con la fotosintesi, avviene con una velocità particolarmente elevata, senza nessun vantaggio per la pianta e con un dispendio energetico notevolmente maggiore del necessario: essa cioè condiziona la resa netta della fotosintesi e riduce la produttività delle piante.

E' un processo così illogico che i fisiologi vegetali parlano di una necessità delle piante a subire e quindi ad adattarsi a questo ciclo biochimico: "le piante terrestri si sono ben adattate a convivere con la fotorespirazione, mentre un certo numero hanno imparato non tanto a tollerarla quanto a ridurla al minimo"(1).
 
Negli animali, la perdita di enzimi (enzimaferesi) coll'aumento del livello di organizzazione è nota in molti casi e rappresenta un esempio di quella che, con una disinvolta contraddizione in termini, è detta "evoluzione regressiva"(2).


***

(1) A. Alpi, P. Pupillo e C. Rigano, Fisiologia delle piante, SES, p. 104. 
(2) G. Sermonti e R. Fondi, Dopo Darwin, Critica all'evoluzionismo, Rusconi 1980, p. 71.

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27/05/2014 11:16
 
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SISTEMI IRRIDUCIBILMENTE COMPLESSI


Wolf-Ekkehard Lönnig è un nome di spicco nel mondo accademico, avendo contribuito con i suoi studi scientifici al prestigioso Max Planck Institute fino al suo ritiro dall'attività di ricerca. Autore prolifico di libri e articoli specializzati, con le sue idee è riuscito ad inimicarsi i Darwinisti sfidando punti di vista profondamente radicati nel pensiero evoluzionista.

Molto probabilmente il suo lavoro più controverso si trova nelle pagine del curioso "'L'affare Max Planck', mai accaduto"

Lönnig ha concentrato il suo interesse sui sistemi biologici delle piante carnivore acquatiche ed è trepidante nell'illustrare le ragioni per le quali questi sistemi non possono essersi evoluti.
Nel suo secondo libro analizza l'elaborata struttura di questi sistemi biologici ed esplica le ragioni per le quali l'evoluzione non può essere stata una ragione valida per la loro esistenza: "..Il complesso sistema a trappola dell'Utricularia, specialmente della cosmopolita U. Vulgaris – una pianta carnivora acquatica che cattura pulci d'acqua ed altri piccoli animali – è uno dei miei esempi preferiti in contrasto con le attuali teorie evolutive. Nel 2009, cioè dopo 7 anni dall'inizio della loro guerra contro la scienza, uno dei gruppi evoluzionisti pubblicò un esteso articolo atto a dimostrare l'origine evoluzionistica di quel sistema attraverso le mutazioni genetiche e la selezione naturale. In 274 pagine ho potuto dimostrare nel dettaglio come abbiano miseramente fallito."

Lönnig usa le argomentazioni scientifiche per destituire di fondamento le tesi darwiniste e cita lo stesso Darwin proprio per spiegare cosa ci sia di dubbio nella teoria del naturalista inglese: "Un'ipotesi scientifica dovrebbe essere potenzialmente falsificabile, ovvero, dovrebbero esistere criteri secondo i quali un'ipotesi possa essere confutata e quindi scartata dimostrandosi falsa.

In relazione alle origini delle specie, Darwin asserì che l'evoluzione procede attraverso 'variazioni ereditate infinitesimamente piccole', 'passi non più grandi di quelli che separano le più minime varietà' e 'passi impercettibilmente piccoli', 'poiché la selezione naturale può agire solo avendo vantaggio da minime variazioni successive; non può mai compiere un balzo, ma deve avanzare con i più brevi e lenti passi possibili'.

Questo è anche l'assunto della maggior parte dei moderni evoluzionisti, i Neo-Darwinisti, e, in linea di principio, anche dei sostenitori della teoria 'dell'equilibrio punteggiato'. Comunque l'idea di una lenta evoluzione attraverso 'variazioni ereditate infinitesimamente piccole' è stata falsificata dai ritrovamenti della paleontologia – inerenti l'improvvisa comparsa degli schemi strutturali della vita – così come dalla genetica – origine del DNA ed informazione genetica complessa . Ciò nonostante gli evoluzionisti rigettano per principio qualunque prova scientifica contro il Neo-Darwinismo così che, di fatto, la loro teoria è diventata una posizione infalsificabile alla quale si aderisce nonostante le prove contrarie.

