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IL MEETING DI RIMINI DI COMUNIONE E LIBERAZIONE

Ultimo Aggiornamento: 05/07/2011 08:10
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29/08/2010 12:45
 
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L'AVVENIMENTO DEL MEETING DI RIMINI

Si è concluso la trentunesima edizione del Meeting di RimiNI. Una casa grande come il mondo. Il Meeting è diventato da anni l'appuntamento estivo più frequentato d'Europa.130 incontri,8 mostre e 18 spettacoli. Con un respiro sempre più internazionale a livello di relatori e di partecipanti. Una settimana che ha messo al centro il cuore come la molla che spinge a desiderare cose grandi. Il titolo del Meeting dice tutto: "Quella natura che ci spinge a desiderare cose grandi è il cuore". Il Meeting è l'appuntamento di molti uomini e donne che sono all'opera nella società civile come costruttori del bene comune. E' naturale che il circo mediatico tende a rinchiudere tutto nella gabbia delle dichiarazioni di politici di turno. Il Meeting è un'altra cosa. Il Meeting è un luogo dove si cerca ossigeno per il cuore e la mente e non si lascia inscatolare negli schemi dell'ideologia. Il cuore al centro. E' una rivoluzione. Si tratta di indagare ciò che maggiormente caratterizza l'umano. Il cuore troppo spesso viene viene ridotto e identificato con il sentimento, con le emozioni che si provano e si dimentica che indica la struttura originale dell'uomo. Il cuore è un complesso di evidenze originarie e di esigenze di verità, bellezza, giustizia che costituiscono il fondo di ogni esperienza umana e la orientano come una bussola, in un continuo paragone con tutto ciò che incontra. Nessuno può negare che l'uomo non si fa da sé. L'uomo non è come dice Sartre solo ciò che decide di essere. L'uomo non può essere ridotto come vorrebbero certe espressioni delle neuroscienze ai suoi meccanismi biologici. In definitiva, la riscoperta del cuore come impronta interiore esalta il fatto che il criterio di giudizio è nel soggetto, ma non è creato da lui, è dato. Quella natura che ci spinge a desiderare cose grandi è il cuore.

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24/04/2011 22:27
 
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La forza di Gesù (la vita, la morte, quei 7 mila ragazzi e Caterina)

: 23 Apr 2011

Tutti nel mondo, in questi mesi, vedono tumulti, catastrofi e caos. Analisti e media brancolano nel buio. Tutto dà segno di disfacimento. Un invisibile tsunami ci sta travolgendo.

Eppure io conosco i segni di una primavera nascosta. Ma bisogna volgere lo sguardo altrove. Bisogna accorgersi di qualcosa che sta accadendo nel silenzio, lontano dai riflettori.

Come quando stava crollando l’impero romano e sembrava vi fossero solo le rovine e le orde barbariche e i lupi che infestavano ogni luogo: invece qualcuno silenziosamente stava piantando il seme di una nuova civiltà e della città di Dio.

Dunque non guardate dove guardano tutti i media, cioè verso le rovine, perché la novità e la speranza non vengono dalla politica, dall’economia, dagli stati, dagli intellettuali, dagli eserciti o dalle sedicenti rivoluzioni.

La novità vera sembra fragile e silenziosa come le gemme che spuntano a rinnovare la vita di un bosco.

Dice Péguy che quando vedi una gemma ti sembra una cosa tanto piccola e fragile che sembra insignificante confrontata alla grande foresta.

Eppure senza quella gemma tutta quella foresta secca non sarebbe che legna da ardere, non sarebbe che un cimitero. Non avrebbe alcuna speranza.  

E dunque oggi voglio raccontarvi come spunta una gemma nella foresta morta. Una gemma che sfida lo tsunami del tempo, del dolore e della morte.

Un fatto strano

Immaginate 7 mila giovani fra i 19 e i 15 anni. E pensateli a Rimini, sulla riva del mare. Di sicuro vi viene in mente un gran baccano.

Invece questa immensa folla di giovani sulla sponda dell’infinito era in un silenzio assoluto e commosso, che lasciava sentire la brezza e il rumore delle onde.

