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COMMENTO AL VANGELO DI GIOVANNI

Ultimo Aggiornamento: 04/06/2019 15:05
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04/06/2010 18:37
 
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Il Vangelo di Giovanni

Il discorso nella sinagoga di Cafàrnao

(Gv 6,22-71)


Dopo il doppio prodigio verificatosi di notte sul mare di Galilea, un nuovo giorno (“il giorno dopo”) molto importante attende sia i discepoli sia la folla numerosa, che ha beneficiato del prodigio dei pani. Tutti sono chiamati a confrontarsi con le “dure” parole di Gesù ed a compiere una scelta di fede. Per ognuno dei presenti, questo è un giorno diverso dagli altri, un giorno speciale, nel quale devono decidere se “vivere” cibandosi del corpo di Gesù oppure scegliere di morire di “fame” perché rifiutano il cibo offerto loro da Cristo. Questa è una scelta che attraversa il tempo e che obbliga l’uomo d’oggi (d’ogni “oggi”) a prendere una posizione chiara: o si “accoglie” o si “rifiuta” Cristo come Pane di vita. Dalla scelta scaturisce il proprio destino di vita o di morte.


22 Il giorno dopo la folla, rimasta dall’altra parte del mare, notò che c’era una barca sola e che Gesù non era salito con i suoi discepoli sulla barca, ma soltanto i suoi discepoli erano partiti. 23 Altre barche erano giunte nel frattempo da Tiberiade, presso il luogo dove avevano mangiato il pane dopo che il Signore aveva reso grazie. 24 Quando dunque la folla vide che Gesù non era più là e nemmeno i suoi discepoli, salì sulle barche e si diresse alla volta di Cafàrnao alla ricerca di Gesù. 25 Trovatolo di là dal mare, gli dissero: “Rabbì, quando sei venuto qua?”.

Entusiasmata dal miracolo, la folla va alla ricerca di un così grande taumaturgo, già identificato dai più come “il profeta che deve venire” (6,14), ma rimane con un palmo di naso. Tutti sono convinti che Gesù sia coi suoi discepoli, ma ben presto si rendono conto che “Lui” non c’è e che si è sottratto alle loro egoistiche attenzioni. La folla credeva di “avere in mano” il Profeta (volevano, infatti, “farlo re”), ma questi è sparito: nessuno può impossessarsi dell’Inviato di Dio per piegarlo alla propria meschina volontà ed ai propri interessi personali. La folla indaga, cerca di capire dove sia andato a cacciarsi l’oggetto dei suoi desideri e, infine, intuisce: il “rabbì” (in poco tempo il Profeta è scaduto al rango di un semplice rabbino o maestro!) deve trovarsi per forza dall’altra parte del lago. Ma come avrà fatto ad arrivarci senza una barca? Tutti hanno visto i discepoli allontanarsi su una barca sola, ma l’altra imbarcazione è ancora lì sulla riva, vuota! In qualche modo, la folla fa arrivare una flottiglia d’imbarcazioni e si sposta sull’altra riva del vasto e non sempre tranquillo lago di Galilea (22 km circa di lunghezza e 12 km circa di larghezza), con una traversata che riduce di parecchio il tempo di un trasferimento a piedi lungo le rive dello specchio d’acqua.

Il v.23 risente di un linguaggio tipicamente cristiano; il luogo presso il quale approdano le barche usate dalla folla è quello in cui “avevano mangiato il pane” (non i pani), dopo che “il Signore” (non Gesù) aveva “reso grazie” (in greco, eucharistésantos). Si tratta di una vera e propria formula liturgica eucaristica, che conferma la lettura sacramentale dell’episodio della moltiplicazione dei pani fatta dall’evangelista. I cinque pani offerti dal ragazzo a Gesù sono diventati il pane di vita, cioè la carne di Cristo, che ogni uomo è invitato a mangiare (letteralmente, a masticare) come cibo per la vita eterna.

Rabbì, quando sei venuto qua?”. La domanda rende bene la sorpresa della folla, sicura fino a poco tempo prima di conoscere la vera identità di Gesù, tanto da volerlo fare re (6,14) ed ora disorientata dalla personalità sfuggente e misteriosa di questo rabbì, capace di sottrarsi al controllo di tanta gente. Sollecitato dalla folla, Gesù risponde alla domanda in modo indiretto, cercando di orientare l’attenzione dei presenti sul motivo che li ha indotti ad andare alla sua ricerca.

