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COMMENTO AL VANGELO DI GIOVANNI

Ultimo Aggiornamento: 04/06/2019 15:05
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07/01/2012 23:12
 
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La preghiera sacerdotale
(Gv 17,1-26)

Il capitolo 17 del IV Vangelo è costituito da una grande, solenne preghiera rivolta da Gesù a Dio Padre alla presenza di tutti i suoi discepoli. Nei Sinottici non c’è nulla di paragonabile a questa lunga ed appassionata preghiera di Gesù, che nell’imminenza della sua Passione desidera lasciare ai suoi fedeli seguaci una sorta di testamento spirituale, culminante nella celeberrima espressione: “Ut unum sint”. Il filo conduttore di questa sublime preghiera è la “gloria”, che Gesù rende al Padre mediante il supremo sacrificio di Sé sulla croce e che il Padre restituisce al Figlio, accettando il suo sacrifico ed assumendolo alla sua destra mediante la resurrezione dai morti. Gesù, però, non è un egoista e non è geloso della propria condizione divina (cf. Fil 2,6) e desidera che anche chi crede in Lui sia coinvolto, in qualche modo, in questa straordinaria dinamica di gloria, al punto da affermare che essa si rende manifesta proprio attraverso suoi discepoli (cf 17,10). Il Padre ed il Figlio si rendono reciprocamente gloria nel cuore dei credenti, realizzando un prodigioso ed inimmaginabile progetto d’amore visibile al mondo intero e sperimentabile da tutti gli uomini (cf. 17,21-23). Stando al contesto narrativo, Gesù si rivolge al Padre alla presenza dei discepoli, ma senza dialogare con loro; la preghiera di Gesù supera, in tal modo, la barriera del tempo ed acquista un valore universale. Non sono i discepoli i soli beneficiari della preghiera che Gesù rivolge al Padre, bensì ogni singolo essere umano, personalmente amato da Dio con un amore senza limiti (cf. 17,26).
“Il colloquio di Gesù col Padre riflette, in tutta la sua ampiezza, il progetto del Padre stesso, che aveva motivato l’invio del Figlio. E Gesù, da parte sua, ha realizzato tale progetto: ha manifestato il Nome a coloro che il Padre gli ha donato. Sul punto di ritornare alla propria gloria originaria, Egli lo rimette al Padre, presentando come proprio desiderio il compimento pieno dell’opera, di cui il Padre è l’origine e il termine ultimo. Questa preghiera ha un accento di lode molto più che di preghiera o di intercessione. Essa corrisponde al Prologo, che celebrava il Logos venuto nel mondo: qui, il Figlio unico celebra il Padre, il cui amore lo ha colmato da prima della creazione del mondo e si estende ad ogni creatura. Egli ora ritorna a Lui, ma non da solo: i credenti, presenti e futuri, certamente rimangono e devono rimanere nel mondo, ma non sono più del mondo. Se Gesù, pronunciando la preghiera ad alta voce, vive davanti ai discepoli la propria intimità col Padre, è perchè tale intimità sta per essere data loro in condivisione. […] L’asse verticale della preghiera, la risalita di Gesù verso il Padre, culmina nella parola: “siano con me dove sono io” (17,24). Nel senso discendente, sono celebrati di seguito i doni che il Padre, da cui tutto proviene, ha fatto al Figlio affinché,attraverso di Lui, gli uomini ricevano la vita eterna. Iniziato con la glorificazione dell’Inviato, che sarà quella del Padre stesso, il colloqui si chiude sull’inabitazione dell’Amore nei credenti. Si disegna anche un asse orizzontale, nella durata indefinita della storia: il mondo, che non ha conosciuto Dio, rimane chiamato ad accogliere la sua rivelazione. All’incrocio dei due assi si trova la testimonianza attesa dai credenti: coloro cui Gesù ha donato le parole del Padre, coloro che il Padre custodisce nel suo Nome e santifica nella verità, moltiplicheranno nello spazio e nel tempo la presenza dell’Inviato. La preghiera di Gesù include la totalità dell’opera divina, che si iscrive entro due poli assoluti: il prima ed il dopo del tempo terreno”.16
Gesù si pone, dunque, davanti al Padre suo come il Figlio fedele ed obbediente che ha compiuto, per intero e fino alla fine, l’opera da Lui ricevuta: la glorificazione che Egli domanda ne sarà il compimento definitivo, a gloria del Padre (17,1-5). I beneficiari di tale opera di redenzione e di salvezza sono i credenti. Dopo aver sottolineato la loro appartenenza al Padre ed a Se stesso, Gesù asserisce di essere intervenuto a loro favore passando attraverso la tragica esperienza della croce (cf. 17, 6-11).

