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MUSICISTI ISPIRATI DALLA FEDE

Ultimo Aggiornamento: 12/04/2019 22:07
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23/04/2010 18:27
 
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La Missa Solemnis di Beethoven: “l’opera mia più compiuta”
(Beethoven)
di Giovanni Fornasieri
L’occasione per la riscoperta di quella che Beethoven considerava “la mia opera più
compiuta”, più perfetta o completa, diremmo noi, ci è data dal video-messaggio inviato da
Benedetto XVI ai partecipanti della XX GMG svoltasi a Colonia nel 2005.
Un vero e proprio evento, passato del tutto inosservato sia da parte del pubblico degli
ascoltatori sia, fatto ancor più rilevante, da parte degli “addetti ai lavori”, credenti o no.
Ciò è tanto più rilevante in quanto il Papa non riflette solamente da un punto di vista religioso
ed umano, ma anche da quello di musicista (è pianista) e profondo conoscitore della storia
della musica, entrando quindi nel vivo della materia esaminata.
Già il Papa in altre occasioni era entrato nel merito della musica e della “ferita della bellezza”
come la chiama lui stesso. Nel libretto “La bellezza, la Chiesa” (Libreria Editrice Vaticana e
Itaca, 2005), Ratzinger ricorda con commozione: “Resta per me un’esperienza indimenticabile
il concerto di Bach diretto da Bernstein a Monaco di Baviera dopo la precoce scomparsa di
Karl Richter (direttore d’orchestra tedesco noto per le sue esecuzioni di Bach ndr). Ero seduto
accanto al vescovo evangelico Hanselmann. Quando l’ultima nota di una delle grandi Thomas-
Kantor-Kantaten (Cantate composte nella chiesa di S. Tommaso a Lipsia dal Kantor, cioè Bach
ndr) si spense trionfalmente, volgemmo lo sguardo spontaneamente l’un l’altro e altrettanto
spontaneamente ci dicemmo: “ Chi ha ascoltato questo, sa che la fede è vera”.
In quella musica era percepibile una forza talmente straordinaria di realtà presente da rendersi
conto, non più attraverso deduzioni, bensì attraverso l’urto del cuore (sembra don Giussani!
ndr), che ciò non poteva avere origine dal nulla, ma poteva nascere solo grazie alla forza della
verità che si attualizza nell’ispirazione dl compositore.
Così Benedetto XVI dice ai partecipanti: ”Un’ opera che ci fa sentire la forza di una fede
profonda, anche Beethoven, un uomo combattuto e sofferente, in un epoca di transizione,
sentì la profonda necessità, dopo la Messa in do che esplorava tutte le possibilità della liturgia,
di creare una grande opera da messa con cui esprimere tutto il suo animo e il suo conflitto con
Dio, e questo senza lasciarsi limitare da considerazioni riguardo alla realizzabilità dell’ opera.
La Missa Solemnis non è più musica liturgica. Il soggetto, con la sua passionalità e grandezza,
testimone di un epoca di transizione, prende una posizione di primo piano. Anche la fede nella
Chiesa non è più data per scontata. Le preghiere, ora, esprimono la lotta con Dio, la sofferenza
per Dio e la sofferenza interiore e sono come i gradini di una scala alla quale l’umanità si
aggrappa, tentando di afferrare Dio, di andargli incontro, e di rinnovare la gioia in Dio.
In questo senso, la Missa Solemnis è una sconvolgente testimonianza di una fede sempre alla
ricerca, che si tiene ben salda al Signore e che, nei secoli, lo riscopre attraverso la preghiera. La
Missa Solemnis, unica nella sua grandezza, appartiene al mondo della fede cristiana.
E’ preghiera nel senso più profondo della parola. Ci conduce alla preghiera, ci conduce a Dio”