E’ accaduto venerdì scorso, venerdì santo, dalle ore 13 alle 18. Settemila giovani dietro a una croce. Anzi dietro al “più bello fra i figli dell’uomo”, dietro all’Inimmaginabile, dietro all’unico uomo veramente affascinante della storia.

L’unico re, umile e veramente potente. L’unico amico fedele, l’unico che ha pietà di noi uomini.

Non crediate che si tratti di extraterrestri. Sono i nostri figli. Frequentano licei e istituti tecnici. Sono normalissimi ragazzi italiani dell’anno di grazia 2011.

Volti normali, abbigliamento tipico della loro generazione, chi col piercing, chi con la coda di cavallo, chi col bordo delle mutande che spunta sotto i jeans.

Non sono ragazzi che non fanno peccati, anzi sono qui proprio perché – come tutti gli altri – li fanno: sono venuti per questo, perché sentono il bisogno dell’abbraccio di un Padre buono, che perdona, di un Amico grande, che non tradisce mai e che medica le loro ferite.

Non sono qui perché non s’innamorano: ma, al contrario, sono qui proprio perché s’innamorano e vogliono capire chi e cosa mai potrà colmare questa loro sete d’amore che è più grande del mare, più immensa, più misteriosa e profonda dei suoi fondali.

Il loro raduno – organizzato da Gioventù studentesca (CL) – era cominciato il giovedì santo, alla fiera di Rimini, proprio con le immagini dello tsunami in Giappone avvolte da una musica che struggeva il cuore.

Don Eugenio Nembrini ha suggellato quelle immagini con una domanda che mette ognuno con le spalle al muro: “che cosa sta in piedi nella vita?”.

Tutto infatti è spazzato via dal tempo e dalla morte. Tutto. Anche il potere più formidabile è ridotto in polvere e non resta nulla.

E così sembra che non valga la pena vivere o pare che si possa vivere solo cinicamente.

Ma invece don Julian Carron ha esortato questi settemila giovani a non rassegnarsi: “sentire urgere dentro di sé le esigenze di felicità, di bellezza, di giustizia, di amore, di verità, sentirle vibrare, ribollire in ogni fibra del nostro essere” e “prenderle sul serio è ‘la’ decisione più grande della vita”.

E’ l’avventura degli audaci: “per gente viva, libera, capace di volersi veramente bene. Per gente che vuol vivere all’altezza dell’ideale a cui il cuore spinge senza sosta”.

Ma cosa può restare in piedi e resistere alla distruzione del tempo, del dolore, del male e della morte?

Il motto degli antichi monaci certosini diceva: “Stat Crux dum volvitur orbis”. Che vuol dire: solo l’uomo della Croce rimane invincibile, mentre tutto nel mondo passa e tutto crolla.

Resta solo il potere dell’Amore, di “Colui che ha preso sulle sue spalle la croce di ognuno di noi, Colui che ha portato tutte le croci del mondo”, come ha detto don Eugenio.

“Lascieretelo voi?”

L’immensa via crucis dei giovani sfilava in silenzio dietro la croce fra gli alberi del parco Marecchia a Rimini, verso il ponte di Tiberio, fra le note sublimi dello “Stabat mater” di Pergolesi, poi dell’antico canto polifonico “O cor soave/ cor del mio Signore…”.

Un passante, in bicicletta, si è fermato sbalordito e ha chiesto: “ma chi siete? Cosa state facendo?”.

Un ragazzo del “servizio d’ordine” gli ha risposto: “siamo studenti, è venerdì santo: stiamo facendo la Via crucis”. Quell’uomo, commosso, si è messo in ginocchio e ha mormorato: “Dio sia benedetto!”.

Intanto quella fiumana di giovinezza si era fermata a una nuova stazione. Per il lungo cammino qualcuno in fondo si distrae e parlotta.

Ma quando viene letto il vangelo della crocifissione e alla fine don Eugenio dice: “Cristo ha dato la vita per noi e muore per noi”, tutti tacciono di colpo e come un’onda silenziosa si inginocchiano commossi.