Il discorso sul “pane di vita” (6,26-71) rivolto alla folla di Galilea ed ai discepoli dà al segno dei pani tutta la sua profondità di senso.


26 Gesù rispose: “In verità, in verità vi dico, voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. 27 Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo”. 28 Gli dissero allora: “Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?”. 29 Gesù rispose: “Questa è l’opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato”.

Il dialogo tra Gesù e la gente di Galilea ruota su due temi fondamentali: il nutrimento relativo alla vita eterna e la fede nell’Inviato di Dio come condizione di salvezza. Coloro che hanno ricevuto in abbondanza il pane che “perisce” sono invitati a desiderare un pane “che rimanga” e che viene donato dal Figlio dell’uomo. Per ricevere il pane che dura per sempre (“per la vita eterna”) è necessario attenersi ad una condizione inderogabile: accogliere Gesù come Inviato del Padre, il quale è il donatore del “pane vero” che dà la vita al mondo.

Appare subito evidente che il conduttore del dialogo è Gesù, forte dell’autorità che gli proviene da Dio Padre. Egli non si cura di spiegare quando e come sia giunto a Cafàrnao, ma eleva subito il livello del dialogo ed i suoi interlocutori fanno fatica a comprendere la portata delle parole di Gesù, che troveranno “troppo dure” per i loro orecchi. Gesù mette in guardia i presenti sulla deviazione del loro desiderio: essi si sono saziati mangiando un pane terreno, ma il pane di cui hanno veramente bisogno è di un altro genere perché il destino della loro vita è profondamente radicato nell’eternità. Gli interlocutori di Gesù già sanno dalla Sacra Scrittura (Sir 17,6-11; 45,5) che la manna, che i loro padri hanno mangiato nel deserto, è figura della Legge divina, donata da Dio in persona al patriarca e profeta Mosè e che essi non devono, pertanto, lavorare solo per acquisire il pane terreno. Essi comprendono bene che Gesù li sta conducendo su un terreno ben noto: compiere le “opere di Dio” significa entrare nell’orizzonte della perfetta osservanza della Legge; i galilei, però, volutamente ignorano il richiamo di Gesù a procurarsi il cibo vivificante donato dal Figlio dell’uomo, sul quale il Padre ha impresso il proprio sigillo di riconoscimento. Eppure, con un duplice “amen” (reso in italiano con un poco incisivo “in verità, in verità”) Gesù ha voluto sottolineare con particolare forza la portata della sua proclamazione. Per il momento, Gesù non designa se stesso come il donatore del “pane di vita”, ma attribuisce questa funzione ad una figura celeste nota all’apocalittica giudaica: il “Figlio dell’uomo”, nel quale Gesù s’identifica, evoca nel linguaggio teologico di Giovanni l’itinerario compiuto dal Lògos incarnato, che è disceso dal cielo (3,13) e che al cielo farà ritorno (6,62). I galilei, però, ancora non intuiscono il percorso di fede che Gesù vuol far compiere a loro, ma ben presto Egli li condurrà ad una drastica scelta di campo: o con Lui o contro di Lui.


30 Allora gli dissero: “Quale segno dunque tu fai perché vediamo e possiamo crederti? Quale opera compi? 31 I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: Diede loro da mangiare un pane dal cielo”.

Ai galilei non è bastato essere stati testimoni di un così grande “segno”, come la moltiplicazione di cinque pani, che hanno sfamato ben cinquemila uomini e si ostinano a chiedere a Gesù un “segno” che lo qualifichi come Inviato di Dio, avendo ben compreso il significato dell’appellativo “Figlio dell’uomo” usato da Gesù. Essi sembrano disposti a credere in Lui, ma in realtà non lo sono per niente; secondo la tradizione profetica, un segno per essere probante deve essere debitamente annunciato in precedenza dal suo autore. Orbene, i galilei chiedono a Gesù quale “segno” Egli intenda compiere per dimostrare di essere il Profeta, il Messia, l’Inviato investito da Dio del grave compito di liberare il suo popolo. Ecco riaffiorare la dimensione politica delle attese messianiche del popolo ebraico. Con il miracolo dei pani, Gesù aveva mostrato un potere che la folla aveva interpretato secondo le proprie attese, senza che Egli le avesse detto una sola parola chiarificatrice in tal senso; ora la folla lo sente dichiarare che credere nella sua persona significa compiere la Legge intera.

