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COMMENTO AL VANGELO DI GIOVANNI

Ultimo Aggiornamento: 04/06/2019 15:05
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07/01/2012 22:59
 
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26 Rispose allora Gesù: “E’ colui per il quale intingerò un boccone e glielo darò”. E intinto un boccone, lo prese e lo diede a Giuda Iscariota, figlio di Simone. 27 E allora, dopo quel boccone, satana entrò in lui. Gesù quindi gli disse: “Quello che devi fare fallo al più presto”. 28 Nessuno dei commensali capì perché gli aveva detto questo; 29 alcuni infatti pensavano che, tenendo Giuda la cassa, Gesù gli avesse detto: “Compra quello che ci occorre per la festa”, oppure che dovesse dare qualche cosa ai poveri. 30 Preso il boccone, egli subito uscì. Ed era notte.
Gesù compie un gesto simbolico di grande impatto emotivo e dal profondo significato cristologico. Egli non intinge nell’intingolo un boccone di erbe amare, che nella cena pasquale ebraica erano mescolate a marmellata di frutta, ma un pezzo di pane (cf. la citazione scritturistica di Gv 13,18), normalmente usato dagli ebrei come posata e lo offre a Giuda Iscariota, pure lui fisicamente vicino a Gesù a mensa ma assai lontano dal Maestro col cuore e con la mente, col duplice scopo di smascherarlo agli occhi del discepolo prediletto ed indirettamente a quelli di Pietro e, al tempo stesso, per allontanarlo da Sé. Da tempo, ormai, Gesù conosce il traditore che sta per consegnarlo nelle mani dei carnefici e, adesso che è giunta la sua ora, per la quale è venuto al mondo (cf. 2,4; 10,18), vuole accelerare i tempi dell’incontro con la croce. Giuda ha compiuto la sua “missione”, Gesù deve concludere la propria; per libera scelta, l’apostolo traditore si è escluso dall’esperienza della resurrezione del suo Maestro e Signore tradito e si è consegnato definitivamente nelle mani di satana, il principe delle tenebre. Pietro e l’apostolo prediletto da Gesù non intervengono, né potrebbero fermare Giuda o convincerlo a recedere dal suo proposito, perché l’ora di Gesù incombe e non ammette deroghe o ripensamenti. Ciò che è scritto, è scritto (19,22) sin dalla notte profonda dei tempi e Gesù non può e non vuole sottrarsi al suo destino umano, perché così è stato stabilito dal Padre per la salvezza degli uomini. Dopo avergli offerto il boccone di cibo, Gesù aspetta che Giuda prenda la sua decisione, definitiva ed irrevocabile. Già tentato in precedenza da satana (13,2), Giuda compie la sua scelta e, tra il Maestro ed il diavolo, sceglie quest’ultimo (cf. Lc 22,3). È facile immaginare la profonda tristezza di Gesù, che pure si aspettava tale sviluppo degli eventi ed è altrettanto intuibile la sua fiduciosa speranza in un ravvedimento in extremis del discepolo traditore, forse anche mentre sarebbe penzolato nel vuoto con la corda attorno al collo, pochi istanti prima chiudere definitivamente la sua tragica vicenda, che lo avrebbe affidato alla storia futura come il traditore più malvagio comparso sulla faccia della terra.
Quello che devi fare fallo al più presto. Offrendo il pezzo di pane a Giuda, Gesù lancia l’estremo segnale a satana, che può finalmente entrare in azione ed impossessarsi definitivamente della sua preda, libera e consapevole del peccato commesso. In certo qual modo, Gesù costringe Giuda a compiere la scelta esistenziale, sottoponendosi al giudizio definitivo (cf. 3,19-21; 9,39). L’evangelista considera la decisione dell’uomo, a favore dell’oscurità e del male, un passo così incredibile e così misterioso nella sua iniquità (mysterium iniquitatis) da ritenere che esso sia provocato dall’avversario di Dio e di Gesù (cf. 8,44). Ancora più radicale diventa tale prospettiva alla luce dell’evento della croce (cf. 12,31; 14,30), causato dall’atto del traditore. Con un gesto, che di per sé è simbolo di condivisione, d’intimità e d’amore, Gesù allontana definitivamente Giuda Iscariota, consegnandolo al suo destino di perdizione eterna. Per ogni uomo, non solo per Giuda, non esiste una soluzione di equidistanza tra Dio e satana; la neutralità è considerata da Dio come opposizione al suo progetto di vita e giudicata alla stessa stregua del tradimento, meritevole di condanna senza diritto d’appello (cf. Ap 3,15-16).
