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COMMENTO AL VANGELO DI GIOVANNI

Ultimo Aggiornamento: 04/06/2019 15:05
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07/01/2012 23:10
 
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Se il Lògos è Dio che parla, mentre lo Spirito è Gesù che si comunica, in che cosa lo Spirito è “altro” rispetto al Gesù di questa terra? Lo Spirito è “altro” nella durata della sua presenza, che è definitiva e nel suo modo d’agire: non più attraverso “parole”, che ripeterebbe come eco di quelle di Gesù di Nazareth, ma attraverso “evidenze” che conferiscono senso a quelle parole e ne manifestano la portata attuale. La rivelazione del Padre attraverso il Figlio continua mediante lo Spirito; essa è unica, ma è trasmessa in due modi diversi, secondo i due tempi che la caratterizzano.
In definitiva, il dono dello Spirito di verità provoca i credenti di ogni epoca e luogo a non abbandonarsi passivamente alle direttive che giungono dai portavoce dell’istituzione ecclesiastica, ma ad essere responsabili interpreti del Vangelo di Cristo nel proprio tempo e nel proprio contesto storico e culturale. Santa Caterina da Siena è un illustre esempio di come si possa attualizzare la Parola di Cristo Signore anche di fronte al comportamento scandaloso degli esponenti di una gerarchia ecclesiastica attratta più dagli abbaglianti ed ambigui giochi di potere che da doverosi compiti pastorali; questa santa, animata da una fede indomita e da un’ammirevole fiducia nella provvidente azione dello Spirito Santo, sapeva “vedere” persino in sommi pontefici di dubbia moralità il dolce Cristo in terra, pienamente convinta che nulla può resistere alla dolce violenza dello Spirito, neppure i cuori più induriti e traviati. Nessuno è immune dalle tentazioni del maligno, neppure coloro che si sono consacrati a Dio legandosi a Lui per tutta la durata della loro vita terrena, ma dove la natura umana è debole e peccatrice, lo Spirito dona coraggio, perseveranza, fiducia e capacità di amare oltre ogni limite dell’umana creatura. Il classico appellativo di Consolatore, attribuito allo Spirito Santo, non rende pienamente giustizia alla forza che scaturisce dalla terza Persona della S.S. Trinità; i cristiani non sono soltanto dei consolati, quasi fossero dei fuscelli sbattuti qua e là dalle tempeste della vita e, quindi, bisognosi di conforto, ma sono dei redenti che portano in sé la forza dirompente dello Spirito di verità e, per ciò stesso, sono annunciatori della Verità. Un po’ di fiducia, che diamine! Gesù lo ha proclamato a chiare lettere: “Io ho vinto il mondo!” (Gv 16,33).
La venuta del Paraclito rende sicura l’esistenza dei credenti, ma lascia la comunità di fronte a due questioni. La prima riguarda il rapporto con Gesù: non c’è il rischio di separare il tempo dello Spirito dal tempo di Cristo, quasi mettendo l’uno contro l’altro? La seconda questione riguarda il Padre: se lo Spirito prosegue il ruolo di Gesù di Nazareth, quale sarà la relazione del Padre con il credente? La pericope seguente (Gv 16,16-28) ne darà le risposte adeguate.

16,16 Ancora un poco e non mi vedrete; un po’ ancora e mi vedrete”.
Questa affermazione suona nelle orecchie dei discepoli come un enigma. Gesù annuncia l’imminenza di due periodi, di cui i lettori del Vangelo comprendono bene il significato per una conoscenza a posteriori dell’evento pasquale. Mentre il primo periodo si conclude con la morte in croce del Maestro (“non mi vedrete”), il secondo si apre con la sua resurrezione dai morti (“mi vedrete”), ma i discepoli non possono ancora saperlo e per questo vanno in confusione, con giusta ragione.

