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COMMENTO AL VANGELO DI GIOVANNI

Ultimo Aggiornamento: 04/06/2019 15:05
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07/07/2010 09:51
 
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Chi è Gesù di Nazareth?
(Gv 7,1-53)

La domanda rivolta a Gesù dai giudei: “Chi sei tu?” (Gv 8,25), costituisce il filo conduttore dei capitoli 7 e 8 del IV Vangelo, durante i quali si sviluppa l’insegnamento di Gesù nella regione della Giudea ed il cui culmine è l’auto-rivelazione della sua origine divina: “IO SONO” (8,58). Questa proclamazione finale risponde, peraltro, alla richiesta dei suoi stessi fratelli, cioè dei cugini e dei parenti del suo clan familiare, presenti a Gerusalemme in occasione della festa delle Capanne: ”Se fai tali cose, manifèstati al mondo” (7,4). Anche i suoi parenti più stretti vogliono sapere “chi è” Gesù, perché non lo hanno capito nemmeno loro. Prima di procedere all’analisi del testo, è opportuno premettere alcune considerazioni preliminari di carattere generale.

Situazione nella chiesa di Giovanni
Nei capitoli 7 e 8 del IV Vangelo si rinvengono alcuni elementi comuni alla tradizione evangelica su Gesù di Nazareth, come il conflitto con la famiglia, l’insegnamento nel Tempio e la diffidenza dei notabili giudei. È propria di Giovanni la conoscenza spirituale di cui l’evangelista è compenetrato. Le parole pronunciate da Gesù sono sublimi e l’auto-proclamazione della sua divinità, racchiusa nella formula “IO SONO”, esprime con forza la coscienza divina di Colui al quale il Prologo inneggia e rende testimonianza.
Il quadro narrativo del testo evangelico ci riporta al conflitto tra Gesù e le autorità giudaiche durante il suo ministero nella città santa di Gerusalemme, ma ci prospetta anche il clima di tensione esistente tra gli ambienti ufficiali del giudaismo ed i discepoli di Gesù alla fine del primo secolo dell’era cristiana. Dopo la tragica fine di Gerusalemme e del suo Tempio per mano delle milizie romane, nel 70 d.C., l’identità giudaica e la coesione del popolo ebraico erano garantite solamente dall’ortodossia farisaica, che si opponeva tenacemente a qualsiasi deviazione dalla retta dottrina e che aveva individuato nei cristiani il bersaglio principale dei loro anatemi. Se le parole rivolte ai giudei da Gesù suonano dure alla nostra sensibilità di lettori moderni, bisogna ricordare che l’evangelista era influenzato dal clima d’ostilità e d’odio religioso che faceva soffrire i membri di provenienza giudaica della sua comunità cristiana. L’espulsione dalla sinagoga non era stata presa molto bene dai giudeo cristiani, ancora profondamente legati alle tradizioni della fede e della cultura religiosa ebraica, nonostante la loro professione di fede in Cristo Signore; per molti di loro, il clima di persecuzione venutosi a creare sia per mano delle autorità politiche di Roma che per opera delle autorità religiose giudaiche era insostenibile.
Un atro elemento di sofferenza era il rifiuto opposto dai giudei al messianismo salvifico di Gesù Cristo. Com’era possibile non riconoscere in Gesù la piena realizzazione delle promesse messianiche contenute nel Primo Testamento? Di fronte al rifiuto opposto dalla Sinagoga, cioè da parte della suprema autorità religiosa ebraica, Giovanni compone il suo Vangelo concentrandosi sulla persona dell’Inviato e sul suo mistero. Egli mostra in Gesù non solo il Messia di Israele, bensì il Lògos eterno di Dio, mediante il quale il Padre esprime Se stesso e nel quale i credenti sono resi partecipi della filiazione divina. Al di là della situazione storica contingente, cui abbiamo accennato, il testo evangelico sollecita il lettore d’oggi a trovare una risposta convincente di fronte al mistero di Gesù di Nazareth ed al proprio mistero. S. Agostino suggeriva di porsi in ascolto del Vangelo come se il Signore fosse presente in carne ed ossa (cf. il commento di s. Agostino al IV Vangelo, In Joannem 30,1).
Situazione nel racconto evangelico
Già due volte Gesù è salito a Gerusalemme (2,13; 5,1), ma in questi brevi soggiorni nella Città Santa Egli ha subito solo delle minacce da parte dei giudei (4,13; 5,16-18), motivo per cui ha trascorso in Galilea buona parte del suo ministero. Il definitivo ritorno di Gesù a Gerusalemme è motivato solo dal fatto che è giunto il momento di compiere il volere del Padre. La morte attende Gesù nella città che “uccide i suoi profeti” (Mt 23,37; Lc 13,34), ma Egli non può e non vuole sottrarsi a quel destino per il quale è venuto appositamente al mondo. La minaccia di morte pesa lungo l’intero sviluppo dei capitoli 7 e 8 del IV Vangelo e Gesù ne parla persino alla folla dei giudei, i quali prima negano spudoratamente di volerlo eliminare e poi ammettono le loro intenzioni omicide (cf. 7,19.20.25; 8,37.40). Tuttavia, Gesù si consegnerà volontariamente nelle mani dei suoi carnefici solo quando sarà giunta l'ora fissata dal Padre, non prima (7,30.32.44; 8,20.59). Pur dovendo morire su una croce, Gesù sa che la meta verso cui è condotto dal Padre suo è la glorificazione e che i suoi avversari non potranno raggiungerlo là dove Egli sta per tornare (7,32ss; 8,21). Nell’attesa che giunga l’ora del compimento della sua missione tra gli uomini, Gesù subisce un vero e proprio processo da parte dei giudei molto prima del suo effettivo arresto. I capitoli 7-8 del Vangelo giovanneo ci descrivono il primo atto di tale processo, che durerà fino al capitolo 10 in cui, ai vv.24-33, troveremo le formulazioni dell’interrogatorio sinottico di fronte al sinedrio (10,24.25.36; cf. anche Lc 22,67.69.70). Qui il dibattito si concentra sull’affermazione che Gesù fa della sua relazione unica con Dio, suo Padre.
Il dibattito all’interno del Tempio
