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COMMENTO AL VANGELO DI GIOVANNI

Ultimo Aggiornamento: 04/06/2019 15:05
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07/01/2012 23:08
 
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L’amicizia (in greco philìa) era un tema assai importante nel mondo greco-romano; nel mondo ebraico non ellenizzato mancava un termine equivalente, ma non il suo contenuto, come si evince dal patto di amicizia stipulato tra il futuro re Davide e Gionata, figlio del sovrano regnante Saul (1Sam 18,1-3). L’idea di amicizia, così come veniva intesa nella cultura pagana, si fece strada nel mondo giudaico solo a partire dall’epoca della composizione dei testi che costituirono la letteratura sapienziale (fra il IV ed il II secolo a.C.), influenzata proprio dall’ellenismo, la cultura greca dominante del tempo. In seno al giudaismo, contemporaneo di Gesù, Abramo e Mosè erano considerati “amici di Dio” e suoi confidenti privilegiati, nonostante l’abissale distanza esistente tra l’assoluto Trascendente e le creature umane. Dal canto suo, Gesù non diede grande rilevanza all’idea dell’amicizia e solo Lc 12,4 e Gv 15,13.15 riportano detti sull’amicizia attribuiti al Maestro, lasciando intendere che i due evangelisti siano stati, a loro volta, influenzati in certo qual modo dalla cultura dominante del loro tempo. In modo particolare, fu Giovanni a recepire la sensibilità ellenistica circa il tema dell’amicizia, arricchendo questo sentimento tipicamente umano con quello squisitamente ebraico di “fraternità” (3 Gv 15); l’amicizia cristiana riceve un’impronta nuova ed innovatrice dall’amore oblativo dell’amico Gesù, esempio e modello di ogni umana amicizia.
Non vi chiamo più servi… ma amici. L’amicizia sottintende confidenza, partecipazione, condivisione, scambio paritario di sentimenti e di intenzioni, uguale dignità nelle relazioni interpersonali, reciproco riconoscimento di diritti e doveri; al contrario, il servo deve solo obbedire a ciò che gli viene ordinato di fare o di non fare, annullando la propria volontà d’azione e la propria autonomia di giudizio. Il titolo di amico deve costituire, per i discepoli, il vero ed unico motivo per adempiere il comandamento dell’amore voluto da Gesù e fondato sul sacrificio supremo di se stessi. In altre parole, i discepoli possono considerarsi amici di Gesù se fanno ciò che Egli comanda, senza riserve e senza acrobazie intellettualistiche. Anche questo accento sull’agire morale (cf. 13,17) dimostra l’affinità testuale con la lettera maggiore dell’apostolo Giovanni (cf. 1Gv 2,29; 3,7.18.22; 4,20; 5,2s), che trasmette la vera novità dell’annuncio di Cristo: Dio non sa che farsene di uomini “schiavi” delle abitudini, dei luoghi comuni, di pratiche religiose formalmente irreprensibili ma vuote di sostanza. Dio cerca amici veri, liberi e capaci di entrare in sintonia con Lui senza rinunciare alle proprie facoltà intellettive ed affettive.
Il servo non sa quello che fa il suo padrone e non è nemmeno tenuto a sforzarsi di comprenderne e condividerne i pensieri od il modo di agire, ma deve limitarsi ad eseguirne gli ordini con solerzia e precisione, se non vuole subire rimproveri e punizioni. Al contrario, i discepoli di Gesù sono amici suoi perché Egli ha confidato loro tutto ciò che ha udito dal Padre. La conoscenza (gnòsis) della vera essenza del Padre ha permesso ai discepoli di diventare familiari di Dio, suoi amici e commensali, partecipi delle sue scelte e dei suoi progetti, esecutori consapevoli e liberi del suo piano di salvezza. La profonda intimità tra Dio Padre e Gesù, scaturita dall’eterna reciproca conoscenza e dall’amore vicendevole, coinvolge anche i discepoli per effetto di un gratuito dono di partecipazione: vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi. L’uomo non può aspirare all’intima comunione con Dio in modo autonomo, confidando esclusivamente nelle proprie capacità razionali e psicologiche, ma deve affidarsi a Cristo, unico mediatore tra Dio e gli uomini e garante di un vincolo d’amicizia reciprocamente libero e gratuito, i cui elementi peculiari sono la franchezza (parresìa) e la fiducia (1Gv 3,21).
Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi. Il credente non è necessariamente una persona alla ricerca di Dio, ma un cercato da Dio, voluto ed amato da Dio a prescindere da una sua pur legittima ricerca dell’Assoluto e di una risposta al proprio bisogno di certezze che nella vita reale sono, tutto sommato, poche ed alquanto incerte specie quando presumono di riflettere la sfuggente ed impalpabile vita ultraterrena. L’associazione degli atei e degli agnostici razionalisti del nostro tempo si è attivata per diffondere, a pagamento, uno slogan arrogante e presuntuoso per far sapere a tutti che Dio è una gran seccatura per l’umanità: “La brutta notizia è che Dio non esiste; la bella notizia è che gli uomini non hanno bisogno di Dio”. Dal punto di vista del Vangelo, si potrebbe rovesciare lo slogan: la bella notizia è che Dio esiste, ma la brutta notizia è che Dio non ha bisogno della fede degli uomini per esistere e per amarli! Dio va liberamente ed autonomamente incontro all’uomo e gli dona la sua grazia aspettandosi solo la libera accettazione del suo dono; il risultato dell’incontro è una sovrabbondanza di grazia e di verità (1,16) che Dio riversa su quanti lo accolgono accettando il suo Cristo (1,12) in modo attivo, libero e responsabile. Chi accoglie Gesù come Inviato di Dio e suo portavoce, si dispone a produrre un frutto abbondante e duraturo di santità e verità non per puro godimento personale ma per condividerlo con l’intera umanità, assecondando l’intrinseca dinamica missionaria del “lieto annuncio” (vangelo) della salvezza: Dio manda suo Figlio, che dona la sua amicizia agli uomini (“elezione”) e li invia ad annunciare a tutto il mondo che la salvezza si è compiuta per opera del Figlio a gloria di Dio Padre. Tutto ha origine dal Padre e tutto ritorna al Padre esclusivamente per mezzo del Figlio: ogni singolo essere umano, così come l’intero universo creato, è il destinatario di questo progetto di salvezza che è stato rivelato dal Lògos incarnato e che trova concreta evidenza nell’amore reciproco. Come Cristo Gesù ha amato gli uomini sino all’effusione volontaria del proprio sangue sulla croce, così gli uomini devono amarsi tra di loro per “amore di Dio”, producendo duraturi frutti di bontà e di santità. Ciò è possibile se sono soddisfatte due condizioni: rimanere saldamente uniti a Cristo come il tralcio alla vite e pregare il Padre nel nome di Cristo Signore. Sul tema della preghiera si potrebbe impostare una riflessione interminabile, ma Gesù ci ha insegnato a mirare all’essenziale con la preghiera del Padre nostro (Mt 6,10-13; Lc 11,2-4): occorre pregare incessantemente affinché, già su questa terra, si realizzi il Regno di Dio. Tutto il resto è una diretta conseguenza della presenza di Dio nel cuore dell’uomo; se escludiamo Dio dai nostri pensieri e dalla nostra vita, non possiamo aspirare alla piena realizzazione della pace, della verità, della giustizia, del benessere, dell’amore e della felicità per il mondo intero. Pregare il Padre nel nome di Gesù e produrre frutti duraturi di santità, di giustizia, di pace e d’amore sono compiti precipui degli “amici” di Gesù, che solo perseverando nella vivente unione con Lui possono avere la certezza, appellandosi alla sua persona, di essere esauditi dal Padre.
Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri. La ripetizione finale del comandamento di Gesù, di amarsi vicendevolmente, completa l’unità discorsiva e chiarisce di nuovo l’importanza che il comando ha nell’intero discorso. La pericope sulla vite trattava della capacità dei discepoli di produrre frutto rimanendo in Gesù e con Gesù, mentre la pericope 15,12-17 rende concreto e motiva con maggior vigore lo stesso concetto ricorrendo all’immagine dell’amore proprio dell’amico. Nel comandamento dell’amore vicendevole culmina l’esortazione alla comunità dei discepoli ed amici di Cristo.

18 Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. 19 Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia. 20 Ricordatevi della parola che vi ho detto: Un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola, osserveranno anche la vostra. 21 Ma tutto questo vi faranno a causa del mio nome, perché non conoscono colui che mi ha mandato. 22 Se non fossi venuto e non avessi parlato loro, non avrebbero alcun peccato; ma ora non hanno scusa per il loro peccato. 23 Chi odia me, odia anche il Padre mio. 24 Se non avessi fatto in mezzo a loro opere che nessun altro mai ha fatto, non avrebbero alcun peccato; ora invece hanno visto e hanno odiato me e il Padre mio. 25 Questo perché si adempisse la parola scritta nella loro Legge: Mi hanno odiato senza ragione. 26 Quando verrà il Consolatore che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità che procede dal Padre,, egli mi renderà testimonianza; 27 e anche voi mi renderete testimonianza, perché siete stati con me fin dal principio.
L’odio e l’ostilità del mondo sono il filo conduttore della pericope 15,18-25 del IV Vangelo ed ogni vero cristiano non può sottrarsi al conflitto da sempre in atto tra i figli della luce ed i figli delle tenebre (cf. Gv 1,11-12). Il discorso di Gesù, che finora era incentrato sulla vita dei discepoli nella comunione con Cristo e fra di loro, ora si rivolge alla loro situazione nel mondo. L’amore, che essi devono nutrire e manifestare l’un l’altro sull’esempio del loro Maestro (15,12-17), appare in evidente e stridente contrasto con l’odio di cui saranno oggetto da parte del mondo a causa di Cristo (15,18-25). Il carattere distintivo dei discepoli di Gesù è l’amore-agàpe, mentre chi appartiene interamente al “mondo” non conosce altro che l’odio, una sorta di amore ripiegato su se stesso ed incapace di donare e di donarsi, un vera e propria negazione dell’amore. Tra l’odio (tipico sentimento del “mondo”) e l’amore-agàpe (di matrice cristiana) possiamo collocare l’amore-éros, che è possessivo e geloso, ma che può progredire e sfociare nell’amore-agàpe se l’uomo si lascia attrarre dalla logica di Cristo, oppure sprofondare nei gorghi tenebrosi dell’odio se si lascia invece imbrogliare dalla perversa e convincente dialettica del “mondo”. L’evangelista ammonisce la sua comunità: “Non vi meravigliate, fratelli, se il mondo vi odia. Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte. Chiunque odia il proprio fratello è omicida e voi sapete che nessun omicida possiede in se stesso la vita eterna” (1Gv3,13-15). In queste parole possiamo ravvisare, nemmeno tanto in trasparenza, il giudizio severo sulle vicende del “nostro” mondo contemporaneo, che ha fatto dell’odio (razziale, religioso, culturale) la propria bandiera, in nome della quale si giustifica ogni misfatto. Gesù mette i suoi sul chi vive: il mondo… prima di voi ha odiato me (15,18). Che i discepoli non si aspettino di essere trattati meglio del loro maestro da quella sorta di Mòloch del male, che è il mondo (in greco, kòsmos). Nei cristiani è Cristo stesso che viene perseguitato dalle forze del malvagio (cf. At 9,5; Col 1,24), il nemico antico di Dio e dell’uomo; nel linguaggio di Giovanni, però, il “mondo” ha un significato ambivalente. Da un lato, il mondo è una realtà dominata dal male e presidiata dal “principe delle tenebre”, che induce gli uomini ad opporsi all’amore di Dio ed al suo Inviato, Cristo; dall’altra, questo stesso mondo è e rimane pur sempre l’oggetto privilegiato dell’amore di Dio, che vuole salvi tutti gli uomini (Cf Gv 3,16; 1Gv 4,14). La dialettica per cui nel vangelo di Giovanni il “mondo” è visto come umanità bisognosa e capace di salvezza, ma anche dura a credere e piena di odio, è un dato di fatto irrisolvibile ed inevitabile, cui solo “la fine del tempo” porrà definitivo rimedio, dettando i termini di una nuova storia, scritta in “cieli nuovi e terra nuova” (Ap 21,1). Compito dei cristiani, in definitiva, è rendere testimonianza a Cristo, divenuto uomo non tanto per “giudicare” o condannare il mondo, che si giudica da se stesso sulla base delle proprie iniquità, ma per redimerlo e salvarlo, offrendogli la possibilità di convertirsi e di ritornare a Dio “onorando il Figlio” suo (Gv 5,22s); non è affatto scontato, tuttavia, che il “mondo” accetti questo genere di testimonianza da parte dei cristiani. Al contrario, il “mondo” è sempre pronto ad odiare i cristiani allo stesso modo in cui ha odiato Gesù, perché rifiuta interlocutori in grado di smascherare le sue malvagità ed ingiustizie.
Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; [...] io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia. Il mondo odia i discepoli di Gesù perché è lontano da Dio, il quale ha “scelto” coloro che sono disposti a credere in Lui quasi strappandoli dalle grinfie del Maligno, il tenebroso principe del mondo, rendendolo furibondo per aver perso la propria preda. Il “mondo” insieme al suo malvagio tiranno, da una parte ed i discepoli di Gesù, dall’altra, appartengono a due sfere completamente separate ed abissalmente lontane tra loro. Questo concetto è ribadito dall’autore della prima lettera attribuita all’apostolo Giovanni: “Voi siete da Dio, figlioli e avete vinto questi falsi profeti, perché colui che è in voi è più grande di colui che è nel mondo. Costoro sono del mondo, perciò insegnano cose del mondo e il mondo li ascolta. Noi siamo da Dio. Chi conosce Dio ascolta noi; chi non è da Dio non ci scolta. Da ciò noi distinguiamo lo spirito della verità e lo spirito dell’errore” (1Gv 4,4-6). Tra Dio ed il “mondo” esistono un aperto conflitto ed una profonda incomunicabilità (Is 6,9-10), che si manifestano nei molteplici atti di “odio” perpetrati ai danni di coloro che credono in Dio. È il perenne conflitto tra il bene ed il male, che si risolverà solo alla fine del tempo, quando tutto sarà sottoposto al definitivo “giudizio” di Dio, che separerà una volta per tutte “le pecore dai capri” (Mt 25,32), i buoni dai cattivi, i seguaci di Cristo dai seguaci di questo “mondo”. Il tempo attuale è soggetto all’esigenza della testimonianza (martirio), della predicazione del Vangelo, della pazienza (cf. Mt 13,24-30, ossia la parabola dell’erba cattiva, la zizzania, che infesta un campo di buon grano), della persecuzione e della sofferenza patita per il Regno di Dio, ma tutto avrà fine un giorno, definito dai profeti come yòm YHWH, il “giorno del Signore” (Am 5,18; 8,9; Gl 4,15-17; cf. Ap 6,12; 1Cor 1,8).
