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23/04/2010 18:27 | |
La Missa Solemnis di Beethoven: “l’opera mia più compiuta” (Beethoven) di Giovanni Fornasieri L’occasione per la riscoperta di quella che Beethoven considerava “la mia opera più compiuta”, più perfetta o completa, diremmo noi, ci è data dal video-messaggio inviato da Benedetto XVI ai partecipanti della XX GMG svoltasi a Colonia nel 2005. Un vero e proprio evento, passato del tutto inosservato sia da parte del pubblico degli ascoltatori sia, fatto ancor più rilevante, da parte degli “addetti ai lavori”, credenti o no. Ciò è tanto più rilevante in quanto il Papa non riflette solamente da un punto di vista religioso ed umano, ma anche da quello di musicista (è pianista) e profondo conoscitore della storia della musica, entrando quindi nel vivo della materia esaminata. Già il Papa in altre occasioni era entrato nel merito della musica e della “ferita della bellezza” come la chiama lui stesso. Nel libretto “La bellezza, la Chiesa” (Libreria Editrice Vaticana e Itaca, 2005), Ratzinger ricorda con commozione: “Resta per me un’esperienza indimenticabile il concerto di Bach diretto da Bernstein a Monaco di Baviera dopo la precoce scomparsa di Karl Richter (direttore d’orchestra tedesco noto per le sue esecuzioni di Bach ndr). Ero seduto accanto al vescovo evangelico Hanselmann. Quando l’ultima nota di una delle grandi Thomas- Kantor-Kantaten (Cantate composte nella chiesa di S. Tommaso a Lipsia dal Kantor, cioè Bach ndr) si spense trionfalmente, volgemmo lo sguardo spontaneamente l’un l’altro e altrettanto spontaneamente ci dicemmo: “ Chi ha ascoltato questo, sa che la fede è vera”. In quella musica era percepibile una forza talmente straordinaria di realtà presente da rendersi conto, non più attraverso deduzioni, bensì attraverso l’urto del cuore (sembra don Giussani! ndr), che ciò non poteva avere origine dal nulla, ma poteva nascere solo grazie alla forza della verità che si attualizza nell’ispirazione dl compositore. Così Benedetto XVI dice ai partecipanti: ”Un’ opera che ci fa sentire la forza di una fede profonda, anche Beethoven, un uomo combattuto e sofferente, in un epoca di transizione, sentì la profonda necessità, dopo la Messa in do che esplorava tutte le possibilità della liturgia, di creare una grande opera da messa con cui esprimere tutto il suo animo e il suo conflitto con Dio, e questo senza lasciarsi limitare da considerazioni riguardo alla realizzabilità dell’ opera. La Missa Solemnis non è più musica liturgica. Il soggetto, con la sua passionalità e grandezza, testimone di un epoca di transizione, prende una posizione di primo piano. Anche la fede nella Chiesa non è più data per scontata. Le preghiere, ora, esprimono la lotta con Dio, la sofferenza per Dio e la sofferenza interiore e sono come i gradini di una scala alla quale l’umanità si aggrappa, tentando di afferrare Dio, di andargli incontro, e di rinnovare la gioia in Dio. In questo senso, la Missa Solemnis è una sconvolgente testimonianza di una fede sempre alla ricerca, che si tiene ben salda al Signore e che, nei secoli, lo riscopre attraverso la preghiera. La Missa Solemnis, unica nella sua grandezza, appartiene al mondo della fede cristiana. E’ preghiera nel senso più profondo della parola. Ci conduce alla preghiera, ci conduce a Dio”