Lo scontro tra Gesù ed il suo popolo si consuma all’interno del luogo più sacro di Israele, cioè nel Tempio di Gerusalemme, dal quale Gesù aveva cacciato senza tanti complimenti i mercanti (2,14-16) e nel quale Egli aveva incontrato l’infermo risanato (5,14). Ora Gesù si accinge ad insegnare proprio nel luogo che Egli considera la “casa del Padre (suo)” e non un luogo di mercato o, peggio, di ladrocinio (cf. 7,14.28.37; 8, 12.20), ma dopo un tentativo di lapidazione andato a vuoto, Gesù “esce” dal Tempio (8,59), abbandonando la città e la Giudea e ritirandosi “al di là del Giordano”. L’abbandono dei luoghi santi da parte di Gesù può far pensare all’abbandono del santuario (Ez 10,18) e di Gerusalemme (Ez 11,23) da parte di YHWH, avvenuto alcuni secoli prima.
La circostanza della festa delle Capanne
Gli avvenimenti descritti nel capitolo 7 e, con tutta probabilità, nel capitolo 8 del IV Vangelo avvengono durante la festa delle Capanne, più volte citata dall’evangelista nel corso del racconto (7,2.10.14.37; 8,12). Si tratta di una delle più importanti fra le quattro principali feste del ciclo annuale, vale a dire la Pasqua, la Pentecoste, il giorno delle Espiazioni e, appunto, la festa delle Capanne; quest’ultima corrisponde alla festa agricola della vendemmia, o raccolta autunnale (Es 23,16) ed evoca il periodo trascorso nel deserto dal popolo eletto dopo l’uscita dall’Egitto (Lv 23,42ss). Per ricordare gli avvenimenti dell’esodo, durante il periodo del raccolto tutta la popolazione costruisce nei campi delle capanne con rami e frasche e qui vi abita per tutto il periodo della festa, che dura una settimana fra canti e balli, nella gioia più totale, mentre è condotto a termine il lavoro della vendemmia e della pigiatura dell’uva. Il vino novello, bevuto generosamente, non di rado provoca qualche ubriacatura di troppo. All’epoca del Nuovo Testamento, la festa delle Capanne corona quella del nuovo anno e si celebra dal 15 al 21 del mese di Tishri, tra la fine di settembre ed i primi d’ottobre (la data varia secondo il ciclo lunare su cui si basa, ancora oggi, il calendario ebraico).
Secondo la descrizione fattane dal Levitico (Lv 23,34-43), questa festa è un ringraziamento per la raccolta dei frutti appena compiuta, ma la sua liturgia, secondo alcune fonti, è orientata verso la domanda della pioggia per l’anno nuovo che sta per iniziare. Nell’ultimo giorno di festa, tutta la popolazione si reca in processione alla piscina di Sìloe ad attingere dell’acqua, versata poi da un sacerdote come libazione sull’altare dei sacrifici, nel Tempio. Segue la preghiera comunitaria che ricorda a Dio il suo impegno verso Israele ed evoca la fine dei tempi, quando si realizzerà il rinnovamento spirituale di Sion simboleggiato dalla sorgente d’acqua (Ez 47,1-12; Is 12,3). Al tempo di Gesù, durante la festa si celebra anche il rito della luce e ciò permette di comprendere meglio l’invito di Gesù a bere della sua acqua e la proclamazione mediante la quale Egli si definisce luce del mondo.
I personaggi del 7° e 8° capitolo del IV Vangelo
La figura di Gesù si staglia in tutta la sua grandezza e solitudine di fronte ad una folla di giudei ostili e senza il conforto della presenza simpatizzante dei suoi discepoli, proprio come avverrà di lì a poco durante l’interrogatorio di fronte al sinedrio. Gesù appare libero e sicuro di sé, forte della consapevolezza di essere “uno col Padre” e di essere stato da Lui mandato in missione tra gli uomini con uno scopo ben preciso: portare a tutti la salvezza mediante il sacrificio volontario della propria vita. La piena coscienza del proprio ruolo di mediatore e di redentore colloca Gesù su un piano d’assoluta vicinanza con Dio Padre e da tale posizione Egli domina una scena affollata da tanti personaggi di scarso rilievo morale: i fratelli di Gesù scompaiono presto dal contesto narrativo e di loro non rimane traccia nel proseguimento del racconto evangelico, a dimostrazione del fatto che non basta essere “parenti di sangue” di Gesù per avere la salvezza garantita senza un impegno personale alla conversione; la folla rimane un’entità anonima, incapace di esprimere un giudizio autonomo ed è facilmente soggetta alle manipolazioni da parte dei “capi”; le autorità politiche e religiose di Gerusalemme, i farisei, i sommi sacerdoti e le guardie del Tempio sono troppo compresi nel loro ruolo istituzionale per concedere una minima apertura intellettuale e spirituale a chi insegna “come uno che ha autorità” e che alle parole fa seguire dei fatti definiti da tutti come prodigiosi. A tutti costoro manca un barlume d’intuito nel cogliere, nelle parole e nei gesti di Gesù, un sia pur debole indizio della Presenza (di Dio). Fa eccezione Nicodemo, che tenta di prendere le difese di Gesù, invitando gli amici farisei a pesare bene il contenuto del messaggio del rabbì di Galilea prima di tranciare giudizi, ma la sua voce rimane isolata e quasi una nota stonata nel coro scandalizzato e fortemente ostile dei nemici di Gesù (7,50). La folla è divisa nel giudizio su Gesù, considerato da alcuni come il Profeta, da altri come il Messia e, da altri ancora, come un mistificatore; le guardie del Tempio, inviate dai loro capi per arrestare Gesù, non eseguono l’ordine perché impressionate dal suo insegnamento; i giudei sono irritati perché Gesù osa insegnare nel Tempio e, poi, s’inquietano quando lo sentono annunciare la sua prossima partenza verso un luogo in cui non potranno più trovarlo; dal canto loro, farisei e sommi sacerdoti sono indispettiti perché Gesù riscuote un gran successo presso gli ignoranti, cioè presso coloro che non conoscono tutte le sfumature e le implicazioni legali della sacra Legge mosaica, ma sono pure inviperiti nei confronti di Nicodemo, reo di invocare l’applicazione della Legge a tutela dell’incolumità di quel galileo, eretico dal punto di vista dottrinale e socialmente pericoloso. Nonostante alcuni pallidi tentativi di dialogo con Gesù, i giudei sono sostanzialmente chiusi ad ogni tipo d’annuncio che non rientri nel ristretto ambito del loro schema mentale (cf. 8,43), anche se le argomentazioni esibite da questo galileo scomodo affondano le loro radici nella tradizione giudaica più rigorosa ed ortodossa.
Su tutti e su tutto spicca il personaggio principale dello scontro dialettico e teologico fra Gesù ed i giudei, quel Dio-YHWH che Gesù designa dapprima come Colui dal quale Egli stesso è stato inviato (c.7) e che, poi, dichiara essere nientemeno che suo Padre (c.8).