Un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola, osserveranno anche la vostra. L’evangelista trasmette alla sua comunità un messaggio assai chiaro: il vangelo di Gesù deve essere annunciato agli uomini prescindendo dal risultato finale. Dio rivolge il proprio invito alla salvezza a tutto il genere umano, senza imporla arbitrariamente a nessuno; ciascuno è libero di accettare la mano tesa da Dio o di respingerla e, conseguentemente, di perseguitare o di accogliere favorevolmente i suoi inviati. Sono semmai gli apostoli del Signore a non doversi far condizionare dal risultato del loro annuncio, proprio perché il seme della Parola di Dio, che essi devono spargere generosamente, può cadere su terreni assai diversi e capaci di produrre frutti abbondanti o del tutto sterili (cf. la parabola del seminatore in Mt 13,3-8 pp). Ciò che conta, agli occhi di Dio (il padrone), è la generosità dei suoi inviati (i servi) perché, in definitiva, è Lui stesso che semina e che raccoglie i frutti del suo operato, anche se tiene in gran conto l’impegno dei suoi servi, la cui unica ambizione deve essere quella di servire il loro padrone con fedeltà e dedizione assoluta. Poiché il Maestro è stato ripagato dal mondo con la moneta del disprezzo e della croce, i suoi discepoli non possono pretendere una sorte migliore della sua in questa vita, ma hanno ricevuto da Lui la garanzia di un posto nel regno del Padre (14,2) e questo deve bastare a loro per affrontare fatiche e delusioni quando annunciano il Vangelo di Cristo Signore. Il mondo ostile a Dio sembrerebbe avere la sorte già segnata da una condanna senza appello, ma l’infinita e compassionevole misericordia del Padre celeste non manca di offrire un’estrema possibilità di salvezza a chi si ostina nel respingerla: tutto questo vi faranno a causa del mio nome, perché non conoscono colui che mi ha mandato (cf. Lc 23,34). Chi vive nell’ignoranza più profonda del mistero salvifico di Dio, è parzialmente giustificato per la sua ostilità a Cristo, che è al tempo stesso il contenuto di tale mistero ed il suo rivelatore. Subito dopo, infatti, Gesù corregge il tiro: se non fossi venuto e non avessi parlato loro, non avrebbero alcun peccato. Per l’appunto. Il peccato “inescusabile” del giudaismo consiste nell’avere respinto colui che è stato mandato dal Padre e che ha fatto di tutto per condurre il popolo eletto alla fede in Lui, anche compiendo prodigi inauditi a sostegno dell’autenticità ed autorevolezza della propria missione e provenienza “divina”. L’incredulità ostinata dei giudei di fronte all’evidenza delle opere compiute e delle parole pronunciate da Gesù, appare come un atteggiamento irrazionale, emotivo ed amorale, un vero e proprio peccato contro Dio, che si manifesta con atti di odio contro il Messia ed i suoi discepoli. La situazione, descritta dall’evangelista, riflette il contesto di ostilità e di persecuzione vissuto dalla comunità cristiana primitiva per mano del giudaismo ma, trasponendo ai giorni nostri l’aperto conflitto tra le ragioni di Dio e quelle dell’uomo, il clima malevolo nei confronti dei cristiani non sembra molto diverso da allora. Gli interlocutori sono, nel frattempo, cambiati, ma la fede in Cristo è sempre avversata, in modo a volte velato e subdolo, perché l’uomo vuole sostanzialmente affermare la propria autonomia da Dio. In certo qual modo, il mondo globalizzato a noi contemporaneo, permeato dalla comunicazione in tempo reale e su scala planetaria, ha la sua parte di colpa nel rifiuto opposto a Cristo; come un tempo i giudei non vollero credere alle parole di Gesù, giungendo persino a fraintendere il significato dei suoi miracoli (cf. Gv 9,24), così tanti uomini d’oggi, che pure hanno modo di conoscere Cristo attraverso l’insegnamento della Chiesa, o lo rifiutano stravolgendo persino il contenuto del suo messaggio o lo combattono apertamente e, pertanto, non hanno scusa per il loro peccato. Il mistero della salvezza (mysterium salutis) si scontra quotidianamente col mistero del male (mysterium iniquitatis) e, apparentemente, sembra uscirne regolarmente sconfitto, ma la speranza cristiana si fonda proprio sulla certezza della vittoria finale di Cristo (16,33), che dona ai suoi il Regno dei cieli (Lc 12,32) perché hanno perseverato nella fede in Lui nonostante le persecuzioni subite da questo mondo malvagio ed ostile a Dio ed al suo Cristo.
Chi odia me, odia anche il Padre mio. L’odio per Gesù si rivolge anche contro il Padre suo e la frase aggrava, in questo contesto, l’accusa di peccato, cioè di ribellione a Dio, di cui sono responsabili sia i giudei (sinedrio, Caifa) e sia i romani (Ponzio Pilato), per cui non va considerata come un’aggiunta fuori luogo e, soprattutto, non va circoscritta né ad un determinato periodo storico né ad un preciso contesto sociale e culturale. Ogni epoca ed ogni cultura esprime il proprio Caifa ed il proprio Ponzio Pilato; le mani che hanno schiaffeggiato e flagellato Gesù, o che gli hanno imposto una corona di spine, gli hanno inchiodato le mani ed i piedi o gli hanno trafitto il cuore con una lancia sono le nostre stesse mani con cui compiamo, quotidianamente, gesti di rifiuto e di ribellione, facendole grondare del sangue del Giusto. Sul Gòlgotha era presente l’intero genero umano, pienamente solidale con gli assassini di Gesù, il quale ha avuto per tutti uno sguardo di compassionevole amore e parole di perdono, sia per quelli schierati in prima fila e sia per quelli più defilati e, forse, meno colpevoli di altri. Ai piedi della croce siamo idealmente tutti presenti e tutti colpevoli, salvo Maria, la madre del Crocifisso, che unisce il proprio dolore a quello del Figlio sofferente sul patibolo per il riscatto di ciascuno di noi.