La Missa Solemnis nacque come composizione d’occasione sullo stimolo esterno
dell’annuncio che il 9 marzo 1820 l’allievo e protettore arciduca Rodolfo avrebbe
solennemente preso possesso della sua sede arcivescovile di Olmutz, in Moravia.. Era l’inverno
del 1818 e Beethoven aveva davanti a sé più di un anno per portare a termine il lavoro. ma si
avvide subito che non avrebbe potuto procedere con la disinvolta sicurezza di un Haydn, per
esempio.
Troppi problemi affollavano e turbavano la sua coscienza stilistica, che non poteva, dopo la
precedente esperienza della messa in Do maggiore, citata dal Papa, affrontare il testo
dell’Ordinarium secondo le formule ormai fossilizzate del cosiddetto “stile da chiesa”
cristallizzatosi nei secoli precedenti, e che costituiva un sicuro approdo per ogni serio e
stimato professionista della musica.
Beethoven sente la necessità di inventare qualcosa di nuovo, ma andando a ricuperare nei
grandi modelli del passato quelle suggestioni linguistiche e musicali che i suoi contemporanei
andavano rileggendo in chiave puramente conservativa e tutto sommato ideologica (Si veda a
questo proposito il saggio di E.T.A Hoffmann, Musica religiosa antica e moderna, 1814, poi
compreso nei Fratelli di Serapione, nel quale l’autore sosteneva, in sostanza, che solo la
musica di Palestrina e la polifonia a cappella rispondono pienamente agli ideali della vera
musica religiosa).
Beethoven vuole documentarsi sui modi (scale) ecclesiastici e sui procedimenti compositivi
degli antichi polifonismi. Prima della composizione del Kyrie, ad es. scrive. “Per scrivere della
vera musica religiosa, esaminare tutti i corali ecclesiastici dei monaci, ecc., farne degli estratti,
anche delle strofe, nelle migliori traduzioni con la prosodia più esatta di tutti i salmi ed inni
cattolici”
Un intenso lavorio, affidato anche al discepolo Czerny, in cui il passato diventa fonte di
ispirazione potente, sprone ad un cambiamento inusitato di linguaggio. Un atteggiamento che
prefigura (il genio è sempre profeta) la posizione dei futuri compositori del Novecento, per es.
Stravinskij.
Ciò che ne risulta è un “inaudito Beethoven “ (per parafrasare il felice titolo della mostra su
Beethoven ad un recente Meeting di Rimini) e che ha scandalizzato fino all’incomprensione
celebrati filosofi e sociologi della musica, tra i quali Adorno (cfr. il saggio Straniamento di un
capolavoro” nell’ed. italiana di Dissonanze (Milano, 1959, pp. 205 e sgg.)
Non il “solito” Beethoven che enuncia e sviluppa i temi come nessuno sa fare, ma incisi
melodici sottilmente uniti da straordinarie innervature strumentali, in cui il particolare si
illumina nell’immensità dell’architettura complessiva.
Come dice don Giussani in una delle Tischreden, “la totalità è concreta, il particolare è
astratto” E’ solo guardando una grande cosa che il particolare acquista senso, perché se è
“abstractum”, tolto dall’insieme, il particolare non si capisce più.
Come per conoscere (sono ancora parole di Giussani) occorre “una distanza”, altrimenti
l’occhio si “appiccica” al quadro diventando miope, così la Missa Solemnis è come un
immenso affresco davanti al quale è necessario indietreggiare alcuni passi per poterne
abbracciare l’arco compositivo nella sua interezza, così come i “singoli elementi di un
complesso architettonico -finestra, edicola, rosone, colonna, arco- pur possedendo un
organismo proprio e “individuale” si “fondono” e legano con il tutto (G. Carli Ballola).
Alcuni passaggi sono indimenticabili. Primo fra tutti il Credo, che Beethoven in un primo
tempo avrebbe voluto introdurre da una fanfara orchestrale con “timpani, trombe e
tromboni”. Un tema che ha imperiosità monumentale e le cui quattro note si infiggono come
pali ai punti cardinale della tonalità, stagliandosi poi di tanto in tanto dall’alto del fitto lavorio