7,1 Dopo questi fatti Gesù se ne andava per la Galilea; infatti non voleva più andare per la Giudea, perché i giudei cercavano di ucciderlo.
I giudei avevano più di un conto in sospeso con Gesù, visto il loro proposito, manifestato in più occasioni, di eliminarlo fisicamente. Un personaggio scomodo come Lui, che violava apertamente la sacralità del sabato giudaico, fuorviava il popolo col suo insegnamento centrato sull’amore reciproco e sul perdono anche dei nemici e che, per giunta, si faceva uguale a Dio, non poteva farla franca per molto tempo in un ambiente sociale e religioso molto chiuso e teologicamente bloccato su un rigido monoteismo e sull’osservanza maniacale di un gran numero di norme e precetti assai minuziosi, contenuti in un corpus giuridico e legislativo attribuito a Dio stesso e da Lui consegnato al popolo eletto tramite Mosè.
Consapevole delle intenzioni omicide delle autorità religiose giudaiche, Gesù se ne sta alla larga dal centro politico e religioso del mondo ebraico, dove si prendono decisioni inappellabili nell’ambito della religione e del culto e dove si comminano pene anche gravi nei confronti degli ebrei inadempienti o dottrinalmente deviati, spesso con la complicità delle autorità politiche romane, disposte a chiudere uno o tutti e due gli occhi di fronte ad alcune evidenti violazioni del diritto pur di non avere troppe grane con i suscettibili capi religiosi della nazione ebraica. Il caso giudiziario di Gesù è un esempio piuttosto eloquente di questo stato di cose: la condanna a morte di Gesù è, infatti, il frutto evidente della perfetta convergenza degli interessi sia dell’establishment religioso, politico e giuridico ebraico che dell’avida, impudente ed arrogante dirigenza politica di Roma. Quando verranno meno i presupposti di questa strana “alleanza” tra la dirigenza politico-militare di Roma e la dirigenza politica e religiosa d’Israele, quando in altre parole entrerà in crisi il fragile legame basato sul comune interesse economico, per lo più inquinato dalla corruzione e dalla prepotenza soprattutto da parte dei procuratori romani, questi due mondi così diversi e contrastanti tra loro entreranno in tragica rotta di collisione e sarà il mondo ebraico a rimetterci quel poco di libertà e d’autonomia politica e religiosa, che il pragmatico potere centrale di Roma gli aveva concesso.
L’evangelista interpreta la decisione di Gesù di non irritare ulteriormente i giudei con la sua presenza a Gerusalemme e di non incappare in una precoce cattura e condanna a morte con una motivazione di carattere teologico. Il tema dell’ora, intimamente connesso al compimento volontario e libero della volontà del Padre, costituisce il filo conduttore del racconto evangelico, anche quando non è esplicitamente affermato.

2 Si avvicinava intanto la festa dei giudei, detta delle Capanne; 3 i suoi fratelli gli dissero: “Parti di qui e va’ nella Giudea perché anche i tuoi discepoli vedano le opere che tu fai. 4 Nessuno infatti agisce di nascosto, se vuole venire riconosciuto pubblicamente. Se fai tali cose, manifestati al mondo!”. 5 Neppure i suoi fratelli infatti credevano in lui.
Giovanni condivide le notizie fornite dai Sinottici sui familiari di Gesù e ne sottolinea la sostanziale incredulità di fronte al mistero racchiuso nel loro illustre parente, che ai loro occhi non è altro che il figlio di Giuseppe e di Maria (cf. Mc 3,21; 6,4ss). Chi sono questi fratelli di Gesù, che diventeranno credenti solo dopo la sua resurrezione (At 1,14)? Al termine greco adelphòs, fratello, soggiace il vocabolo ebraico àch, che può indicare sia il fratello di sangue sia i membri della stessa parentela; questi “fratelli” hanno seguito Gesù da Cana di Galilea, dove è avvenuto il miracolo dell’acqua mutata in vino durante le nozze di uno dei parenti (di Maria?), fino a Cafàrnao, dove si è svolto il dibattito di Gesù sul “pane di vita”, dopo il prodigio della moltiplicazione dei pani. Di Gesù e della sua missione i parenti non hanno compreso nulla: per loro Egli è un uomo qualsiasi, dotato però di straordinari poteri taumaturgici, che sarebbe conveniente sfruttare e non tenere nascosti. Il comportamento di Gesù li disorienta: com’è possibile che Egli sappia compiere prodigi così straordinari davanti agli occhi di migliaia di testimoni e cerchi, poi, di mantenere l’anonimato? Da qui l’invito rivolto a Gesù (7,4) di lasciare l’oscura ed insignificante Galilea e di stabilirsi in Giudea, dove si trova il centro del potere della nazione ebraica e dove i miracoli da Lui compiuti troverebbero una più vasta risonanza, conferendo al loro autore una grande notorietà. L’occasione più favorevole per recarsi a Gerusalemme è il pellegrinaggio abitualmente organizzato in occasione della festa delle Capanne, una festività molto sentita da tutti gli ebrei. “Manifestati al mondo!”, un modo di esprimersi che tradisce l’incredulità. Se i parenti sospettassero la vera natura della missione del loro “fratello” Gesù, gli consiglierebbero di rivolgersi alle autorità religiose, le uniche abilitate a riconoscere l’Inviato di Dio (cf.7,26), ma non di certo “al mondo”, un termine qui usato da Giovanni in senso negativo, ben evidente poco più avanti (7,7) quando Gesù definirà il “mondo” come una realtà ostile alla sua rivelazione. Solo il discepolo che ha saputo ascoltare la Parola è in grado di penetrare e comprendere il mistero d’unità, che unisce Gesù al Padre, ma il “mondo” mai e poi mai saprà cogliere questo mistero. La proposta fatta dai parenti appare, forse, a Gesù come una tentazione, simile a quella della regalità terrena cui ha pensato la folla, saziata dal pane del miracolo (6,14ss). Con una constatazione velata di tristezza (“neppure i suoi fratelli credevano in lui”), l’evangelista fa calare il sipario sui parenti di Gesù, incapaci di “vedere” il loro “fratello” con gli occhi del cuore.

6 Gesù allora disse loro: “Il mio tempo non è ancora venuto, il vostro invece è sempre pronto. 7 Il mondo non può odiare voi, ma odia me, perché di lui io attesto che le sue opere sono cattive. 8 Andate voi a questa festa; io non ci vado, perché il mio tempo non è ancora compiuto”. 9 Dette loro queste cose, restò nella Galilea.
Nella lingua greca vi sono due termini differenti per indicare il “tempo”: il vocabolo krònos indica il senso materiale del tempo, misurabile con strumenti adatti (nell’antichità si misurava il tempo con la meridiana o con la clessidra ad acqua od a sabbia), mentre il vocabolo kairòs, usato dall’evangelista, esprime il significato metafisico del tempo. In Giovanni il tempo, o kairòs, coincide col “tempo della salvezza” stabilito da Dio, secondo un piano provvidenziale fissato fin dall’eternità; il tempo di Gesù, però, non coincide per nulla col tempo pensato e preteso dai suoi parenti. Costoro ritengono che sia giunto il momento per Gesù di ottenere consensi e raccogliere a piene mani il successo umano, mentre Gesù ha ben presente lo scopo della sua missione, centrata sul tempo della passione, morte e resurrezione e finalizzata al riscatto (in ebraico ga’al) dell’intera umanità. L’uomo che non si cura di Dio e della sua presenza nel tempo, riconoscibile attraverso i suoi interventi provvidenziali, non necessariamente sempre e comunque prodigiosi, prende le proprie decisioni senza altri riferimenti che le circostanze e le opportunità offerte da questo mondo. Il tempo dell’uomo scorre come un susseguirsi di attimi e di occasioni fine a se stessi e non può incidere sul tempo ad ampio respiro che è proprio di Dio. Parlare di un tempo umano “sempre pronto”, cioè sempre favorevole, è un non-senso perché privo di una progettualità a lungo termine. In altre parole, l’uomo non è in grado di dominare il tempo e gli eventi, piccoli e grandi, della storia.
Al contrario, Gesù sa che il suo tempo deve ancora compiersi e che la sua salita verso Gerusalemme rappresenta il necessario preludio al “passaggio pasquale” sul Gòlgota. Del tutto dipendente dal Padre suo, Gesù sa che il suo ritorno verso il Padre non avverrà in occasione della festa in corso, quella delle Capanne, ma in quella successiva, cioè durante le festività pasquali.
Il diverso modo di vivere e di interpretare il tempo come “luogo” della presenza e della manifestazione salvifica di Dio, si rende concreto nel conflitto e nell’opposizione tra Gesù ed il “mondo”, qui inteso come sinonimo d’umanità che rifiuta la rivelazione divina. Proprio per questo Gesù fa il contrario di quanto richiestogli dai suoi parenti: invece di “manifestarsi al mondo” e di sedurlo a suon di miracoli, Egli rende testimonianza all’iniquità degli uomini, che fanno di Gesù il bersaglio del loro odio perché non vogliono che si faccia luce sulle loro opere malvagie e sulla loro istintiva incredulità. Gesù ha già rimproverato i giudei d’essere refrattari alla Parola di Dio (5,37-47) e d’essere assai lontani da Colui che pure adorano come l’unico e vero Dio e, di fatto, Egli rimprovera i suoi “fratelli” di comportarsi come i giudei e di far parte di quello stesso “mondo” che lo odia in modo così viscerale ed accanito. A questo punto, Gesù prende tempo e non segue il suo parentado a Gerusalemme ma presto cambierà idea.