La loro principale preoccupazione è il fatto che, senza il darwinismo, il materialismo filosofico ha perso la sua battaglia contro l'idea di un'origine intelligente del mondo.

Lönnig spiega che le indicazioni di un'intelligenza in natura sono esplicite e la scienza continua a fornirne ampia evidenza, come nel"...l'origine (a) del cilium, (b) del flagello dei batteri, con il suo filamento, gancio e motore inseriti nelle membrane e nelle pareti cellulari e (c) la biochimica della coagulazione sanguigna negli esseri umani. Anche le trappole dell'Utricularia – ed alcuni altri generi di piante carnivore – nelle sue giunzioni, l'ecolocazione, il mimetismo ad inganno floreale, etc. etc. possono essere inclusi. Nessuno di questi sistemi è stato integrato in modo convincente dal Neo-Darwinismo, viceversa tutti questi sistemi dimostrano una 'disposizione intenzionale delle parti', molti di essi risultano irriducibilmente complessi, ovvero 'la rimozione di uno solo dei meccanismi causa la caduta dell'intero sistema'. Strutture funzionali come queste non possono essere comparse in modo graduale come viene richiesto dalla maggior parte delle teorie evolutive".


La fotosintesi è un altro fenomeno sbalorditivo che rappresenta un esempio di complessità irriducibile rivelando un progetto:
"Nei miei esperimenti con le mutazioni ho rilevato centinaia di piante senza clorofilla quando una singola mutazione, spesso in diversi sistemi di diverse famiglie di piante, ha arrestato completamente il funzionamento dell'intero complesso fotosintetico – cosa che ricorda chiaramente la definizione di Behe secondo la quale 'la rimozione di una sola delle parti causa il cessare del corretto funzionamento del sistema'."
Non solo la disposizione intenzionale delle parti, ma anche la documentazione fossile rappresenta un problema incontrovertibile per la visione darwinista. "La comparsa repentina e la stasi sono la regola generale nella documentazione fossile delle piante. Molto nota è la comparsa improvvisa delle angiosperme alle quali la maggior parte delle piante floreali appartengono" – 'l'abominevole mistero di Darwin', come egli stesso lo definì in una lettera al botanico Joseph Hooker del 1879 – sostiene Lönnig.
Anche nei suoi articoli su varie riviste scientifiche Lönnig spesso tratta e spiega come i cosidetti meccanismi evolutivi non possano aver preso parte alla comparsa delle piante: "In un articolo del 2004/2007 io e H. A. Becker scrivemmo in relazione al fatto di come queste piante 'presentino il più intricato dei problemi per la sistematica e per l'evoluzione'. Diversi evoluzionisti hanno ammesso che 'l'evoluzione delle foglie con sistemi di trappola da quelle delle piante non carnivore è misterioso e non esistono ipotesi comunemente accettate – Rivadavia et al. -. L'Utricularia menzionata in precedenza, per esempio, apre e chiude a tenuta stagna la sua fessura in meno di un millisecondo... come potrebbe un simile meccanismo diventare a chiusura stagna attraverso migliaia di minime mutazioni?"
Naturalmente anch'egli ha subito dure reazioni negative per aver sollevato dubbi sulle nozioni evoluzioniste, come per altri prima di lui, ma questo non significa che abbia timore di continuare a farlo: "Come ho potuto personalmente sperimentare – vedi il libro 'L'Affare Max Planck, mai accaduto' menzionato in precedenza – considerato che il darwinismo non è in grado di rispondere a quasi tutte le più importanti domande sull'origine delle specie, la sua unica possibilità è la soppressione della valida critica scientifica. Cos'altro potrebbero fare in tale contesto?".
Lönnig crede che la mentalità Neo-Darwinista del 'possiamo spiegarlo, non occorre farsi tante domande' sia dannosa per il progresso scientifico e spera che il mondo accademico possa aprirsi maggiormente al libero pensiero, "il confronto libero ed aperto senza alcuna persecuzione e repressione dei biologi dissenzienti è quello che serve. Secondo il Neo-Darwinismo tutti i problemi importanti relativi all'origine delle specie sono, perlomeno in linea di principio, risolti. Ulteriori interrogativi sulla validità della teoria evolutiva sono quindi sostanzialmente superflui. In realtà un tale atteggiamento dogmatico blocca ulteriori indagini ed ostacola la produttiva ricerca scientifica. Diversamente la teoria dell'ID segue le prove in qualunque direzione queste conducano e diverse sue predizioni sono già state riscontrate come, per esempio, la confutazione dell'ipotesi del 'DNA spazzatura' avvenuta in anni recenti.