16,17 Dissero allora alcuni dei suoi discepoli tra loro: “Che cos’è questo che dice: Ancora un poco e non mi vedrete, e un po’ ancora e mi vedrete, e questo: Perché vado al Padre?”. 18 Dicevano perciò: “Che cos’è mai questo un poco di cui parla? Non comprendiamo quello che vuol dire”. 19 Gesù capì che volevano interrogarlo e disse loro: “Andate indagando tra voi perché ho detto: Ancora un poco e non mi vedrete e un po’ ancora e mi vedrete? 20 In verità, in verità vi dico: voi piangerete e vi rattristerete, ma il mondo si rallegrerà. Voi sarete afflitti, ma la vostra afflizione si cambierà in gioia.
Forse i discepoli si rammentano che il loro Maestro aveva già, in precedenza, creato lo stesso malinteso nei giudei increduli in occasione della Festa delle Capanne, celebrata pochi mesi prima: “Per poco tempo ancora rimango con voi, poi vado da colui che mi ha mandato. Voi mi cercherete e non mi troverete; e dove sono io, voi non potrete venire” (Gv 7,33-34). Lo sconcerto dei discepoli si esprime in un sommesso bisbiglio ed in un intreccio di domande, che essi si pongono a vicenda con una sola conclusione: ma tu ci capisci qualcosa? Gesù interviene, senza essere sollecitato direttamente dai suoi discepoli ed annuncia che ci saranno sentimenti contrastanti, tra loro ed il mondo, riguardo alla sua prossima dipartita ed al suo futuro ritorno. Infatti, la morte di Gesù getterà nel più profondo sconforto i suoi discepoli e farà esultare, per contro, i suoi nemici, convinti di esserselo tolto dai piedi in modo definitivo; il ritorno di Gesù, invece, sarà motivo di grande gioia ed esultanza per coloro che credono in Lui, ma causerà somma costernazione nei suoi nemici. L’inevitabile conflitto tra il mondo incredulo ed i seguaci del Cristo ha una connotazione storica e temporale ben precisa, ma anche una sua logica conclusione; finché durerà l’umanità, l’universo (kòsmos) sarà il campo di battaglia tra le forze del bene e quelle del male, ma l’esito dello scontro è già segnato: “le porte degli inferi non prevarranno” (Mt 16,18). Le potenze del Male, capaci solo di causare la morte del corpo e dell’anima, sono “già” state sconfitte e condannate alla morte eterna là “dove sarà pianto e stridore di denti” (Mt 13,42), cioè dove la rabbiosa disperazione divorerà i malvagi come una sete inestinguibile. Sembra quasi che Dio si diverta a giocare a rimpiattino con gli uomini; Egli va alla ricerca di coloro che vogliono nascondersi ai suoi sguardi, alla stessa stregua dei progenitori dopo il peccato originale (Gen 3,8) e li stuzzica alla conversione, ma non si fa trovare da coloro che lo vogliono “razionalizzare” senza cercarlo col cuore. Certe conversioni “impossibili” hanno del clamoroso e scaturiscono da un profondo bisogno del cuore, assai spesso disintegrato da tragiche esperienze di male, piuttosto che da vane istanze intellettuali, per lo più arroganti e presuntuose. I giudei sono andati ormai fuori rotta, perché a loro non interessa per nulla il Dio misericordioso “lento all’ira e grande nell’amore” (Sal 103 [102],8) celebrato dal salmista e predicato da Gesù, ma cercano il Dio guerriero ed invincibile, capace di annientare i nemici d’Israele (cf. Es 15,1-21) mediante l’intervento di un Messia, che tarda però a venire. Ancora oggi, molti onorano Dio più con le labbra che con il cuore (Is 29,13; Mt 15,8; cf. Sal 78 [77],36) e lo considerano, né più né meno, un semplice “distributore” di grazie e favori, arrabbiandosi con Lui se non ottengono soddisfazione. A differenza dei giudei, i discepoli di Gesù sono almeno in parte sulla retta via, perché da un lato hanno potuto conoscere più profondamente Gesù e sanno cosa è capace di fare, ma dall’altro sono ancora convinti di vederlo sedere glorioso sul trono degli antichi re d’Israele e sperano in personali successi e posti di prestigio. Solo l’esperienza della resurrezione del Maestro aprirà completamente il loro cuore e la loro mente, facendo loro comprendere di essere parte di un grandioso progetto di salvezza, da cui sono esclusi onori umani e trionfi personali e facendo loro “rivedere” il Cristo risplendente nella sua gloria divina. Solo allora essi potranno esultare nella gioia di una vita rinnovata, completamente trasformata dal Risorto.