Gesù ribadisce il concetto di colpa che, attraverso il popolo giudaico contemporaneo del Messia, si estende a macchia d’olio a tutto il genere umano. Se non avessi fatto in mezzo a loro opere che nessun altro mai ha fatto, non avrebbero alcun peccato; ora invece hanno visto e hanno odiato me ed il Padre mio. Non bisogna, ovviamente, fare di ogni erba un fascio né colpevolizzare chi non ha colpe personali specifiche. Non tutti i giudei, infatti, hanno respinto le parole e le opere di Gesù, o hanno invocato il tragico “crucifige!” inducendo Pilato a comminare la sentenza di morte contro il Figlio di Dio, ma nel rifiuto dei capi della nazione giudaica e nella crudeltà del potere romano, impersonato da Pilato, possiamo scorgere i tanti atteggiamenti di ribellione a Dio che ogni individuo mette in atto nella sua personale quotidianità, opponendosi al flusso di purissimo amore che Dio vuole far giungere ad ogni creatura. Nel peccato personale sono, pertanto, realmente racchiusi il gesto di viltà di Pilato, l’invocazione di condanna di Caifa e dei capi giudei e le azioni assassine dei carnefici di Gesù. La solidarietà nella colpa tra l’uomo d’oggi e gli autori della condanna a morte del Messia risiede proprio nel fatto che il Figlio di Dio si è “manifestato” all’umanità intera, consentendole di “vedere” le opere del Padre e di comprenderlo come unico autore e garante della vita. Chi ha visto personalmente le opere di Gesù e, nonostante questo, ha odiato Lui ed il Padre che lo ha mandato tra gli uomini per salvarli, non potrà accampare scusa alcuna nel giorno del giudizio finale. Allo stesso modo, saranno giudicati con severità anche coloro che, in qualsiasi epoca storica, hanno avuto od avranno la possibilità di vedere le opere di Cristo attraverso la testimonianza diretta degli apostoli, che hanno affidato alla Chiesa il sacro deposito della fede, “consegnando” (tradizione) agli uomini ciò che essi hanno visto, udito e compreso del loro Maestro, morto veramente sulla croce e realmente risorto dai morti. Ovviamente, il giudizio su chi osteggia la persona stessa di Cristo, vivo e presente realmente nella sua Chiesa, non spetta che a Dio solo, l’unico veramente in grado di leggere in profondità i segreti del cuore e della coscienza degli uomini. Per tutti vale, fino a prova contraria, l’invocazione rivolta da Gesù al Padre nel momento dolorosissimo della crocifissione: “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34).
L’odio immotivato e l’astiosa incredulità nei confronti dell’Inviato di Dio sono stati previsti dai profeti d’Israele: “questo perché si adempisse la parola scritta nella loro Legge: Mi hanno odiato senza ragione” (cf. Sal 35,19; 69,5; 109,3). L’esponente di spicco di questo odio “senza ragione” è nientemeno che uno dei Dodici, Giuda Iscariota. Senza troppi sforzi d’immaginazione, possiamo lasciar scorrere davanti ai nostri occhi e nella nostra mente l’interminabile sequenza di orrori che sono stati perpetrati, nel corso della storia passata e recente, contro i cristiani ma anche la desolante sfilza di iniquità commesse dagli stessi cristiani contro i fratelli appartenenti ad altra fede o principio filosofico, dimenticando che in ogni ateo, eretico, non cristiano o cristiano di diversa confessione da loro perseguitato, è stato oltraggiato Cristo stesso, presente e sofferente in ogni essere umano a prescindere dalle convinzioni religiose di ciascuno. È l’odio stesso ad essere considerato da Dio come un’aberrazione, perché ai suoi occhi gli esseri umani sono tutti figli suoi e tutti redenti dal sangue preziosissimo del Figlio suo. Odiando il suo simile, l’uomo odia Dio e colui che Egli ha inviato per la salvezza dell’intera umanità.
Quando verrà il Consolatore che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità che procede dal Padre, egli mi renderà testimonianza; e anche voi mi renderete testimonianza, perché siete stati con me fin dal principio. Nello scontro esistenziale tra la comunità dei credenti ed il “mondo”, ostile alla fede in Dio e nel suo Cristo, entra in campo il Consolatore o Paraclito (gr. paràkletos), definito anche Spirito di verità, la cui funzione è duplice:
rendere testimonianza a Gesù, con particolare riguardo alla sua divinità incarnata ed alla sua missione redentrice, avvalorando la testimonianza “umana” resa dai discepoli nella loro qualità di testimoni oculari dei fatti riguardanti il Cristo,
sostenere i credenti nella loro fede nel Signore risorto, specialmente nei momenti di persecuzione (cf. Mt 10,18.20; Lc 12,12; 21,15; At 6,10).
L’evangelista ripropone la figura del Consolatore, che in 14,26 appariva come inviato dal Padre nel nome di Gesù, mentre ora risulta che è Gesù stesso ad inviarlo autonomamente (“…che io vi manderò”), con la debita sottolineatura che lo “Spirito… procede dal Padre”. Lo Spirito di verità, noto anche come Paraclito (consolatore, avvocato), Spirito di Dio o Spirito Santo, appare come entità personale distinta dal Padre, da cui procede e dal Figlio, da cui è inviato in missione tra gli uomini con lo scopo specifico di rendergli testimonianza. Il testo greco del IV Vangelo afferma, per ben due volte nell’ambito dello stesso versetto, che lo Spirito sarà inviato da Gesù parà toù Patròs, letteralmente “da presso il Padre”, dal quale “procede” (gr. ekporéuetai) e ciò ha dato adito a vivaci controversie tra le Chiese d’oriente e d’occidente (la famosa questione del “Filioque” che, a tutt’oggi, determina una divergenza teologica ancora insanabile tra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa).2 Le polemiche teologiche tra i cristiani, appartenenti a differenti espressioni confessionali, stridono clamorosamente e dolorosamente con lo spirito stesso del Vangelo, che è annuncio di salvezza, anche perché le divisioni ideologiche sono spesso alimentate da divergenze socio-politiche, più che da reali e peculiari esigenze o sensibilità religiose. Ciò che all’evangelista preme trasmettere ai credenti è il circolo virtuoso della salvezza, che origina dal Padre, è imperniata su Cristo Gesù ed è testimoniata dallo Spirito Santo, il quale agisce per mezzo dei discepoli del Risorto, spingendoli a diffondere tra gli uomini il lieto annuncio della salvezza anche a costo di essere derisi, osteggiati, perseguitati ed uccisi. Prima dell’evento della Pentecoste, il protagonista della storia della salvezza è Gesù di Nazareth, il Lògos di Dio incarnato ed inviato dal Padre tra gli uomini per redimerli versando il proprio sangue sulla croce; dopo la Pentecoste, a Gesù subentra lo Spirito Santo quale interprete principale del disegno salvifico di Dio, perché a Lui compete l’incarico di raccogliere i credenti attorno a Cristo Signore, formando un unico Corpo mistico ed a Lui spetta condurre la Chiesa alla gloria della fine dei tempi.