di sutura delle “idee secondarie” come un vessillo tra la mischia. E il Sanctus, con quella
solenne e misteriosa introduzione in Adagio in cui Beethoven sembra aver scoperto l’antica ed
esatta etimologia del termine “sanctus”, se-gregato, separato, misteriosamente “eletto”: non
clangori di orchestra e coro, ma lineare e purissimo, ancorché antico, intrecciarsi di frasi dei
solisti che richiamano l’antica polifonia fiamminga del XV secolo.
E che dire del Benedictus, la cui melodia fiorisce prodigiosamente, come dall’alto di un sottile
stelo, su un “sol” acuto del violino solista (il più bel solo orchestrale di violino che esista),
sorretto dal brillio argentino di flauti e clarinetti, anticipo e prefigurazione di quelle “melodie
infinite” che ritroveremo negli ultimi Quartetti? O del “Dona nobis pacem” su cui Beethoven
annota “per la pace interna ed esteriore” trasformando così la parola liturgica in un grido
dell’uomo a Dio, in un’ansimante preghiera il cui modello si trova in Haydn, nella sua Missa in
tempore belli, ma che qui diventa clamore totale dell’essere (clamor mentis intimae) come
diceva Jacopone da Todi in ‘Jesu dulcis memoria’?.
Anche Adorno, che non aveva capito per spirito razionalistico questo capolavoro, si arresta
per notare “qualcosa di sconvolgente”(e l’aggettivo ritorna nel discorso del Papa)
Beethoven impiegò non uno, ma quattro anni per completare la partitura (1822) che venne
eseguita, non più per lo scopo per cui era stata iniziata, a S. Pietroburgo il 18 aprile 1824, per
interessamento del principe Nikolaus Galitzin, il cui nome è altresì legato ai Quartetti che
Beethoven cominciò a scrivere nel 1822. Ma bisognava attendere il 29 giugno 1830, dopo una
parziale ripresa a Vienna il 7 maggio 1824, con l’esclusione cioè del Gloria e del Sanctus-
Benedictus, per trovare la prima esecuzione completa nella monarchia allora vigente. Fu per la
buona volontà e il coraggio di un maestro di scuola, Johann Vincenz Richter, che la diresse
nella piccolissima cittadina di Warnsdorf, in Boemia, a sud-est di Dresda. Ma fu Gasparo
Spuntini che, accostando nello stesso concerto a Berlino nel 1838, il Kyrie e il Gloria della Missa
Solemnis al Credo della messa in Si minore di Bach (di cui parla anche il Papa) istituì in modo
profetico il legame tra i due grandi capolavori della musica appartenenti alla fede cristiana.
Come già Mozart nel suo Requiem, non “rivestiva” più di note il testo, ma immedesimandosi
totalmente con esso “fucinava” la parola nel suono e il suono nella parola così che è egli
stesso che “parla” attraverso il testo, analogamente Beethoven crea una nuova forma
musicale in cui parola e suono scendono in abissi che scardinano le leggi codificate per urgere
ad un grido, al “grido” originario dell’essere che mendica da Dio il fiotto della sua stessa
esistenza. Non a caso, (in Beethoven niente è a caso) l’unica “deviazione” dal testo liturgico,
assolutamente e fedelmente, non come in altri musicisti, rispettato nella sua integrità,
Beethoven se la permette, dominato, lui, questa volta dalla forma, proprio sulle parole
“miserere nobis” del Gloria: O, miserere nobis! Un vocativo monosillabo di una sola lettera!


Osa aggiungere una lettera, come un bambino che piange di fronte alla madre e chiede
perdono per il suo male. Quale tenerezza, quale sospiro, dantescamente parlando, quale
commozione ci invade all’entrata del tenore solo su queste parole!
La Missa Solemnis fu eseguita al Beethovenfest del 1845 nell’inaugurazione del monumento a
Beethoven a Bonn, ospiti d’onore Federico Guglielmo IV di Prussia e la regina Vittoria, e poi la
partitura fu murata, con quella della Nona sinfonia, nel basamento della statua. Per lungo
tempo è sembrata per sempre confinata in quello zoccolo di pietra. E’ forse giunto il momento
di ascoltarla di nuovo.
“La mia opera più compiuta”. Sapeva quel che diceva.

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