Ancora un poco e non mi vedrete, e un po’ ancora e mi vedrete. Alcuni hanno interpretato questa frase, pronunciata da Gesù, riferendola non all’evento pasquale (i discepoli hanno “rivisto” Gesù dopo la sua resurrezione), ma alla parusìa del Signore alla fine dei tempi.15 In questo caso, il “momento” nel quale Gesù non sarà visibile si estende dall’evento della sua ascensione al cielo sino alla fine del mondo, dopo di che “tutti” lo vedranno per ricevere chi un giudizio di salvezza, chi un giudizio di condanna. I fautori di questa interpretazione, fanno leva sull’allegoria della donna partoriente (16,21-23) e sostengono che tutti i credenti passati, presenti e futuri vivono, ognuno nel proprio tempo, il “momento” del non vedere ed attendono la realizzazione del secondo ed ultimo “momento”, quando invece sarà possibile vedere “il Figlio dell’uomo seduto alla destra di Dio e venire sulle nubi del cielo” (Mt 24,30; 26,64; At 2,33; Sal 110 [109],1; Dn 7,13). Non tutti i commentatori sono d’accordo su questa chiave di lettura, ritenendo che l’evangelista sappia bene di avere a che fare con una comunità consapevole che la propria fede si fonda sul mistero del Figlio, il quale ha deposto la sua vita per poi riprendersela (10,17; cf 13,4.12), cosicché il “vedere” Gesù vivo deve essere, per tutti i credenti, una realtà attuale: il Risorto è presente nei suoi fedeli per sempre, sia in quelli che lo hanno realmente visto nel periodo intercorso tra il giorno di Pasqua e quello dell’ascensione (per ben quaranta giorni, secondo lo schema di Luca), sia in quelli che, pur non avendolo visto con gli occhi del corpo, tuttavia lo hanno visto e “riconosciuto” con gli occhi della fede (Gv 20,29), grazie all’azione dello Spirito Santo, donato dal Risorto ai suoi discepoli proprio nel giorno di Pasqua (20,22). Secondo Giovanni, dunque, Pasqua e Pentecoste sono una cosa sola, come l’attività dello Spirito e la presenza nei credenti del Figlio glorificato.