Gli interlocutori di Gesù mostrano tutta la loro perplessità di fronte ad un personaggio così enigmatico, capace di compiere prodigi straordinari ma assolutamente poco affidabile dal punto di vista dottrinale: chi pretende d’essere costui? Come può osare di fare concorrenza a Mosè, donatore della manna e mediatore legittimo della Parola di Dio? La citazione proposta dal testo (6,31) non trova riscontri nella Sacra Scrittura, almeno nella sua formulazione attuale, ma, dato il parallelismo fra Gv 6 ed Es 16, si potrebbe cogliere nella citazione la combinazione dei due testi seguenti: “E’ il pane che il Signore vi ha dato da mangiare” (Es 16,15); “Io farò piovere su di voi dei pani che vengono dal cielo” (Es 16,4). In ogni caso, il segno evocato nella citazione è il dono meraviglioso della manna, simbolo della Legge data a Mosè sul Sinai da YHWH in persona. Cosa può esservi di più grande della Legge, dalla quale Israele trae il quotidiano nutrimento per conservare la propria identità religiosa, culturale, politica ed etnica e per guadagnare la vita eterna mediante l’osservanza scrupolosa delle norme contenute in essa? Ogni ebreo osservante sa che, se vuole salvarsi, deve obbedire alla Legge e come può pretendere Gesù che si riponga in Lui, nella sua Parola e nelle sue “opere”, una qualsiasi attesa di salvezza che solo Dio può dare mediante la sua santissima Legge? Ciò che i padri hanno mangiato nel deserto era un pane che veniva “dal cielo” e, siccome la Scrittura è il codice di lettura sia del passato sia del presente, i galilei si sentono nel giusto se fondano la loro fede nel Dio che ha donato loro la manna (= Legge); così facendo, però, essi si bloccano davanti alla prospettiva di qualsiasi rivelazione futura.

Quale opera compi?”. La domanda offre a Gesù lo spunto per sottolineare la grande differenza che esiste tra la manna ed il “pane di vita”, che è Lui stesso, il Figlio mandato da Dio Padre per “nutrire” gli uomini e condurli alla salvezza. Nei vv.27-30 l’autore del IV Vangelo suggerisce, con la sua ormai nota ironia, diverse sfumature interpretative della generica azione del “compiere le opere”: essa può, infatti, essere intesa nel senso di “lavorare per mangiare” (v.27), ossia “osservare la Legge” (v.28) e “credere nel Figlio” (v.29), disponendosi, così, ad accettare “l’opera del Figlio” mandato da Dio Padre per “donare la propria vita a vantaggio altrui” (v.30). Sul diverso modo di intendere le parole di Gesù si consuma il dramma della folla, dapprima disposta a seguirlo al punto da volerlo incoronare come proprio re e poi pronta a voltargli le spalle, convinta di avere a che fare con un uomo esaltato e, forse, anche un po’ folle.

Il rifiuto del mistero presente nella Persona di Cristo da parte del popolo ebraico costituisce il leit-motiv del IV Vangelo. Nonostante i “segni” prodigiosi da Lui compiuti, pochi gli hanno creduto durante la sua vita terrena; l’evangelista invita i suoi lettori d’ogni tempo a farsi incontro a Cristo senza troppi pregiudizi, fidandosi della testimonianza di coloro che, pur deboli e pusillanimi, hanno saputo versare il loro sangue per rendere testimonianza alla Verità dopo aver visto il Risorto. Gesù definirà beati coloro che saranno disposti a credere in Lui anche senza averlo “visto” vittorioso sulla tragica realtà della morte (21,29).


32 Rispose loro Gesù: “In verità, in verità vi dico: non Mosè vi ha dato il pane dal cielo, ma il Padre mio vi dà il pane dal cielo, quello vero; 33 il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo”. 34 Allora gli dissero: “Signore, dacci sempre questo pane”.