10 Ma andati i suoi fratelli alla festa, allora vi andò anche lui; non apertamente però: di nascosto.
Ecco spiegata la decisione di Gesù di restarsene in Galilea: Egli non intende sottostare ai desideri chiaramente “mondani” dei suoi parenti, ben disposti a sfruttare a proprio vantaggio qualche miracolo che Gesù avrebbe certamente compiuto, una volta giunto a Gerusalemme. Gesù si reca a Gerusalemme, contrariamente ai suoi propositi iniziali, ma in incognito e senza compiervi alcun prodigio e, per di più, a festa ormai inoltrata (7,14). Da quando i suoi parenti sono partiti per Gerusalemme, Gesù è rimasto solo col Padre suo, di cui ha percepito la volontà di portare la rivelazione al cuore stesso della Città Santa, nel Tempio, perché solo così il suo destino può compiersi. L’iniziale assenza di Gesù alla festa dà modo all’evangelista di descrivere le attese e le speranze di una folla curiosa e sostanzialmente delusa: ma lui, dov’è?

11 I giudei intanto lo cercavano durante la festa e dicevano: “Dov’è quel tale?”. 12 E si faceva sommessamente un gran parlare di lui tra la folla; gli uni infatti dicevano: “E’ buono!”. Altri invece: “No, inganna la gente!”. 13 Nessuno però ne parlava in pubblico, per paura dei giudei.
Gesù è assente ma non si parla che di Lui a Gerusalemme. I notabili giudei ne parlano in modo aperto e spavaldo, poiché la loro ovvia intenzione è quella di cercare Gesù allo scopo di arrestarlo e di farla finita una volta per tutte con quel galileo scomodo e niente affatto controllabile; la folla ne parla sommessamente, ma il suo mormorio (in greco gongusmòs) ha una risonanza maggiore dell’ostentata sicumera dei suoi capi, dei quali la folla teme con buona ragione l’ira e le ritorsioni. Per gli uni, Gesù è una persona che fa del bene alla gente: anzi, forse potrebbe essere anche il Messia (7,26.41) o il Profeta (7,40). Per altri, Gesù è un mistificatore, un agitatore, uno di quei falsi profeti che la santa Torâh condanna esplicitamente alla lapidazione (7,47). Le discussioni, seppure fatte a bassa voce, dividono la folla e, come sempre avviene, si forma il partito dei favorevoli e quello dei contrari. Oggi come allora, la persona di Gesù è messa sempre in discussione: c’è chi crede in Lui, chi Lo rifiuta e chi rimane perplesso. Chi è veramente Gesù: il Messia o un impostore?
Salito, dunque, a Gerusalemme in piena festa, Gesù si mette ad insegnare nel Tempio quasi volendo provocare la reazione dei giudei. La reazione ci sarà e sarà violenta; persino il mite e ragionevole fariseo Nicodemo ne farà le spese, tanto che i suoi stessi compagni di partito, i farisei, lo definiranno un ignorante che non conosce nemmeno il contenuto della Sacra Scrittura. Per un fariseo osservante come Nicodemo, questa sarà un’accusa infamante quasi com’essere considerato un “impuro”.

14 Quando ormai si era a metà della festa, Gesù salì al tempio e vi insegnava. 15 I giudei ne erano stupiti e dicevano: “Come mai costui conosce le Scritture, senza avere studiato?”. 16 Gesù rispose: “La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha mandato. 17 Chi vuol fare la sua volontà, conoscerà se questa dottrina viene da Dio, o se io parlo da me stesso. 18 Chi parla da se stesso, cerca la propria gloria; ma chi cerca la gloria di colui che l’ha mandato è veritiero, e in lui non c’è ingiustizia.
È la prima volta che Gesù insegna ai giudei, radunati nel Tempio per la festa. Per i giudei, l’insegnamento che veniva impartito all’interno del Tempio doveva necessariamente riguardare la Torâh ed aveva lo scopo sia di istruire il popolo sulla Legge che di esortarlo alla sua osservanza pratica. Tale insegnamento era riservato agli scribi ed ai dottori della Legge, poiché a nessuno era concesso di svolgere quest’incarico senza essere stato prima discepolo di una delle scuole rabbiniche, presso cui si perfezionava la conoscenza della Scrittura e si apprendeva la tradizione autentica dei padri. La meraviglia scandalizzata dei giudei è, dunque, più che giustificata, almeno secondo il loro punto di vista. Ciò che colpisce i giudei è la padronanza della Legge dimostrata da Gesù, ma anche la sua pretesa di impartire insegnamenti su di essa senza essere stato discepolo di una delle tante scuole rabbiniche del tempo. In altre parole, Gesù non ha i requisiti per insegnare nel Tempio! (Oggi, Gesù incorrerebbe in una denuncia per millantato credito ed esercizio abusivo di professione, perché privo di laurea e di diploma d’abilitazione all’insegnamento!). Da dove gli deriva, dunque, una tale facoltà dal momento che Gesù “parla come uno che ha autorità”? I giudei sono perplessi, scandalizzati ed indignati. Gesù non elude il loro interrogativo e chiarisce che la sua “dottrina” e l’abilitazione all’insegnamento della Legge gli provengono da Colui che lo ha mandato, cioè dal Padre. Gesù sa di lettere, perché sa leggere e spiegare la Scrittura, ma conosce assai bene pure la tradizione, la cui fonte è lo stesso YHWH dal quale Israele ha ricevuto i testi sacri e la chiave di lettura per la loro corretta interpretazione. Ora, chi sa compiere la volontà di Dio, non limitandosi ad osservare i suoi precetti ma lasciandosi attirare da Lui ed aprendo il cuore e la mente ai suoi progetti di salvezza, sa comprendere anche che Gesù parla in nome del Padre e che ha l’autorità per spiegare il senso profondo della Legge, che Dio ha donato agli uomini. Questo ragionamento vale soprattutto per il credente, ma per chi non crede o fa fatica a credere Gesù ricorre ad un criterio di giudizio più tradizionale nel riconoscere un Inviato di Dio: il suo disinteresse. Gesù non parla perché mira al proprio interesse personale, alla propria “gloria”, ma sempre Egli cerca e vuole affermare la “gloria del Padre”: per questo in Gesù è possibile riconoscere la verità e la giustizia, che sono il contrario della menzogna e dell’iniquità. Parlando così di Se stesso, Gesù evoca la figura del Servo di YHWH, il quale “non commise ingiustizia né vi era inganno in lui” (Is 53,9). In Gesù c’è la Verità e l’assenza d’ogni male (8,46). Dopo aver affermato che il suo insegnamento viene dall’alto, e che gli è perfettamente fedele, Gesù contesta il giudizio espresso dai giudei contro di lui per aver guarito un infermo in giorno di sabato alla piscina di Bethesda e denuncia le intenzioni omicide dei notabili del popolo ebraico.