La Missa Solemnis nacque come composizione d’occasione sullo stimolo esterno dell’annuncio che il 9 marzo 1820 l’allievo e protettore arciduca Rodolfo avrebbe solennemente preso possesso della sua sede arcivescovile di Olmutz, in Moravia.. Era l’inverno del 1818 e Beethoven aveva davanti a sé più di un anno per portare a termine il lavoro. ma si avvide subito che non avrebbe potuto procedere con la disinvolta sicurezza di un Haydn, per esempio. Troppi problemi affollavano e turbavano la sua coscienza stilistica, che non poteva, dopo la precedente esperienza della messa in Do maggiore, citata dal Papa, affrontare il testo dell’Ordinarium secondo le formule ormai fossilizzate del cosiddetto “stile da chiesa” cristallizzatosi nei secoli precedenti, e che costituiva un sicuro approdo per ogni serio e stimato professionista della musica. Beethoven sente la necessità di inventare qualcosa di nuovo, ma andando a ricuperare nei grandi modelli del passato quelle suggestioni linguistiche e musicali che i suoi contemporanei andavano rileggendo in chiave puramente conservativa e tutto sommato ideologica (Si veda a questo proposito il saggio di E.T.A Hoffmann, Musica religiosa antica e moderna, 1814, poi compreso nei Fratelli di Serapione, nel quale l’autore sosteneva, in sostanza, che solo la musica di Palestrina e la polifonia a cappella rispondono pienamente agli ideali della vera musica religiosa). Beethoven vuole documentarsi sui modi (scale) ecclesiastici e sui procedimenti compositivi degli antichi polifonismi. Prima della composizione del Kyrie, ad es. scrive. “Per scrivere della vera musica religiosa, esaminare tutti i corali ecclesiastici dei monaci, ecc., farne degli estratti, anche delle strofe, nelle migliori traduzioni con la prosodia più esatta di tutti i salmi ed inni cattolici” Un intenso lavorio, affidato anche al discepolo Czerny, in cui il passato diventa fonte di ispirazione potente, sprone ad un cambiamento inusitato di linguaggio. Un atteggiamento che prefigura (il genio è sempre profeta) la posizione dei futuri compositori del Novecento, per es. Stravinskij. Ciò che ne risulta è un “inaudito Beethoven “ (per parafrasare il felice titolo della mostra su Beethoven ad un recente Meeting di Rimini) e che ha scandalizzato fino all’incomprensione celebrati filosofi e sociologi della musica, tra i quali Adorno (cfr. il saggio Straniamento di un capolavoro” nell’ed. italiana di Dissonanze (Milano, 1959, pp. 205 e sgg.) Non il “solito” Beethoven che enuncia e sviluppa i temi come nessuno sa fare, ma incisi melodici sottilmente uniti da straordinarie innervature strumentali, in cui il particolare si illumina nell’immensità dell’architettura complessiva. Come dice don Giussani in una delle Tischreden, “la totalità è concreta, il particolare è astratto” E’ solo guardando una grande cosa che il particolare acquista senso, perché se è “abstractum”, tolto dall’insieme, il particolare non si capisce più. Come per conoscere (sono ancora parole di Giussani) occorre “una distanza”, altrimenti l’occhio si “appiccica” al quadro diventando miope, così la Missa Solemnis è come un immenso affresco davanti al quale è necessario indietreggiare alcuni passi per poterne abbracciare l’arco compositivo nella sua interezza, così come i “singoli elementi di un complesso architettonico -finestra, edicola, rosone, colonna, arco- pur possedendo un organismo proprio e “individuale” si “fondono” e legano con il tutto (G. Carli Ballola). Alcuni passaggi sono indimenticabili. Primo fra tutti il Credo, che Beethoven in un primo tempo avrebbe voluto introdurre da una fanfara orchestrale con “timpani, trombe e tromboni”. Un tema che ha imperiosità monumentale e le cui quattro note si infiggono come pali ai punti cardinale della tonalità, stagliandosi poi di tanto in tanto dall’alto del fitto lavorio di sutura delle “idee secondarie” come un vessillo tra la mischia. E il Sanctus, con quella solenne e misteriosa introduzione in Adagio in cui Beethoven sembra aver scoperto l’antica ed esatta