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TESTIMONIANZE DI PERSONE SPECIALI

Ultimo Aggiornamento: 02/03/2023 19:58
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30/01/2016 22:43
 
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Il regista del film di Checco Zalone:
ho scoperto la fede dopo un percorso doloroso

L'autore di "Quo vado?" e degli altri film del comico pugliese racconta la sua conversione e il "filo" che lega il pontefice a Zalone



Dietro le quinte c’è un uomo che in pochi conoscono. Ma in realtà è la mente di un successo straordinario.

Come in molti sapranno il nuovo film diChecco Zalone “Quo vado?”, ha battuto ogni record di incasso al botteghino. Se l’interpretazione del comico pugliese è ben nota a tutti, la figura dell’autore e regista del film è tutt’altro che conosciuta: si tratta di Gennaro Nunziante.

Un uomo che gira al largo da red carpet e ospitate televisive. E di lui probabilmente non sapremmo niente se Zalone non si premurasse di sottolineare l’apporto decisivo del suo socio e amico di scrittura Nunziante.

INQUIETUDINE SENZA RISPOSTE

Nunziante racconta al settimanaleCredere (20 gennaio) il suo incontro con la fede. «Da giovane ho frequentato un oratorio salesiano: qui ho conosciuto un prete che mi ha fatto leggere alcuni libri di cinema e portato a vedere dei film. Però la fede non è arrivata in quegli anni: all’epoca la mia era più che altro partecipazione a dei rituali. La conversione vera è arrivata in età adulta, attraverso un percorso di grande dolore: mi sono reso conto che volevo avere tutto ma che, al contempo, tutto era niente. Iniziai a percepire dentro di me un’inquietudine a cui non sapevo dare risposta».

OSSERVARE SE STESSI

Poi, prosegue Nunziante, «di colpo ho cominciato a intuire cosa mi ero perso per strada. Il mio è stato un percorso molto semplice basato, più che sulla meditazione di testi teologici, sull’osservazione della vita alla luce della fede. Ho iniziato così a fare un lavoro dentro di me, stando però molto attento a un concetto: spesso noi cattolici commettiamo l’errore di vantare una maggiore conoscenza presunta della vita. Una superiorità che sinceramente non so nemmeno dove sia di casa: io mi sento un ipocrita che si alza la mattina e chiede pietà di sé al Signore per la pochezza d’uomo che sono».

DOLORE E LIETO FINE

Una prospettiva che gli permette di non scadere nel cinismo o nell’invettiva sociale, tipici invece di molti film comici. «Preferisco accanirmi su di me e raccontare le mie falsità, anche perché conosco molto meglio le mie ipocrisie, che non quelle degli altri.Per anni un certo cinema pseudo autoriale ci ha raccontato storie di amarezza e aridità. Io provengo da una famiglia povera e ho conosciuto il mondo dell’amarezza ma le assicuro che il finale è lieto perché il dolore ti segnala che devi cambiare qualcosa nella tua vita».

LA RIVELAZIONE DI DIO

Un finale lieto che ispira anche i film che scrive. «E’ lieto perché lo scopo della nostra vita è la gioia. Io stesso, a distanza di anni, mi sono ritrovato a rivalutare alcuni episodi terribili della mia vita, perché mi sono accorto che erano dei campanelli di allarme necessari perché io poi potessi gioire. Questo, peraltro, dimostra come l’uomo abbia un senso molto grossolano (per non dire errato) di ciò che è male e di ciò che è bene.Eppure proprio questa nullità dell’uomo, questo suo essere niente, è rivelazione di Dio e il cinema dovrebbe avere l’umiltà di inchinarsi davanti alla pochezza umana. Quanto al finale di una storia, lo vivo come un crocevia dove devo scegliere tra un’aggressione finale a un uomo oppure un abbraccio, all’insegna del “possiamo migliorare e cambiare insieme”».