19 Non è stato forse Mosè a darvi la Legge? Eppure nessuno di voi osserva la Legge! Perché cercate di uccidermi?”. 20 Rispose la folla: “Tu hai un demonio! Chi cerca di ucciderti?”. 21 Rispose Gesù: “Un’opera sola ho compiuto e tutti ne siete stupiti. 22 Mosè vi ha dato la circoncisione -­non che essa venga da Mosè, ma dai patriarchi- e voi circoncidete un uomo anche di sabato. 23 Ora, se un uomo riceve la circoncisione di sabato perché non sia trasgredita la Legge di Mosè, voi vi sdegnate contro di me perché ho guarito interamente un uomo di sabato? 24 Non giudicate secondo le apparenze, ma giudicate con giusto giudizio.
Per la prima volta Gesù nomina la Legge, la quale, secondo l’evangelista Giovanni, non è mai riconducibile al solo corpus legislativo, ma fa riferimento o al Pentateuco (la Torâh, come in 1,45), o ad un principio legale (cf. 7,51; 8,17; 19,7) anche imprecisato (18,31), oppure alla dottrina di Mosè (cf. 1,17; 7,19.23.49), ma sempre con riferimento all’insieme delle Scritture (cf. 10,34; 12,34; 15,25). Il legame con la pericope precedente (7,14-18) è il vocabolo adikìa (ingiustizia) del v. 18, che orientava il pensiero verso la Legge, condizione d’ogni giustizia, e verso l’infedeltà alla Legge. Dapprima, Gesù ha giustificato il suo dire ed ora giustifica il suo fare. Affermando che i suoi interlocutori non osservano la Legge (v. 19), Gesù intende sostenere che essi si attengono scrupolosamente ai precetti contenuti nella Legge, ma che non hanno un rapporto vitale con la Legge stessa e non ne comprendono lo spirito. Citando il caso della circoncisione, effettuata di sabato, Gesù ricorda che talvolta è consentito trasgredire il precetto sabbatico, come nel caso della guarigione di un infermo, ma Egli non si limita ad una semplice casistica delle eccezioni ad un’osservanza pedante della Legge, bensì vuole introdurre un diverso approccio alla comprensione della stessa. In altre parole, vi sono due modi assai differenti per rapportarsi con la Legge: quello dei giudei, che in essa non vedono altro che una serie di precetti e si limitano ad una sua interpretazione rigorosamente letterale, e quello di Gesù, secondo il quale è necessario porsi in ascolto della Parola di Dio, donatrice di vita, che è contenuta nella Legge ed ascoltando la quale si compie la volontà di Dio (7,17). Volendo uccidere Gesù, attraverso le cui opere viene manifestato il senso della Legge, che è la vita per l’uomo, i giudei rifiutano, di fatto, di porsi in ascolto della Parola di Dio e ne tradiscono, pertanto, lo spirito deformandone la corretta comprensione. Quanto abissale è la distanza tra la misericordia e l’amore di Dio per l’uomo da una parte ed il rigido legalismo, arido ed impietoso, dei giudei dall’altra! Nella Legge sono contenuti sostanzialmente due precetti, l’amore per Dio e l’amore per il prossimo (Mt 22,38-40), ma i giudei ne hanno colto solo una serie infinita di obblighi, di divieti e di norme esteriori incapaci di incidere nel profondo del cuore.
I giudei non s’irritano per l’accusa, rivolta loro da Gesù, d’essere infedeli nell’osservanza della Legge ma si preoccupano di dissimulare le loro reali intenzioni omicide, apertamente denunciate da quel “demonio” di galileo. Insinuando che Gesù è posseduto dal diavolo, i giudei cercano di ridicolizzarlo ma Gesù li mette con le spalle al muro, inchiodandoli alla loro responsabilità: come possono accettare che Mosè abbia subordinato la sacralità del sabato alla pratica della circoncisione, cui è attribuita la guarigione di un singolo membro e, al tempo stesso, condannare Gesù che in giorno di sabato si permette di guarire un uomo tutto intero? Se Mosè ha dato la precedenza della circoncisione sul sabato, lo ha fatto per spiegare che la Legge divina ha come scopo la salute integrale dell’uomo; ora, se circoncidere un membro virile in giorno di sabato non è un puro e semplice strappo alla Legge, seppur legittimo, ma implica il raggiungimento della reale intenzione della Legge (cioè la salute integrale dell’uomo), a maggior ragione la guarigione di un uomo “tutto intero” in giorno di sabato significa portare a compimento la Legge. Il ragionamento fatto da Gesù secondo un procedimento rigorosamente rabbinico, non fa una grinza.
La circoncisione era una pratica diffusa in alcune aree del Medio Oriente ed aveva una finalità pratica di tipo igienico, essendo utile per prevenire le infezioni balanopostitiche che si complicavano facilmente con una retrazione infiammatoria del prepuzio, detta fimosi, la quale impediva il normale rapporto coniugale; oltre a ciò, la circoncisione era un vero e proprio rito d’iniziazione al matrimonio ed alla vita di gruppo familiare (Gen 34,14ss; Es 4,24-26; Lv 19,23). La pratica della circoncisione differiva da popolo a popolo: gli egiziani la effettuavano il giorno dopo la nascita del figlio maschio, gli ebrei otto giorni dopo. Oltre a quella igienica ed iniziatica, il popolo ebraico attribuiva alla circoncisione altre due finalità, ritenute più importanti: l’appartenenza al gruppo etnico e l’appartenenza a YHWH. Tale pratica assunse tutta la sua importanza solo dal periodo dell’esilio ed invano cercarono di sradicarla dalla consuetudine del popolo ebraico gli invasori ellenisti (cf.1Mac 1,60ss; 2Mac 6,10) guidati da Antioco IV Epifane.
Gesù tiene a precisare che non Mosè, bensì i patriarchi a lui anteriori (Gen 17,10) avevano introdotto, per ordine divino, la circoncisione tra gli ebrei come “segno” dell’alleanza tra Dio ed i discendenti di Abramo e come figura di una vita nuova. L’esortazione conclusiva (“non giudicate secondo le apparenze, ma giudicate con giusto giudizio”) fa riferimento a ciò che, per gli ascoltatori, era parsa una clamorosa violazione del sabato da parte di Gesù. Guarendo l’infermo alla piscina di Bethesda, Gesù non ha violato alcun principio della Legge divina, perché attraverso questa guarigione miracolosa Egli ha inteso simboleggiare il dono totale della salvezza.

