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DOMANDE AI NON CREDENTI

Ultimo Aggiornamento: 26/01/2023 17:54
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14/05/2010 08:07
 
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Nell’appendice A al libro, Varghese riepiloga le principali lacune dei non CREDENTI, elencandole in 5 fenomeni che  non sono in grado di spiegare:
- La razionalità
- La vita
- La consapevolezza
- Il pensiero concettuale
- L’ego

Varghese, usa l’esempio di un tavolo di marmo e sostiene che se anche gli dessimo 3 miliardi di anni di tempo o l’infinito, questo non diventerebbe improvvisamente o gradualmente conscio della propria identità o del proprio intorno, “non diverrebbe mai ‘consapevole’, mai ‘penserebbe’, mai direbbe ‘Io’. Ma la posizione degli atei è che, a un certo punto nella storia dell’universo, l’impossibile e l’inconcepibile ci sia stato”. Nonostante negli ultimi 3 secoli la scienza abbia fatto passi da gigante nella comprensione del mondo fisico, non è in grado di dire nulla sulla natura o l’origine dei fenomeni di cui sopra. A qualche scienziato che ha tentato di spiegarli come manifestazione della materia, come una semplice transazione neurale, Varghese replica che sarebbe come dire che “l’idea di giustizia non è nient’altro che un serie di macchie d’inchiostro su un pezzo di carta”.

Sulla razionalità gli atei tagliano corto sostenendo che l’universo è sempre esistito e sempre esisterà, ma questo non spiega da dove questa eternità venga fuori. Spiegano anche che l’universo potrebbe avere una logica che noi non riusciamo a comprendere e quindi non c’è ragione di credere che esista un Essere supremo. Un altro punto contraddittorio è il concetto del “nulla” considerato come “qualcosa”. L’universo viene dal nulla, quindi niente leggi, niente campi, niente energia, niente simmetria. Nessuna proprietà, nessuna potenzialità. Questo non spiega però come dal “nulla” venga fuori “qualcosa”. Nonostante alcuni scienziati atei ritengano che tutte le questioni relative all’evoluzione siano scientificamente risolte, in realtà l’origine della vita in sé stessa, dalla prima cellula fino agli esseri viventi più complessi, è compresa pochissimo. Il ricorso (Dawkins) alla magia dei grandi numeri coinvolti è al limite della superstizione. Il fatto che siamo un cumulo di neuroni non spiega granché. Loro, i neuroni, non hanno qualcosa che assomiglia alla nostra consapevolezza e non c’è nulla che provi che siano in grado di produrre la consapevolezza. Sistemi di neuroni sono presenti nel cervello e nella stessa regione si forma la consapevolezza ma non c’è nessuna prova che “la materia possa improvvisamente ‘creare’ una nuova realtà che non ha nessuna rassomiglianza con la materia”. Come dire che tra un granello di sabbia e il cervello di Einstein non ci sarebbe nessuna differenza. Daniel Bennet sostiene che siamo delle macchine e che le macchine possono essere consapevoli. Un computer, la più sviluppata delle macchine, fa ma non sa cosa sta facendo, non pensa, non ha un ego. Dennet sostiene che la base della sua filosofia è l’assolutismo della terza persona, cioè sarebbe come dire che Dennet può tranquillamente affermare che “Io non credo in “Me’”. Il filosofo fisicalista John Searle a questo proposito ironizza “Se sei tentato dal funzionalismo, credo che abbia bisogno non di essere smentito, ma di essere aiutato”.

Il potere di pensare, capire e significare è qualcosa che trascende la materia. Cose come l’idea di libertà non hanno nulla a che vedere con la materia. Se c’è qualcuno che ha da obiettare coerenza vorrebbe che smettesse di parlare e di pensare. Non è il cervello che capisce ma noi. Il cervello rende possibile la comprensione. L’emissione di dati del computer è comprensibile a noi non al computer. La linea elettrica trasporta la corrente ma non medita sul libero arbitrio. “Io”, “me”, “mio” sono il più stimolante mistero di tutto. Io non sono in una particolare cellula del cervello o in una particolare parte del corpo. Le cellule e il corpo cambiano ma io resto lo stesso. Hume, che non riesce a trovare sé stesso, dimentica di chiedersi “Chi sta ponendo la domanda?” “Noi ci rendiamo conto che l’Io non può essere descritto, lasciato come sola spiegazione, in termini fisici o chimici: la scienza non scopre l’Io, l’Io scopre la scienza”.