OSPEDALE DA CAMPO

Nunziante sceglie sempre questa seconda strada «perché è così che sono stato accolto quando sbagliavo: pur facendomi notare l’errore, qualcuno mi ha sempre teso una mano e aiutato ad andare avanti. E in fondo è questo il grande richiamo di Papa Francesco quando parla della Chiesa come un ospedale da campo. So di non avere l’appeal del cineasta impegnato, ma non mi interessa perché non mi rappresenterebbe. Io sono figlio di una comunità fatta di amici, solidarietà e accoglienza: così sono cresciuto e così considero la vita, e pazienza se qualcuno mi taccerà di buonismo».


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25/02/2016 11:36
 
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Barrie Schwortz,
il fotografo ebreo convertito dalla Sindone

 Raccontavamo in precedenza della conversione del famoso documentarista e regista, David Rolfe, dopo aver studiato la Sindone di Torino: «Ateo convinto e consapevole dell’esistenza di numerose reliquie false, ho prodotto il mio primo documentario sull’argomento, “The Silent Witness”, (Il testimone silenzioso) nel 1977, deciso di scoprire e mostrare come e da chi era stata contraffatta la Sindone. Non potevo pensare che ci fosse un’altra spiegazione […]. Il mio documentario, lungi dal rivelare la contraffazione, è divenuto un argomento affascinante per laprobabile autenticità della Sindone […]. Noterete da come mi esprimo che nel corso della produzione sono divenuto credente e cristiano», ha raccontato.

Un’altra conversione molto simile è accaduta al fotografo ebreo Barrie Schwortz, responsabile della fotografia per il “Shroud of Turin Research Project” (STURP), il team che ha condotto il primo approfondito esame scientifico della Sindone nel 1978. Attualmente svolge un ruolo importante nella ricerca sulla Sindone e nella sua spiegazione e divulgazione. E’ editore e fondatore del sito Shroud of Turin Website (www.shroud.com). Schwortz è apparso in programmi e documentari di tutto il mondo, tra cui The History ChannelDiscovery ChannelLearning ChannelNational Geographic ChannelCNNBBCFox NewsChannel 1 Russia, le sue fotografie sono apparse in centinaia di libri e pubblicazioni tra cui National GeographicTime Magazine e Newsweek. In una recente intervista, svolta presso l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum dove ha tenuto delle lezioni nell’ambito del corso per il Diploma di specializzazione in Studi Sindonici, ha raccontato come lo studio della Sindone lo abbia condotto a conoscere Dio e a essere un uomo di fede.

Ha iniziato parlando della Sindone: «All’inizio del mio lavoro, ero molto scettico sulla sua autenticità. Non provavo nessuna emozione particolare nei confronti di Gesù perché sono stato cresciuto come un Ebreo ortodosso. L’unica cosa che sapevo di Gesù era che anche lui era un ebreo, e questo era tutto. Esaminando la Sindone, ho capito subito che non era dipinta». Dopo 18 anni di studi, la convinzione completa è arrivata quando «il chimico del sangue Allen Adler, un altro ebreo che faceva parte del gruppo di studio, mi ha spiegato perché il sangue è rimasto rosso sulla Sindone. Il sangue vecchio doveva essere nero o marrone, mentre il sangue sulla Sindone è di un colore rosso-cremisi. Mi sembrava inspiegabile, invece era l’ultimo pezzo del puzzle. Dopo quasi 20 anni di indagini è stato uno shock per me scoprire che quel pezzo di stoffa era il telo autentico in cui era stato avvolto il corpo di Gesù. Le conclusioni a cui ero arrivato si basavano esclusivamente sull’osservazione scientifica».

Non ha dubbi Schwortz: «una volta giunto alla conclusione scientifica che il telo fosse autentico, sono arrivato a capirne anche il significato. Si tratta del documento forense della Passione, e per i cristiani di tutto il mondo è la reliquia più importante, perché documenta con precisione tutto ciò che viene detto nei Vangeli di ciò che è stato fatto a Gesù. Penso che ci siano abbastanza prove per dimostrare che quello è il telo che ha avvolto il corpo di Gesù». La verità su Gesù è compito della fede, lui specifica che «dal punto di vista scientifico quel telo ha avvolto il corpo dell’uomo di cui si parla nei Vangeli».