Con un duplice “amen” (tradotto in italiano con l’espressione “in verità”), Gesù sfugge alla richiesta di compiere un “segno” ad uso e consumo della curiosità della folla, che vuole essere certa di trovarsi proprio di fronte al Profeta di Dio, paragonabile in grandezza ed autorità a Mosè (Dt 18,15), ma sposta l’attenzione dei presenti su Dio, che in passato ha donato la manna e che ora dà il “pane che discende dal cielo e che dà la vita al mondo”. Gesù non mette in discussione la grandezza di Mosè, ma contesta che sia stato lui a donare la manna, come sostengono i suoi interlocutori. È il Padre che ha nutrito i padri nel deserto ed è ancora il Padre che ora dona il cibo della vita, destinato ad ogni uomo che lo voglia ricevere.

Nel v.27 Gesù ha fatto cenno al nutrimento futuro che il Figlio dell’uomo avrebbe donato (“…che il Figlio dell’uomo vi darà”) e, tra il cibo donato in passato da Dio (la manna) e quello che darà il Figlio dell’uomo, ecco il “presente” di Dio che dona oggiil pane dal cielo, quello vero”. Dal ricordo di un evento successo nel passato e dall’attesa di un dono futuro, Gesù sposta l’attenzione dei suoi interlocutori sulla realtà sostanziale del presente. Di questo pane di Dio, Gesù dà (v.33) una definizione pienamente accettabile da parte dei suoi interlocutori, poiché essa riprende i termini della citazione da loro proposta (v.31): come la manna-Legge, così il pane di Dio “discende dal cielo”, ma non per nutrire il solo popolo d’Israele, bensì per donare la vita a tutto il “mondo”. Quest’ampliamento dell’orizzonte della salvezza è in consonanza con la prospettiva del compimento escatologico: la Fine riguarda tutti i popoli della terra e la sua attesa orienta ormai da tempo gli animi verso l’intervento divino definitivo; poiché Gesù afferma che il donatore del “pane celeste” è Dio, i suoi interlocutori non possono che essere d’accordo e domandano, senza alcun indugio, questo pane che Gesù ha loro annunciato. Improvvisamente ed in modo sorprendente, Gesù, di cui poco prima era contestata la mediazione, viene chiamato “Signore” (vocativo greco, kýrie). Quale tipo di pane è chiesto a Gesù dai presenti? Non certo il pane materiale, ma la “vera Legge di cui essi vogliono vivere “sempre” (v.34) e di cui Gesù sembra essere, ai loro occhi, il garante più qualificato poiché è stato capace di compiere un miracolo così straordinario come la moltiplicazione dei pani.

Prima di addentrarci nella lettura e nel commento del discorso-dibattito di Gesù presso la sinagoga di Cafàrnao, è necessario riflettere su alcune considerazioni preliminari.

Va anzitutto precisato, specie leggendo i vv.53-58, che Gesù non ha annunciato l’istituzione dell’Eucaristia agli astanti increduli pronunciando esattamente tali parole alla lettera. Non è questo il modo di procedere proprio di Giovanni, che ama presentare simultaneamente il passato storico di Gesù e la sua comprensione post-pasquale. L’esperto d’esegesi riconosce un duplice fattore all’origine di questo discorso: la cura di narrare un fatto del passato, storicamente avvenuto, tenendo però presente l’influsso dell’ambiente vitale (Sitz im Leben) dell’autore sul modo di narrare i fatti. Attenendoci al testo, ci accorgiamo che i galilei, posti di fronte alla rivelazione di Gesù, sono sollecitati a compiere una scelta di fede nei confronti di Colui che è il “pane di vita”; al contempo, il testo riflette la pratica sacramentale della comunità giovannea. La lettura del discorso-dibattito si presta a diverse opzioni esegetiche.

  1. La prima riguarda l’estensione del testo. Se si tiene conto del quadro narrativo e della ripresa nel v.65 del pensiero espresso al v.45 sull’origine della fede, allora i vv.59-66 costituiscono l’ultima parte del discorso; in essa, Gesù prolunga non soltanto la sua rivelazione e risponde all’obiezione sollevata al v.60, ma ciò che dice si dimostra indispensabile per la comprensione dell’intero discorso: senza questi versetti s’ignorerebbe la risalita del Figlio dell’uomo al cielo e si perderebbe la chiave di interpretazione, che è lo Spirito Santo.

