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RECEPIRE CORRETTAMENTE IL CONCILIO VATICANO II

Ultimo Aggiornamento: 30/12/2012 00:15
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10/04/2011 20:10
 
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Il teologo gesuita Karl Rahner (1900-1984), perito del Concilio Ecumenico Vaticano II, nell'immediato postconcilio si procurò la fama di uno dei più
grandi teologi cattolici ed interpreti del Concilio. Sennonché però, altri
teologi eminenti, come il Fabro, Lakebrink, il card. Parente, il Von Balthasar
e il Card. Ratzinger segnalarono le gravi insidie contenute nel sistema
rahneriano e la falsità della sua interpretazione modernistica del Concilio,
non conforme a quella della Chiesa postconciliare. Un'interpretazione non di
continuità ma di rottura, che forniva pretesti a reazioni ultratradizionaliste.
Dalle segnalazioni di questi teologi, in un primo tempo inascoltate, sta
sorgendo un movimento teologico internazionale, fedele alla Chiesa e al
Papa, il quale si è impegnato a correggere le vedute rahneriane, le cui
conseguenze si sono rivelate dannose in campo morale, come hanno
segnalato alcuni moralisti, tra cui Don Dario Composta. Tale movimento
si propone di contribuire alla vera interpretazione del Concilio, senza per
questo misconoscere i meriti del teologo tedesco.
L'AUTORE
Nato nel 1941 a Ravenna, entrato nell'Ordine Domenicano nel 1971,
sacerdote dal 1976. Addottorato in Filosofia nel 1970 presso l'Università di
Bologna e in Teologia nel 1984 presso la Pontificia università S.Tommaso
d'Aquino di Roma, insegna Metafisica nello Studio Filosofico Domenicano di
Bologna e Metafisica e Teologia Sistematica nella Facoltà Teologica
dell'Emilia Romagna. Dal 1982 al 1990 è stato officiale della Segreteria di
Stato in Vaticano. A Roma ha insegnato per due anni Teologia all'Istituto
Universitario di Magistero "Maria Assunta". Dal 1992 è Accademico
Pontificio. Tiene corsi per catechisti a Radio Maria dal 1995. Ha coltivato e
pubblicato studi di mistica e di demonologia. Studioso del pensiero di
S.Tommaso d'Aquino, ha partecipato a congressi tomistici internazionali, ha
pubblicato molti articoli su riviste specializzate ed alcuni libri, soprattutto
di cristologia: "La gloria di Cristo" (2001); "Il mistero dell'Incarnazione"
(2003); "Il mistero della Redenzione" (2004). È postulatore nella causa di
beatificazione del teologo domenicano Tomas Tyn, sul quale ha pubblicato
"Padre Tomas Tyn, un tradizionalista postconciliare", Fede & Cultura, 2007.
Ha pubblicato inoltre "La questione dell'eresia oggi", (2008), "La liberazione
della libertà", Fede & Cultura 2008; "Siate santi!", Fede & Cultura 2008.
e così....Natale 2005 Benedetto XVI nel fare gli Auguri alla Curia, scandisce il
suo memorabile discorso che è davvero per noi la bussola per tornare al vero
Concilio e abbandonare ogni falsa interpretazione...
ecco le parole del Papa:
L'ultimo evento di quest'anno su cui vorrei soffermarmi in questa
occasione è la celebrazione della conclusione del Concilio Vaticano II
quarant'anni fa.
Tale memoria suscita la domanda: Qual è stato il risultato del Concilio? È
stato recepito nel modo giusto? Che cosa, nella recezione del Concilio,
è stato buono, che cosa insufficiente o sbagliato? Che cosa resta
ancora da fare?
Nessuno può negare che, in vaste parti della Chiesa, la recezione del Concilio si
è svolta in modo piuttosto difficile, anche non volendo applicare a quanto è
avvenuto in questi anni la descrizione che il grande dottore della Chiesa, san
Basilio, fa della situazione della Chiesa dopo il Concilio di Nicea: egli la
paragona ad una battaglia navale nel buio della tempesta, dicendo fra
l'altro: "Il grido rauco di coloro che per la discordia si ergono l'uno
contro l'altro, le chiacchiere incomprensibili, il rumore confuso dei
clamori ininterrotti ha riempito ormai quasi tutta la Chiesa falsando,
per eccesso o per difetto, la retta dottrina della fede ..."
(De Spiritu
Sancto, XXX, 77; PG 32, 213 A; SCh 17bis, pag. 524).
Non vogliamo applicare proprio questa descrizione drammatica alla situazione
del dopo-Concilio, ma qualcosa tuttavia di quanto avvenuto vi si riflette.
Emerge la domanda: Perché la recezione del Concilio, in grandi parti
della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile?
Ebbene, tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio o ­ come diremmo
oggi ­ dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di
applicazione
.
I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche
contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L'una ha
causato confusione, l'altra, silenziosamente ma sempre più
visibilmente, ha portato e porta frutti.
Da una parte esiste un'interpretazione che vorrei chiamare "ermeneutica della
discontinuità e della rottura"; essa non di rado si è potuta avvalere della
simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna.
Dall'altra parte c'è l'"ermeneutica della riforma", del rinnovamento nella
continuità dell'unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un
soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso,