Lo studio della Sindone non lo ha solo convinto dell’autenticità, ma lo ha anche cambiato, evidentemente, anche a livello personale«All’inizio dell’indagine, sapevo di Dio, ma non era molto importante nella mia vita. Non avevo pensato a Dio, da quando avevo 13 anni […]. Non ero molto religioso, era quasi un obbligo per la mia famiglia. Da allora mi sono allontanato dalla fede, dalla religione e da Dio, fino a quando non ho raggiunto i 50 anni. Quando nel 1995 sono arrivato alla conclusione che la Sindone era autentica, ho costruito il sito shroud.com. Ho iniziato a raccogliere il materiale e l’ho messo a disposizione del pubblico. Ho iniziato a parlare pubblicamente della Sindone intorno al 1996». Questo dualismo non poteva però continuare: «Quando la gente ha iniziato a chiedermi se ero un credente, non trovavo la risposta. A quel punto mi sono interrogato ed ho capito che Dio che mi stava aspettando. Ero davvero sorpreso di vedere che dentro di me c’era la fede in Dio. Fino a 50 anni avevo praticamente ignorato la fede ed improvvisamente mi sono trovato faccia a faccia con Dio nel mio cuore. In sostanza posso dire che la Sindone, è stato ilcatalizzatore che mi ha riportato a Dio». Ha concluso divertito: «Quanti sono gli ebrei che possono dire che la Sindone di Torino li ha portati alla fede in Dio?».


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02/03/2016 09:09
 
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Anna Magdalena, tanto schiva quanto affettuosa. Seconda moglie di Johann Sebastian Bach, al quale diede 13 figli, fu per 28 anni l’ammirevole compagna del genio. Non sappiamo molto di lei, nonostante questo è molto amata dai melomani.


Crederemmo all’autobiografia di finzione scritta nel XX secolo La piccola cronaca di Anna Magdalena Bach, che la immagina mentre racconta la storia del marito, ci avvicina a lei e ci permette di vederla come l’essere in carne e ossa che è stata?


Probabilmente ci piacerebbe pensare che la vita dei Bach sia stata simile a quella del racconto: una vita familiare piena di gioie, di tristezze, di figli, d’amore. Un’autentica “colombaia”, come diceva suo figlio, in cui si mescolavano amici, studenti, musicisti di passaggio e ammiratori, ma soprattutto una vita di musica e di fede profonda… Soli Deo Gloria, come Bach amava scrivere per firmare le sue partiture.


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Un volto dipinto mai trovato…

Anna Magdalena è colei che, senza volerlo, ha eclissato dalla nostra mente la prima moglie di Bach, sua cugina Maria Barbara, con la quale ha avuto sette figli durante i 12 anni di vita in comune, prima della sua morte improvvisa nel 1720.

Il volto di Anna ci rimane sconosciuto, e il suo ritratto non è mai stato recuperato. L’unica traccia reale che abbiamo è il piccolo libro di musica creato nel 1722 dal marito proprio per lei, una specie di diario che non ci mostra nulla della sua persona, ma che ci permette di capire tutto l’affetto che Bach nutriva per la moglie, di quindici anni più giovane di lui. Il quaderno include piccole composizioni scritte appositamente per lei e che le permettevano di esercitarsi al clavicembalo.

Un secondo quaderno di musica è stato scoperto nel 1725, e vi si trovano alcuni brani per pianoforte, dei passi copiati da altri compositori e anche melodie cantate, visto che Anna era musicista e aveva una bella voce.

Tra le canzoni ritrovate, c’è una breve ma splendida melodia di Gottfried Heinrich Stölzel, Bist du bei mir (per molto tempo attribuita erroneamente a Bach), una specie di piccolo messaggio che i coniugi sembravano inviarsi a vicenda: “Se stai con me, andrò con gioia verso la morte e il mio riposo. Ah! La mia fine sarebbe felice se fossero le tue belle mani a chiudere i miei occhi fedeli”.