25 Intanto alcuni di Gerusalemme dicevano: “Non è costui quello che cercano di uccidere? 26 Ecco, egli parla liberamente, e non gli dicono niente; che forse i capi abbiano riconosciuto davvero che egli è il Cristo? 27 Ma costui sappiamo di dov’è; il Cristo, invece, quando verrà, nessuno saprà di dove sia”. 28 Gesù allora, mentre insegnava nel tempio, esclamò: “Certo, voi mi conoscete e sapete di dove sono. Eppure io non sono venuto da me e chi mi ha mandato è veritiero, e voi non lo conoscete. 29 Io però lo conosco, perché vengo da lui ed egli mi ha mandato”. 30 Allora cercarono di arrestarlo, ma nessuno riuscì a mettergli le mani addosso, perché non era ancora giunta la sua ora.
In questa scena le autorità (farisei e sommi sacerdoti) ed il popolo appaiono ancora una volta ben distinti nei loro sentimenti e nelle loro reazioni di fronte al galileo Gesù. Viene qua ripreso il tema fondamentale anticipato al v.12: chi è Gesù per il popolo ebraico?
La conferma che Gesù è in pericolo e che le autorità riconosciute hanno intenzioni omicide nei suoi confronti viene dalla gente comune, che parla a ruota libera, anche se sottovoce, dell’argomento più scottante del momento. Tutti hanno paura di incorrere nelle ire dei capi, ma tutti dicono la loro. Costatando che Gesù, il ricercato numero uno, sta liberamente insegnando pubblicamente nel Tempio, autorizza le ipotesi più ottimistiche di coloro che, evidentemente lo considerano un uomo per bene, uno dei pochi, se non l’unico, ad occuparsi veramente della gente più sfortunata ed emarginata della società. Sta a vedere che i capi si sono convinti che Gesù è davvero il Messia tanto atteso…
Questa suggestiva ipotesi, però, contrasta in modo stridente con ciò che, da molto tempo ormai, si va dicendo della misteriosa figura del Messia. Secondo la teoria giudaica più accreditata, il Messia deve essere un personaggio di cui nessuno può conoscere l’origine, la provenienza; per essere autentico, il Messia non deve avere origini chiaramente umane ma celesti e scendere in questo mondo in modo clamoroso, discendendo chiaramente dall’alto. Ovviamente Gesù non può essere un Messia credibile perché tutti sanno da dove viene: nientemeno che dalla Galilea, una regione resa impura dalla vicinanza con le popolazioni pagane e, per giunta, tutti sanno chi sono suo padre e sua madre, due popolani di poco conto.
Nel corso del primo secolo dell’era cristiana, l’attesa del Messia era molto diversificata, in funzione dell’immagine che ci si faceva del personaggio: re, sacerdote, Figlio di Davide, liberatore e condottiero invincibile. Sollecitato in tal senso a chiarire chi egli sia, Gesù non dà mai una risposta scontata e, nel definire se stesso, Egli usa espressioni alquanto sibilline ma mai così oscure da non far capire ai suoi interlocutori la sua presunta provenienza da Dio stesso. In effetti, i meglio informati e buoni intenditori della Scrittura sanno che il Messia deve provenire dalla stirpe regale di Davide e che deve essere originario di Betlemme (7,42), ma ritengono anche che egli deve rimanere nascosto in qualche luogo sconosciuto (Mt 24,26), forse il cielo stesso, fino al giorno della sua clamorosa manifestazione. Nessuno evidentemente sa che Gesù è nato davvero a Betlemme e nessuno gli dà retta quando Egli afferma a gran voce (in greco ékraksen, gridò), seppure in modo un po’ oscuro, di venire proprio dal cielo! Alcuni si rendono conto, in verità, che Gesù si arroga tale origine divina, ma ovviamente lo ritengono un pazzo pericoloso da eliminare fisicamente, e piuttosto in fretta anche, prima che qualcuno gli dia retta per davvero; tant’è che cercano subito di mettergli le mani addosso per catturarlo, ma senza riuscirvi perché “non era ancora giunta la sua ora”.
Gesù riprende in modo ironico ciò che la gente dice di Lui: “Certo, voi mi conoscete e sapete di dove sono”. Gesù viene dalla Galilea, “eppure” viene da altrove: Egli viene da Colui che è veritiero, è l’Inviato di Dio. Se il popolo di Gerusalemme ha trovato inciampo (in greco, skàndalon) nell’origine galilaica di Gesù, ha però parlato bene affermando che s’ignora da dove viene il Messia; Gesù ancora non si presenta come l’Inviato che “era presso Dio” (1,1), ma lo lascia intuire a chi è disposto ad accogliere tale verità ed a credere in Lui. Il v.28 contiene un messaggio di rivelazione: “io non sono venuto da me”, ma “mi ha mandato” Colui che “è veritiero” (Dio), che “voi non…conoscete” perché non lo avete mai visto, ma che “io…conosco” perché “vengo da lui” per salvare tutti voi. In questo versetto è contenuto il mistero della rivelazione che Gesù è venuto a fare del Padre (cf. 1,18). Per coloro che sono capaci di intendere, anche parzialmente, le parole di Gesù è giunto il momento di muoversi, ma Gesù sfugge misteriosamente all’arresto e l’evangelista non perde occasione per sottolineare ancora una volta il tema teologico dell’ora.