[Modificato da Credente 14/12/2011 23:06]
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26/09/2011 22:10
 
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Mary Eberstadt, filosofa a Stanford, parla delle gravi lacune degli atei moderni

Consigliamo un libro decisamente interessante. S’intitola Le lettere del perdente (Nova Millennium Romae 2011) e l’autrice è Mary Eberstadt, filosofa americana, research fellow alla Hoover Institution della Stanford University, consulting editor di Policy Review ed editorialista, fra gli altri, per il Wall Street Journal, Los Angeles Times, e The Weekly Standard.

Il quotidiano Liberal, sottolinea che la filosofa «riesce ad evidenziare con imbarazzante semplicità tutte le contraddizioni in cui il pensiero puramente ateo cade a contatto con il cristianesimo». Nel suo libro la filosofa fa scrivere ad una giovane ragazza americana apparentemente convertita all’ateismo, dieci lettere rivolte ai nuovi atei, come Christopher Hitchens. In ognuna affronta temi decisivi, come lei racconta:

IL SESSO. I cristiani sono “fermi” su temi come la monogamia, l’autodisciplina, il restare assieme per i figli. Pensieri che spesso la cultura laicista si rifiuta anche solo di prendere in considerazione, sostenendo che il messaggio che la separazione fra sesso e valori religiosi renda più felici. La Eberstadt riconosce che dopo cinquant’anni di pillola, anticoncezionali e liberazione sessuale, tutti sono in grado di comprendere che non è così: siamo circondati da padri e madri single, spesso alle prese con gravi problemi economici e certamente in evidente affanno ad occuparsi della loro prole. Ma per i bambini che crescono senza una vera famiglia, questo non è un bene. Così come non lo è per tutte quelle donne che sono state abbandonate dai mariti e che con l’andare degli anni soffriranno ancora di più. Le vittime della liberazione sessuale sono moltissime e quando i nuovi atei descrivono la loro libertà come una conquista, non considerano proprio le migliaia di persone che la soffrono e che spesso sono le più vulnerabili. Parlano per una sola parte e sembrano invece parlare a nome di tutti. Parlano da uno scranno di potenza e si dimenticano di quella parte di società che invece i cristiani mettono al centro della propria vita: i deboli.

LA RAZIONALITA’. Gli atei, secondo la protagonista del libro, hanno dalla loro parte la Ragione… Tutti gli atei parlano ovunque e sempre di come la Ragione e la Logica sarebbero totalmente dalla loro parte. Ma questa sicurezza si sgretola davanti a più contraddizioni. La più importante: perché mai, con l’eccezione di alcuni Greci, di Spinoza e una manciata di altri impavidi, praticamente l’intera storia umana è inestricabilmente connessa con la credenza in una qualche divinità? Perché, si chiede la filosofa di Stanford, «gli uomini si sono sempre allungati verso Dio?». Ogni risposta fornita non spiega perché il 99 % dell’umanità si sia sbagliata su questa rilevante questione. Dinesh D’Souza ha ragione quando dice: «il motivo per il quale molti atei sono portati a negare Dio, e specialmente il Dio cristiano, è che vogliono sfuggire al dovere di rispondere nella prossima vita della loro incapacità di contegno morale in quella attuale».

LA CARITA’. Anche su questo punto gli atei sono in grave difficoltà. Perché sono costretti a riconoscere l’incessante lavorio dei credenti a favore dei più deboli, sia singolarmente che a livello istituzionale: ospedali, mense, assistenza sociale, reti caritatevoli, missioni, cappellani carcerari, orfanotrofi, cliniche… non si contano le opere messe in piedi dai credenti e dai cristiani. Non si può dire il contrario e questo non perché non si voglia dire, ma perché qualsiasi statistica conferma che sono le opere a carattere religioso a lavorare al fianco dei deboli. È più facile che una donna povera che frequenta la chiesa faccia la carità almeno una volta l’anno che una ricca. Gli atei, secondo la Eberstadt, sembrano propendere per una logica darwiniana, dove vige la legge del più forte: il mondo è di chi se lo guadagna, gli altri sono destinati a soccombere. Qual è il posto che gli atei assegano ai malati, ai vecchi e ai fragili?

EREDITA’ ESTETICA. Mi sono sempre chiesta perché i nuovi atei non diano credito alle opere d’arte e all’estetica dei credenti. O che, come fa Christopher Hitchens nel campo letterario, cerchino di ridicolizzarla alla stregua di favole morali. Personalmente ritengo che l’eredità estetica della religione sia veramente difficile da negare. Qualche esempio a caso: la basilica di San Marco a Venezia, Notre Dame a Parigi, S. Pietro a Roma, la cattedrale di San Paolo a Londra e ancora: La Divina Commedia, La Città di Dio, L’elogio della Follia e potrei citare intere biblioteche. Per non parlare della musica.Non puoi spiegare Bernini soltanto dicendo che per i suoi lavori è stato coperto di denari dal Papa. No, è chiaro che c’è un aspetto che trascende, e questo aspetto è la fede. La cultura che ha eretto un cubo assordante, razionale, angoloso, geometricamente preciso ma essenzialmente privo di sembiante o la cultura che ha prodotto le volteggiature e le bugne, le garguglie e la sacra assenza di monotonia di Notre Dame?