etimologia del termine “sanctus”, se-gregato, separato, misteriosamente “eletto”: non clangori di orchestra e coro, ma lineare e purissimo, ancorché antico, intrecciarsi di frasi dei solisti che richiamano l’antica polifonia fiamminga del XV secolo. E che dire del Benedictus, la cui melodia fiorisce prodigiosamente, come dall’alto di un sottile stelo, su un “sol” acuto del violino solista (il più bel solo orchestrale di violino che esista), sorretto dal brillio argentino di flauti e clarinetti, anticipo e prefigurazione di quelle “melodie infinite” che ritroveremo negli ultimi Quartetti? O del “Dona nobis pacem” su cui Beethoven annota “per la pace interna ed esteriore” trasformando così la parola liturgica in un grido dell’uomo a Dio, in un’ansimante preghiera il cui modello si trova in Haydn, nella sua Missa in tempore belli, ma che qui diventa clamore totale dell’essere (clamor mentis intimae) come diceva Jacopone da Todi in ‘Jesu dulcis memoria’?. Anche Adorno, che non aveva capito per spirito razionalistico questo capolavoro, si arresta per notare “qualcosa di sconvolgente”(e l’aggettivo ritorna nel discorso del Papa) Beethoven impiegò non uno, ma quattro anni per completare la partitura (1822) che venne eseguita, non più per lo scopo per cui era stata iniziata, a S. Pietroburgo il 18 aprile 1824, per interessamento del principe Nikolaus Galitzin, il cui nome è altresì legato ai Quartetti che Beethoven cominciò a scrivere nel 1822. Ma bisognava attendere il 29 giugno 1830, dopo una parziale ripresa a Vienna il 7 maggio 1824, con l’esclusione cioè del Gloria e del Sanctus- Benedictus, per trovare la prima esecuzione completa nella monarchia allora vigente. Fu per la buona volontà e il coraggio di un maestro di scuola, Johann Vincenz Richter, che la diresse nella piccolissima cittadina di Warnsdorf, in Boemia, a sud-est di Dresda. Ma fu Gasparo Spuntini che, accostando nello stesso concerto a Berlino nel 1838, il Kyrie e il Gloria della Missa Solemnis al Credo della messa in Si minore di Bach (di cui parla anche il Papa) istituì in modo profetico il legame tra i due grandi capolavori della musica appartenenti alla fede cristiana. Come già Mozart nel suo Requiem, non “rivestiva” più di note il testo, ma immedesimandosi totalmente con esso “fucinava” la parola nel suono e il suono nella parola così che è egli stesso che “parla” attraverso il testo, analogamente Beethoven crea una nuova forma musicale in cui parola e suono scendono in abissi che scardinano le leggi codificate per urgere ad un grido, al “grido” originario dell’essere che mendica da Dio il fiotto della sua stessa esistenza. Non a caso, (in Beethoven niente è a caso) l’unica “deviazione” dal testo liturgico, assolutamente e fedelmente, non come in altri musicisti, rispettato nella sua integrità, Beethoven se la permette, dominato, lui, questa volta dalla forma, proprio sulle parole “miserere nobis” del Gloria: O, miserere nobis! Un vocativo monosillabo di una sola lettera!
Osa aggiungere una lettera, come un bambino che piange di fronte alla madre e chiede perdono per il suo male. Quale tenerezza, quale sospiro, dantescamente parlando, quale commozione ci invade all’entrata del tenore solo su queste parole! La Missa Solemnis fu eseguita al Beethovenfest del 1845 nell’inaugurazione del monumento a Beethoven a Bonn, ospiti d’onore Federico Guglielmo IV di Prussia e la regina Vittoria, e poi la partitura fu murata, con quella della Nona sinfonia, nel basamento della statua. Per lungo tempo è sembrata per sempre confinata in quello zoccolo di pietra. E’ forse giunto il momento di ascoltarla di nuovo. “La mia opera più compiuta”. Sapeva quel che diceva. 4 |