La salvezza che Dio Padre ha iniziato con la creazione dell’universo e che il Figlio ha realizzato mediante l’incarnazione, la morte di croce e la resurrezione dai morti, lo Spirito Santo conduce a perfezione nei “cieli nuovi e nella terra nuova” (Ap 21,1ss) della Gerusalemme celeste. All’interno di questo “circolo virtuoso” gli uomini non svolgono un ruolo passivo da semplici spettatori o da fortunati beneficiari di una salvezza a buon mercato, ma devono dare il proprio contributo in termini di fede generosa, di speranza gioiosa e di carità senza limiti. Gli apostoli di Gesù sono i più autorevoli testimoni della Parola di Dio incarnata perché sono stati con Lui “fin dal principio”. Tale annotazione non ha un carattere meramente temporale, ma riveste una profonda valenza teologica, perché Gesù è colui che “in principio” era presso Dio (1,1) e chi vive l’intima comunione con Lui è perfettamente inserito nell’infinita ed eterna esistenza di Dio.
L’autorevolezza e la veridicità della testimonianza dei discepoli di Gesù di Nazareth circa la sua vicenda storica e, soprattutto, circa la sua resurrezione che fa di Lui l’eterno Vivente ed il sempre presente negli eventi di questo mondo, sono assunte a pieno titolo anche dai successori degli apostoli perché le origini della loro predicazione affondano nel terreno metatemporale di quel “principio” che rende Cristo eterna, immutabile ed unica verità. Come il Lògos, che si è incarnato in Gesù di Nazareth per rivelare in modo autorevole e definitivo la Parola ultima e definitiva di Dio, appartiene all’eternità fin “dal principio” (1 Gv 2,13), così i discepoli di Cristo, che “fin dal principio” sono in comunione con Lui, “parola di vita” (1Gv 1,1) e somma “verità” (14,6), godono conseguentemente di una tale autorità che la loro testimonianza, circa i fatti riguardanti il Maestro, ha un valore unico, permanente ed insuperabile. A sua volta, la comunità di fede deve rimanere fedele a ciò che ha udito “fin dal principio” (1Gv 2,24; 3,11) se vuole essere credibile testimone del Signore Gesù agli occhi del mondo. Il concetto di “principio” (in greco, arkè) assume quindi, nel IV Vangelo, un significato teologico assai complesso:
1.il Lògos, eterna Parola vivente di Dio, esiste da sempre come entità personale di natura divina distinta dalla Persona del Padre: “in principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio ed il Verbo era Dio” (Gv 1,1)
2.Gesù Cristo, ebreo “marginale” della borgata di Nazareth, figlio di Dio quanto alla natura divina e figlio di Maria per quanto attiene alla sua natura umana, da tutti considerato “figlio” di Giuseppe il falegname, è l’incarnazione umana del Lògos che esiste “dal principio” (1Gv 2,13)
3.i discepoli di Gesù sono autorizzati da Gesù a trasmettere a tutti gli uomini i suoi insegnamenti proprio perché sono stati insieme a Lui “fin dal principio” (Gv 16,27), sperimentandone la vera umanità e la vera divinità
4.la comunità cristiana è legittima depositaria della fede in Cristo Signore perché “fin dal principio” è intimamente unita a Lui come i tralci sono uniti alla vite (Gv 15, 4-5), formando con Lui un unico “corpo” che, seppure “mistico”, non per questo è meno “reale” e visibile agli occhi del mondo (1Cor 12,12).
I discepoli ricevono, dunque, da Gesù l’incarico di testimoniare l’evento pasquale insieme e con l’aiuto del Paraclito, il quale ricorda loro, a tempo debito, tutto ciò che Gesù stesso ha detto e fatto facendone comprendere appieno il significato. Poiché gli apostoli sono stati con Gesù “sin dal principio”, la loro testimonianza rivive nella comunità dei credenti (la Chiesa) per attivo intervento dello Spirito Santo, che costituisce gli apostoli ed i credenti veri e propri “strumenti” umani della sua stessa testimonianza nei confronti del Cristo.
La venuta del Paraclito ed il ritorno di Gesù
(Gv 16,1-33)

Il capitolo 16 del IV Vangelo potrebbe essere definito la “lieta notizia della speranza” cristiana. Il tempo storico passato, presente e futuro in cui l’umanità si dibatte fra lutti, angosce, progetti, conflitti, illusioni, gioie, conquiste, paure ed errori, è il tempo dello scontro tra i figli della luce ed i figli delle tenebre, ma in sé contiene il seme della vittoria finale del bene contro il male. Come la croce sul Gòlgotha è preludio al sepolcro rimasto vuoto per la resurrezione di Cristo, così i dolori del tempo presente annunciano il ritorno trionfale e definitivo di colui che gli uomini, istigati dal malvagio principe delle tenebre, hanno ritenuto di sconfiggere ed eliminare dalla loro storia “inchiodandolo ad una croce” (At 2,23) e facendo “rotolare una gran pietra sulla porta del sepolcro” (Mt 27,60), nel vano tentativo di tappargli la bocca per sempre. La resurrezione del Crocifisso, tuttavia, ha scombussolato il piano di satana e degli uomini suoi servitori, che non hanno fatto i conti con la “potenza di Dio e del suo Cristo” (cf. 1Cor 15,24), di cui il Paraclito è il testimone più accreditato in quanto deputato a condurre a Dio gli uomini redenti dal sangue di Cristo.

16,1 Vi ho detto queste cose perché non abbiate a scandalizzarvi. 2 Vi scacceranno dalle sinagoghe; anzi, verrà l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio. 3 E faranno ciò perché non hanno conosciuto né il Padre né me. 4 Ma io voi ho detto queste cose perché, quando giungerà la loro ora, ricordiate che ve ne ho parlato. Non ve le ho dette dal principio, perché ero con voi.
Gesù mette in guardia i suoi discepoli dalle prove che li attendono, affinché la loro fede non sia scossa e non inciampi nello “scandalo” della croce e della persecuzione futura. Il cristiano, che si scandalizza dello strumento scelto da Dio per redimere l’umanità, mette in serio pericolo la fede e la propria salvezza (cf. 6,61). Rivolgendosi ai cristiani della comunità di Corinto, alcuni dei quali avevano assunto atteggiamenti altezzosi facendo sfoggio della propria cultura filosofica e storcendo il naso di fronte alla poco gloriosa morte in croce di Gesù, s. Paolo scrisse parole di fuoco: “Mentre i giudei chiedono miracoli e i greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani… ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini… Io ritenei di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo e questi crocifisso” (1Cor 1,22.25; 2,2). Tutto il resto, fa capire Paolo, è “fuffa”, spazzatura della sapienza umana.