DONNE, BAMBINI E FAMIGLIA. Gli atei ne sanno poco. Christopher Hitchens ha scritto tempo fa che quando lui guarda sua figlia non vede qualcosa di creato davanti a sè, ma uno straordinario insieme di molecole. Lui è solo uno dei tanti darwinisti che considera l’uomo un puro frutto della ragione scientifica. Io sono certa che Hitchens amerà profondamente sua figlia, ma sono anche sicura che non c’è madre che guardando il proprio figlio pensi soltanto: wow, che bell’insieme di molecole che ho partorito. La nascita di un bambino stabilisce un legame non solo con il neonato ma anche con l’universo. Ciò di cui mi sono resa conto è che la maggior parte degli scritti atei (vedi Rousseau, per esempio) dimostrano una scarsa conoscenza, e ancor minor interesse, riguardo a certi “sottoinsiemi”della specie umana. Sto parlando nello specifico dei bambini, delle donne e delle famiglie. Non avete fatto caso di quanto poco gli atei abbiano da dire sulla vita familiare o sul matrimonio o su qualsiasi altra istituzone legata storicamente alla riproduzione della nostra specie? Una mancanza madornale se si considera che la maggior parte della gente vive in famiglia, e che la maggioranza fa esperienza religiosa attraverso e a motivo dei loro familiari. L’antropologia atea non affronta le grandi questioni, non capisce che molte persone cominciano a credere in Dio perché, ad esempio, amano troppo i loro mariti o le loro mogli per credere che la morte veramente li separerà per sempre e che il loro amore per i figli trascenda questa ipotetica catena finita di cellule e sarà superiore alla vita terrena.

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26/03/2012 09:03
 
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Dopo Richard Dawkins, neanche Telmo Pievani riesce a rispondere

 

di Enzo Pennetta*
*biologo

 

La scienza si basa sul metodo scientifico sperimentale, un metodo che di là degli sviluppi apportati da filosofi come Popper, Kuhn, Lakatos e Feyerabend, non può prescindere da un elemento fondamentale: laprova. Nel caso della teoria dell’evoluzione neodarwiniana (o Sintesi moderna) si prevede la comparsa di nuovi caratteri come conseguenza di mutazioni casuali, la prova corroborante consisterebbe dunque nell’osservazione di una o più mutazioni casuali che portino ad un nuovo carattere.

Lo scorso novembre avevamo parlato di una famosa intervista nella quale il prof. Richard Dawkins non era stato in grado di rispondere ad un intervistatore che gli chiedeva proprio tale prova, cioè di indicare un solo caso di mutazione (osservata) con incremento di informazione. La stessa domanda, che ricordiamo è al centro del metodo scientifico, è stata rivolta lo scorso 1 marzo al prof. Pievani, ma anche in questo caso non è giunta alcuna risposta.

La domanda a cui deve essere ancora data una risposta è la seguente:

Si può fare un esempio di una mutazione genetica o di un processo evolutivo in cui si possa vedere un incremento d’informazioni nel genoma

Quando la risposta sarà fornita, potremo iniziare a parlare di teoria evoluzionistica corroborata».

 

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07/10/2012 18:18
 
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Sull’origine dell’uomo, alcune domande

 
di Umberto Fasol*
*preside e docente di scienze naturali in un liceo scientifico

 
 

Sull’Agorà di domenica 23 settembre (inserto del quotidiano l’Avvenireè apparso un lungo articolo del professore Mons.Fiorenzo Facchini, già ordinario di antropologia all’Università di Bologna e riferimento costante dell’Osservatore Romano per quanto riguarda il tema dell’Evoluzione.

L’articolo ripropone alcuni passi significativi del suo ultimo libro: “Evoluzione: cinque questioni” (Jaka Book, 2012), sotto il titolo: “Dio non è contro Darwin”. Vorrei qui esporre due osservazioni a proposito di questo autorevole testo. La prima è di carattere paleoantropologico e la seconda, invece, di ordine epistemologico.

Fiorenzo Facchini scrive che “una parentela diretta, per discendenza, con le scimmie antropomorfe, non viene sostenuta da nessuno. Viene ammesso un ceppo comune per le antropomorfe e gli ominidi, tra i quali si svilupperà la linea umana.” E’ chiaro che questa rassicurazione da una parte conforta, perché conferma il salto evidente che c’è tra noi e le scimmie, ma dall’altra rilancia la ricerca verso un mondo sconosciuto qual è quello di un “ceppo comune” che oggi non esiste e di cui non si hanno tracce. Se il confronto tra il genereHomo e la Scimmia risulta oggi possibile e ci vede totalmente diversi (per la postura eretta, per la capacità cranica, per il linguaggio simbolico, per il senso religioso, ecc…), il confronto tra il genere Homo ed un “antenato comune” risulta impossibile dal punto di vista empirico (non c’è e come si potrà riconoscerlo?).