  2. La seconda opzione letteraria riguarda i vv.53-58. Se si ritiene che essi parlino esclusivamente dell’Eucaristia, diventa impossibile attribuirli all’evangelista. Se egli ha inteso presentare un episodio del passato, certamente Gesù non si sarebbe espresso in questi termini per annunciare ad un uditorio piuttosto incredulo l’istituzione dell’Eucaristia, chiaramente inintelligibile ai suoi stessi discepoli. Questi versetti, allora, proverrebbero da un’omelia cristiana sul sacramento eucaristico e qui aggiunti al testo evangelico in epoca posteriore. Gli autori, che ritengono tardivo questo passo, lo mettono tra parentesi e ricompongono il testo (originario) facendo seguire ai vv.26-51a i vv.59-66. Se appare evidente che i vv.53-58 hanno un vocabolario eucaristico, ciò non toglie che essi possano essere letti anche nella prospettiva della fede in Gesù, che muore per la salvezza del mondo e che invita il credente a partecipare della sua vita di comunione col Padre. La difficoltà di operare una scelta a favore dell’una o dell’altra lettura dei vv.53-58, vale a dire realista (il sacramento) o spiritualista (la fede nel sacrificio pasquale di Gesù e nei suoi effetti), aveva interessato anche gli antichi Padri della Chiesa, divisi nella loro interpretazione del testo ed il dilemma si era posto anche al Concilio di Trento, dove non si riuscì a raggiungere un’unanimità di giudizio. Forse colse nel segno il solito s. Agostino, il quale argutamente osservò che né l’uno né l’altro senso avrebbero potuto esaurire la ricchezza del passo ispirato. Il medesimo testo non può offrire due distinti sensi letterali; non può esservi, quindi, che un solo senso letterale, cioè l’unione del credente con Gesù che, attraverso la sua morte, è vivente in Dio. Quest’unico senso letterale può essere compreso, però, sia nella prospettiva sacramentale sia in quella spirituale; sta pertanto al lettore cogliere l’uno o l’altro insegnamento sull’unione a Cristo mediante la fede nel suo sacrificio redentore e sull’unione a Cristo mediante l’atto sacramentale. Tale successione non avviene nel testo in sé, ma nel suo spirito.

Occorre fare appello al principio della lettura del testo in due tempi. È pretenzioso cercare di individuare le ipsissima verba Christi, cioè le precise parole pronunciate da Gesù davanti ai suoi uditori nella sinagoga di Cafàrnao, ma è lecito cercare di capire ciò che era loro comprensibile del messaggio di rivelazione di Gesù, partendo da un comune linguaggio di comunicazione: la Sacra Scrittura. Appellandosi all’Antico Testamento, Gesù invita i suoi interlocutori a vedere in Lui l’Inviato, grazie al quale Israele può assistere al compimento delle sue attese messianiche e ricevere, così, la vita eterna. L’annuncio che la salvezza di Dio sta per compiersi grazie a Gesù è compreso molto bene dalla folla, che ne rifiuta la verosimiglianza. Il primo tempo di lettura del testo, quindi, è imperniato sull’invito di Gesù a credere in Lui poiché è Figlio di Dio. Egli non rivela soltanto di essere l’Inviato di Dio, il Messia atteso ed in grado di realizzare le promesse d’alleanza formulate dal Padre, né si limita ad affermare che è Egli stesso il Pane-Parola disceso dal cielo, svelando in tal modo la sua origine divina: Gesù va oltre e precisa in che modo darà la vita al mondo, donando cioè la propria Persona attraverso una morte liberamente acconsentita. La fede in Gesù garantisce al credente l’unione con Lui mediante il Padre. Dopo aver rivelato la sua discesa dal cielo, quindi la sua condizione divina, e dopo aver precisato il significato salvifico della sua morte, Gesù promette d’inabitare nel credente attraverso il linguaggio “mangiare/bere”: in Lui il credente avrà parte alla sua vita di comunione con Dio. Questa è la lettura simbolica del testo nel primo tempo: il simbolizzante è il pane, il simbolizzato è la comunicazione al credente della vita propria di Gesù

Nel secondo tempo di lettura, l’unione col Figlio diventa, a sua volta, il simbolizzante in cui il cristiano può riconoscere l’annuncio dell’Eucaristia; ad un livello successivo, l’invito di Gesù evoca il sacramento. Giovanni stabilisce un legame molto forte tra sacramento e fede: al momento della pratica sacramentale viene reso attuale il mistero di Gesù

La nostra lettura si concentrerà sull’appello di Gesù a credere in Lui in quanto realizzatore dell’alleanza; all’occasione, indicheremo la risonanza eucaristica che un credente vi può cogliere.