Allora, come mai l’evangelista ripropone, in termini drammatici, lo sgomento e l’ansia dei discepoli di fronte alle parole incomprensibili di Gesù, che prima parla di una sua imminente partenza per andare presso il Padre (16,10), mentre poi annuncia un suo imminente ritorno? La comunità cristiana di Efeso, destinataria del IV Vangelo, sa bene che Gesù è stato crocifisso qualche decennio prima e sa anche, per fede, che è risorto e che i discepoli lo hanno visto vivo, in carne ed ossa e che sono stati pronti a farsi uccidere pur di sostenere la loro testimonianza come vera e credibile. Giovanni è, con tutta probabilità, l’ultimo dei testimoni oculari della resurrezione rimasto ancora in vita, mentre gli altri sono già stati ammazzati tutti quanti. I testimoni scomodi vanno eliminati, secondo la logica perversa di questo mondo. Forse la comunità di Efeso sta vivendo un momento comprensibile di crisi; Gesù è risorto, molti lo credono, ma i segni del suo trionfo su questo mondo tardano a concretizzarsi. Il mondo pagano circostante è sempre più ostile ed incredulo (16,8.20) e persino il mondo giudaico ha sancito, a Jamnia, la sua definitiva sentenza di scomunica a danno dei seguaci di Cristo, che non possono più mettere piede in una sinagoga. Probabilmente la comunità cristiana di Efeso si sta ripiegando su se stessa e sui propri timori e sente più il peso dell’assenza visibile di Gesù che il conforto della sua reale presenza mediante lo Spirito. Lo scoramento ed il disorientamento dei discepoli sono gli stessi provati dai cristiani di Efeso; quando tornerà il Signore Gesù per ridurre “i suoi nemici a sgabello dei suoi piedi”? (Sal 110 [109],1). L’interrogativo dei discepoli è formulato da alcuni di loro, che se ne stanno quasi in disparte per non farsi udire dal Maestro, ma Gesù “sente” la loro perplessità e li rassicura sul loro futuro: voi sarete afflitti, ma la vostra afflizione si cambierà in gioia. C’è un’evidente scarto tra le attese dei credenti di ogni epoca storica, fondate sulle promesse di salvezza e l’immutata esperienza di ciò che la condizione terrena ha di deludente e di intollerabile. Gli scandali che il mondo offre continuamente e da cui non risulta immune neppure la santa Chiesa di Dio, a causa dei riprovevoli comportamenti dei suoi membri, da quelli dall’anonimo volto dei credenti comuni a quelli più illustri ed in vista della società cristiana, sono sotto gli occhi di tutti ed amplificati dai moderni mezzi di comunicazione. Molti cristiani, che cercano di vivere con coerenza la loro fede in Cristo, avvertono un profondo disagio a causa di tanti comportamenti, indegni del nome cristiano, che con disinvoltura sono tenuti anche da quanti ricoprono eminenti incarichi in seno alla gerarchia ecclesiastica, al punto che da più parti si sentono domande di questo genere: come si fa a credere ancora in una Chiesa che si lascia invischiare in ambigui giochi di potere? O che si pronuncia contro il degrado morale di alcuni suoi membri, salvo poi cercare di nascondere le malefatte dei singoli con la scusa di non creare scandalo pubblico, senza tener conto che il male viene sempre a galla come l’olio, facendo fare una pessima figura a chi deve vigilare sulla condotta di tutti, dai comuni fedeli ai prelati, prendendo i debiti provvedimenti? Come si fa a dare ancora fiducia a tanti sacerdoti, sempre più manager e sempre meno uomini di preghiera, sempre più organizzatori di qualcosa e sempre meno frequentatori del confessionale? “Guai al mondo per gli scandali! È inevitabile che avvengano gli scandali, ma guai all’uomo per colpa del quale avviene lo scandalo!” (Mt 18,7), così ha detto Gesù rivolgendosi agli uomini di tutti i tempi e non solo ai suoi contemporanei. Il cambiamento dalla tristezza alla gioia, seppure auspicabile, non avviene nel corso esteriore del mondo, ma appartiene piuttosto a coloro che sanno “vedere” con gli occhi della fede. Il testo evangelico in esame vuole restituire fiducia alla comunità e ravvivare la sua fede, ricordando che il fondamento dell’esistenza del credente non è la struttura sociale e gerarchica della Chiesa, ma la presenza sempre attuale del Risorto glorificato nei discepoli, cui è stata concessa un’intelligenza almeno parziale del mistero della salvezza.