31 Molti della folla invece credettero in lui, e dicevano: “Il Cristo, quando verrà, potrà fare segni più grandi di quelli che ha fatto costui?”. 32 I farisei intanto udirono che la gente sussurrava queste cose di lui e perciò i sommi sacerdoti e i farisei mandarono delle guardie per arrestarlo.
Di nuovo, la folla è una “miscela” d’opinioni e di sentimenti contrastanti. Un gran numero di persone (non più solo “alcuni”, v.25) è disposto a credere a Gesù ed in Gesù, capace di compiere prodigi tali che non possono lasciare indifferenti anche i più scettici dei presenti. L’evidenza dei miracoli non è ancora motivo sufficiente per indurre “molti della folla” ad avere una fede vera, ma rappresenta un inizio d’apertura alla fede, ancorché fragile. Al tempo stesso, l’attestazione di gran parte della folla delle qualità taumaturgiche di Gesù suona come un rimprovero per gli increduli: Gesù non ha solo parlato, ma ha anche compiuto opere che confermavano il suo invio dall’alto (3,2). Secondo la tradizione legata al profeta Isaia, il Messia davidico avrebbe compiuto miracoli con cui avrebbe manifestato la sua bontà (cf. Is 11) e, di fatto, i segni riferiti nel IV Vangelo vanno proprio in questa direzione, salvo il prodigio della moltiplicazione dei pani.
Alla fede incipiente nella missione e nella figura del Messia-Gesù fa da stridente contrasto l’ostilità irriducibile delle autorità religiose ebraiche, le quali, non essendo riuscite a catturare Gesù con le proprie mani, inviano un manipolo di guardie del Tempio per portare a compimento l’opera nella quale hanno fallito miseramente. L’arresto di Gesù è una priorità assoluta e va compiuta ad ogni costo.
Un’annotazione di carattere storico s’impone prima di procedere nell’analisi del teso evangelico. All’epoca di Gesù i responsabili dell’ordine pubblico all’interno del Tempio erano i sommi sacerdoti, tradizionalmente ostili ai farisei. Appare ovvio che questi ultimi dovevano chiedere l’aiuto dei sommi sacerdoti per mettere in azione la polizia del Tempio, ma è altrettanto vero che il buon accordo tra farisei e sommi sacerdoti, anche se per una causa comune come l’arresto di Gesù, suona un po’ anacronistico.

33 Gesù disse: “Per poco tempo ancora rimango con voi, poi vado da colui che mi ha mandato. 34 Voi mi cercherete, e non mi troverete; e dove sono io, voi non potrete venire”. 35 Dissero dunque tra loro i giudei: “Dove mai sta per andare costui, che noi non potremo trovarlo? Andrà forse da quelli che sono dispersi fra i Greci e ammaestrerà i Greci? 36 Che discorso è questo che ha fatto: Mi cercherete e non mi troverete e dove sono io voi non potrete venire?”.
Consapevole della prossima fine, Gesù si attarda nel Tempio ad insegnare nonostante che il suo arresto sia sfumato all’ultimo momento ed annuncia la sua dipartita da questo mondo ed il suo ritorno al Padre, dal quale è stato inviato tra gli uomini per una missione di redenzione. Egli parla di una sua scomparsa che mette in allarme i suoi avversari, i quali temono di vederselo sfuggire definitivamente dalle mani prima di regolare i conti con Lui. In realtà, Gesù parla dell’urgenza della conversione personale dei suoi ascoltatori, poiché il tempo della sua presenza fisica sulla terra si sta esaurendo e la minaccia dell’eterna perdizione incombe sul loro capo (cf. Lc 13,3.5). La minaccia è palese: quando Gesù avrà fatto ritorno al Padre, essi non potranno più trovarlo: la rivelazione termina con la scomparsa del Rivelatore e non sarà tanto facile trovare Dio una volta che si è rifiutato, tradito ed ucciso il suo Messia (cf. anche Os 5,6; Pr 1,28). L’esortazione di Gesù (7,33) diventerà minaccia (8,21) esplicita contro i farisei, che rischiano di morire nel loro peccato d’incredulità ed avrà un diverso tenore quando sarà rivolta ai suoi discepoli nella notte dell’Ultima Cena e del tradimento di Giuda (13,33).
“Dove io sono, voi non potrete venire”. Con queste parole Gesù lascia intravedere, come in un abisso insuperabile, il mistero della propria Persona. Gesù ritorna al Padre, ma in realtà Egli è da sempre e per sempre con Lui fin dall’eternità.
Secondo la fede dell’evangelista, Gesù ha lasciato fisicamente il mondo ma, nella sua realtà di Risorto, Egli rimane sempre presente tra i suoi. Pur tuttavia, per ogni essere umano urge la scelta decisiva nel breve corso della propria esistenza personale: la decisione di credere o di non credere nel Figlio di Dio e nel suo progetto di salvezza coincide con la capacità di saper riconoscere il tempo (kairòs) della grazia e della visita di Dio e non è detto che il “treno” di Dio passi una seconda volta. Sospettando che Gesù voglia andarsene tra gli ebrei della diaspora e che voglia convertire i Greci, cioè i popoli pagani, i giudei fanno una profezia involontaria, simile a quella di Caifa (11,51ss): la morte dell’Inviato sarà mezzo di salvezza per tutti i popoli della terra, secondo l’annuncio profetico del Servo di YHWH (Is 42,6; 15,10; cf. Lc 2,32).

