È soltanto un Pokémon con le armi o è un qualcosa di più? Vieni a parlarne su Award & Oscar!
Nuova Discussione
Rispondi
 
Pagina precedente | 1 2 | Pagina successiva

COMMENTO AL VANGELO DI GIOVANNI

Ultimo Aggiornamento: 04/06/2019 15:05
Autore
Stampa | Notifica email    
07/01/2012 23:00
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

14,1 “Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. 2 Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se no, ve l’avrei detto. Io vado a prepararvi un posto; 3 quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io. 4 E del luogo dove io vado, voi conoscete la via”.
Evidentemente, l’annuncio del tradimento di Giuda, del rinnegamento di Pietro e della partenza imminente di Gesù ha turbato, e non poco, gli apostoli. Gesù cerca di rincuorarli e, per prima cosa, li invita a credere in Dio ed in Lui, sapendo che la loro fede è messa in pericolo dallo scandalo della croce. Il turbamento dei discepoli, sembra di capire, non è causato solo dall’imprevista separazione da colui che si è rivelato necessario alla loro esistenza, ma anche dalla profonda delusione circa il valore ed il risultato fallimentare dell’impresa di Gesù, del cui successo erano tutti convinti, tanto da discutere tra di loro per la spartizione dei posti nell’ambito del glorioso regno messianico, di cui Gesù sarebbe stato il Capo indiscusso in un futuro ormai prossimo (cf. Mt 20,20-23). Per questo motivo Gesù si preoccupa del turbamento del loro cuore, che secondo la mentalità semitica è sede dei sentimenti, ma anche della volontà e della forza decisionale. Un cuore turbato può spingere un uomo oltre l’orlo del precipizio del nulla esistenziale. Da qui giunge ai discepoli un chiaro invito a credere secondo l’accezione biblica di questo verbo, che significa “costruire fermamente su.., appoggiarsi con forza su qualcosa o su qualcuno” (cf. Sal 18 [17] 2-4), il che equivale ad un fidarsi ad occhi chiusi di Colui che tutto può e che non è condizionato da nulla e da nessuno1. In altre parole, Gesù fa appello alla fede di ogni pio ebreo, che non considera mai se stesso come realtà personale autonoma ed indipendente da Dio, il quale è l’unico in grado di dare alle sue creature la stabilità psicologica e morale paragonabile alla forza, alla saldezza ed al “peso” di una roccia. Colpisce, nell’invito di Gesù, l’identificazione di se stesso con Dio: chi vuole avere fiducia in Dio, deve aver fiducia, necessariamente, anche in Gesù. Pur non potendo seguirlo nell’esperienza mortale della croce e nell’oltretomba, i discepoli devono fidarsi della sua “invisibile” presenza, che Egli garantisce al fianco di ogni suo discepolo sino alla consumazione del tempo (cf. anche Mt 28,20) . Appoggiarsi su Gesù equivale a sostenersi su Dio stesso, perché Gesù e Dio sono “una cosa sola” (17,22).
Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Su questa frase si sono sbizzarriti molti esegeti del passato, come i Padri della Chiesa (Ireneo, Origene, Clemente di Alessandria d’Egitto, Agostino), ma anche quelli a noi contemporanei. L’idea di una patria celeste, nella quale trovano dimora le anime dei giusti, non era del tutto nuova all’epoca in cui fu composto il Vangelo giovanneo, sia nell’ambito della letteratura religiosa ebraica e sia in testi non giudaici, specie di matrice gnostica. Seguendo l’interpretazione datane da s. Ireneo di Lione (cf. Adversus Haereses 5,36,2) i Padri della Chiesa hanno spesso ravvisato in questi “molti posti” o “dimore” (gr. monài) dei differenti gradi di beatitudine, corrispondenti ai rispettivi meriti delle anime degli eletti, concordando con l’opinione espressa dai rabbini ebrei (cf. Midrash sui Salmi 11,6), secondo i quali vi sono in paradiso sette classi di eletti. A tali dimore si accede al momento del decesso individuale (secondo l’opinione di Origene e di Clemente di Alessandria), oppure in occasione della resurrezione universale dei morti (come asserisce s. Agostino; cf. In Joannem, 68,2), ma tali opinioni non sono giustificate dal pensiero teologico dell’autore del IV vangelo, secondo cui l’aggettivo “molti” esprime l’abbondanza della salvezza divina, non un differente grado di salvezza. La “cosificazione” delle realtà spirituali appartiene più alla mentalità materialista degli uomini, che hanno bisogno di misurare tutto per costruirsi delle certezze e di crearsi dei punti di riferimento precisi per il timore di perdersi in un terreno sconosciuto ed incommensurabile, come quello rappresentato dal mondo extrasensibile, soprannaturale, ma Dio non ha bisogno di ricorrere alle metodologie umane per donare a tutti il suo amore salvifico. Basti ricordare la parabola degli operai mandati nella vigna (Mt 20,1-16), raccontata da Gesù per far comprendere ai suoi ascoltatori che i metodi usati da Dio sono assai differenti, se non addirittura contrari, rispetto al modo di agire degli uomini. I salvati della prima e dell’ultima ora ricevono la salvezza allo stesso modo e senza distinzioni, a dimostrazione che per Dio non esistono figli e figliastri e che tutti gli uomini sono invitati alla medesima mensa, senza che alcuno presuma di accomodarsi ai primi posti (cf. Lc 14,7-11), sentendosi migliore degli altri.