16,21 La donna, quando partorisce, è afflitta, perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo. 22 Così, anche voi, ora, siete nella tristezza; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e 23 nessuno vi potrà togliere la vostra gioia. In quel giorno non mi domanderete più nulla. In verità, in verità vi dico: se chiederete qualche cosa al Padre nel mio nome, egli ve la darà. 24 Finora non avete chiesto nulla nel mio nome. Chiedete e otterrete, perché la vostra gioia sia piena. 25 Queste cose vi ho detto in similitudini; ma verrà l’ora in cui non vi parlerò più in similitudini, ma apertamente vi parlerò del Padre. 26 In quel giorno chiederete nel mio nome e io non vi dico che pregherò il Padre per voi: 27 il Padre stesso vi ama, poiché voi mi avete amato e avete creduto che io sono venuto da Dio. 28 Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio di nuovo il mondo e vado al Padre”.
L’immagine della partoriente, che soffre al momento del parto e gioisce dopo aver messo al mondo il figlio, non è una novità assoluta nella cultura biblica (cf. Is 26,17s; 66,7-10) e rende bene il contrasto fra la profonda prostrazione fisica e psichica prodotta da un grande dolore, da un lato e la sublime gioia che fa seguito ad un’angoscia superata, dall’altro. La gioia, che travolgerà il cuore dei discepoli nel momento in cui rivedranno Gesù (risorto), sarà ben maggiore e più duratura di quella provata da una partoriente e creerà, per contrasto, un’inquietante ed infinita tristezza nel “mondo” incredulo ed incapace ad accogliere la novità della salvezza, portata dal Risorto. Il mondo incredulo, infatti, è impotente di fronte a Colui che lo ha sconfitto (16,33) ed ha introdotto i discepoli nella sfera della sua inarrivabile libertà, della sua pace e della sua stessa gioia (cf,15,11; 17,13). La gioia imperitura della presenza di Cristo risorto dissiperà l’incertezza dei discepoli, che non sentiranno più il bisogno di porre domande, sia perché non avranno più dubbi di sorta e sia perché nessuno potrà più privarli della gioia di essere per sempre col loro Maestro e Signore. Il giorno di Pasqua di resurrezione segna l’inizio di un nuovo mondo di gioia e di pace, che solo il Risorto può donare e che nessuna forza avversa può minare o distruggere. Ogni comunità cristiana dovrebbe vivere il proprio tempo storico rasserenata da tale certezza, perché la gioia di una salvezza donata è una realtà escatologica che abbraccia e comprende il tempo presente.
Gesù fa ai suoi discepoli anche un’altra promessa: le loro preghiere saranno certamente ascoltate e soddisfatte dal Padre celeste, a condizione che il contenuto delle preghiere non esprima un mero interesse egoistico e che la preghiera sia rivolta al Padre “nel nome di Gesù”. Quante preghiere “sbagliate” nella forma e nella sostanza, verrebbe voglia di dire! Chi chiede la cosa giusta e nel modo giusto, suggerisce Gesù, ha la certezza di essere esaudito, perché il Padre ascolta coloro che lo invocano con atteggiamento e fiducia filiali.
Il tema della preghiera esaudita ricorre per la terza volta nel discorso d’addio di Gesù ai suoi discepoli (cf. 14,12s e 15,16), ma in questo passo l’evangelista lo ripropone con maggior ampiezza e con diversa funzione: l’esaudimento delle preghiere da parte del Padre, senza che il Figlio debba intervenire (v. 26), manifesta che l’alleanza tra Dio e gli uomini è ormai pienamente realizzata. Occorre chiedere “nel nome” di Gesù, per essere esauditi non tanto, o non solo, perché Gesù è un potente mediatore tra Dio e gli uomini, ma perché chi prega il Padre nel nome di Gesù riconosce che egli è il Figlio di Dio (v. 27). La fede in Gesù è la chiave di volta per entrare in intima comunione con Dio Padre, essere ascoltati ed esauditi da Lui. Sinora, quelli che avevano seguito l’Inviato di Dio, Gesù di Nazareth, non potevano ancora definirsi dei veri credenti, ma lo diventeranno presto, quando Gesù, ritornato al Padre, li avrà introdotti nella vera fede grazie alla piena intelligenza del mistero, che lo Spirito avrà dato loro. Dio Padre esaudirà le preghiere dei discepoli di suo Figlio proprio grazie alla loro appartenenza totale a Gesù mediante la fede e l’amore. Come nelle pericopi precedenti, anche in questa non è precisato l’oggetto della preghiera dei credenti che sarà esaudita infallibilmente dal Padre, ma si può ipotizzare che riguardi i contenuti della vita nuova in Cristo e la missione dei discepoli nel mondo. Non si fa cenno a miracoli ottenuti a buon mercato per risolvere i numerosi problemi pratici, che angustiano la vita quotidiana degli uomini. Quanti uomini dalla fede fragile fanno dipendere la propria religiosità da grazie ottenute o andate deluse!