I sistemi irriducibilmente complessi e specificati propri della biologia indicano in modo schiacciante un'origine intelligente degli esseri viventi. Nella ricerca in biologia vengono scoperti quasi giornalmente sistemi sempre più complessi."

Wolf-Ekkehard Lönnig è membro del comitanto della rivista scientifica a revisione paritaria Bio-Complexity. E' stato intervistato da diverse testate tra le quali Der Spiegel ed oltre a partecipare di frequente a seminari e conferenze come stimato oratore, ha scritto diversi libri sulle lacune della teoria evolutiva, tra i quali uno che prende in esame il perché il mondo scientifico e accademico sia costretto ad accettare senza riserve le teorie darwiniste.


- "Grazie molte per averci concesso questa intervista, Signor Lönnig. Vorrei iniziare dal suo lavoro. Ci potrebbe qualcosa in relazione alle sue specializzazioni ed ai suoi attuali progetti?"
- "Ho fatto il genetista specializzato in mutazioni e trasposoni dal 1985 fino al mio ritiro dall'attività di ricerca nel 2008 – dal 1992 in poi sono stato scienziato senior e responsabile di un gruppo al Max Planck Institute for Plant Breeding Research a Colonia, seguito da un periodo di due anni come scienziato ospite fino al 2010, con alcune collocazioni nel 2013 – Tuttavia sono attualmente interessato agli aspetti concernenti l'origine delle specie appartenenti alle categorie sistematiche elevate, dedicando forse più tempo di quanto facessi in passato a queste questioni, lavorando, se mi si concede il paragone, 'in casa' come faceva Darwin. Negli ultimi anni, quindi dal 2011 al 2014, ho scritto e pubblicato quattro libri su vari argomenti in relazione all'evoluzione."

- "L'Affare Max Planck, mai accaduto" (Prima e Seconda edizione 2011; Monsenstein und Vannerdat, Munster, 219 pp.) Questo è un libro che analizza le dinamiche di un gruppo evoluzionista tedesco, successivamente scissosi in due, che in nome della scienza fa tutto ciò che è in suo potere fare per sopprimere apertamente tutti i tipi di attendibile ricerca scientifica contro il Neo-Darwinismo o 'sintesi moderna'. Tra i vari punti il libro racconta tutta la storia della mia homepage ospitata dal Max Planck Institute e di come le pressioni di questi gruppi evoluzionisti sui quattro direttori dell'istituto e due presidenti della Max Planck Society abbiano avuto successo nel disabilitare la pagina Internet ed il relativo link, utilizzando senza scrupolo lamentele insistenti anche su testate nazionali e internazionali – da Der Spiegel a Nature – apostrofandomi come un creazionista che rinnega il metodo scientifico.
- Ho scritto il mio successivo libro sui problemi delle teorie evolutive in relazione alle piante carnivore dal titolo: L'evoluzione delle piante carnivore – Quello che la selezione naturale non può ottenere: L'esempio dell'Utricularia. (Terza edizione 2012; Mosenstein und Vannerdat, Munster, 274 pp.). Il complesso sistema a trappola dell'Utricularia, specialmente della cosmopolita U. Vulgaris – una pianta carnivora acquatica che cattura pulci d'acqua ed altri piccoli animali – è uno dei miei esempi preferiti in contrasto con le attuali teorie evolutive. Nel 2009, cioé dopo 7 anni dall'inizio della loro guerra contro la scienza, uno dei gruppi evoluzionisti pubblicò un esteso articolo atto a dimostrare l'origine evoluzionistica di quel sistema attraverso le mutazioni genetiche e la selezione naturale. In 274 pagine ho potuto dimostrare nel dettaglio come abbiano miseramente fallito.
- Dopo aver pubblicato questo secondo libro ne è seguito un terzo sulla giraffa dal titolo: "L'evoluzione della giraffa dal collo lungo (Giraffe Camelopardalis L.): Cosa sappiamo veramente? Una verifica delle teorie del gradualismo, delle macromutazioni e del Progetto Intelligente" – Prima edizione 2012; Monsenstein und Vannerdat, Munster, 134 pp.). Tutti gli importanti anelli di congiunzione nell'ipotetica evoluzione delle giraffe dal collo lungo mancano all'appello e di fatto i problemi evolutivi sono stati aggravati dai risultati di ulteriori studi sulla sinorganizzazione finemente regolata di tutti i sistemi di organi necessari a garantire la sopravvivenza di uno dei più grandi mammiferi terrestri ancora viventi. Questo argomento è emerso al grande pubblico attraverso un programma televisivo del quale ero consulente e dalla mia homepage, senza trascurare le implicazioni con la teoria del Progetto Intelligente. Il libro è disponibile in inglese e tedesco (Amazon).
- Il mio lavoro più recente riguarda l'origine e l'evoluzione dei cani dal titolo: "I nostri cani domestici: Un toporagno travestito da lupo? O le razze dei cani provano che gli esseri umani derivano dai batteri? (Prima edizione 2014; Monstein und Vannerdat, Munster, 407 pp. più di 150 figure a colori). L'idea di questo libro è nata dall'asserzione di Richard Dawkins e di molti altri biologi evolutivi secondo la quale le razze dei cani proverebbero la macroevoluzione. In realtà, virtualmente tutte le razze di cani sono generate da processi di sviluppo che comportano la perdita o il danneggiamento delle funzioni genetiche. Inoltre tutte le tre sottofamiglie delle famiglie dei cani selvatici (Canidae) appaiono improvvisamente nella documentazione fossile. Le argomentazioni e i fatti illustrati in questo libro dimostrano che un progetto intelligente e ingegnoso è la migliore spiegazione anche per l'origine di questi piccoli mammiferi.