Se no, ve l’avrei detto. Io vado a prepararvi un posto. Con questa punteggiatura, la frase ha un senso ambiguo e la traduzione del testo greco risulta insoddisfacente. Alcuni autori propongono una traduzione in forma interrogativa: se no, vi avrei forse detto che vado a prepararvi un posto? Con una differente punteggiatura, la frase acquista un senso più comprensibile ed aderente al testo. Gesù si allontana da questo mondo, non per perdersi nelle oscurità dello sheòl, l’oltretomba ebraico, ma per preparare un posto, accanto al Padre celeste, per quanti sono disposti a credere in Lui, l’Inviato di Dio. Per questo motivo Gesù ha premesso che nella “casa del Padre… vi sono molti posti”, pronti per essere occupati da chi ne sarà degno, non tanto per meriti personali ma per la fede espressa, vissuta e testimoniata nell’unigenito Figlio di Dio. Come conseguenza di questa premessa, si comprende meglio l’invito, rivolto da Gesù ai suoi discepoli, di non turbarsi per la sua imminente dipartita da questo mondo, che essi non devono interpretare come un “addio”, ma come un vero e proprio “arrivederci” in un mondo “altro”, assai differente da “questo mondo”, che è dominato dalle tenebre del male e del rifiuto di Dio e del suo Cristo. È questo il senso logico della frase successiva: “quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io”, ossia “alla destra del Padre” (cf. Mt 26,64; At 2,33; Sal 110,1; Dn 7,13), pienamente immersi nell’eterna beatitudine di Dio. La tradizione comune, risalente agli albori del cristianesimo, fissa questo ritorno di Gesù alla fine dei tempi (cf. 1Ts 4,16s; 1Cor 4,5; 11,26; 16,22; Ap 22,17.20; 1Gv 2,28), ma l’evangelista non sembra essere di questo parere; le affermazioni, fatte da Gesù poco dopo (14,18-19), sembrano avvalorare la personale convinzione di Giovanni che il “ritorno” del Signore debba coincidere con la sua “presenza” nell’oggi della comunità post-pasquale. Nella Chiesa delle origini era assai viva l’attesa del ritorno (parusìa) imminente del Signore, evento di cui s. Paolo sembrava essere personalmente convinto, tanto da esprimersi in tal senso scrivendone alla comunità cristiana di Tessalonica circa 20 anni dopo la morte e resurrezione di Gesù, nell’inverno tra il 50 ed il 51 dell’era cristiana (1Ts 4,16-17), ma l’apostolo Giovanni aveva preparato la sua comunità a non quantificare il tempo del ritorno del Signore, bensì a considerarlo presente tra i suoi in senso spirituale, ma non per questo in modo meno reale, proprio in virtù della sua gloriosa resurrezione. Il ritorno di Cristo ha, quindi, un valore meta-temporale ed è subordinato ad un ufficio da lui compiuto, senza che l’uomo possa vantarne alcun diritto, ma di cui gode un grande beneficio: Egli è andato a “preparare un posto” per i suoi fedeli discepoli. Occorre precisare, per inciso, che nella versione greca della Bibbia il vocabolo “posto” (tòpos) indica spesso il Tempio di Gerusalemme (cf. 1Re 8,10; 2Mac 2,8.18; 3,2; Gv 11,48; At 6,13), dal che si potrebbe arguire che l’evangelista abbia voluto lasciare intendere che Gesù Cristo sia il vero ed unico Santuario in cui è possibile incontrarsi con Dio. Una volta preparato il posto per i suoi, Gesù “ritornerà” e li “condurrà” presso di Sé, dunque presso Dio. Ne consegue che l’accesso dei discepoli al Padre è possibile solo per merito ed opera del Figlio ed a nessun essere umano è possibile salvarsi da solo o facendo, comunque, a meno di Cristo, il quale già si trova presso il Padre in forza dell’unione intima ed indissolubile con Colui che l’ha mandato (“perché siate anche voi dove sono io”).