Nessuno dei commensali capì, eccetto il discepolo prediletto e Pietro, ovviamente. Rimasti al di fuori del duetto mimico e dialogico, interpretato furtivamente da quei due, gli altri discepoli interpretano le parole del Maestro come un invito ad occuparsi delle faccende tipiche del suo incarico. Giuda Iscariota, infatti, era il cassiere del gruppo ed abitualmente si occupava dei problemi logistici della piccola comunità, formata dagli apostoli e dalle persone al seguito ed al servizio del Maestro; tra le sue mansioni, c’era anche quella di provvedere alle necessità dei poveri incontrati per via e, visto l’attaccamento al denaro, c’era da scommettere che più di un apostolo non vedeva di buon occhio quel loro collega taciturno e taccagno. Possiamo maliziosamente ipotizzare che, vedendo Giuda uscire dal cenacolo, più di uno abbia provato un senso di sollievo, non immaginando neppure lontanamente quanto fosse giustificato il loro disagio per l’appartenenza di costui al gruppo dei Dodici.
Preso il boccone, egli subito uscì. Ed era notte. Giuda esce momentaneamente di scena, senza dire nemmeno una parola o fare un cenno di saluto, ma esegue immediatamente l’ordine ricevuto da Gesù. Come si suole dire, il male mette addosso una “fretta del diavolo” ed il malvagio non ha mai pace, né prima né dopo aver compiuto le sue iniquità. Uscendo da quella sala, in cui si trovava il Signore della luce (cf. 8,12; 1Gv 1,5; Sal 26[27],1; Sap 7,26), Giuda sprofonda nel buio della notte, regno del male e dell’opposizione radicale a Dio (1,5; 11,10; 1Gv 2,8). Lasciata la luce alle sue spalle, Giuda s’incammina incontro al suo tenebroso destino scegliendo per sé una méta senza ritorno.
L’uscita di scena del traditore, consente a Gesù di formulare il lungo discorso d’addio (13,31-16,33), culminante nella commovente preghiera “sacerdotale” (17,1-26), cui fanno subito seguito i tragici eventi della passione e morte in croce di Cristo.




Il discorso d’addio
(Gv 13,31-16,33)

L’allontanamento del traditore, strettamente collegato alla realizzazione dell’ora di Gesù, significa che è giunto il momento della glorificazione del Figlio da parte del Padre. La preoccupazione di Gesù non riguarda solo i suoi fedeli discepoli, che prepara alla sua dipartita infondendo in loro la speranza del suo ritorno, ma si estende anche ai seguaci futuri e promette la venuta di un “Consolatore”, che scenderà sui discepoli facendo loro da maestro e guida, ricordando loro tutto ciò che Gesù ha detto ed insegnato e guidando la comunità dei fedeli (la Chiesa) lungo i pericolosi sentieri della storia sino alla méta finale, la patria celeste. L’apparente vittoria del principe delle tenebre è, in realtà, l’inizio del trionfo di Cristo, disceso dal cielo per condurre alla salvezza l’umanità intera.

13,31 Quand’egli fu uscito, Gesù disse: “Ora il figlio dell’uomo è stato glorificato e anche Dio è stato glorificato in lui. 32 Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito.