unico soggetto del Popolo di Dio in cammino.
L'ermeneutica della discontinuità rischia di finire in una rottura tra
Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare
. Essa asserisce che i testi del
Concilio come tali non sarebbero ancora la vera espressione dello spirito del
Concilio. Sarebbero il risultato di compromessi nei quali, per raggiungere
l'unanimità, si è dovuto ancora trascinarsi dietro e riconfermare molte cose
vecchie ormai inutili. Non in questi compromessi, però, si rivelerebbe il vero
spirito del Concilio, ma invece negli slanci verso il nuovo che sono sottesi ai
testi: solo essi rappresenterebbero il vero spirito del Concilio, e partendo da
essi e in conformità con essi bisognerebbe andare avanti. Proprio perché i testi
rispecchierebbero solo in modo imperfetto il vero spirito del Concilio e la sua
novità, sarebbe necessario andare coraggiosamente al di là dei testi, facendo
spazio alla novità nella quale si esprimerebbe l'intenzione più profonda,
sebbene ancora indistinta, del Concilio. In una parola: occorrerebbe seguire
non i testi del Concilio, ma il suo spirito.
In tal modo, ovviamente, rimane un vasto margine per la domanda su come
allora si definisca questo spirito e, di conseguenza, si concede spazio ad ogni
estrosità. Con ciò, però, si fraintende in radice la natura di un Concilio
come tale. In questo modo, esso viene considerato come una specie di
Costituente, che elimina una costituzione vecchia e ne crea una nuova. Ma la
Costituente ha bisogno di un mandante e poi di una conferma da parte del
mandante, cioè del popolo al quale la costituzione deve servire. I Padri non
avevano un tale mandato e nessuno lo aveva mai dato loro; nessuno, del
resto, poteva darlo, perché la costituzione essenziale della Chiesa viene dal
Signore e ci è stata data affinché noi possiamo raggiungere la vita eterna e,
partendo da questa prospettiva, siamo in grado di illuminare anche la vita nel tempo e il tempo stesso. I Vescovi, mediante il Sacramento che hanno
ricevuto, sono fiduciari del dono del Signore. Sono "amministratori dei misteri
di Dio" (1 Cor 4,1); come tali devono essere trovati "fedeli e saggi" (cfr Lc
12,41-48). Ciò significa che devono amministrare il dono del Signore in modo
giusto, affinché non resti occultato in qualche nascondiglio, ma porti frutto e il
Signore, alla fine, possa dire all'amministratore: "Poiché sei stato fedele nel
poco, ti darò autorità su molto" (cfr Mt 25,14-30; Lc 19,11-27). In queste
parabole evangeliche si esprime la dinamica della fedeltà, che interessa nel
servizio del Signore, e in esse si rende anche evidente, come in un Concilio
dinamica e fedeltà debbano diventare una cosa sola.
All'ermeneutica della discontinuità si oppone l'ermeneutica della riforma, come
l'hanno presentata dapprima Papa Giovanni XXIII nel suo discorso d'apertura
del Concilio l'11 ottobre 1962 e poi Papa Paolo VI nel discorso di conclusione
del 7 dicembre 1965. Vorrei qui citare soltanto le parole ben note di Giovanni
XXIII, in cui questa ermeneutica viene espressa inequivocabilmente quando
dice che il Concilio "vuole trasmettere pura ed integra la dottrina, senza
attenuazioni o travisamenti", e continua: "Il nostro dovere non è
soltanto di custodire questo tesoro prezioso, come  se ci
preoccupassimo unicamente dell'antichità, ma di dedicarci con alacre
volontà e senza timore a quell'opera, che la nostra età esige... È
necessario che questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere
fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che
corrisponda alle esigenze del nostro tempo. Una cosa è infatti il
deposito della fede, cioè le verità contenute nella nostra veneranda
dottrina, e altra cosa è il modo col quale esse sono enunciate,
conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la stessa portata" (S.
Oec. Conc. Vat. II Constitutiones Decreta Declarationes, 1974, pp. 863-865).
È chiaro che questo impegno di esprimere in modo nuovo una determinata
verità esige una nuova riflessione su di essa e un nuovo rapporto vitale con
essa; è chiaro pure che la nuova parola può maturare soltanto se nasce da una
comprensione consapevole della verità espressa e che, d'altra parte, la
riflessione sulla fede esige anche che si viva questa fede. In questo senso il
programma proposto da Papa Giovanni XXIII era estremamente esigente,
come appunto è esigente la sintesi di fedeltà e dinamica. Ma ovunque questa
interpretazione è stata l'orientamento che ha guidato la recezione del Concilio,
è cresciuta una nuova vita e sono maturati frutti nuovi. Quarant'anni dopo il
Concilio possiamo rilevare che il positivo è più grande e più vivo di quanto non
potesse apparire nell'agitazione degli anni intorno al 1968. Oggi vediamo che
il seme buono, pur sviluppandosi lentamente, tuttavia cresce, e cresce
così anche la nostra profonda gratitudine per l'opera svolta dal
Concilio.
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Questa è la vita: che conoscano Te, solo vero Dio, e Colui che hai mandato, Gesù Cristo. Gv.17,3
 
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