La promessa dell’esaudimento delle preghiere assume la forma dell’appello: “Chiedete e otterrete” (v. 24), similmente alla tradizione sinottica (Mt 7,7; Lc 11,9). Tale esortazione ha lo scopo preciso di suscitare gioia nei credenti: “…perché la vostra gioia sia piena”. La gioia deve prendere sempre il posto della tristezza, eliminandola per sempre dall’animo dei discepoli di Cristo (cf. 16,6); la tristezza è un sentimento anti-cristiano e tanti filosofi e liberi pensatori del passato e del presente non hanno capito proprio nulla quando hanno dipinto i cristiani come dei sadomasochisti, che amano la sofferenza ed adorano un uomo morto in croce… Il cristiano, al contrario, è e deve sempre essere un esempio di gioia e letizia, perché coltiva in sé la certezza che gli inevitabili dispiaceri di questa vita si concluderanno con la gloria della resurrezione e che non adorano semplicemente un uomo morto in croce, bensì l’Uomo della croce che è ora il Risorto e l’eterno Vivente!
Queste cose vi ho detto in similitudini, ma verrà l’ora in cui… apertamente vi parlerò del Padre. Quante volte Gesù ha dovuto lamentarsi dell’incomprensione sia dei discepoli, sia della folla che lo seguiva ovunque, ma anche delle autorità religiose giudaiche, che avrebbero dovuto essere ben disposte nei confronti del Messia. Per rendere accessibile a tutti una sia pur minima comprensione del mistero del progetto salvifico di Dio a favore dell’intera umanità, Gesù ha parlato per similitudini, ricorrendo alle parabole e, specie ai discepoli, le ha pure spiegate, incontrando il classico muro di gomma. Il tempo del linguaggio allusivo sta per scadere, poiché il prodigioso evento pasquale di Cristo sta per inaugurare un’epoca nuova nella comprensione dell’amore salvifico di Dio da parte degli uomini. Il modo di parlare, chiaro e diretto, della salvezza sarà una caratteristica del tempo storico segnato dalla presenza diretta dello Spirito Santo nella vita della Chiesa, fondata da Gesù e, soprattutto, non ammetterà più come attenuanti l’ottusità del cuore e della mente di quanti riceveranno il messaggio dell’avvenuta redenzione. Prima dell’evento pasquale, l’incredulità dei giudei poteva essere almeno in parte scusata, ma, dopo la Pasqua di resurrezione, gli uomini non potranno più nascondersi dietro il proverbiale dito dell’ignoranza e dell’incomprensione. Se il parlare chiaro circa la salvezza è una conseguenza della partenza di Gesù, che ritorna al Padre, ne derivano due conseguenze: il linguaggio enigmatico, per parabole, riguarda la vita terrena di Gesù nel suo complesso, mentre il linguaggio aperto e diretto interessa peculiarmente la vita dei discepoli, posta sotto la guida dello Spirito. Rimane aperta una questione di non poco conto. Durante il suo ministero pubblico, Gesù ha testimoniato apertamente e senza trucchi verbali la sua origine celeste e la sua missione di salvezza nel nome del Padre. La folla si è stupita della sua audacia (cf. Gv 7,26), così come si sentirà confermare a breve lo scandalizzato ex sommo sacerdote Anania (o Anna) ed attuale suocero di Caifa, il sommo sacerdote in carica, durante il breve incontro con Gesù subito dopo il suo arresto nel Getsémani: “Io ho parlato al mondo apertamente” (18,20). Se