L’uscita di scena del traditore è l’evento storico e concreto, necessario ed imprescindibile per mettere in moto la dinamica finale della salvezza, che l’evangelista sintetizza e racchiude nel concetto di gloria, la cui realizzazione avviene entro i confini misteriosi del tempo di Dio (“ora… subito”), che è contemporaneamente chrònos (in altre parole, il tempo materiale soggetto alla misurazione cronografica ed alla successione cronologica degli eventi storici) e chairòs (o tempo di grazia, tempo dell’azione di Dio nelle vicende umane, tempo del “già” e del “non ancora”, tempo escatologico di una salvezza che è già avvenuta, ma non ancora compiutamente realizzata, tempo in cui Dio è sempre presente per condurre l’uomo alla sua piena realizzazione oltre la fine del tempo). Il tempo di Dio si dilata nell’eternità (“ai tuoi occhi, mille anni sono come il giorno di ieri che è passato, come un turno di veglia nella notte”, Sal 90 [89],4), ma il suo perno centrale è la “pienezza del tempo” (Gal 4,4), il tempo in cui si è incarnato il Figlio di Dio, nascendo da una donna per fare degli uomini dei veri “figli di Dio”. Proprio per questo motivo, il tempo di Dio non ammette perdite di tempo; la salvezza è un fatto urgente, che non accetta deroghe e non consente all’uomo di tergiversare, prendendosi del tempo per ragionare troppo sul proprio destino. Il “treno di Dio” passa assai spesso una volta sola (“ora… subito”) e non concede soste alternative, costringendo l’uomo a compiere senza indugi le proprie scelte di vita. Il tradimento di Giuda avvisa Gesù che è ormai giunta l’ora della sua gloria, l’ora della croce ed egli non si sottrae alla volontà salvifica del Padre. Proprio per questo, infatti, Egli è nato facendosi uomo nel grembo di una vergine.
Il tema della gloria (gr. dòxa) diventa incalzante e l’evangelista l’elabora quasi in forma poetica:
1.Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato
2.e anche Dio è stato glorificato in lui.
3.Se Dio è stato glorificato in lui,
4.anche Dio lo glorificherà da parte sua
5.e lo glorificherà subito.
La gloria, che compete a Dio ed al Figlio suo, ha dei connotati assai differenti da quelli con cui vuole caratterizzarla l’uomo. La gloria umana non prevede né sofferenza né rinuncia e, spesso, si accontenta dell’adulazione altrui; la gloria di Dio e del suo Cristo conosce, invece, la tragica sofferenza della croce, mediante la quale il Padre ed il Figlio si rendono reciprocamente gloria (e testimonianza). Cristo celebra il suo trionfo sulla croce, glorificando il Padre e Dio celebra il trionfo del Figlio accogliendolo con Sé nella gloria del cielo. Un orribile strumento di tortura e di morte diventa, nei piani insondabili di Dio, lo strumento di gloria e di esaltazione per eccellenza, poiché è la morte stessa, male supremo dell’essere umano e simbolo del peccato, ad essere sconfitta definitivamente dalla croce di Cristo Dio. L’evangelista interpreta la vicenda umana del Figlio di Dio come un misterioso intreccio di sofferenza e di trionfo, di umana debolezza e di potenza divina, di apparente sconfitta e di effettiva vittoria della somma Luce sulle perfide Tenebre. La croce su cui muore Gesù diventa il trono della sua gloria e la sua morte coincide col suo immediato trionfo: “volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (19,37; Zc 12,10). Se la croce rappresenta il culmine della sofferenza e della gloria di Cristo, la sua resurrezione costituisce l’inevitabile sigillo del suo trionfo presso gli uomini e presso il Padre celeste.

33 Figlioli, ancora per poco sono con voi; voi mi cercherete, ma come ho già detto ai Giudei, lo dico ora anche a voi: dove vado io, voi non potete venire.
Gesù comunica ai suoi fedeli discepoli il fatto dell’imminente e dolorosa separazione e si rivolge loro chiamandoli affettuosamente “figlioli”. L’amorevole delicatezza con cui Gesù si rivolge ai suoi addolcisce, in qualche modo, il contraccolpo provato dai discepoli al momento della dipartita del loro amato Maestro. Solo l’esperienza gioiosa della resurrezione di Gesù getterà una luce nuova sulle parole pronunciate da Gesù durante la cena d’addio, così cariche di pàthos e, al tempo stesso, così incomprensibili per i discepoli, che interpretano il discorso di Gesù come annuncio di un distacco definitivo e di un abbandono senza ripensamenti. Mi cercherete… dove vado io, voi non potete venire. Le stesse parole erano state pronunciate da Gesù ai giudei (7,33s), provocando in loro un inevitabile equivoco, ma anche Pietro (13,36) dimostrerà di non essere da meno in fatto di comprendonio, perché la sua capacità di comprensione non è ancora illuminata da una fede piena e sostenuta dall’azione dello Spirito Paraclito (14,26), incaricato da Gesù a far capire ai discepoli ed ai futuri cristiani il vero senso del progetto divino della salvezza. Prima di tornare alla destra del Padre, riappropriandosi della dignità divina che gli compete di diritto in virtù della sua provenienza da Dio, Gesù deve affrontare l’ora tragica e sublime della sofferenza e della morte in croce. Da un punto di vista cronometrico, il tempo della passione di Gesù dura solo poche, ma da un punto di vista teologico, l’ora della salvezza si dilata oltre i confini temporali della storia ed abbraccia l’intero universo, passato, presente e futuro.