17,1 Così parlò Gesù. Quindi, alzati gli occhi al cielo, disse: “Padre, è giunta l’ora, glorifica il Figlio tuo, perché il Figlio glorifichi te. 2 Poiché tu gli hai dato potere sopra ogni essere umano, perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato. 3 Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio e colui che hai mandato, Gesù Cristo. 4 Io ti ho glorificato sopra la terra, compiendo l’opera che mi hai dato da fare. 5 E ora, Padre, glorificami davanti a te, con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse.
Fino a quel momento, Gesù aveva parlato direttamente ai suoi discepoli; adesso, il distacco da loro si fa evidente perché Gesù, alzati gli occhi al cielo, s’immerge totalmente nella realtà del Padre celeste. Secondo la mentalità giudaica, infatti, il cielo simboleggia Dio stesso, perché è il suo trono (Sal 93 [92],2) e luogo della sua dimora (Sap 9,8), mentre la terra, abitata dai suoi nemici, è lo sgabello per i suoi piedi (Sal 110 [109],1). In questo modo, Gesù si mette in diretto rapporto col Padre come aveva fatto, pochi giorni prima, davanti alla tomba dell’amico Lazzaro ed i discepoli, per contro, restano semplici spettatori di una relazione ineguagliabile e misteriosa.
Padre, è giunta l’ora, glorifica il Figlio tuo, perché il Figlio glorifichi te. Nel racconto di Giovanni è la terza volta che Gesù inizia la sua preghiera invocando Dio ed usando l’appellativo tenero e confidenziale di Padre, sempre davanti alla tragica realtà della morte. Una prima volta, Gesù si era rivolto in tal modo a Dio per fare riportare in vita dal sepolcro l’amico Lazzaro al fine di dimostrare a tutti i presenti di essere proprio Lui, oscuro falegname e sconcertante rabbì itinerante venuto dalla disprezzata regione della Galilea, il Messia di Dio atteso da tanti secoli (cf. 11,41); la seconda volta, Egli aveva confessato al Padre la propria consapevolezza dell’ora imminente della Passione al cospetto di alcuni greci, venuti a fare la sua conoscenza avendo sentito raccontare i prodigi da Lui compiuti per le contrade della Palestina (cf. 12,27.28). Nella presente occasione, Gesù chiede al Padre di ricevere dalle sue mani la gloria inaudita della croce, con l’intenzione manifesta di rendergliela attraverso un atto di totale obbedienza. In un altro caso (12,23), Gesù aveva dichiarato esplicitamente che l’ora della sua glorificazione sarebbe coincisa con la morte di croce, mostrando per altro un comprensibile senso di umano turbamento, superato prontamente con un atto di fiducia totale in Colui che lo avrebbe fatto passare indenne dalle angosce di quell’ora tragica (12,27). In tale circostanza, una voce celeste aveva consolato Gesù, profondamente rattristato per la morte imminente, ma altrettanto deciso a rendere gloria a Dio attraverso la propria umana sofferenza, con una tonante proclamazione ben udibile da tutti gli astanti: “L’ho glorificato e di nuovo lo glorificherò” (12,28).
L’ora e la gloria costituiscono il filo conduttore della preghiera di Gesù e dell’intera sua vita terrena (cf. anche Gv 13,31.32), come traspare da 17,2: “tu gli hai dato potere sopra ogni essere umano, perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato”. La gloria del Padre si trasmette al Figlio (tu gli hai dato potere sopra ogni essere umano) e la gloria di questi ha come scopo la maggior gloria del Padre (perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato), in un movimento di reciproca glorificazione. Lo scopo della missione del Figlio è molto chiaro: rendere gloria a Dio Padre mediante il dono della vita eterna agli uomini, che è resa possibile grazie all’ora della propria morte in croce. Gesù è ben consapevole che il potere di dare la vita eterna agli uomini è un dono ricevuto dalle mani del Padre stesso (cf. Gv 5,6) e che la portata di questo potere ha un valore universale: ogni essere umano, infatti, è destinatario del progetto di salvezza, realizzata mediante il potere ricevuto dal Figlio di dare la sua vita (10,17) a quanti gli sono stati affidati (17,2) a gloria di Dio Padre (cf. Fil 2,7-11). La salvezza eterna, però, richiede come presupposto che gli uomini “conoscano te, l’unico vero Dio e colui che hai mandato, Gesù Cristo”. Da ciò si deduce che, per l’evangelista, la fede in Dio e nel suo Inviato e la salvezza eterna si corrispondono, come è stato sottolineato anche da s. Agostino: “Se la vita eterna è conoscere Dio, tanto più tendiamo verso la vita quanto più progrediamo nella conoscenza di Dio. Nella vita eterna non moriremo: la conoscenza di Dio sarà perfetta quando la morte non ci sarà più. […] La lode di Dio non avrà fine là dove la conoscenza di Dio sarà perfetta; è poiché la conoscenza di Dio sarà perfetta, allora massimamente risplenderà la sua gloria e sarà da noi pienamente glorificato”.17 Fino a che viviamo su questa terra, “in questo mondo” per esprimerci come Giovanni, l’unico modo per conoscere Dio è la fede, che consiste in un atto di fiducia nella sua Parola e nelle sue “promesse”, il che non esclude l’uso dei mezzi speculativi propri della ragione; quando saremo, invece, nella dimensione di Dio, vale a dire nella vita eterna, la conoscenza di Dio sarà diretta, perché noi lo vedremo “così come Egli è” (1Gv 3,2), “a faccia a faccia” (1Cor 13,12). Solo allora Dio sarà pienamente glorificato e lodato dalle sue creature, ma prima di allora, afferma s. Agostino, “Dio viene glorificato qui in terra quando, attraverso la predicazione, gli uomini vengono a conoscerlo e la fede dei credenti gli rende testimonianza. Questo è il senso delle parole che seguono: Io ti ho glorificato sopra la terra, compiendo l’opera che mi hai dato da fare. Non dice: che mi hai comandato, ma: che mi hai dato da fare, manifestando così l’intenzione di voler mettere in risalto il carattere della grazia. Che cosa ha, infatti, la natura umana, anche quella unita al Figlio unigenito, che non abbia ricevuto? Non ha forse ricevuto il dono di non compiere alcun male e di compiere ogni bene, quando fu assunta nell’unità della persona dal Verbo, per mezzo del quale sono state fatte tutte le cose? Ma come può il Signore dire di aver compiuto l’opera a lui affidata, quando ancora gli rimane da superare la prova della passione? […] Colui che aveva predestinato tutto il futuro nelle sue cause certe ed immutabili, aveva già fatto quanto avrebbe fatto, come appunto dice di lui il profeta: Egli ha fatto tutte le cose future”.18
La dimostrazione che il testo del IV Vangelo riflette fedelmente la teologia giovannea, risiede nella seguente frase, che suona quanto mai sorprendente, perché Gesù si autodefinisce “Cristo”: Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio e colui che hai mandato, Gesù Cristo. Si tratta evidentemente di una glossa, vale a dire di un’aggiunta o nota esplicativa scritta da una mano diversa da quella dell’evangelista. Anche la prima lettera attribuita all’apostolo Giovanni ripropone il tema della conoscenza di Dio mediata dagli insegnamenti del Figlio suo, in contrapposizione con i distorti insegnamenti dei falsi maestri: “Sappiamo che il Figlio di Dio è venuto e ci ha dato l’intelligenza per conoscere il vero Dio. E noi siamo nel vero Dio e nel Figlio suo Gesù Cristo: egli è il vero Dio e la vita eterna” (1Gv 5,20). Chi non insegna tale verità, afferma l’autore della lettera, non può essere vero seguace di Cristo, ma un millantatore ed un falso seguace di Cristo, incapace di incontrarsi col vero Volto di Dio ed impossibilitato ad aprirsi alle gioie della vita eterna. La conoscenza di Dio e del suo Cristo rappresenta il compimento dell’Alleanza e, dal punto di vista dei credenti, corrisponde alla glorificazione di Gesù e del Padre, di cui parlano i primi due versetti del capitolo 17.
Il verbo conoscere, nel linguaggio biblico, ha molti significati (compresa la relazione carnale tra un uomo ed una donna a fini procreativi), ma quello spirituale e mistico è molto profondo e capace di trasformare l’essenza stessa dell’essere umano, perché comporta un’intima relazione di comunione con Dio stesso, come lascia intuire il profeta Geremia: “Darò loro un cuore capace di conoscermi, perché io sono il Signore; essi saranno il mio popolo e io sarò il loro Dio, se torneranno a me con tutto il cuore” (Ger 24,7). Anche l’autore del libro della Sapienza è allineato con tali sentimenti di ammirato stupore per il vincolo di reciproca appartenenza tra Dio e coloro che lo “conoscono”: “Conoscerti, infatti, è giustizia perfetta, conoscere la tua potenza è radice di immortalità” (Sap 15,3). La conoscenza di Dio da parte dell’uomo non deve essere intesa in senso puramente intellettualistico; anzi, Gesù mette in guardia da un tipo di conoscenza di tal genere, giungendo ad affermare che i segreti del Regno di Dio (espressione equivalente e “conoscere Dio”) sono stati svelati ai semplici e tenuti nascosti ai dotti ed agli intelligenti, che si fidano troppo delle proprie capacità speculative ed hanno la pretesa di equiparare Dio a qualsiasi altro problema filosofico o matematico (cf. Mt 11,25-27).
