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RECEPIRE CORRETTAMENTE IL CONCILIO VATICANO II

Ultimo Aggiornamento: 30/12/2012 00:15
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10/04/2011 20:14
 
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Paolo VI, nel suo discorso per la conclusione del Concilio, ha poi indicato
ancora una specifica motivazione per cui un'ermeneutica della discontinuità
potrebbe sembrare convincente. Nella grande disputa sull'uomo, che
contraddistingue il tempo moderno, il Concilio doveva dedicarsi in modo
particolare al tema dell'antropologia. Doveva interrogarsi sul rapporto tra la
Chiesa e la sua fede, da una parte, e l'uomo ed il mondo di oggi, dall'altra
(ibid., pp. 1066 s.).
La questione diventa ancora più chiara, se in luogo
del termine generico di "mondo di oggi" ne scegliamo un altro più
preciso: il Concilio doveva determinare in modo nuovo il rapporto tra
Chiesa ed età moderna. Questo rapporto aveva avuto un inizio molto
problematico con il processo a Galileo. Si era poi spezzato totalmente,
quando Kant definì la "religione entro la pura ragione" e quando, nella
fase radicale della rivoluzione francese, venne diffusa un'immagine
dello Stato e dell'uomo che alla Chiesa ed alla fede praticamente non
voleva più concedere alcuno spazio
.

Lo scontro della fede della Chiesa con un liberalismo radicale ed anche
con scienze naturali che pretendevano di abbracciare con le loro
conoscenze tutta la realtà fino ai suoi confini, proponendosi
caparbiamente di rendere superflua l'"ipotesi Dio", aveva provocato
nell'Ottocento, sotto Pio IX, da parte della Chiesa aspre e radicali
condanne di tale spirito dell'età moderna. Quindi, apparentemente non
c'era più nessun ambito aperto per un'intesa positiva e fruttuosa, e drastici
erano pure i rifiuti da parte di coloro che si sentivano i rappresentanti dell'età
moderna. Nel frattempo, tuttavia, anche l'età moderna aveva conosciuto degli
sviluppi.
    Ci si rendeva conto che la rivoluzione americana aveva offerto un
modello di Stato moderno diverso da quello teorizzato dalle tendenze radicali
emerse nella seconda fase della rivoluzione francese. Le scienze naturali
cominciavano, in modo sempre più chiaro, a riflettere sul proprio limite,
imposto dallo stesso loro metodo che, pur realizzando cose grandiose, tuttavia
non era in grado di comprendere la globalità della realtà. Così, tutte e due le
parti cominciavano progressivamente ad aprirsi l'una all'altra. Nel
periodo tra le due guerre mondiali e ancora di più dopo la seconda guerra
mondiale, uomini di Stato cattolici avevano dimostrato che può esistere uno
Stato moderno laico, che tuttavia non è neutro riguardo ai valori, ma vive
attingendo alle grandi fonti etiche aperte dal cristianesimo.

   La dottrina sociale cattolica, via via sviluppatasi, era diventata un modello
importante tra il liberalismo radicale e la teoria marxista dello Stato. Le scienze
naturali, che senza riserva facevano professione di un proprio metodo in cui
Dio non aveva accesso, si rendevano conto sempre più chiaramente che questo
metodo non comprendeva la totalità della realtà e aprivano quindi nuovamente le porte a Dio, sapendo che la realtà è più grande del metodo naturalistico e di
ciò che esso può abbracciare. Si potrebbe dire che si erano formati tre cerchi di
domande, che ora, nell'ora del Vaticano II, attendevano una risposta.
Innanzitutto occorreva definire in modo nuovo la relazione tra fede e scienze
moderne; ciò riguardava, del resto, non soltanto le scienze naturali, ma anche
la scienza storica perché, in una certa scuola, il metodo storico-critico
reclamava per sé l'ultima parola nella interpretazione della Bibbia e,
pretendendo la piena esclusività per la sua comprensione delle Sacre Scritture,
si opponeva in punti importanti all'interpretazione che la fede della Chiesa
aveva elaborato.

In secondo luogo, era da definire in modo nuovo il rapporto tra Chiesa e Stato
moderno, che concedeva spazio a cittadini di varie religioni ed ideologie,
comportandosi verso queste religioni in modo imparziale e assumendo
semplicemente la responsabilità per una convivenza ordinata e tollerante tra i
cittadini e per la loro libertà di esercitare la propria religione. Con ciò, in terzo
luogo, era collegato in modo più generale il problema della tolleranza religiosa
­ una questione che richiedeva una nuova definizione del rapporto tra fede
cristiana e religioni del mondo. In particolare, di fronte ai recenti crimini del
regime nazionalsocialista e, in genere, in uno sguardo retrospettivo su una
lunga storia difficile, bisognava valutare e definire in modo nuovo il rapporto
tra la Chiesa e la fede di Israele.