[Modificato da Credente 27/05/2014 11:22]
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08/06/2019 15:09
 
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Teilhard de Chardin aveva ragione? La vita si muove da sola?




 
 
di Umberto Fasol*
*preside e docente di scienze naturali in un liceo scientifico

 

«L’evoluzione è caratterizzata dal muovere verso: della materia verso la complessità e della vita verso la complessità e la coscienza.» (Ludovico Galleni, editoriale della Nuova Secondaria n°8, 15 aprile 2012). Il professor Galleni, noto docente di zoologia all’Università di Pisa, propone la lezione di Teilhard de Chardin quale soluzione della grande antitesi presente nel dibattito contemporaneo tra il materialismo riduzionista del neodarwinismo da una parte e il creazionismo esplicito del Disegno Intelligente dall’altra.

In altre parole, secondo il professore, il Progetto in natura esiste, ma non va cercato al di fuori, bensì dentro la materia stessa. Sembra una soluzione elegante del problema: Dio esiste e l’evoluzione spontanea pure. Le cose però non sembrano essere così semplici. La domanda che sorge immediata di fronte a simili affermazioni è infatti questa: “Come fa la materia a muoversi verso una direzione se non è consapevole di quello che fa?”. E ancora: “Può esistere un movimento direzionale senza un obiettivo consapevole da raggiungere?”. E questo obiettivo è dentro la materia che si muove o è là, in fondo al percorso, ad attenderla?

In queste affermazioni, cioè, si attribuiscono alla materia proprietà che essa non ha.  Né il carbonio, né l’idrogeno o l’ossigeno possono conoscereil loro destino all’interno di una cellula: sono atomi e basta, privi di qualunque informazione morfogenetica.  Stanno bene da soli e non si uniscono in modo organizzato e teleonomico se non subentra una causa esterna a scuoterli dalla loro inerzia (proprio come quello che si dice nel primo principio della dinamica).
 No. Non credo che possa essere così. Se la materia si muove nella direzione della vita è solo perché “è mossa” dall’esterno. Nessuno può darsi quello che non ha!