Mi cercherete. La ricerca di Gesù non è esclusiva prerogativa dei discepoli, che si interrogheranno a breve sulla tragica sorte subita dal loro amato rabbì, ma è propria di ogni uomo di buona volontà, che non si limita a vivere il suo presente come se fosse un valore assoluto, ma va alla continua ricerca dell’Unico trascendente capace di dare un senso compiuto all’esistenza umana, diventando per ciò stesso un “amato dal Signore” (cf. Lc 2,14).
Dove vado io, voi non potete venire. Per poter contemplare il Volto di Dio, l’uomo deve prima essere redento da Cristo e deve provare una sete ardente della salvezza. Chi presume di salvarsi senza Cristo, non potrà mai godere della visione beatifica di Dio perché Gesù è l’unica via per giungere al Padre. L’auto-redenzione non è scritta nel pur complesso DNA dell’essere umano.

34 Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. 35 Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri”.
Molti autorevoli commentatori hanno ritenuto che il “comandamento dell’amore”, tipica espressione del pensiero teologico di Giovanni, come si evince dal contenuto della prima delle tre Lettere a lui attribuite, sia stato inserito un po’ arbitrariamente nel contesto narrativo attuale dal redattore finale del IV Vangelo, interrompendo il filo logico del racconto, tanto è vero che al v. 36 (ragionevolmente accostabile ai vv. 33-34) Pietro chiede a Gesù dove avrebbe intenzione di andarsene, sorvolando clamorosamente su un precetto di enorme rilevanza sul piano emotivo, religioso, sociale, psicologico e culturale per ogni credente cristiano di qualsiasi epoca. Limitandoci alla lettura sincronica del testo e trascurando forzatamente le questioni relative al suo sviluppo diacronico, il “comandamento dell’amore” ha tutte le caratteristiche di un vero e proprio testamento, che Gesù ha lasciato ai suoi prima di morire.
Dal punto di vista letterario, i due versetti formano un’unità che è chiusa in se stessa. In modo sobrio, ma solenne, Gesù definisce “nuovo” il suo comandamento, che è molto di più di una semplice raccomandazione rivolta ai suoi seguaci. Il comandamento, infatti, implica un obbligo moralmente impegnativo per tutti coloro che sono, o presumono di essere, cristiani; la formulazione del comandamento avviene in due riprese, che ne definiscono la natura e ne precisano gli effetti. Gesù vuole che i suoi discepoli si amino reciprocamente (“gli uni gli altri”) con la stessa forza e perseveranza con cui Egli li ha amati, nonostante i loro difetti e le loro manchevolezze d’amore, emerse a più riprese durante i tre anni di convivenza (cf. Mt 18,1-5 pp., circa la disputa sorta fra i discepoli su chi fosse il più grande tra loro ed il più meritevole di sedere ai lati di Gesù, una volta che il suo Regno si fosse affermato in Israele e nel mondo intero). L’amore tra tutti i discepoli di Gesù, passati, presenti e futuri, deve attingere a piene mani all’infinito amore scaturito dal suo cuore divino ed umano, senza accontentarsi di una caricatura di imitazione. Non ci si può amare reciprocamente, allo stesso modo con cui Gesù ci ha amati, se non si è assistiti dallo Spirito Santo, grazie al quale l’amore del Figlio per i suoi discepoli genera in loro il movimento dell’amore: è l’amore di Cristo che passa nei suoi discepoli, quando essi amano i fratelli e ne sono riamati. Nei capitoli 15 e 17 del IV Vangelo scopriremo che nell’amore di Gesù, che sboccia nei credenti, si rivela l’amore stesso di Dio Padre. L’amore di Gesù per i suoi è il fondamento e la fonte del reciproco amore tra i discepoli e, con tutta evidenza, Gesù ne fa oggetto di un comandamento “estremo”, poiché il suo amore per loro coincide col dono della propria vita. Ne consegue che la carità (agàpe) fraterna dei credenti è un modo di esistere in unione con Gesù, che talvolta può esigere anche il supremo sacrificio della propria vita: “nessuno ha un amore più grande di questo, dare la vita per i propri amici” (15,13). In fondo, è proprio questo il significato della lavanda dei piedi.