Vi scacceranno dalle sinagoghe. La sospensione di un ebreo dalla frequentazione della sinagoga era una sanzione correttiva abbastanza frequente presso il mondo giudaico e tale misura punitiva aveva lo scopo di favorire il ravvedimento di quanti si rendevano responsabili di colpe non particolarmente gravi o meritevoli della pena capitale. Subivano generalmente questa forma di castigo coloro che si sottraevano, per abituale negligenza o neghittosità, alle numerose pratiche di purità legale previste dalla Legge mosaica e minuziosamente descritte dai rabbini, gli esperti riconosciuti ed autorevoli di tale materia. L’esclusione dalla sinagoga, invece, era l’equivalente di una vera e propria scomunica, irrevocabile e definitiva, che sanciva la rottura totale del legame religioso, culturale e sociale tra il popolo eletto e colui che era stato colpito da questa misura punitiva. Si trattava, quindi, di un evento relativamente raro, almeno prima del 90 d.C. circa, epoca in cui si tenne il famoso concilio ebraico di Jamnia, in occasione del quale il mondo ebraico, reduce dalla terribile disfatta per mano delle armate romane e culminata con la distruzione della città di Gerusalemme e del suo sontuoso Tempio (70 d.C.), sanzionò la definitiva “separazione” o scomunica dei cristiani dall’antico popolo dell’Alleanza mosaica al fine di salvaguardare la propria identità culturale e religiosa. Gli “eretici” seguaci di Gesù Cristo non avevano alcun diritto di far parte del popolo eletto! I cristiani provenienti dalla religione ebraica ed appartenenti alla comunità, guidata dall’evangelista Giovanni, dovettero subire il contraccolpo psicologico di tale “scomunica” al pari di tanti confratelli giudeo-cristiani presenti sul territorio dell’impero romano ed oltre i suoi confini. Gv 16,1-2 risente di questo clima d’ostilità tra giudei e cristiani, aggravato da una persecuzione in piena regola a danno dei cristiani e perpetrato dalle autorità giudaiche, che cercavano di legittimare le loro azioni omicide con la scusa di agire nel nome e per conto di Dio stesso.
Verrà l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio. Ad onor del vero, le autorità religiose giudaiche, che dal concilio di Jamnia in poi erano tutte di estrazione farisaica, non si limitavano semplicemente a perseguitare i cristiani complottando, in combutta con le autorità civili dell’impero romano, per eliminarli fisicamente ma cercavano anche la diatriba religiosa, al fine di dimostrare che Gesù era un impostore e non il messia annunciato dai profeti. Molti giudei, convertiti al cristianesimo ed alquanto sensibili alle serrate e convincenti argomentazioni addotte dai rabbini, cominciavano a dubitare della propria fede ed a vacillare di fronte alle violenze messe in atto da fanatici assassini, che erano convinti i rendere “culto a Dio” uccidendo chi bestemmiava il suo santo Nome. La persecuzione “morale”, rivolta soprattutto contro i giudeo-cristiani (vale a dire, contro i cristiani provenienti dalla fede ebraica) e divenuta molto violenta proprio alla fine del I° secolo dell’era cristiana, quando l’evangelista scriveva queste righe, trova conferma in alcuni testi di fonte giudaica, che riportano anche esempi di uccisione per motivi religiosi da parte degli zeloti (Mishna, Sanh 9,6). Commentando Nm 25,12-133, il Midrash Rabbah afferma: “Se uno versa il sangue del malvagio, è come se avesse offerto un sacrificio”. Nella disputa fittizia col giudeo Trifone, s. Giustino martire, noto filosofo cristiano nato a Sichem di Samaria dove si era svolto l’incontro di Gesù con la samaritana al pozzo di Giacobbe (Gv 4,4-42), così scriveva alcuni decenni dopo la stesura del IV Vangelo: “La vostra mano realmente è ancora alzata per compiere delitti, giacché anche dopo l’uccisione di Cristo non vi convertite, ma invece, ogni volta che ne avete il potere, odiate e uccidete anche noi, che per mezzo di lui crediamo in Dio, il Padre dell’universo” (dal Dialogo con Trifone, 133,6). Il fanatismo religioso non conosce età e sembra una tragica caratteristica delle società meglio strutturate sul piano della prassi religiosa (basti pensare ai tanti fanatismi religiosi del nostro tempo, che prendono a pretesto le differenze di fede tra popoli o gruppi etnici per insanguinare vari angoli del nostro pianeta), ma incapaci di riconoscere il diritto di ciascun individuo ad esprimere la propria fede nella piena libertà della propria coscienza4.
Nel corso della storia bimillenaria del cristianesimo, il conflitto tra il mondo giudaico e quello cristiano ha raggiunto vertici di intolleranza religiosa e culturale vergognosi, indegni per esseri umani che professano la fede nell’unico Dio e che, per giunta, si considerano eredi spirituali di Abramo, ritenuto con giusta ragione “padre nella fede” sia dagli ebrei e sia dai cristiani. Come se non bastasse, ad ebrei e cristiani si sono aggiunti i mussulmani, che rivendicano il diritto di primogenitura e che, nel nome di Dio (quante volte lo si tira per le maniche a sproposito!) vorrebbero far sparire dalla faccia della terra i loro “fratelli” nella fede. Si dirà: non tutti gli ebrei, od i mussulmani od i cristiani sono fanatici a tal punto da voler desiderare l’eliminazione fisica o spirituale dei concorrenti… Vorrei ben vedere, ma sta di fatto che la guerra di religione è sempre in agguato anche nel nostro disincantato e super-tecnologico XXI secolo e che i fanatici sono perennemente in azione sia da una parte che dall’altra delle barricate, pronti a camuffare le reali intenzioni di predominio politico ed economico con affermazioni di presunta superiorità religiosa. Ritornando al diverso modo di rapportarsi con Cristo mediante il vincolo della fede, così commentava s. Agostino: “Che male era per gli apostoli essere cacciati dalle sinagoghe giudaiche, dato che essi ne sarebbero usciti anche se nessuno li avesse espulsi? Ma [Gesù] intendeva sottolineare che i giudei non avrebbero accolto il Cristo che invece gli apostoli non avrebbero mai abbandonato; e che perciò quelli che non avrebbero mai rinunciato a Cristo, sarebbero stati cacciati dalle sinagoghe insieme con lui da coloro che non volevano essere con lui. Ora, dato che non esisteva altro popolo di Dio all’infuori di quello discendente da Abramo, se i giudei avessero riconosciuto e accolto Cristo, come rami naturali sarebbero rimasti nell’olivo e non ci sarebbe stata una Chiesa di Cristo distinta dalla sinagoga dei giudei: sarebbero state una medesima cosa, se avessero accettato di essere in lui. Ma siccome rifiutarono, che altro restava a quelli che avevano deciso di rimanere fuori di Cristo, se non scacciare dalle sinagoghe coloro che non avevano abbandonato Cristo? Se, al contrario, ricevuto lo Spirito Santo, fossero diventati anch’essi testimoni di Cristo, non sarebbero più stati tra coloro di cui l’evangelista dice: Molti notabili dei giudei credettero in lui, ma non si dichiararono per paura dei giudei, per non essere scacciati dalla sinagoga; preferivano, infatti, la gloria degli uomini alla gloria di Dio” (In Johannis Evangelium Tractatus 93,2).