Il discorso di Gesù nella sinagoga di Cafàrnao può essere suddiviso in tre parti; il simbolo “pane” (oltre al segno compiuto sulla montagna) domina le prime due parti del discorso e scompare nella terza parte, dove la menzione dello Spirito offre la chiave di lettura dei vv. 48-58, nei quali il “pane” è citato più volte sotto l’aspetto della manducazione. L’IO di Gesù domina le tre parti, seppure in modo diverso. Nella prima è subordinato all’attività del Padre, donatore del pane vero che viene dal cielo; in questo quadro Gesù rivela d’essere Egli stesso il pane disceso dal cielo, lasciando intendere che la sua origine è da Dio, così come la Parola di Dio discende dal cielo. Viene qui affermato il mistero dell’Incarnazione del Lògos in vista di una missione (di salvezza), come pure i suoi effetti di vita per il credente. Nella seconda parte del discorso, Gesù diventa il donatore in nome del Padre; Egli annuncia la sua morte come “dono” e sorgente di vita, perciò chi crede in Lui può unirsi ad un Vivente per esistere anch’egli in Dio ed entrare nell’Alleanza definitiva. La terza parte del discorso illumina questa doppia rivelazione (discesa dal cielo e morte sorgente di vita) evocando la risalita del Figlio dell’uomo là dove Egli era già prima ed il ruolo dello Spirito per la comprensione delle parole di Gesù.

Il tema della fede funge da filo conduttore del discorso d’auto-rivelazione. Nella prima parte Gesù sollecita i suoi uditori a riconoscere in Lui colui che è disceso dal cielo, colui che ha visto il Padre e di cui porta il progetto salvifico. Nella seconda parte, la fede rende coloro che credono in Gesù ed accolgono il mistero del suo sacrificio partecipi della vita del Figlio di Dio (mediante l’immagine della manducazione). Nella terza parte spicca l’affermazione che le parole di Gesù, rivolte agli uomini, sono Spirito grazie al quale esse possono essere comprese e trasformarsi in sorgente di vita.

Il risultato finale del lungo discorso, allora come oggi, è contrastante e produce una scelta radicale: o la fede in Cristo od il rifiuto della sua Persona.

Chiedendo a Gesù di dare loro il “pane di Dio”, i galilei erano consapevoli di chiedere un viatico per la vita eterna, ma erano ben lontani dall’immaginare che il “pane” desiderato era Cristo in persona.


35 Gesù rispose: “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete.

La richiesta dei galilei (v.34) può essere soddisfatta ad una condizione, cioè che accettino Gesù come “il pane della vita” annunciato dalla Scrittura, mangiando il quale non avranno più fame (né sete). Il modo di esprimersi di Gesù non lascia adito ad alcun equivoco: prendere o lasciare. L’auto-rivelazione di Gesù (“Io sono il pane…”) procede alla maniera midrashica; all’affermazione iniziale segue una proposizione participiale (in greco, “il veniente a me…il credente in me), come nella tradizione sapienziale. Alle presentazioni che la Sapienza fa di se stessa, segue normalmente un invito a seguirla, ad amarla, a mangiarla ed una promessa escatologica. Aggiungendo la sete alla fame, il linguaggio simbolico supera l’immagine del pane. Anche la Sapienza invita coloro che l’ascoltano a condividere il suo pane ed a bere il suo vino squisito (cf. Sir 24,19.21; Pr 9,5). L’appello è analogo, ma il risultato è ben differente: i discepoli della Sapienza avranno ancora fame e sete di un nutrimento assai saporito, mentre i discepoli di Gesù saranno pienamente soddisfatti (cf. Is 48,21; 49,10). Con Gesù i tempi dell’attesa sono giunti ormai al loro pieno compimento ed il desiderio è stato definitivamente appagato, com’è avvenuto per i convitati, saziati di pane al punto da lasciarne gli avanzi. La dimensione escatologica dell’auto-rivelazione si manifesta anche nel modo impersonale con cui Gesù formula il suo appello a credere in Lui (“chi viene a me…chi crede in me”); Egli, infatti, si rivolge non solo ai galilei presenti, ma a chiunque voglia essere uditore della sua Parola.