E del luogo dove io vado, voi conoscete la via. È curioso notare l’accostamento tra il verbo di stato del v. 3 (“dove sono io”) ed il verbo d’azione del v. 4 (“dove io vado”), entrambi espressi al presente. Il primo verbo esprime una realtà sovratemporale, nella quale Gesù è già inserito in forza della sua natura divina, mentre il secondo esprime l’attualità storica di un evento che è ancora in corso di sviluppo, ma intimamente collegato alla situazione di pre-esistenza divina, manifestata dall’espressione “dove sono io”. In Gesù Cristo il tempo materiale s’incontra e si dissolve nel “tempo senza tempo” dell’eternità, tanto da far esclamare all’autore ispirato che “Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre” (Eb 13,8).
Dove io vado. Ai vv. 2 e 3 il verbo “andare” viene espresso in greco con un termine dal significato generico (poréuomai), mentre nel v. 4 l’evangelista usa un verbo analogo, ma con un significato più specifico (hypàgo), che esprime meglio sia la méta cui tende Gesù (alla destra del Padre), sia l’invito rivolto ai discepoli a seguirlo (facendosi suoi imitatori, credendo in Lui) ed a percorrere una via a loro ben nota, per recarsi dove Egli stesso sta andando. Se i discepoli sapessero ricordare le parole di Gesù e riflettere sul loro significato, non avrebbero bisogno di chiedere ulteriori spiegazioni. Infatti, nella parabola del “Buon Pastore” Gesù ha già chiarito che chi vuole accedere al Padre deve entrare attraverso la “porta dell’ovile”, che è Lui stesso (cf. 10,9) e che non c’è altra via di salvezza. Voi conoscete la via. L’immagine della via è universale ed esprime l’orientamento di un’esistenza oppure una scelta decisiva da compiere. La Bibbia suggerisce l’esistenza di due vie (Ger 21,8; Dt 30,15.19; Mt 7,14), di cui una conduce alla morte esistenziale, mentre l’altra conduce alla vita. Consapevole della distanza abissale che separa la creatura dal suo Creatore, il popolo eletto aveva osato credere che Dio gli avesse manifestato le sue vie per illuminarne le scelte di vita individuale e collettiva, al fine di ereditare la Promessa di un personalissimo ed esclusivo vincolo di alleanza. Era ferma convinzione degli ebrei che la Legge, donata da Dio a Mosè sul monte Sinai, indicasse in modo eccellente la via per conseguire una vita di intima relazione, quasi sponsale, col suo Dio. Il Salmo 119 [118], che esprime un significativo “elogio della Legge divina” e che si presenta come il capitolo più lungo dell’intero testo sacro, celebra in modo entusiastico la “via che conduce a Dio” grazie alla fedele e rispettosa osservanza dei comandamenti, di cui si sprecano i sinonimi: precetti, decreti, comandi, parole, leggi, voleri, giudizi, insegnamenti, vie, diritto e giustizia, parole di giustizia, alleanza, promesse, testimonianze. Chi recita con attenzione e sentimento il Salmo 119 si accorge del ritmo incalzante, quasi ossessivo, con cui l’autore ispirato ha inteso far penetrare nel cuore degli ebrei l’amore per la Legge divina e l’ansioso desiderio di rispettarla anche a costo della propria vita. In Gesù Cristo, la Legge di Dio si è resa visibile agli uomini, avendo assunto “forma umana” (1,14) ed ha pienamente illuminato le loro coscienze, per sottrarli al dominio delle tenebre dell’ignoranza e del male e per condurli alla luce della vita (8,12).

5 Gli disse Tommaso: “Signore, non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?”. 6 Gli disse Gesù: “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. 7 Se conoscete me, conoscerete anche il Padre; fin da ora lo conoscete e lo avete veduto”. 8 Gli disse Filippo: “Signore, mostraci il Padre e ci basta”. 9 Gli rispose Gesù: “Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire: Mostraci il Padre? 10 Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico non le dico da me; ma il Padre che è in me compie le sue opere. 11 Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me; se non altro, credetelo per le opere stesse.