Il conflitto tra il neonato cristianesimo ed il giudaismo è giunto ormai al culmine negli anni in cui Giovanni compone il suo Vangelo; giudei e cristiani si professano monoteisti ma gli uni credono nell’assoluta trascendenza del Signore Dio d’Israele, di cui non osano neppure pronunciare il vero Nome, mentre gli altri credono altrettanto fermamente che lo stesso Signore, creatore del mondo e benefattore del popolo eletto, si sia manifestato agli uomini nella persona di un umile ebreo, che si è professato Figlio di Dio, pagando la propria affermazione con la morte infamante sulla croce, ma ritornato in vita per governare l’intero universo, nella sua qualità di Signore della vita e della morte e di supremo Giudice di ogni creatura, in nome e per conto di Dio Padre, alla cui destra Egli siede per sempre. Chi ha, dunque, ragione? Coloro che credono che Gesù è veramente Figlio di Dio ed a Lui pari per dignità e natura, oppure i giudei capaci, come rabbì Akiba e tanti altri ebrei, di affrontare il martirio per testimoniare la propria fede nel Dio unico? Per Gesù, il fondamento della feroce opposizione dei giudei alla sua natura umana e divina risiede nell’incapacità di compiere il passo decisivo della fede. Faranno ciò, perché non hanno conosciuto né il Padre né me. Gesù nega, a quanti cercano di uccidere i suoi discepoli in un cieco e furibondo zelo per Dio, la conoscenza del Padre e, quindi, la vera comunione con Dio.
La mancata conoscenza di Dio e della sua vera natura5 (cf. Gv 5,37-38; 7,28; 8,27.55) si riflette anche nell’incomprensione radicale della persona umana e divina di Gesù Cristo e del significato della sua missione tra gli uomini.
Vi ho detto queste cose perché, quando giungerà la loro ora, ricordiate che ve ne ho parlato. L’ora, di cui parla Gesù, è quella che attende le scelte definitive dei persecutori giudei nei confronti suoi e dei discepoli, che stanno ascoltando questi avvertimenti oscuri del loro Maestro senza capirci nulla, ma che a tempo opportuno comprenderanno e ricorderanno assai bene con l’aiuto dello Spirito Santo. Per tutti gli esseri umani giunge l’ora delle scelte esistenziali o di campo: o si sta dalla parte del bene (Dio) o da quella del male (satana) e, di conseguenza, l’ora del giudizio finale incombe su tutti, senza eccezioni di sorta. Dio stesso ha scelto di sottostare alle esigenze ineludibili della sua “ora”, finalizzata alla salvezza del genere umano mediante l’incarnazione, passione e morte di croce del Figlio suo. L’ora della morte di Gesù coincide con l’affermazione della gloria di Dio, che attraverso il sacrificio del Figlio suo sancisce la propria vittoria definitiva sul male, di cui la morte è l’epigono più tragico, il frutto amaro della ribellione di satana, un angelo decaduto a causa della propria superbia e degli uomini che hanno scelto di seguirlo, preferendo lui a Dio. Le persecuzioni, consumate a danno dei credenti in Cristo, sono solo dei vani tentativi messi in atto dalle forze sataniche per sottrarre a Dio le anime redente dal sangue prezioso di Gesù, ma sono destinate al fallimento, anche se insanguineranno ogni contrada di questo mondo sino alla consumazione del tempo. I discepoli di Gesù non devono scoraggiarsi: per essi non ci sarà mai pace finché durerà questo tempo, ma alla fine trionferanno insieme al loro Signore crocifisso e risorto e di ciò dovranno serbare perenne memoria.
X. Léon-Dufour, uno dei più noti ed autorevoli esegeti del XX secolo, propone la seguente riflessione sul discorso d’addio di Gesù: “L’ambiente vitale, che ha prodotto questo Discorso di addio, è una situazione in cui la fedeltà dei credenti è messa in pericolo. Questo vale non soltanto per il secondo quadro, sull’odio del mondo, ma anche per il primo in cui domina, in una splendida immagine, l’appello a rimanere nella fede e nell’amore: la sorte dei tralci dipende dal loro attaccamento, permanente o no, alla vite. Il malinteso tra l’ortodossia giudaica e la comunità giovannea, anch’essa nata dalla Sinagoga e sua parte, riguardava la fede in Gesù «Figlio di Dio». Agli occhi delle autorità religiose giudaiche, tale fede sembrava compromettere l’adorazione dell’Unico. La prima parte del Vangelo di Giovanni ha sviluppato questo malinteso nel conflitto tra Gesù e i responsabili del popolo. Da parte di questi ultimi viene espressa l’accusa che Gesù «si fa Dio» (10,33), accusa estremamente grave. Nel racconto del processo davanti a Pilato, essa viene nuovamente riportata come giustificante la sua messa a morte: «Egli si è fatto Figlio di Dio» (19,7). Il nostro testo, rivolto alla comunità credente tentata di infedeltà, è indirettamente una nuova risposta dell’evangelista contro un’interpretazione del Figlio che, ingannandosi a proposito della sua unità con il Padre, vedrebbe in lui un attentato alla fede monoteista. Giovanni presenta il Figlio come la vite, di cui il Padre è il vignaiolo e come colui che ha ricevuto dal Padre l’amore che ha verso gli uomini e che fa conoscere loro. Il Padre è, anche in questo caso, non solo l’origine ma anche il termine: la comunicazione del suo amore è la sua vera glorificazione. Nel secondo quadro, l’ostilità nei confronti del Figlio si rivela dovuta a un rifiuto nei confronti del Padre. Secondo il IV Vangelo, è il mistero di Dio come amore pienamente manifestato che l’incredulità verso il messaggio di Gesù rifiuta. L’opposizione, che nel Prologo era tra la luce e la tenebra, diventa qui quella tra l’amore venuto da Dio e l’odio proveniente dagli uomini. La designazione simbolica del Figlio come «vera vite» mette virtualmente l’accento su ciò che, nella continuazione del testo, costituisce una rivelazione, non più su Gesù stesso, ma sui discepoli. Essi non sono più di fronte a lui come dei servi, ma sono in lui, sono un tutto con lui davanti a Dio, come i tralci sono un tutto con la vite davanti al vignaiolo. Essi comunicano alla sua conoscenza del Padre e glorificano il Padre grazie al frutto che portano, innestati su Gesù. La loro preghiera è esaudita. Come il Figlio, essi sono amati da Dio e si amano a vicenda con il suo amore. Osservando il suo comandamento, riproducono l’obbedienza del Figlio. Quando sono perseguitati a causa della loro fede, è il Figlio a essere odiato in essi. Divenuti suoi testimoni, continuano la sua testimonianza. Questi differenti aspetti dell’esistenza cristiana convergono nell’identificazione del discepolo con Cristo. […] Ognuno è invitato a prendere coscienza del suo essere profondo: non è altro che un’espressione del Figlio. Ma l’identificazione dei credenti con lui, che di per sé è un dono, si mantiene solo attraverso la loro fedeltà, dipende dall’impegno pressante della loro libertà. Rimanere nella fede è tutt’altra cosa rispetto alla prima accoglienza della Parola e rimanere nell’amore suppone la verifica dell’azione, quali che siano le difficoltà interne ed esterne. Per questo si tratta di attualizzare sempre di nuovo il ricordo della Parola. […] Questo ricordo della Parola non significa un ripiegamento sul passato, ma è presenza attuale del Figlio ritornato presso il Padre e orienta verso il frutto che bisogna portare, verso la testimonianza rivolta al mondo. Sono ricordati tre tempi. Il primo, implicito, è il passato secolare, quando la vigna di Dio raggiungeva la piena maturazione. Il secondo, centrale, è il presente della comunità unita al Figlio, la vera vita portatrice di tralci fecondi. Il terzo tempo è il futuro, indefinito, in cui il frutto sarà sempre più abbondante, ance se l’opposizione col mondo rinascerà continuamente. […] La causa del conflitto, che ha avuto luogo e continua a durare, è detta con chiarezza: il misconoscimento del Padre”.6