l’evangelista afferma che Gesù ha parlato “in similitudini”, forse intende riferirsi a tutto ciò che il Figlio di Dio ha annunciato nel corso della sua missione terrena, sia in pubblico che in privato coi suoi discepoli, per rimarcare la naturale difficoltà di comprensione del senso delle parole del Maestro da parte dei suoi ascoltatori, non solo di quelli maldisposti nei suoi confronti, ma anche di quelli a lui favorevoli. Il linguaggio di Gesù era troppo elevato per tutti, a prescindere dalla buona o cattiva disponibilità nei suoi confronti (cf. 7,17; 8,47; 10,26), perché la sua dottrina non era di origine umana, ma proveniva da Dio stesso. In fondo, Gesù si sarebbe accontentato che fosse riconosciuta da tutti la sua origine divina, che si accettassero le sue parole come provenienti “dall’alto” e che ci si rivolgesse a Lui per avere la vita (cf. 5,40). Verso la fine del proprio ministero, infatti, Gesù fa proprio appello alle opere da Lui compiute e non alle sue parole (10,37s), pur di convincere tutti i suoi ascoltatori, discepoli ed avversari, ad accoglierlo per quello che è: l’Inviato di Dio. Una cosa, però, è riconoscere che Gesù è il Messia, il Cristo, l’Inviato del Padre, altra cosa è aver parte alla sua conoscenza diretta del Padre. Tra gli uomini e Gesù Cristo c’è sempre uno scarto di conoscenza della realtà soprannaturale, determinato dal fatto che Gesù non è soltanto un vero Uomo, apparentemente uguale a tutti gli uomini che abitano il pianeta Terra, ma è anche vero Dio e, quindi, l’unico vero conoscitore delle profondità di Dio Padre. Date queste premesse, all’uomo non rimarrebbe che subire il mistero di Dio e del suo Inviato e patire le conseguenze del proprio limite naturale di conoscenza, ma la resurrezione di Gesù e la sua assunzione nella gloria alla “destra del Padre”, dischiude a tutti gli uomini nuovi ed impensati orizzonti di intelligenza del mistero divino, lacerando il fitto velo di incomunicabilità esistente tra l’infinita sapienza di Dio e le fragili capacità dell’intelletto umano. Solo la gloria di Gesù risorto, trionfale vincitore della morte, che rende ogni uomo schiavo del proprio destino di creatura, fa sgorgare dal cuore di ciascun credente “fiumi d’acqua viva” (7,39) e gli dona l’intelligenza del mistero di Dio (cf. 13,7.36).
Apertamente vi parlerò del Padre. In realtà, non sarà Gesù a parlare “apertamente” del Padre, bensì lo Spirito Santo (16,13), ma c’è perfetta intesa ed identità di comunicazione tra il Figlio di Dio ed il Paraclito. Per l’evangelista, Colui che è stato assunto nella gloria risorgendo da morte e dal quale lo Spirito riceve tutto ciò che trasmette, è lo stesso Gesù di Nazareth che ha parlato ai discepoli ed alle folle e che vive in totale sintonia con lo Spirito di Dio, disceso sugli apostoli il giorno di Pentecoste. Verrà l’ora in cui non vi parlerò più in similitudini, ma apertamente vi parlerò del Padre; queste parole chiariscono l’esperienza religiosa e mistica della primitiva comunità cristiana, che ha compreso l’assoluta identità tra il Gesù della storia e quello della fede e l’evangelista dimostra di averne preso atto, facendone motivo e spunto per una profonda riflessione teologica, filtrata attraverso la personale esperienza del Maestro.