Proprio tutti i settemila giovani: sono stati cinque minuti infiniti di silenzio che hanno abbracciato il loro cuore e il mondo, tutti i destini e tutto il tempo, da Adamo al Giudizio universale.

Poi il coro, un meraviglioso coro di ragazzi, ha intonato una laude cinquecentesca a quattro voci che lacera l’anima: “Cristo al morir tendea”.

L’intreccio fantastico delle voci ripete le parole che secondo l’autore Maria ha rivolto agli amici di Gesù: “Or, se per trarvi al ciel dà l’alma e ‘l core,/ Lascieretelo voi per altro amore?”.

Prosegue così: “ben sa, ben sa che fuggirete/ di gran timore e al fin vi nascondrete/ Ed ei pur come Agnel che tace e muore/ svenerassi per voi d’immenso amore”.

Quel canto si conclude con questa strofa: “Dunque diletti miei/ se a dura croce, in man d’iniqui e rei/ dà per salvarvi ‘l sangue e l’alma e ‘l core/ Lascieretelo voi per altro amore?”.

E’ un canto a cui sono personalmente affezionato anche perché è uno dei prediletti della mia Caterina.

Caterina è cresciuta in questa stupenda compagnia che fa ardere i cuori dei giovani per la Bellezza e la Verità. E’ stata educata da gesti così.

Una mano potente

E quando uno tsunami violentissimo ha investito la sua giovane vita e tutti pensavano e dicevano che ormai non c’era più niente da fare, che Caterina non c’era più, una mano potente l’ha afferrata, quella del Re umile che tante volte lei aveva cantato, e la sua mano benedetta e invincibile l’ha fatta riemergere dall’oceano oscuro del coma. Anzitutto attraverso la voce e i volti di chi l’ama perdutamente.

Ora Caterina sta nuotando verso riva: è una traversata defatigante e durissima, ma una grande catena umana la sostiene: quella compagnia che è il volto e la carezza del Nazareno nel mondo.

Dalla sua faticosa croce Caterina partecipa alla salvezza del mondo. “La Bellezza salverà il mondo”, annunciava Dostoevskij, e lei è parte di questa Bellezza.

Diversi di quei ragazzi presenti a Rimini nei mesi scorsi mi avevano scritto, colpiti e commossi dalla storia di Caterina e dal suo sorriso, dal suo canto, dai suoi amici e dall’amore del suo ragazzo che è più forte della morte e dello tsunami.

Per molti di loro Caterina è diventata una sorta di eroina, ben più ammirabile dei miti e dei mitomani imposti dai media, dalla politica, dai giornali.

Ma la forza di Caterina è la stessa che ha portato loro lì a Rimini, che fa fiorire la primavera, che dà senso alla vita, che ha ispirato a Michelangelo la Pietà, che commuove i cuori e muove le galassie. La forza di Colui che ha vinto il mondo e ha vinto la morte.

Antonio Socci

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07/06/2011 12:01
 
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07/06/2011 12:04
 
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07/06/2011 12:05
 
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05/07/2011 08:10
 
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E l’esistenza diventa una immensa certezza

Domenica 21 agosto 2011 - Sabato 27 agosto 2011
E l’esistenza diventa una immensa certezza” è il titolo scelto per la XXXII edizione del Meeting. Esso parte da una constatazione, semplice e al tempo stesso drammatica: nella mentalità più diffusa ai nostri giorni, nella coscienza con cui ciascuno di noi affronta le sfide e le fatiche del vivere, sembra che non sia più possibile alcuna vera certezza. È qui, al fondo di noi stessi, che si rivela la radice nascosta delle tante “crisi” del nostro tempo: esse non segnano soltanto la messa in discussione o la perdita di certezze che si credevano acquisite – nella politica come nell’economia, nelle scienze come nell’etica, nella cultura come nella convivenza sociale – come è spesso successo in altre epoche storiche. Quello che è in gioco oggi, nell’epoca attraversata dalla grande ombra del nichilismo, è qualcosa di più radicale, e quindi più radicale è la sfida che essa ci pone: gli uomini non sarebbero più capaci di certezza, e anzi ogni certezza sarebbe una nostra costruzione, e alla fine nient’altro che una grande illusione.