Spesso l’uomo si fa di Dio un’immagine alquanto distorta, quasi fosse un padrone assoluto e tirannico alla stessa stregua dei tanti dittatori, capricciosi e sanguinari, che hanno calcato le scene di questo mondo. La sovranità di Dio sul creato è indiscutibile, ma il vero potere di Dio è l’amore illimitato che Egli nutre per l’uomo e l’intero creato. Il Nuovo Testamento è l’ulteriore e definitiva conferma di quanto già intuito dai grandi profeti e patriarchi dell’Antico Testamento. Dio non lascia mai soli gli esseri umani, ma vuole condurli a sé (Es 19,15) per salvarli, intrattenendo con loro una relazione unica, quasi sponsale. Lasciandosi amare dal Padre, il credente respira a pieni polmoni l’amore che unisce le tre Persone della Trinità, rendendole un unico ed inscindibile Dio. L’evangelista Giovanni si è sforzato di rendere comprensibile questo messaggio a tutti, credenti e semplici uomini in ricerca del senso profondo della propria esistenza. “Dio è amore”, afferma Giovanni (1Gv 4,8) e chi vuole lasciarsi assorbire dall’amore di Dio deve mettersi in perfetta sintonia con Lui, come un innamorato. Questo è il senso più vero e genuino dell’espressione “obbedire ai comandamenti di Dio”. Il volere dell’amato diventa la legge dell’amante, che la porta scritta nel suo cuore a caratteri cubitali (Sal 119). Osservare i comandamenti di Gesù equivale ad amare Gesù con tutte le proprie forze (Dt 6,4-8), trasferendo questa forza prorompente a tutti gli uomini e rendendola concretamente presente in un mondo perennemente afflitto dal male perverso dell’egoismo, della prevaricazione, della violenza, dell’orgoglio e della brutalità. Gesù, che ha tanto amato il mondo fino a versare il proprio sangue sulla croce, è il prototipo insuperabile di un amore senza confini e senza limiti, che ogni cristiano ha il dovere e l’obbligo morale di imitare, costi qualche costi. La persecuzione, che continuamente ricorre a scapito dei credenti per mano di chi si schiera dalla parte del male, è il segnale di una furibonda lotta tra Dio, autore della vita e satana, il principe della morte. Chi fermamente crede in Cristo e nel suo amore redentore, brilla come un faro di luce accecante e fastidioso per quanti agiscono iniquamente al riparo delle tenebre del male. Tutti i tentativi, messi in atto per spegnere la luce di Cristo nel mondo, hanno prodotto schiere di martiri in ogni angolo della terra, ma non hanno potuto soffocare la novità sconvolgente del Vangelo. Il fanatismo religioso è solo una delle forze malvagie in grado di scatenare le persecuzioni; gli interessi economici e politici sono altrettanto validi motivi per eliminare le voci scomode, che si levano in difesa dei più poveri e derelitti del nostro pianeta e molte di queste voci parlano le “parole di Cristo”. Per onestà intellettuale, bisogna riconoscere ed ammettere che anche la Chiesa ha fatto la voce grossa, quando ha acquisito grande visibilità politica a partire dall’editto di Costantino (313 d.C.) e per secoli ha infierito contro coloro che non condividevano la fede in Gesù o non riconoscevano l’autorità della gerarchia ecclesiastica. Anche la Chiesa ha imposto con la forza la conversione mediante misure punitive (dall’editto di Teodosio il Grande, nel 380 d.C.) e per secoli ha messo al bando il popolo ebraico, accusandolo di deicidio. Alcuni anni orsono, in occasione del Giubileo del 2000, il papa Giovanni Paolo II ha implorato il perdono di tutte quelle realtà culturali e religiose che in qualche modo hanno subito torti e vessazioni da parte dei cristiani nel corso dei secoli, ma il suo gesto è stato da alcuni apprezzato e da altri frainteso o criticato. Pochi, in verità, hanno capito che il papa voleva riavvicinare a Cristo coloro che, per colpa dei cristiani, si erano allontanati da Cristo. La presunzione e l’arroganza spesso si mascherano sotto le mentite spoglie della pietà e di una fede adamantina. Oggi il mondo cristiano paga lo scotto di una condotta irresponsabile e deprecabile da parte dei cosiddetti cristiani, che per difendere i diritti di Cristo hanno calpestato quelli degli uomini e salvaguardato i propri interessi. Il testo del vangelo di Giovanni può, quindi, essere letto “a rovescio”, come un monito rivolto alle istituzioni ecclesiastiche ed alle comunità cristiane a non coltivare alcuna forma di odio nei confronti dei non-cristiani. Col pretesto di essere sostenitori della verità assoluta, che risiede in Dio e nel suo Cristo, è possibile lasciarsi travolgere, com’è successo in epoche non lontane dal nostro tempo, da istinti di dominio e di sopraffazione o dal desiderio di arroccarsi sulle proprie posizioni dimenticando il dovere della solidarietà e dell’accoglienza dell’altro. Non c’è nulla di più vergognoso di un cristiano che dissimula i propri interessi economici e socio-politici impugnando le armi della fede: le conquiste coloniali sono solo un esempio di ciò che possono fare gli uomini in nome di Dio, spacciando i propri crimini più esecrabili come mezzi necessari per diffondere il Vangelo di Gesù. Oggi condanniamo l’integralismo islamico ed i delitti compiuti nel nome di Allah, dimenticando che le nostre società cristiane hanno fatto altrettanto nel corso dei secoli: ucciso, violentato, derubato, distrutto, calpestato ed oppresso i propri fratelli, rei di non stare dalla parte giusta al momento giusto. Che orribile vergogna!
Faranno ciò, perché non hanno conosciuto né il Padre né me. Questa semplice ed ovvia affermazione di Gesù suona come una sentenza di condanna rivolta non sono a coloro che rifiutano consapevolmente e liberamente la “novità” della salvezza sino a perpetrare l’eliminazione fisica o l’emarginazione sociale, culturale e religiosa dei cristiani, come si evince dal contesto del brano evangelico, ma può essere indirizzata anche contro quei “cristiani battezzati” che hanno rinnegato il proprio battesimo per colpevole ignoranza o per volontaria ribellione al Vangelo di Cristo, diventando suoi nemici e persecutori.
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Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?». Quegli rispose: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?». At 8,30
 
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