     Sono tutti temi di grande portata - erano i grandi temi della seconda parte del
Concilio - su cui non è possibile soffermarsi più ampiamente in questo
contesto. È chiaro che in tutti questi settori, che nel loro insieme formano un
unico problema, poteva emergere una qualche forma di discontinuità e che, in
un certo senso, si era manifestata di fatto una discontinuità, nella quale
tuttavia, fatte le diverse distinzioni tra le concrete situazioni storiche e le loro
esigenze, risultava non abbandonata la continuità nei principi ­ fatto questo
che facilmente sfugge alla prima percezione. È proprio in questo insieme di
continuità e discontinuità a livelli diversi che consiste la natura della vera
riforma.
In questo processo di novità nella continuità dovevamo imparare a
capire più concretamente di prima che le decisioni della Chiesa
riguardanti cose contingenti ­ per esempio, certe forme concrete di
liberalismo o di interpretazione liberale della Bibbia ­ dovevano
necessariamente essere esse stesse contingenti, appunto perché
riferite a una determinata realtà in se stessa mutevole.

Bisognava imparare a riconoscere che, in tali decisioni, solo i principi esprimono
l'aspetto duraturo, rimanendo nel sottofondo e motivando la decisione
dal di dentro.
Non sono invece ugualmente permanenti le forme concrete, che dipendono dalla situazione storica e possono quindi essere sottoposte a
mutamenti. Così le decisioni di fondo possono restare valide, mentre le forme
della loro applicazione a contesti nuovi possono cambiare. Così, ad esempio, se
la libertà di religione viene considerata come espressione dell'incapacità
dell'uomo di trovare la verità e di conseguenza diventa canonizzazione del
relativismo, allora essa da necessità sociale e storica è elevata in modo
improprio a livello metafisico ed è così privata del suo vero senso, con la
conseguenza di non poter essere accettata da colui che crede che l'uomo è
capace di conoscere la verità di Dio e, in base alla dignità interiore della verità,
è legato a tale conoscenza.

Una cosa completamente diversa è invece il considerare la libertà di
religione come una necessità derivante dalla convivenza umana, anzi
come una conseguenza intrinseca della verità che non può essere
imposta dall'esterno, ma deve essere fatta propria dall'uomo solo
mediante il processo del convincimento.
Il Concilio Vaticano II, riconoscendo e facendo suo con il Decreto sulla libertà
religiosa un principio essenziale dello Stato moderno, ha ripreso nuovamente il
patrimonio più profondo della Chiesa. Essa può essere consapevole di trovarsi
con ciò in piena sintonia con l'insegnamento di Gesù stesso (cfr Mt 22,21),
come anche con la Chiesa dei martiri, con i martiri di tutti i tempi. La Chiesa
antica, con naturalezza, ha pregato per gli imperatori e per i responsabili
politici considerando questo un suo dovere (cfr 1 Tm 2,2); ma, mentre pregava
per gli imperatori, ha invece rifiutato di adorarli, e con ciò ha respinto
chiaramente la religione di Stato. I martiri della Chiesa primitiva sono morti
per la loro fede in quel Dio che si era rivelato in Gesù Cristo, e proprio così
sono morti anche per la libertà di coscienza e per la libertà di professione della
propria fede ­ una professione che da nessuno Stato può essere imposta, ma
invece può essere fatta propria solo con la grazia di Dio, nella libertà della
coscienza. Una Chiesa missionaria, che si sa tenuta ad annunciare il suo
messaggio a tutti i popoli, deve necessariamente impegnarsi per la libertà della
fede.

Essa vuole trasmettere il dono della verità che esiste per tutti ed assicura
al contempo i popoli e i loro governi di non voler distruggere con ciò la loro
identità e le loro culture, ma invece porta loro una risposta che, nel loro
intimo, aspettano ­ una risposta con cui la molteplicità delle culture non si
perde, ma cresce invece l'unità tra gli uomini e così anche la pace tra i popoli.
Il Concilio Vaticano II, con la nuova definizione del rapporto tra la fede
della Chiesa e certi elementi essenziali del pensiero moderno, ha
rivisto o anche corretto alcune decisioni storiche, ma in questa
apparente discontinuità ha invece mantenuto ed approfondito la sua
intima natura e la sua vera identità. La Chiesa è, tanto prima quanto dopo il Concilio, la stessa Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica in
cammino attraverso i tempi; essa prosegue "il suo pellegrinaggio fra le
persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio", annunziando la morte
del Signore fino a che Egli venga
(cfr Lumen gentium, 8).
Chi si era aspettato che con questo "sì" fondamentale all'età moderna tutte le
tensioni si dileguassero e l'"apertura verso il mondo" così realizzata
trasformasse tutto in pura armonia, aveva sottovalutato le interiori tensioni e
anche le contraddizioni della stessa età moderna; aveva sottovalutato la
pericolosa fragilità della natura umana che in tutti i periodi della storia e in
ogni costellazione storica è una minaccia per il cammino dell'uomo. Questi
pericoli, con le nuove possibilità e con il nuovo potere dell'uomo sulla materia e
su se stesso, non sono scomparsi, ma assumono invece nuove dimensioni: uno
sguardo sulla storia attuale lo dimostra chiaramente. Anche nel nostro tempo
la Chiesa resta un "segno di contraddizione" (Lc 2,34) ­ non senza motivo
Papa Giovanni Paolo II, ancora da Cardinale, aveva dato questo titolo agli
Esercizi Spirituali predicati nel 1976 a Papa Paolo VI e alla Curia Romana.