Oppure, in alternativa, dobbiamo ammettere che, se questa materia grezza  è capace di autoorganizzarsi per formare una struttura infinitamente complessa, dinamica e omeostatica come la cellula, allora significa che è “di natura divina”: sa quello che deve fare e lo fa. Tra le due ipotesi certamente è da preferirsi la prima. Le proprietà della materia sono infatti: la massa, la carica elettrica, l’elettronegatività, ecc… ma in nessun caso l’informazione cosciente: è la fisica sperimentale a rivelarcelo. Siamo al punto di partenza. Quello di Aristotele: “ogni corpo che si muove, è mosso”. 

fonte UCCR


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08/06/2019 15:23
 
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La genetica moderna
ha smentito il darwinismo classico

Genetica 
 
di Giorgio Masiero*
*fisico

 

L’origine in Terra di tante forme di vita, diverse eppure simili, è un problema che ha interrogato l’uomo da sempre, dando luogo a miti e speculazioni. Nel 1837 Charles Darwin, alla fine di un “lungo ragionamento” iniziato col suo viaggio intorno al mondo – durante il quale aveva osservato ambienti diversissimi, dal Sud America all’Africa, dall’Australia all’Asia, raccogliendovi oltre 4.000 reperti di specie vegetali ed animali – credette di aver trovato la risposta nel binomio caso + selezione naturale.

Per Darwin, dati uno o pochi organismi iniziali sulla cui origine egli non avanzò ipotesi, tutte le specie si sono sviluppate l’una dall’altra; e il motore dell’evoluzione (durata 4 miliardi di anni, come ora si ricava dalle età dei fossili) sta nella successione di piccole mutazioni casuali, i cui effetti cumulativi sulle prestazioni degli individui sono selezionati; con la sopravvivenza dei più efficaci a moltiplicarsi nel loro habitat. Come l’atleta mosso dalla competizione rafforza con l’allenamento i muscoli e progredisce nelle sue performance, così la lotta quotidiana per la ripartizione delle risorse adattò i becchi dei fringuelli alle specialità alimentari di ogni isola delle Galapagos moltiplicandone le varietà. Lo stesso accadde altrove per le altre specie, via via fino a coprire mare, terra e cielo delle più forti e più prolifiche in ogni nicchia. Fino all’uomo.

Secondo tale proposta, la selezione naturale non fa soltanto la spogliazione come una massaia agli scaffali del supermarket, così spiegando in maniera convincente la scomparsa accertata di molte specie, ma in cooperazione col caso creerebbe anche la novità – come al supermarket non fa la massaia, ma l’azione di rifornimento del commerciante –. Darwin era consapevole dell’importanza cruciale del meccanismo della selezione naturale nella sua teoria, perché sapeva che un monologo del caso avrebbe potuto svolgere solo ruoli comici nel teatro della scienza. Sicché nel suo capolavoro egli mise bene in evidenza fin dal titolo (“The origin of species by means of natural selection”) e nelle introduzioni a tutte le edizioni finché fu in vita, che la selezione naturale era per lui “la causa principale delle modificazioni” tra specie, ammettendo che una smentita di questa assunzione avrebbe invalidato la sua teoria.

Ebbene, “oggi” la creatività della selezione naturale, buona forse per le conoscenze fisiche e chimiche di metà ‘800, non sta più in piedi. Da allora è passato un tempo enorme per il progresso scientifico, un’epoca di scoperte rivoluzionarie superiori a quelle avvenute in tutti i secoli precedenti di storia umana: una biologia evolutiva che non tenesse conto di questa accelerazione sarebbe come una chimica ferma a Lavoisier, ignara della tavola di Mendeleev e del polimerismo del carbonio, ecc., o come una fisica ferma a Laplace, senza elettromagnetismo, relatività einsteiniana, meccanica quantistica, ecc. Ho scritto “oggi” tra virgolette, perché la congettura di Darwin è saltata invero da 60 anni, precisamente il 28 febbraio 1953, allorché Francis Crick e James Watson annunciarono la funzione genetica della doppia elica del DNA. Perché la genetica moderna contraddice la selezione naturale come causa dell’origine delle specie?