Quando pensiamo al senso della nostra esistenza non siamo forse tutti tentati, come figli del nostro tempo, di ritenere che la nostra origine e la nostra destinazione siano in balìa della sorte, e che in definitiva nulla possiamo rispetto alle forze incontrollabili di un fato cieco e di un’insensata casualità? Eppure gran parte del pensiero “moderno”, per il quale l’uomo è l’unico, vero artefice del proprio destino, senza bisogno di riferirsi ad un senso più grande di sé, aveva preteso di fornire una strategia “scientifica” e “politica” che dominasse l’incertezza del vivere, il rischio mortale della solitudine e dell’insensatezza, fonte di risentimento e di violenza.

Le uniche certezze di cui ancora disponiamo – così si pensa – sono quelle prodotte dal controllo tecnologico del mondo. Tutto il resto, valori ed emozioni, sentimenti ed opinioni, appartiene al gioco del relativismo. Eppure noi ci accorgiamo sempre più che la realtà, sia a livello naturale che sociale, è molto meno controllabile di quanto si creda, e soprattutto scopriamo che l’esistenza dell’io è sempre più indebolita nelle sue ragioni. «A farci sentire un’incertezza più orrenda e devastante che in passato», ha scritto il sociologo Zygmunt Bauman, è la percezione che «la nostra impotenza sia incurabile». Tutta la partita dell’esistenza si gioca qui, nella certezza o nell’incertezza riguardo al motivo per cui ciascuno di noi è al mondo.

Il Meeting proverà a raccogliere questa sfida del nostro tempo, riaprendo una partita da molti dichiarata ormai chiusa. E lo farà, come è suo stile, non in virtù di una più scaltra analisi culturale e politica, ma a partire dall’esperienza in atto di persone che non si accontentano di concepire la propria esistenza come destinata al nulla. Uomini e donne che non censurano il peso dell’incertezza né si sottraggono al lavoro che essa esige, ma che la vivono come il segno evidente che non siamo i padroni di noi stessi, ma siamo in rapporto con qualcosa di Altro, che continua a sopraggiungere alla nostra vita.

Prima di ogni calcolo sulle nostre capacità o incapacità, la percezione di fondo del nostro io è quella di una certezza. E non una sicurezza a buon mercato o una garanzia a nostra disposizione, ma una certezza di appartenenza: siamo di qualcuno. Inizialmente noi siamo certi di noi stessi, perché ci viene incontro il volto di nostra madre e ci viene offerto il suo seno. È la prima percezione del vivere, che resta poi come una costante, anche se nascosta o soffocata. Prima di ogni incertezza c’è una certezza: essa è un dato, un incontro, un invito.

Il Meeting cercherà di raccontare e testimoniare questo lavoro dell’io che riparte dall’evidenza di un incontro, di tutti quegli incontri in cui si rende presente in carne ed ossa il significato per cui vale la pena vivere, amare, costruire e anche soffrire. La certezza che cerchiamo non è un’ideologia o una strategia o una convinzione psicologica, ma è quella che ci fa riconoscere ciò che già “siamo”. Non tanto che le cose andranno a posto come pensiamo noi, ma che noi stessi siamo in rapporto con Chi ci fa continuamente.

Per questo l’esistenza, come dice il titolo del Meeting, diventa una certezza: non si tratta infatti di sapere in anticipo quello che accadrà a noi e nel mondo, ma di essere disponibili a farci provocare da ciò che accade, cioè a chiederne il senso e a riconoscerne la ragione. E la certezza è immensa proprio perché non è un nostro prodotto, ma la scoperta di ciò che ci raggiunge e chiede ogni volta di noi. Questa certezza non potrebbe esistere senza la nostra libertà.

E in fondo anche il Meeting è un modo per prendere sul serio l’invito che ci proviene ogni giorno dagli avvenimenti e dagli incontri che accadono: l’invito a rispondere con tutta la nostra attesa, mettendo sempre in gioco la nostra inquietudine
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