Anche se gli storici e i musicologi hanno scritto numerose opere su Bach e la sua musica, pochi si sono soffermati ad approfondire il suo contesto familiare. Fa eccezione Philippe Lesage, germanista e appassionato di storia antica che ha pubblicato un libro intitolato Anna Magdalena et l’entourage féminin de J-S Bach (Anna Magdalena e la cerchia femminile di J.S. Bach), un lavoro notevole in cui l’autore, con grande rigore scientifico, è riuscito a raccogliere minuscoli frammenti di storia che ci permettono di scoprire un po’ meglio l’enigmatica figura di Anna Magdalena.

Una fede incrollabile in Dio

Come ha vissuto Anna questa vita dedicata interamente alla musica? Nessuno lo sa, ma si può immaginare facilmente la coppia mentre si godeva dei piaceri semplici, mostrandosi forte di fronte alle avversità e condividendo la passione per la musica che ha segnato il ritmo di ogni tappa della sua vita.

Come il marito, Anna possedeva una fede incrollabile in Dio. Il suo piccolo quaderno di musica le ha permesso di scoprire molte corali liturgiche, come esercizi di pietà domestici, del tipo che si praticava nel XVIII secolo nei Paesi germanici. Visto che la fede di Bach era parte integrante della sua vita, è questo il prisma essenziale in base al quale bisogna intendere la musica del compositore.

Attraverso la sua musica, Bach trasporta i nostri sensi alle porte dell’eternità, ci fa intravedere un pezzetto di paradiso, ci dà speranza e soprattutto ci invita a credere. Come diceva di lui lo scrittore Julien Green, “parla una lingua che si rivolge alle profondità dell’anima, una lingua che fa credere”.

Un’opera immensa ed eterna che il filosofo Emil Cioran riassumeva con questa frase: “Se c’è qualcuno che deve tutto a Bach è senz’altro Dio”.

 


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15/03/2016 08:45
 
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La conversione della filosofa Jordan Monge:
«ho trovato la fede all’università di Harvard»

JordanMongeLa spiritualità e l’agiografia cristiana sono ricche di esempi di conversioni o di radicalizzazioni di una fede tiepida, a volte per diretto intervento soprannaturale (p.es. san Paolo), per l’incontro con sofferenze e ingiustizie sociali (come sembra esser stato per san Francesco), altre volte grazie alla maturazione di un’intelligenza inquieta (p.es. sant’Agostino, e in epoca contemporanea Anthony Flew), oppure dall’aver sperimentato l’effimera vanità dei piaceri della vita (p.es. sant’Ignazio).

Negli Stati Uniti da qualche anno ha una certa visibilità il caso della filosofa e divulgatrice Jordan Monge che, comeracconta lei stessa, da un passato di ateismo si è convertita alla fede cristiana divenendo molto attiva tramite pubblicazioni cartacee e online. Dopo un’adolescenza da militante dell’ateismo, le cose cambiarono in età universitaria, ad Harvard (il cui motto è veritas). Lì ha incontrato uno studente cristiano, John Joseph Porter, col quale si trovò a discuteva cordialmente, andando oltre il “ci vuole fede” (in perfetta linea col sola fide luterano), risposta che la Monge giudicava “codardia intellettuale”. Ed invece, racconta,  ad esempio «mi ha spronato a pensare alla mia incoerenza, da atea, quando gli rinfacciavo ciò che era giusto e sbagliato, abbracciando categorie universali».

Il primo passaggio di Monge (www.jordanmonge.comfu spostarsi su posizioni deiste«il giorno di San Valentino», ha ricordato, «ho cominciato a credere in Dio. Non c’era nessuna vergogna intellettuale nell’essere deista, dopo tutto ero nelle fila di persone rispettabili come Thomas Jefferson e altri padri fondatori», modificando anche le sue riflessioni a livello filosofico e scientifico. Ma questa fase durò poco e presto intuì che la croce del sacrificio di Cristo non era “un grottesco simbolo di divino sadismo” ma “un significativo atto d’amore”, rimedio di mali e peccati dell’umanità. «La Croce sembrava non più soltanto un simbolo di amore, ma la risposta ad un bisogno incurabile. Quando ho letto per la prima volta la scena della crocifissione nel Vangelo di Giovanni mi sono ritrovata in lacrime».