È poi davvero così “nuovo” il comandamento dell’amore, lasciato da Gesù ai suoi discepoli come testamento prima di morire? Il vocabolo stesso “comandamento” (entolé) rimanda all’alleanza stipulata tra Dio ed il suo popolo sul monte Sinai, sicché il comandamento di Gesù non può che fare riferimento alla Sacra Scrittura, laddove si ordina di amare il proprio prossimo (Lv 19,18), ma la vera “novità” proclamata da Gesù consiste nella natura dell’amore che i discepoli devono avere gli uni per gli altri e che s’identifica con l’amore di Gesù medesimo, resosi manifesto in loro. Attraverso i suoi discepoli, infatti, Gesù può rivelare a tutti gli uomini che nel mondo è ormai presente l’Amore di Dio Uni-Trino, il quale “rinnova il cuore degli uomini” (Ez 11,19) rendendoli partecipi del suo amore infinito e non circoscrivibile da alcun tipo di legge umana. Se la comunità dei discepoli di Gesù (la Chiesa) saprà testimoniare la presenza dell’Amore di Dio tra gli uomini mediante un amore vicendevole, anche coloro che non credono in Dio e nel suo Cristo dovranno rendersi conto della diversità dei cristiani, riconoscendoli come “appartenenti a Cristo”, che è l’amore di Dio incarnato: “tutti sapranno che siete miei discepoli”.

36 Simon Pietro gli dice: “Signore, dove vai?”. Gli rispose Gesù: “Dove io vado per ora tu non puoi seguirmi; mi seguirai più tardi”. 37 Pietro disse: “Signore, perché non posso seguirti ora? Darò la mia vita per te!”. 38 Rispose Gesù: “Darai la tua vita per me? In verità, in verità ti dico: non canterà il gallo, prima che tu non m’abbia rinnegato tre volte”.
A nome di tutti i discepoli, rimasti evidentemente interdetti dalle parole del Maestro, Pietro interrompe il monologo di Gesù e gli rivolge la domanda che tutti stavano pensando e che nessuno aveva il coraggio di esprimere a voce alta: Signore, dove vai? In queste poche e semplici parole sono racchiusi i profondi sentimenti di affetto, premuroso e devoto, nei confronti di Gesù e di trepida preoccupazione per una sua improvvisa ed imprevista perdita. Anche i Giudei avevano rivolto a Gesù la medesima domanda, ma con ben altre preoccupazioni: forse che l’odiato rabbì galileo aveva intenzione di togliere il disturbo e recarsi tra i greci (7,35)? O, meglio ancora, aveva forse intenzione di suicidarsi (8,22)? Pietro reagisce in modo impulsivo all’annuncio di Gesù e dimostra, ancora una volta, di non saper comprendere appieno il significato delle sue parole, fraintendendole come in occasione della lavanda dei piedi. Il clima di ostilità, che le autorità giudaiche avevano creato ad arte nei confronti di Gesù, era palpabile e perfino i discepoli ne erano consapevoli, tanto da percepire il pericolo di un attentato alla vita del loro Maestro (cf. 11,16), sicché appare quanto mai fuor di luogo l’ottusità di Pietro, a meno che non rappresenti un artificio letterario, messo in atto dall’evangelista, per dar modo a Gesù di chiarire ulteriormente il suo pensiero, preannunciando anche il rinnegamento di Pietro ed il suo futuro martirio.