Proseguo con i miei pensieri. Proprio comprendendo tutte le difficoltà che si incontrano nel tentativo di attribuire un reperto fossile ad un gruppo piuttosto che ad un altro, soprattutto nel caso in cui si tratti di specie estinte, mi chiedo se non sia possibile includere i pochissimi frammenti attribuiti a Homo habilis (3-4) nella variabilità intraspecifica delle australopitecine o comunque delle scimmie in generale. La capacità cranica del cosiddetto Homo habilis (600) mi pare che possa confortare una simile inclusione. Dall’altra parte il cosiddetto Homo erectus è a tutti gli effetti Homo (così è stato chiamato), cioè uomo, e perché non potrebbe essere considerato all’interno dell’amplissima variabilità antropometrica dell’Homo sapiens? Se queste due operazioni fossero possibili, non avremmo certamente risolto il problema dell’origine dell’uomo, però avremmo fatto un po’ di ordine, molto importante nella nostra indagine sull’origine.

La seconda osservazione. Mons. Facchini sostiene l’intervento diretto di Dio nella creazione dell’Uomodifendendo la sua tesi con queste parole: “l’intervento di Dio nella comparsa dell’uomo non è per supplire a deficienze di causalità di ordine naturale, ma perché la struttura fisica del vivente non è adeguata a produrre da sola un essere arricchito dello spirito. Quando e come ciò sia avvenuto è impossibile dirlo o immaginarlo.” Ora io concordo certamente con l’Autore sul fatto che la materia non possa produrre lo spirito, ma mi interesserebbe anche conoscere il suo pensiero su come la materia abbia potuto produrrel’informazione necessaria per farle assumere l’aspetto delle forme viventi che tutti conosciamo.

In altre parole, vorrei proporre di applicare l’argomentazione che ha invocato per spiegare la comparsa dell’Uomo anche alla morfogenesi degli esseri viventi, dal batterio all’uomo, proprio perché questa costituisce una complessità di informazioni strutturate tale da non essere predicibile a partire dalle proprietà dei suoi costituenti fisici. Insomma, se l’identità dell’uomo non è riconducibile alla sua struttura fisica, non possiamo dire lo stesso dell’identità della vita in quanto tale? E se nel primo caso è lecito parlare di Dio, non è possibile farlo anche nel secondo caso senza tema di essere radiati dal consesso degli uomini che usano il cervello?

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21/01/2023 18:43
 
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Come spiegano i non credenti, che ogni albero ed ogni pianta riesca a produrre un seme, che contiene in se stesso tutte le "informazioni" per potersi sviluppare, se messo nella terra, e arrivare a produrre una nuova pianta dello stesso genere di quella che lo aveva prodotto, e in grado anch'esso di riprodurre lo stesso tipo di seme per un ciclo sempre nuovo? E tutto questo per ogni singola pianta per ognuno dei milioni di specie vegetali. --- E questa facoltà di perpetuazione doveva essere già inscritta nella prima pianta e nel suo seme, altrimenti come avrebbe potuto perpetuarsi? COme si può pensare che a strutturare tutta la complessità e la contemporaneità finalizzata e funzionale che l'intero processo richiede, sia stata una selezione inconsapevole?

Non Credente
La spiegazione e' che tutto questo sia frutto del caso. Mutazioni spontanee avvengono in un numero enorme, indefinito, e la maggior parte sono incompatibili con la vita. Solo in alcuni casi rarissimi le mutazioni sono favorevoli alla vita e in grado di perpeturarsi. Tuttavia sembra proprio che esista una tendenza a formare la vita quando le condizioni sono giuste.

Credente
quello che resterebbe incomprensibile, pur ammettendo per assurdo che tutto si formi per selezione, è la contemporaneità con cui tante specie diverse di piante, nel corso della loro breve vita, già dal primo loro esemplare, abbiano dovuto produrre il seme adatto a portare a maturazione la stessa specie di pianta che lo ha prodotto. Tutto il processo deve essere avvenuto nel corso della vita già della prima pianta di ogni specie, fino ad arrivare a noi, altrimenti se si avesse dovuto attendere un lunghissimo processo di selezione, non si sarebbe potuto perpetuare. E Chi avrebbe potuto inserire tante accurate informazione in ciascuno dei semi, se non un Creatore?
[Modificato da Credente 26/01/2023 17:54]
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