Il bisogno di approfondire l’ha spinta  così a «divorare libri apologetici da diverse prospettive. Ho letto il Corano e “L’Illusione di Dio” di Richard Dawkins, ma nulla in confronto alla ricca tradizione cristiana dell’intelletto. Avevo litigato con i miei coetanei ma non avevo mai studiato le opere dei maestri: Agostino, Anselmo, Aquino, Cartesio, Kant, Pascal, e Lewis. Quando l’ho finalmente fatto, l’unica cosa ragionevole è stata quella di credere nella morte e risurrezione di Gesù Cristo». Ma, altro passaggio bellissimo, «se volevo continuare questa indagine non potevo lasciare che fosse soltanto un mero viaggio intellettuale».

Per questo, la giovane filosofia ha chiesto il battesimo cattolico nella Pasqua del 2009, comprendendo che «Dio si rivela attraverso le scritture, la preghiera, gli amici, e la tradizione cristiana». Un cammino sinergico di fede e ragione che è una perfetta incarnazione dell’incipit della Fides et Ratio(Giovanni Paolo II, 1998): “La fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità”. Significativa la frase che Jordan Monge ha usato per sintetizzare il suo percorso: «Venni a Harvard cercando la verità. Invece, questa ha trovato me».

Roberto Reggi


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20/03/2016 10:32
 
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«Dopo 35 anni di vita gay, ora divento cattolica»



Robin Beck«Non credo proprio che Dio odi i gay. Penso invece che ami le persone che vengono coinvolte in questo peccato, perché sa di avere qualcosa di molto meglio per loro». Queste le parole che abbiamo scelto per iniziare a parlare di Robin Teresa Beck, 59 anni di cui 35 trascorsi come omosessuale e con 12 relazioni alle spalle.


La donna ha raccontato la sua drammatica storia nel libro I just came for Ashes (Dunphy Press 2012): nata da genitori alcolizzati, suo padre abusava di sua madre e lei ha vissuto l’infanzia nel terrore di subire le stesse cose. L’unico ricordo positivo che ha di sua madre è quando un giorno, improvvisamente, la coccolò tra le braccia: fu l’unica volta in cui si sentì «sicura e felice».


La religione divenne una via di fuga, cominciò a frequentare la Chiesa protestante assieme alla sorella desiderando che Dio la salvasse dalla quotidiana violenza verbale, emotiva e fisica vissuta a casa. Il padre se ne andò di casa, la madre si ammalò di una malattia debilitante: guardando indietro, oggi si rende conto di quanto aveva un disperato bisogno qualcuno – chiunque – disposto ad amarla. Cominciò a frequentare il suo insegnante di musica, trascorrendo finalmente un periodo di felicità e di amore. Ma, dopo il diploma, il rapporto sbiadì e Robin si sentì tradita da lui, promettendosi di non dare più fiducia ad un altro uomo.


Durante gli anni del college un’amicizia intima con una donna si trasformò in una relazione sessuale, durò sette mesi. Lo stesso accadde con un’insegnante di religione (di sesso femminile), vissero assieme per alcuni anni ed entrarono in una associazione di cristiani gay. Trovò diverse partner all’interno di questo club, «quando iniziava una storia ero sempre sicura che finalmente avevo trovato la donna giusta. Ma in meno di un anno mi ritrovavo nuovamente infelice», racconta. Rimbalzando da una all’altra «speravo di trovare una donna stabile, amorevole, in altre parole, stavo cercando la mamma che non ho mai avuto». Continuò così per anni.