36 Vi ho detto però che voi mi avete visto e non credete. 37 Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me; colui che viene a me non lo respingerò, 38 perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. 39 E questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo resusciti nell’ultimo giorno. 40 Questa infatti è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; io lo risusciterò nell’ultimo giorno”.

Dal punto di vista strettamente letterario, la sequenza dei vv.36-40 sorprende per la successione dei pensieri, che appare alquanto slegata, almeno secondo i parametri della logica occidentale. A ben vedere, i cinque versetti formano un chiasmo, al cui centro sta la frase “Io sono disceso…dal cielo” contenuta nel v.38 e ripetuta due volte nei versetti immediatamente successivi (vv.41-42):


36 Avete visto e non credete 40 Chiunque vede il Figlio e crede in Lui

37 Tutto ciò che il Padre mi dà… 39 Che io non perda nulla di quanto mi

non lo respingerò ha dato

38 Per fare…la volontà di colui 39 Questa è la volontà di Colui che mi

che mi ha mandato………………….[io] sono disceso dal cielo ha mandato

38. 41 - 42


Questa rivelazione ha un rapporto evidente con l’annuncio contenuto nel v.35: “Io sono il pane della vita”, che (6,33) discende dal cielo. Dopo essersi, quindi, identificato col pane della vita (6,35), Gesù conferma questa designazione (6,36-40) affermando in prima persona di essere disceso dal cielo per compiere la missione conferitagli da Dio Padre.

Nei racconti della manna, contenuti nella Sacra Scrittura, non è detto (salvo che in Nm 11,9) che essa “discende”, ma che viene “data” dal cielo. Nei libri sapienziali non viene mai usato il verbo “discendere” per parlare della manna, pane del cielo; solo Is 55,10-11 offre un preciso aggancio al testo giovanneo, tanto suggestivo in quanto vi si fa riferimento ad un invio in missione della Parola di Dio: “Come infatti la pioggia e la neve / scendono dal cielo e non vi ritornano / senza avere irrigato la terra, / senza averla fecondata e fatta germogliare, / perché dia il seme al seminatore / e pane da mangiare, / così sarà della parola / uscita dalla mia bocca: / non ritornerà a me senza effetto, / senza aver operato ciò che desidero / e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata.

Probabilmente l’immagine della discesa, applicata in questa pericope isaiana alla Parola di Dio, proviene dall’Esodo che parla della discesa di Dio sul monte Sinai (Es 19,11.20). Come la Parola, uscita dalla bocca di Dio, discende dal cielo come la pioggia, così avviene per Cristo, che è il pane mandato da Dio per sfamare gli uomini. Affermando di “discendere dal cielo” (6,38), Gesù proclama la propria natura divina ed il suo intimo e costante rapporto col Padre, che lo ha “mandato” per compiere il proprio volere di salvezza a favore di tutta l’umanità. La rivelazione di 6,38, centrale in questo brano, traspone in prima persona la forte ed assai concreta affermazione del Prologo: “…ed il Verbo si fece carne” (1,14).

A questo punto, Gesù promette la salvezza, cioè la vita eterna, a chi crede in Lui usando diverse formule: “…non lo respingerò” (6,37); “…che io non perda…ma lo resusciti” (6,39); “…abbia la vita eterna” (6,40). La prospettiva di possedere la vita eterna viene affermata da Gesù come un dono presente (cf. 5,24), che attualizza la promessa della resurrezione nell’ultimo giorno.

Gli annunci di Gesù sono conformi alla sua condizione d’Inviato del Padre (6,28ss), del quale Egli compie la volontà; il vincolo indissolubile, che lega tra loro il Padre ed il Figlio, traspare anche dall’unica volontà che spinge entrambi a “farsi dono” per gli uomini. Alle promesse di Gesù è posta un’unica ma indispensabile condizione: credere in Lui (“chi viene a me”, v.37). La folla di Galilea ha “visto” in Gesù un grande taumaturgo, ma non ha saputo “vedere” in Lui il Figlio che viene dal cielo per compiere il volere salvifico del Padre. Si va preparando, così, l’obiezione e l’opposizione radicale dei galilei sul “figlio di Giuseppe”.


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Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?». Quegli rispose: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?». At 8,30
 
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