In quel giorno chiederete nel mio nome e io non vi dico che pregherò il Padre per voi. A prima vista si tratta di un’affermazione paradossale e sconcertante, ma se ne comprende bene il significato proprio alla luce dell’esperienza del Cristo post-pasquale, così come è percepita dalla comunità cristiana guidata dall’evangelista. Gesù, risorto e glorioso, “assiso alla destra del Padre”, non è più un “estraneo” per i suoi discepoli, ma vive ormai “dentro” di loro e fa intimamente parte della loro esistenza, al punto che essi sono una cosa sola con Lui. D’ora in poi, i discepoli potranno rivolgersi direttamente al Padre perché è Gesù stesso che prega e supplica il Padre attraverso le loro preghiere e suppliche. L’inabitazione reciproca tra Gesù e quanti credono in Lui è resa possibile grazie alla fede ed all’amore, di cui il Padre è la fonte ed il fine ultimo, come afferma effettivamente il v. 27: “il Padre stesso vi ama, poiché voi mi avete amato e avete creduto che io sono venuto da Dio”. Credendo in Gesù, unico mediatore, l’uomo ha la possibilità di vivere in intima comunione con l’eterno ed unico Dio mediante il profondo vincolo dell’amore.
Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio di nuovo il mondo e vado al Padre. Gesù ribadisce la propria provenienza dal Padre e, quindi, la propria natura divina misteriosamente unita alla debole, fragile e caduca natura umana per un altrettanto misterioso progetto di redenzione dell’umanità e conclude il discorso, rivolto direttamente ai discepoli, riprendendo il tema della dipartita da questo mondo, con cui l’evangelista aveva voluto inquadrare l’episodio della lavanda dei piedi (cf. 13,1). Il profondo vincolo d’amore che unisce gli uomini a Dio Padre, dal quale è “uscito” ed è stato “inviato” Gesù, è definitivamente sancito e consacrato dal definitivo ritorno di Costui al Padre. Il cerchio è perfettamente chiuso. Per amore, Dio ha creato l’universo e l’uomo; per amore, Dio ha concesso all’uomo la libertà di scegliere tra il bene ed il male; per amore, Dio non ha abbandonato l’uomo al proprio destino di morte; per amore, Dio ha inviato suo Figlio per redimere l’uomo peccatore; per amore, Dio ha lasciato che suo Figlio fosse ucciso sulla croce e lo ha, poi, risuscitato dai morti; per amore, Dio accoglie con Sé coloro che credono nel Figlio suo. Gesù è l’amore incarnato di Dio Padre ed attorno a Gesù ruota l’intero universo.
L’annuncio della dipartita di Gesù aveva gettato i discepoli nello sconforto e nella tristezza (16,6), ma ora, dopo ciò che ha detto loro il Maestro, essi dovrebbero capire che è un bene per loro che egli “muoia e ritorni al Padre suo”. Il soggiorno di Gesù nel mondo, questa sfera così lontana da Dio (3,16), è solo provvisorio; ora, il suo compito presso gli uomini è concluso ed Egli deve ritornare nella sua patria (17,4s). I credenti devono sapere che il pianeta Terra non è la loro patria finale, ma che solo il paradiso è la meta definitiva del loro peregrinare tra le (poche) gioie ed i (tanti) dolori di questo mondo. Tra poco, i discepoli non vedranno più il loro Maestro perché sta per tornare al Padre (16,10), eppure essi hanno la certezza di rivederlo perché condividono con Gesù uno spazio comune, l’ambito di vita del Padre, il quale ad essi si volge per amore del Figlio suo. In Gesù si coglie il tono convinto e convincente della vittoria certa sul male e sulla morte e su questo assunto si fonda la vera, unica speranza di ogni essere umano.
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Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?». Quegli rispose: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?». At 8,30
 
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