La molecola di DNA è presente in tutte le cellule degli organismi viventi, in quelle di un gambo o di una gamba, di una foglia o di un becco, di una radice o di un’unghia, ecc. Ogni individuo di ogni specie ha la sua molecola di DNA che lo caratterizza, replicata identicamente centinaia di migliaia di miliardi di volte nel suo organismo. Ma il DNA non è solo la carta d’identità dei viventi, è molto di più: è il programma che prima della nascita guida l’embrione a selezionare e ad assemblare dall’ambiente, particella dopo particella, la materia e l’energia necessarie allo sviluppo dell’organismo e poi in vita guida nelle cellule la produzione continua di proteine necessarie al suo metabolismo. Una cellula non è “uno schifo, una roba molle, fatta di cose spesso che non servono, messe lì, che uno si porta dietro dall’evoluzione”, come il Cicap indottrina gl’ingenui alla superstizione, ma è un’organizzazione olistica avente il DNA come super-programma delle routine proteinogenetiche eseguibili dagli organelli, infinitamente superiore al più avanzato sistema robotico industriale per complessità cibernetica e al www per complessità di grafo (“interattoma”).

Nell’information technology un programma è una sequenza di istruzioni e, in un dato linguaggio, coincide con una disposizione di un numero di simboli, ripetuti volte. Per es., il programma al distributore automatico di benzina più vicino a casa mia è scritto in lingua italiana ed è una disposizione di = 33 simboli (le lettere dell’alfabeto italiano, più alcuni caratteri speciali e le cifre 1-6) ripetuti = 324 volte. Nel termine “sequenza” è inteso che le istruzioni di un programma hanno un ordine: se non ci credete, provate a caricare il serbatoio della vostra auto scambiando l’ordine delle operazioni al distributore!

In un programma informatico il numero dei simboli può cambiare da un linguaggio all’altro, ma il minimo è di = 2 simboli (codice binario). Il programma della vita, dal batterio all’uomo, usa un codice di = 4 simboli (i 4 “nucleotidi” A, T, C, G), di cui non ci serve qui sapere il significato. Così la molecola di DNA del batterio Mycoplasma genitalium è una disposizione dei 4 nucleotidi ripetuti = 580.000 volte, mentre nell’uomo i 4 nucleotidi sono ripetuti 3,2 miliardi di volte. E il fatto che sintassi, linguaggio, sistema operativo (RNA) e cibernetica siano uguali per tutte le specie vegetali e animali è per me una prova che la speciazione è stata causata dallo stesso meccanismo, come già per via puramente razionale aveva intuito Sant’Agostino: “In principio furono creati solamente i germi… delle forme di vita, che in seguito si sarebbero sviluppate gradualmente” (Confessioni). Per contro, il campo dell’informatica artificiale, dominato dall’anarchia di linguaggi, sistemi operativi e device non comunicanti, tutti allegramente in lotta contro l’interoperabilità reciproca, è il risultato delle logiche del mercato conteso tra le tante aziende dell’IC&T.

Qualcuno potrà stupirsi dell’esistenza di molecole composte di decine di miliardi di atomi; ma quando si dice che la vita sulla Terra è fondata sul carbonio, ci si riferisce proprio alla proprietà speciale che ha questo elemento chimico di “polimerizzare”, cioè di formare lunghe catene di molecole più piccole, tra loro unite attraverso “ganci” come i vagoni in un treno. Nel DNA i vagoni sono i nucleotidi e il gancio che li unisce è un legame chimico particolare (legame fosfodiesterico), che è asimmetrico, così da dare ordine alla stringa distinguendo il nucleotide che viene prima da quello che viene dopo.

Ora, veniamo al punto. Come si può trasformare un treno merci in un altro, con una disposizione dei vagoni diversa ed eventualmente più lunga? La risposta è ovvia: 1) spezzando i ganci, 2) riordinando i vagoni e riattaccandoli e 3) aggiungendo altri vagoni nell’ordine desiderato. Allo stesso modo, per la trasformazione del DNA d’una specie in quello d’un’altra (da un “cariotipo” ad un altro) servono meccanismi capaci di spezzare i legami fosfodiesterici, scambiare alcuni nucleotidi di posto, ed aggiungerne o toglierne altri in un certo ordine. Ma se la quotidiana lotta per la sopravvivenza può con l’esercizio far saltare più in alto o più in lungo un canguro vivo e vegeto, o farlo correre più veloce e per più tempo, essa non può spezzarne i legami fosfodiesterici, né riordinarne i nucleotidi, né sintetizzarne di nuovi così da fargli cambiar specie, per il semplice motivo che essa agisce solodopo l’esecuzione del programma nei fenotipi già sintetizzati: qui, nell’insieme dei caratteri osservabili di un individuo già sviluppato, essa può soloeliminare quegli organismi che, meno adatti all’habitat, così perdono la battaglia con i condòmini per la ripartizione delle risorse. Mentre a livello di genotipo (il corredo genico di un individuo), la selezione naturale può solo impedire ad un organismo di nascere o di svilupparsi ogniqualvolta una modifica genetica, per qualsiasi ragione intervenuta, provochi un crash del programma.