Dove io vado per ora non puoi seguirmi. Il verbo “seguire” ha un duplice significato, materiale e spirituale. Pietro non può “materialmente” seguire Gesù nel martirio, perché questa è l’ora del Cristo, non ancora quella del suo discepolo; a tempo debito, anche Pietro dovrà affrontare la propria “ora”, rendendo testimonianza al suo Signore e Dio (21,28) mediante l’effusione del proprio sangue. In secondo luogo, per poter “seguire” Cristo come suoi veri discepoli, è necessario che prima si compia il “passaggio pasquale” del Figlio di Dio, che grazie alla propria passione, morte e resurrezione rende possibile la comunione dei suoi discepoli con Dio Padre, in virtù di una fede piena ed illuminata nel Risorto.
Mi seguirai più tardi. Pietro deve avere pazienza. Anche per lui arriverà, a tempo debito, il momento dell’accettazione del martirio, necessario per vivere eternamente la comunione di Gesù col Padre. Chi vuole servire Gesù (12,26) e diventare suo perfetto discepolo, deve rinunciare alla propria volontà, ascoltare la parola di Gesù (13,36) e lasciarsi guidare anche dove non vuole (21,18). Solo il passaggio di Gesù al Padre permette al discepolo di raggiungere lo stesso scopo e solo Gesù, che per primo è passato al Padre vincendo l’annientamento della morte, implicita negazione della “vita”, rappresenta l’unica via (14,6) per raggiungere l’Autore della vita. L’entusiasmo ed il profondo affetto per Gesù rendono Pietro impaziente ed incauto, inducendolo a minimizzare la propria umana debolezza: “Perché non posso seguirti ora? Darò la mia vita per te!”. Secondo un vecchio adagio, l’inferno è lastricato di rette intenzioni e di buoni propositi, che sono andati letteralmente in fumo. Pietro non si rende nemmeno conto dell’orribile fine che incombe sull’amato Maestro e non sa con quanto timore Egli stia preparandosi al doloroso appuntamento col Golgotha. Il supplizio della croce era così spaventosamente crudele, che i romani evitavano di infliggerlo a quanti erano in possesso della cittadinanza romana, ma lo applicavano assai generosamente a chi apparteneva ad altra etnìa, specie per punire gli schiavi che tentavano di sfuggire alla loro misera sorte con la fuga o che si rendevano colpevoli di furto e di assassinio, in particolare se perpetrati a danno dei loro padroni, oppure per condannare quanti si ribellavano all’autorità di Roma ricorrendo al tradimento o fomentando rivolte armate. Va da sé che l’interpretazione delle norme del codice penale, in tema di delitto di “lesa maestà”, era a discrezione del magistrato romano, come dimostrerà a breve Ponzio Pilato quando dovrà occuparsi del “caso Gesù”. Almeno a parole, Pietro si dichiara pronto a dare la propria vita per Gesù, ma i fatti dimostreranno proprio l’esatto contrario. Gesù, che conosce intimamente il suo discepolo, sa bene che anche Pietro dovrà sperimentare la sconvolgente paura della morte e che, almeno per quella volta, se la darà a gambe anche a costo di rinnegare il Maestro, pur di salvare la propria vita. Il triplice canto di un gallo accompagnerà, per il resto dei suoi giorni, il rimorso del pur generoso capo degli apostoli. Il discorso d’addio entra ora nel vivo. Lasciato Pietro ai suoi dubbi e ad una comprensibile delusione per le ultime parole ascoltate dal Maestro, così cariche di mistero e di severo rimprovero (“non canterà il gallo, prima che tu m’abbia rinnegato tre volte”), Gesù si rivolge nuovamente a tutto il gruppo dei discepoli, invitandoli a credere (14,1) e chiarendo il motivo del diniego, fatto a Pietro, di una sequela immediata (14,2-3). Un dialogo serrato coi discepoli, Tommaso e Filippo in particolare, consente a Gesù di indicare se stesso come la via obbligatoria per raggiungere Dio, finendo per identificare se stesso col Padre (14,4-10). Un nuovo invito a credere in Lui (14,11) conclude la prima parte del capitolo 14 del IV Vangelo, centrata sulla fede in Dio e nel suo Cristo.
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Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?». Quegli rispose: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?». At 8,30
 
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