L’associazione “Dio e Gesù Cristo” sembra derivare da una formula di fede (cf. 1Ts 1,9; 1Cor 8,6) o di preghiera liturgica (cf. 1Pt 1,3; 5,10; 1Gv 1,3). Gli aggettivi unico e vero sono tradizionalmente associati a YHWH, il Dio d’Israele ed esprimono la radicale contrapposizione tra questi e tutti gli innumerevoli dèi delle religioni politeistiche del mondo antico. In questo specifico caso, la formula inusuale per il IV Vangelo intende sottolineare che l’unico vero Dio è colui che si è rivelato nel suo Inviato e che Gesù Cristo è proprio il Figlio di Dio nato e vissuto in terra di Palestina, giustiziato da Pilato per istigazione dei giudei e risorto dai morti: questo Vangelo, afferma l’autore, è stato scritto “perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome” (Gv 20,31). Il versetto successivo evoca ciò che il Figlio ha compiuto sulla terra per rivelare, all’intera umanità, la sua intima relazione col Padre: Io ti ho glorificato sopra la terra, compiendo l’opera che mi hai dato da fare. Prima di ritornare a Dio, dal quale è uscito, Gesù ricorda a se stesso ed ai suoi discepoli il significato della sua vita terrena sopportando e sperimentando, come un qualsiasi essere umano, fatica, lacrime, dolore, fame, privazioni, lutti, angoscia, delusione, sconfitta, gioia e speranza: rendere, in ogni circostanza, gloria al Padre. Per la Bibbia, glorificare Dio significa riconoscere e celebrare la sua potenza di salvezza, che si è resa visibile alla fede nei suoi prodigi ed ha preso corpo nella persona del Messia. Per Gesù di Nazareth, glorificare il Padre significa manifestarne l’amore estremo per il mondo attraverso i suoi stessi gesti quotidiani di bontà, di misericordia, di perdono, di compassione e perfino mediante l’estremo sacrificio di se stesso sulla croce. L’evangelista Giovanni ritiene che la forma più alta di teofania, o “manifestazione di Dio”, abbia avuto luogo nell’ora di Gesù, compiutasi sul Gòlgota. Gesù non ha mai agito per affermare il proprio diritto ad una ricompensa, ma ha avuto come unico fine delle proprie azioni la gloria del Padre: “E ora, Padre, glorificami davanti a te, con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse”. L’ora è giunta ed il Figlio chiede al Padre suo di potersi riappropriare della gloria che Egli aveva, in virtù della propria natura divina, da prima che il mondo fosse, pur consapevole che il passaggio obbligato per essere glorificato davanti al Padre ha l’amaro sapore del martirio. La consapevolezza della propria pre-esistenza scaturisce dal fatto che la natura umana, assunta dal Figlio di Dio, ha solo velato e non annullato la sua reale natura divina e Gesù, nell’imminenza dell’ora suprema, intende esprimere sino in fondo la propria obbedienza al volere di Dio, pur sapendo che la luce della gloria brillerà oltre il buio angosciante della morte. “ Egli [Gesù] ha glorificato il Padre sulla terra annunciandolo ai popoli; il Padre, a sua volta, ha glorificato il Figlio presso di sé collocandolo alla sua destra. È per questo che, parlando della glorificazione del Padre, nell’espressione: Io ti ho glorificato, ha preferito usare il verbo al passato, per far vedere che nella predestinazione era già un fatto compiuto e come tale da ritenersi quello che con tutta certezza si sarebbe compiuto in futuro e cioè che, avendolo il Padre glorificato presso se stesso, anche il Figlio a sua volta, avrebbe glorificato il Padre sulla terra”.19 Per s. Agostino, il Padre ed il Figlio si rendono reciproca eterna gloria, poiché in Dio non esistono il passato, il presente ed il futuro, ma tutto in Lui è eternamente presente, compreso il reciproco rapporto di Amore che in Gesù, Dio diventato “carne” nel tempo e nella storia, si esprime mediante la filiale obbedienza e la totale adesione al volere del Padre. Da tale infinito ed eterno rapporto di reciproco Amore scaturisce l’ineffabile gloria di Dio, che in Gesù è diventata concretamente visibile “sulla terra” a tutti gli uomini.

17,6 Ho fatto conoscere il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo. Erano tuoi e li hai dati a me ed essi hanno osservato la tua parola. 7 Ora essi sanno che tutte le cose che mi hai dato vengono da te, 8 perché le parole che hai dato a me io le ho date a loro; essi le hanno accolte e sanno veramente che sono uscito da te e hanno creduto che tu mi hai mandato. 9 Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per coloro che mi hai dato, perché sono tuoi. 10 Tutte le cose mie sono tue e tutte le cose tue sono mie e io sono glorificato in loro. 11 Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo e io vengo a te. Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi.
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Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?». Quegli rispose: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?». At 8,30
 
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