A nome di tutti, l’apostolo Tommaso, un uomo molto concreto e poco incline alle riflessioni di carattere speculativo (cf. anche 20,24-25), fa un’osservazione, a prima vista, del tutto ragionevole e coinvolge anche Filippo nella sua perplessità. Com’è possibile conoscere la via indicata da Gesù se non si sa neppure dove Egli stia andando? L’ignoranza di Tommaso, come pure quella degli altri discepoli, che tacciono ma, evidentemente, acconsentono, potrebbe essere semplicemente un artificio letterario, che l’evangelista ha utilizzato per sviluppare ulteriormente la rivelazione di Gesù, ma non sarebbe fuor di luogo supporre che i discepoli siano talmente duri di comprendonio, da non capire che Gesù sta, poco velatamente, parlando della propria morte imminente come evento inevitabile per poter accedere alla salvezza ed alla “conoscenza del Padre”. La risposta di Gesù è immediata ed assume il carattere solenne di una vera e propria auto-rivelazione divina: “Io Sono la via, la verità e la vita”.
Questa frase di auto-rivelazione è una delle più affascinanti tra quelle incontrate in tutti i Vangeli. Gesù è l’unica via che conduce al Padre perchè è il rivelatore del Padre (12,45; 14,9), ci fa conoscere la via per giungere al Padre (At 9,2), è Lui stesso l’unico accesso al Padre (1,18; 14,4-7), viene dal Padre e va al Padre (7,29.33; 13,3; 16,28) e, tuttavia, è tutt’uno con Lui (10,30; 12,45; 14,9; 17,22). L’accostamento della via alla verità (cf. 8,32) ed alla vita (cf. 3,15) offre lo spunto per tre differenti interpretazioni della formula di auto-rivelazione:
1.“Io sono la via che conduce alla verità ed alla vita”; la verità rappresenterebbe lo scopo da raggiungere in quanto correlata alla stessa essenza divina, che l’uomo può ottenere per condivisione in virtù di un’adozione da parte di Dio (cf. Gal 4,5), il quale ha donato suo Figlio come riscatto (ga’al) per liberare l’uomo dalla schiavitù del Maligno (cf. Rm3,24; 1Gv 2,2;4,10). Detta con parole più semplici, Gesù è la via che conduce l’uomo a Dio, il quale è , in assoluto, “la Verità e la Vita”.
2.“Io sono la via che attraverso la verità conduce alla vita”; tale interpretazione conserva, come la precedente, una progressione verso una méta, rappresentata dalla vita. La verità, identificata con la divina rivelazione rivolta agli uomini, è il mezzo per raggiungere la vita, di cui Dio è la fonte e la pienezza assoluta (cf. 5,26).
3.“Io sono la via perché sono la verità ed anche la vita”; secondo questa interpretazione, i predicati “verità” e “vita” hanno un valore esplicativo, in quanto spiegano perché Gesù è la via verso il Padre. In altre parole, “Gesù è la via perché rivela la verità che dona la vita”, ma questa interpretazione ha il difetto di ridurre il valore assoluto dei termini “verità” e “ vita”, che Gesù applica a Se stesso con la formula “IO SONO”.
Si può concludere, seguendo la logica del pensiero teologico dell’evangelista Giovanni, che la vita coincide con la conoscenza dell’unica verità assoluta, che è Dio, il quale ha mandato nel mondo il suo inviato, Gesù Cristo (17,3), per illuminare gli uomini con la sua Parola (17,7) incarnata (1,14.17); Gesù Cristo è la Parola veritiera e verace del Dio vivente (1,1) ed è l’unica via per raggiungere Dio, pienezza di Vita e di Verità. Poiché Dio Padre ed il Figlio suo, Gesù Cristo, sono “una cosa sola” (17,21), la conseguenza appare ovvia: “Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”. Gesù è, in definitiva, l’unico “cammino” verso il Padre, l’unica “porta” attraverso cui è necessario passare per entrare nel Regno di Dio (10,9), l’unico “luogo” (o Tempio) in cui possibile incontrare Dio stesso (2,21) per vivere con Lui la definitiva Alleanza.
Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Ci si aspetterebbe una locuzione differente: “nessuno va al Padre se non…”, ma Gesù dichiara proprio che “nessuno viene al Padre”, quasi a voler indicare che Egli già si trova proprio dove il discepolo vuole arrivare, vale a dire “presso Dio” perché Gesù è Dio (1,1). Per l’evangelista, Gesù non poteva essere più esplicito di così nell’affermare la propria natura divina, ma quegli uomini “sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti” (Lc 24,25), dovranno sentirsi ripetere da Gesù altre volte ancora che Egli è veramente Dio (cf. 14,7.11.23; 16,15.27-28; 17,5.11.20.22.24) e che in Lui si “vede il Padre” (14,9). La fuga dei discepoli, al momento della cattura del loro Maestro, dimostrerà quanto sia stato per loro difficile credere, fino in fondo, alle sue parole.
Se conoscete me, conoscerete anche il Padre; fin da ora lo conoscete e lo avete veduto. In Gesù Cristo, il Dio invisibile ed inconoscibile della tradizione religiosa ebraica (cf. Is 45,15) si è fatto, nella sua volontà di salvare gli uomini, così visibile e conoscibile, che essi possono raggiungere la meta della loro conoscenza solo se accolgono con fede la verità svelata loro in Gesù Cristo, partecipando in pienezza alla sua vita. L’essenza della teologia giovannea è racchiusa in questa fondamentale nozione di identità, non di Persona ma di sostanza, tra Gesù e YHWH, il Dio assolutamente trascendente del popolo ebraico. Questo versetto, a giudizio degli esegeti più autorevoli, riformula in senso positivo l’affermazione del versetto precedente, che pone l’accento sul Mediatore: nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Il v. 7, invece, sposta l’attenzione sul Padre, di cui però il Mediatore, Gesù di Nazareth, è il vero Volto umano, che tutti possono vedere, toccare, venerare, accarezzare e, purtroppo, anche colpire ed oltraggiare. La diretta conoscenza di Dio, “Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili ed invisibili”, come recita il Simbolo niceno-costantinopolitano (381 d.C.), è già possibile “ora”, nell’attualità del tempo storico, se si accetta di credere che Gesù è l’auto-rivelazione di Dio agli uomini. L’uomo biblico, “assetato del Dio vivente” ed ansioso di “vedere il suo Volto” santo e misericordioso (Sal 42 [41], 3), è stato accontentato; chi accoglie Gesù nella fede, fa esperienza vitale, intima e profonda di Dio, superando il limite, altrimenti invalicabile, di una conoscenza puramente intellettuale, speculativa, tipica dei filosofi e di quanti non sanno o non si decidono a compiere il passo decisivo della fede. Le parole di Gesù, infatti, urtano la suscettibilità di chi non crede in un Assoluto trascendente, che non è sperimentabile con metodi scientifici, ma urta anche la sensibilità di chi crede fermamente nell’assoluta trascendenza, invisibilità, santità e non-sperimentabilità di Dio; tuttavia, Gesù non lascia alternative ed afferma esplicitamente che l’unico mezzo per “vedere” Dio, facendone direttamente conoscenza, è “vedere” Gesù, vale a dire “credere in Lui”.
Signore, mostraci il Padre e ci basta. Filippo e Tommaso sono due ossi duri anche per la pazienza di Gesù che, ad ogni buon conto, non si scompone neppure questa volta di fronte all’ennesima manifestazione di razionale ottusità dei suoi discepoli, ma cerca di spiegarsi ancora meglio, se mai fosse possibile usare un linguaggio più accessibile per quelle menti poco disposte ad aprirsi al mistero del Figlio di Dio. Filippo si “accontenterebbe” di vedere il Padre, per ritenersi soddisfatto; Gesù sta andando troppo per le lunghe, a suo parere ed il fedele discepolo, che non ha mai mancato di manifestare il suo entusiasmo per il Maestro (cf. 1,43-47; 12,21), esprime il disagio di tutti. Mostraci il Padre e ci basta. Per bocca di Filippo, tutti i discepoli chiedono una diretta rivelazione di YHWH allo stesso modo in cui l’aveva sollecitata Mosè sul monte Sinai (Es 33,18), dimostrando ancora una volta di non aver compreso che Gesù non è un mediatore qualunque, deputato a parlare per conto di qualcun altro, ma che è il Cristo in persona, in cui umanità e divinità sono perfettamente unite per rendere possibile la riconciliazione degli uomini con Dio.
Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. Filippo si merita il rimprovero di Gesù, che costata come i discepoli, da Lui scelti per essere testimoni delle sue opere (miracoli) e delle sue parole, non siano stati capaci di comprendere che nel loro rabbì aveva parlato ed agito Dio stesso, resosi “visibile” ai loro occhi proprio nella persona del suo Cristo. Chi ha visto me ha visto il Padre. Questa dichiarazione di assoluta identità col Dio unico, invisibile ed innominabile d’Israele rende ancora più sconcertante e “scandalosa” la figura di Gesù agli occhi di coloro che non sanno staccarsi dalla concretezza della loro razionalità e non si fidano delle parole di un uomo vissuto in Palestina all’epoca di Tiberio Cesare, imperatore di Roma. Le parole di Gesù suonano come ammonimento a quanti cercano, in ogni tempo, esperienze visionarie di Dio, un’unione diretta con Dio trascurando l’elemento più importante della relazione d’amore con Lui: la fede nel Figlio suo, il Mediatore assoluto del rapporto di conoscenza esistenziale tra gli uomini e Dio Padre.
Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Per il credente è cosa certa che Gesù è nel Padre e che il Padre è in Gesù. Questa formula di reciproca immanenza è un modo per esprimere la perfetta unità di Gesù col Padre, naturalmente solo invisibile in quanto risulta impossibile qualsiasi analogia. Solo chi crede in Gesù può conoscere la profondità nascosta del suo essere, vale a dire la totale unione col Padre, a motivo della quale Egli è interamente “nel Padre”. In modo altrettanto reciproco, “il Padre è nel Figlio” ed attraverso Lui si rivela ed esprime, facendosi “conoscere” per quello che è: Dio Padre. Le parole di Gesù sono, in definitiva, le parole del Padre (cf. 8,26; 12,46). Solo la fede consente di discernere la presenza immanente del Figlio nel Padre e quella del Padre nel Figlio, ma Filippo cade nell’umanissimo errore di sollecitare una strepitosa manifestazione del Padre. Ai discepoli, evidentemente, non bastano i miracoli straordinari compiuti da Gesù e non riescono ad accettare l’idea che sia Dio stesso a realizzare prodigi per mano di suo Figlio e non si rendono nemmeno conto che le parole, pronunciate dal loro Maestro in pubblico od in privato, sono le stesse parole che Dio proferisce tramite Lui. Le parole che io vi dico, non le dico da me… il Padre che è in me compie le sue opere. In Gesù, la “parola” di Dio è annuncio di una salvezza diventata realtà attuale e storicamente presente (le “opere”), mentre i prodigi (altrimenti chiamati anche “segni, miracoli, opere”), che Egli compie per mezzo del Figlio, costituiscono una sorta di certificato di garanzia che la sua Parola è realmente “verità e vita” (14,6).
Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me; se non altro, credetelo per le opere stesse. Gesù scongiura i suoi discepoli a credere in Lui ed alle parole che egli pronuncia, se non altro per i miracoli da Lui compiuti ad esclusivo e gratuito beneficio degli uomini (cf. anche 10,37-38). L’uomo è generalmente incline a fidarsi solo dei suoi sensi, coi quali può sperimentare la realtà concreta del mondo che lo circonda e trova una comprensibile difficoltà a fidarsi pienamente di un mondo soprannaturale, extrasensibile, che sfugge al suo naturale controllo sensoriale. Pur avendo la capacità di trascendere se stesso e la realtà materiale, l’uomo ha delle riserve mentali e psicologiche nel dare forma e sostanza alle sue intuizioni ed aspirazioni. Egli desidera la felicità, aspira ad una vita senza fine, sogna di essere onnisciente ed onnipotente ma, intimamente consapevole dei propri limiti fisici, creaturali, teme l’ignoto: “se non vedo…, non credo” (cf. 20,25). Gesù conosce intimamente i suoi discepoli, sa che sono pronti a seguirlo ma anche a tradirlo, a rinnegarlo o ad abbandonarlo al suo destino; tuttavia, Egli li sollecita ripetutamente ed amorevolmente a fidarsi di Lui senza riserve: se non altro, credetelo per le opere stesse. La fede è una scelta così poco scontata, che Gesù definirà “beati” coloro che decideranno di credere in Lui anche senza aver visto i prodigi da Lui compiuti durante la sua vita terrena (20,29).
Amministra Discussione: | Chiudi | Sposta | Cancella | Modifica | Notifica email Pagina precedente | 1 2 | Pagina successiva
Nuova Discussione
Rispondi
Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?». Quegli rispose: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?». At 8,30
 
*****************************************
Feed | Forum | Album | Utenti | Cerca | Login | Registrati | Amministra | Regolamento | Privacy
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 03:49. Versione: Stampabile | Mobile - © 2000-2024 www.freeforumzone.com