37 Nell’ultimo giorno, il grande giorno della festa, Gesù levatosi in piedi esclamò ad alta voce: “Chi ha sete venga a me e beva 38 chi crede in me; come dice la Scrittura: fiumi di acqua sgorgheranno dal suo seno”. 39 Questo egli disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non c’era ancora lo Spirito, perché Gesù non era stato ancora glorificato.
Dopo aver evocato la sua origine (7,25-29) e la sua dipartita (7,33-36), Gesù annuncia il dono dello Spirito Santo. In tal modo l’evangelista completa la rivelazione del disegno di Dio a favore dell’uomo. Ambientando il grido di Gesù nell’ultimo giorno, quello più importante, della festa delle Capanne, Giovanni focalizza l’attenzione del lettore sul rito celebrato proprio in questo giorno: la solenne libagione fatta con l’acqua attinta dalla piscina di Sìloe aveva un duplice scopo, quello di implorare la pioggia per il nuovo anno che stava per iniziare e l’auspicio del rinnovamento spirituale di Sion, come annunciato dal profeta Ezechiele mediante il simbolo dell’acqua scaturita dal Tempio per fecondare tutta la terra al suo passaggio (Ez 47,1-12). Gesù non se ne sta seduto come un qualsiasi rabbì che insegna (Mt 32,2; 26,55; Mc 12,41), ma sta in piedi, ritto (At 13,16) in atteggiamento profetico ed a gran voce proclama la “sua” verità, valida allora come oggi: Lui solo può placare la sete di amore, di pace, di infinito e di verità dell’uomo. La sete evoca, nella memoria del popolo ebraico, quella sofferta dai padri nel deserto durante i 40 anni trascorsi nelle lande desolate ed assolate della penisola del Sinai dopo la fuga precipitosa dall’Egitto e viene associata all’aridità spirituale dell’uomo che pretende di fare a meno di Dio, senza riuscirci. Come il Signore ha fatto “scaturire l’acqua dalla roccia di granito” (Dt 8,15) per dissetare, in pieno deserto, il suo popolo assetato e perennemente insoddisfatto, così ora Cristo è pronto a donare Se stesso per placare la sete esistenziale di ogni uomo, che è sempre teso al pieno compimento del proprio essere profondamente radicato nella segreta somiglianza col totalmente Altro. Quando è accolta, la Parola di Dio colma questo desiderio dell’uomo di sentirsi pienamente realizzato perché lo apre alla relazione con l’eterno Vivente. La sete di Dio è un leit motiv dei salmi, specie con riferimento alla liturgia del Tempio, in cui l’orante incontra la Presenza (cf. Sal 42,2-3; 63,2; 143,6). È assai probabile che Gesù, impiegando il termine “sete”, faccia proprio riferimento a questi testi sacri, tanto più che lo usa all’interno del Tempio, dimora per eccellenza del Dio vivente ed eterno: attraverso Gesù i suoi discepoli incontreranno veramente il Padre. Gesù non chiarisce ciò di cui l’uomo ha sete, ma è ovvio che Dio esprima quell’infinita eternità verso cui ogni essere umano è naturalmente proteso e da cui si sente irresistibilmente attratto.
Il grido di Gesù (“Chi ha sete venga a me”) è collocabile in un contesto sapienziale (cf. a questo proposito Is 55,1), secondo il quale l’acqua, che placa ogni sete, è un simbolo della Parola di Dio (Am 8,11; cf. 6,35 in cui si legge che Gesù garantisce di saper soddisfare sia la fame sia la sete dell’uomo durante il discorso sul pane di vita e cf. anche il dialogo di Gesù con la samaritana al pozzo di Giacobbe, specialmente 4,13-14). Gesù invita i suoi ascoltatori a ricorrere a Lui per soddisfare le proprie necessità spirituali e per trovare risposte esaurienti alle personali istanze interiori, proponendo Se stesso come la sorgente scaturita dalla roccia nel deserto (Es 17,6; Nm 20,8.11; Sal 78, 16.20; Is 48,21) o dal Tempio futuro, contemplato in visione dal profeta Ezechiele (Ez 47). Ciò che la festa celebrava nella speranza, trova ora compimento nella persona del Rivelatore, che è sorgente di vita perché fa conoscere agli uomini la verità del Padre: tutti gli uomini sono figli di Dio e, inseriti in Cristo, sono fratelli tra loro e destinati a ritrovarsi tutti insieme nella casa del Padre.
Il credente, che attinge da Gesù l’acqua vivificante e sanante della Parola di Dio, diventa a sua volta fonte di salvezza a motivo del suo intimo legame con Cristo Redentore (“fiumi di acqua sgorgheranno dal suo seno”), cui è intimamente legato come il tralcio alla vite (15,1-6). L’acqua, che scorre copiosa dal cuore (“seno”) di Cristo e di coloro che credono in Lui, è lo Spirito Santo, colui che consola e che difende (Paràclito) gli uomini dalle insidie dell’Accusatore (Satana) nel gran giorno del giudizio finale (Ap 12,10).
Fino a quando non sarà squarciato dalla lancia il cuore di Gesù, ormai morto sulla croce, lo Spirito (“l’acqua”) è una presenza nascosta, che gli uomini non sono in grado né di percepire né di comprendere, ma la cui forza dirompente è pronta ad esplodere nel mondo non appena sarà sprigionato dal costato trafitto di Cristo, obbligando tutti gli uomini a “volgere lo sguardo a colui che hanno trafitto” (Zc 12,10; Gv 19,37) ed a prendere una decisione personale e moralmente impegnativa nei confronti del Crocifisso. Donato da Cristo a piene mani, senza misura, lo Spirito Santo trasforma gli uomini nel loro intimo più profondo, guidandoli nella comprensione della verità “tutta intera” (16,13) ed arrestandosi solo di fronte all’estremo rifiuto di chi, come i “giudei”, spera di salvarsi confidando nelle proprie forze o che dispera di salvarsi perché “non si fida” (= non crede) del tutto dell’amore misericordioso e perdonante di Dio. A colui che è disposto ad ascoltarlo e ad accoglierlo come Parola incarnata del Dio vivente, Gesù fa il dono di vivere una relazione analoga a quella che unisce Lui stesso al Padre (10,15); ricevendo lo Spirito del Figlio, anche i credenti possono diventare figli “rivolti verso” il Padre ed essere partecipi dell’intima comunione d’amore che unisce le tre Persone divine.
L’evangelista ci ha appena svelato non solo l’origine e l’identità di Gesù, ma anche lo scopo e l’efficacia del suo messaggio e della sua missione: “a quanti l’hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio” (1,12). Per ottenere dal Padre tale privilegio, dal quale nessun essere umano deve sentirsi escluso a priori, Gesù si è prima sottoposto alla “glorificazione” della morte di croce, la via scelta da Dio per realizzare l’intima comunione con gli uomini, redenti dal sangue del Figlio suo. Ponendosi già di là della sua Pasqua, Gesù dirà ai discepoli nel discorso d’addio: “Io sono nel Padre e voi in me ed io in voi” (14,20).
Le parole di Gesù scatenano nuove polemiche tra la gente, rinnovando la divisione tra chi è disposto a credere in Lui e chi invece lo vorrebbe morto perché ne rifiuta il messaggio.

40 All’udire queste parole, alcuni fra la gente dicevano: “Questi è davvero il profeta!”. 41 Altri dicevano: “Questi è il Cristo!”. Altri invece dicevano: “Il Cristo viene forse dalla Galilea? 42 Non dice forse la Scrittura che il Cristo verrà dalla stirpe di Davide e da Betlemme, il villaggio di Davide?”. 43 E nacque dissenso tra la gente riguardo a lui. 44 Alcuni di loro volevano arrestarlo, ma nessuno gli mise le mani addosso.
Come già i Galilei dopo il miracolo del pane dato in abbondanza, alcuni dei presenti nel Tempio di Gerusalemme vedono in Gesù il Profeta simile a Mosè (6,14), mentre altri esprimono la convinzione (non la semplice ipotesi come in 7,26.31) che Egli sia il Messia. Appare evidente che la questione della messianicità, dopo aver preoccupato i contemporanei di Gesù, rimaneva un argomento discusso e causa di accesi dibattiti anche all’epoca in cui l’evangelista aveva composto il IV Vangelo. L’origine galilaica di Gesù creava imbarazzo ai benpensanti giudei, i quali, Scrittura alla mano, sostenevano con assoluta convinzione e come un punto fermo la discendenza davidica e giudaica del Messia (2Sam 7; Mi 5,1; Is 7,13ss; 9,6; 11,1; Sal 18,51). Evidentemente, la nascita di Gesù proprio nella borgata di Betlemme, situata quasi alle porte della Città Santa di Gerusalemme, non era nota al di fuori della stretta cerchia degli intimi di Gesù. I Sinottici, in verità, sostengono l’origine davidica e giudaica del Messia Gesù (Mt 1,1-17; Lc 1,32; 2,4) e richiamano l’attenzione dei lettori proprio al testo di Mi 5,1 citato dalla folla (Mt 2,1; Lc 4,2), ma Giovanni, che pure era a conoscenza della tradizione secondo la quale Gesù era originario di Betlemme, non sembra darvi molto peso, quasi a voler fare intendere che queste argomentazioni della gente circa l’origine del Messia non meritano risposta, dando ragione a Gesù il quale aveva già dichiarato che non si può e non si deve giudicare alcuno secondo le apparenze. A Giovanni non interessa l’origine “umana” del Messia, ma la sua origine “divina” e ciò che lo colpisce e turba è la “divisione” (skìsma) che la Rivelazione provoca tra gli uomini.
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Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?». Quegli rispose: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?». At 8,30
 
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