Non poteva essere intenzione del Concilio abolire questa
contraddizione del Vangelo nei confronti dei pericoli e degli errori
dell'uomo. Era invece senz'altro suo intendimento accantonare
contraddizioni erronee o superflue, per presentare a questo nostro
mondo l'esigenza del Vangelo in tutta la sua grandezza e purezza. Il
passo fatto dal Concilio verso l'età moderna, che in modo assai impreciso è
stato presentato come "apertura verso il mondo", appartiene in definitiva al
perenne problema del rapporto tra fede e ragione, che si ripresenta in sempre
nuove forme. La situazione che il Concilio doveva affrontare è senz'altro
paragonabile ad avvenimenti di epoche precedenti. San Pietro, nella sua prima
lettera, aveva esortato i cristiani ad essere sempre pronti a dar risposta (apo-
logia) a chiunque avesse loro chiesto il logos, la ragione della loro fede (cfr
3,15). Questo significava che la fede biblica doveva entrare in discussione e in
relazione con la cultura greca ed imparare a riconoscere mediante
l'interpretazione la linea di distinzione, ma anche il contatto e l'affinità tra loro
nell'unica ragione donata da Dio. Quando nel XIII secolo, mediante filosofi
ebrei ed arabi, il pensiero aristotelico entrò in contatto con la cristianità
medievale formata nella tradizione platonica, e fede e ragione rischiarono di
entrare in una contraddizione inconciliabile, fu soprattutto san Tommaso
d'Aquino a mediare il nuovo incontro tra fede e filosofia aristotelica, mettendo
così la fede in una relazione positiva con la forma di ragione dominante nel suo
tempo.

La faticosa disputa tra la ragione moderna e la fede cristiana che, in un primo
momento, col processo a Galileo, era iniziata in modo negativo, certamente

conobbe molte fasi, ma col Concilio Vaticano II arrivò l'ora in cui si richiedeva
un ampio ripensamento. Il suo contenuto, nei testi conciliari, è tracciato
sicuramente solo a larghe linee, ma con ciò è determinata la direzione
essenziale, cosicché il dialogo tra ragione e fede, oggi particolarmente
importante, in base al Vaticano II ha trovato il suo orientamento. Adesso
questo dialogo è da sviluppare con grande apertura mentale, ma anche con
quella chiarezza nel discernimento degli spiriti che il mondo con buona ragione
aspetta da noi proprio in questo momento. Così possiamo oggi con gratitudine
volgere il nostro sguardo al Concilio Vaticano II: se lo leggiamo e recepiamo
guidati da una giusta ermeneutica, esso può essere e diventare sempre di più
una grande forza per il sempre necessario rinnovamento della Chiesa.
Infine, devo forse ancora far memoria di quel 19 aprile di quest'anno,
in cui il Collegio Cardinalizio, con mio non piccolo spavento, mi ha
eletto a successore di Papa Giovanni Paolo II, a successore di san
Pietro sulla cattedra del Vescovo di Roma? Un tale compito stava del
tutto fuori di ciò che avrei mai potuto immaginare come mia vocazione.
Così, fu soltanto con un grande atto di fiducia in Dio che potei dire
nell'obbedienza il mio "sì" a questa scelta. Come allora, così chiedo
anche oggi a tutti Voi la preghiera, sulla cui forza e sostegno io conto.
Al contempo desidero ringraziare di cuore in quest'ora tutti coloro che
mi hanno accolto e mi accolgono tuttora con tanta fiducia, bontà e
comprensione, accompagnandomi giorno per giorno con la loro
preghiera.
  Il Signore Dio alle minacce della storia non si è
opposto con il potere esteriore, come noi uomini, secondo le prospettive di
questo nostro mondo, ci saremmo aspettati. L'arma sua è la bontà. Si è
rivelato come bimbo, nato in una stalla. È proprio così che contrappone il suo
potere completamente diverso alle potenze distruttive della violenza. Proprio
così Egli ci salva. Proprio così ci mostra ciò che salva. Vogliamo,  andargli incontro pieni di fiducia, come i pastori, come i sapienti
dell'Oriente. Chiediamo a Maria di condurci al Signore. Chiediamo a Lui stesso
di far brillare il suo volto su di noi. Chiediamogli di vincere Egli stesso la
violenza nel mondo e di farci sperimentare il potere della sua bontà.

Con questi sentimenti imparto di cuore a tutti Voi la Benedizione Apostolica.
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Questa è la vita: che conoscano Te, solo vero Dio, e Colui che hai mandato, Gesù Cristo. Gv.17,3
 
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