Insomma la selezione naturale nell’evoluzione biologica agisce come la scelta del consumatore nelle evoluzioni economica o tecnologica: interviene dopo che forme coerenti con il mercato sono apparse per scartare le meno gradite. La selezione naturale spiega la scomparsa di alcune forme, ma non spiega la genesi di nessuna, né più né meno della massaia che alleggerendo gli scaffali del supermercato non li arricchisce solo per questo di nuovi prodotti. La selezione naturale ha ruolo esclusivamente nell’eliminazione di individui e specie già esistenti e nella prevenzione di nuove speciemai nella loro creazione. Ma questo non l’aveva già insegnato Thomas R. Malthus per le classi sociali della specie umana nel suo “Essay of the principle of the population” (1798)?

Certo, da Gregor Mendel in poi le leggi della genetica spiegano il differenziarsi di varietà e razze all’interno delle specie; ma nessuna risposta scientifica esse danno all’evoluzione interspecifica, che è ben altro. Qui la variazione della razza inciampa sull’invalicabile confine della specie: “Ogni specie vera presenta una barriera genetica, possiede un cariotipo originale. Ad ogni specie corrisponde un cariotipo; e poiché i cromosomi contengono migliaia di geni, si evidenzia chiaramente che ciò che separa la specie è qualcosa di ordine di grandezza assai diverso da una mutazione genetica” (Jérôme Lejeune).

La genetica moderna ha smentito il darwinismo classico e la Sintesi moderna, in quanto fusione di genetica e darwinismo, è auto-contraddittoria. Se nel XX secolo la formulazione riduzionistica della biologia, dipendente da una fisica obsoleta (perché superata dalla meccanica quantistica) è arrivata ad un vicolo cieco, lasciandoci “senza una visione del futuro e solo con il ronzio d’una gigantesca macchina biotecnologica” (Carl Woese), oggi la biologia deve liberarsi dal meccanicismo e dall’imperialismo farmaceutico, per rifondarsi come scienza fondamentale alla guida dell’interdisciplinarità scientifica, con focus sulla fenomenologia emergente, non lineare, olistica della forma biologica. Deve assumere la missione di capire il mondo e la vita, oltre che di servire l’industria.


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10/07/2019 10:43
 
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Pare che si sia scoperto da dove viene la vita: dal cianuro. Alcuni scienziati hanno scoperto del cianuro legato ad altri composti in alcuni meteoriti: si pensa allora che i meteoriti, arrivati sulla terra hanno iniziato dal cianuro a produrre la vita. Infatti il cianuro è presente negli enzimi deidrogenasi presenti negli archeobatteri e nei batteri moderni.


Quindi si pensa che il cianuro sia la prima molecola che ha dato origine alla vita. Si continua così a equivocare su che cosa 'e' veramente la vita. La vita infatti non è un ammasso di sostanze chimiche reagenti tra loro: dicendo questo si dimostra di non aver capito niente di che cos'è la vita. La vita e ' sostanzialmente informazione simile ad un programma di software. E' come se per capire un computer coi suoi programmi  se ne cercasse la causa nelle sostanze chimiche presenti su un computer. La vita non si spiega esaminando ciascuna sostanza chimica presente: non si spiega ne' con gli zuccheri, ne' con i  lipidi, ne' con le proteine: queste sostanze sono assemblate in modo specifico per  dare origine alla complessità' della cellula e di tutti gli organismi in modo da dare luogo ad una organizzazione con scopi specifici, allo stesso modo in cui un  software è fatto di sostanze chimiche che insieme formano un  programma. E il programma e ideato  sempre da una intelligenza. E così per capire la  vita bisogna mettere in conto che la causa  di essa è una straordinaria intelligenza .

fonte: AISO   http://www.origini.info/argomento/biologia/487-vita,-scienza,-scoperta,-aiso,-antievoluzione,-creazionismo.html#


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