In un’intervista recente ha spiegato: «La maggior parte delle donne lesbiche hanno un deficit nel loro rapporto con la madre. So che è vero per me. Non ho avuto il nutrimento di cui avevo bisogno da mia mamma, questo mi ha procurato delle ferite che ho cercato di guarire chiedendo ad altre donne di darmi quello che mia madre non è stata in grado darmi». All’età di 46 anni, disperata per l’ennesima relazione terminata come un fuoco di paglia, «mi sono buttata sul pavimento urlando: “Oh, Dio, ti prego, dimmi che non è la mia vita!”». Guardando a quel periodo, oggi racconta:«penso che la maggior parte delle persone che vivono uno stile di vita gay sono persone ferite. Molte persone, tra cui buoni cristiani, contestano questa mia posizione. Ma io devo ancora incontrare una persona attiva in questo stile di vita che non covi qualche dolore, qualche rifiuto, qualche mancanza, in genere fin dall’infanzia. Dalla mia esperienza, è impossibile avere una relazione gay sana perché va contro il modo in cui Dio ci ha fatto».


Fu poco prima dei cinquant’anni che entrò in una Chiesa cattolica il mercoledì delle Ceneri e si recò all’altare per ricevere le ceneri benedette:«Convertitevi e credete nel Vangelo», disse il sacerdote tracciandole la croce sulla fronte. Accadde inspiegabilmente qualcosa tanto che continuò a frequentare la messa domenicale. Si convinse che il problema era che semplicemente non riusciva a creare una «sana relazione gay», l’ennesima storia con una donna «finì in rovina quando iniziammo ad attraversare la linea e andare dove invece Dio aveva detto: “Non sconfinare!”». Quella fu l’ultima sua relazione omosessuale e continuando a frequentare i sacramenti cattolici ha trovato la forza di rinunciare alla sessualità, promettendo a Dio una fiducia totale in Lui. Questo accadde sei anni fa.


Da allora «ho camminato lontano dalla vita gay e nemmeno per un attimo ho pensato di tornare indietro», ha scritto nel suo libro. Robin ha chiesto di entrare nella Chiesa, ha seguito il percorso di catechesi ed è stata accolta ufficialmente durante la Pasqua del 2010. Oggi vive un’esistenza finalmente felice. «Alcune persone», ha spiegato, «riescono a far funzionare un rapporto omosessuale, c’è chi effettivamente resta assieme ad un altro anche per 40 anni e possono anche sentirsi felici, magari. Ma credo comunque che finiscono sempre per deviare dal progetto creato per loro da Dio per essere felici. Alla fine, prima o poi, la realtà si impone sempre».


Colpisce molto quando Robin racconta i suoi tentativi di piegare il cristianesimo per giustificare i suoi comportamenti omosessuali: «ho ​​sempre avuto una forte coscienza di Dio, ma sapevo anche di aver bisogno dell’amore, e la mia unica opzione allora era l’amore di un’altra donna. Ho quindi dovuto torcere le Scritture. Mi dicevo: “Certamente Dio è d’accordo con le mie scelte, l’importante è l’amore“. In realtà volevo solamente che Dio guardasse favorevolmente sulla mia vita immorale. Quello era il mio modo di pensare perché ero così disperatamente in ricerca di amore, tanta paura di essere sola».


Parlando del Sinodo sulla Famiglia e rivolgendosi a quei pastori ormai piegati alla morale del mondo, la donna ha ricordato loro: «Io credo che ciò che la Chiesa ha bisogno di fare è di essere amorevole e sincera. Se ci limitiamo a dare la verità senza amore è come un intervento chirurgico senza anestesia. C’è bisogno di compassione. La Chiesa ha bisogno di essere un ospedale da campo. Ma la gente non può iniziare a ricevere il bene fino a quando non c’è pentimento. E nessuno si pentirà a meno che non sentirà la verità. La verità è che Dio ci ha creati maschi e femmine, l’uno il compagno dell’altra. Andare contro questo progetto distrugge l’anima. Non ci sono compromessi su questa verità. Mi fa molta paura che i miei amici omosessuali possano sentirsi dire da un pastore cattolico: “Ok, va bene così!”».


«La Chiesa ha bisogno di dire questo con amore alle persone omosessuali: “Non è quello che sei, sei su un percorso distruttivo per te. La buona notizia è che siamo con te, anche se cadrai mille volte noi ci saremo ancora. I sacerdoti devono dire la verità con amore. Se la gente si arrabbia e se ne va, bene, così sia. Quando le loro vite si romperanno allora torneranno. E torneranno in un posto che è veramente un ospedale da campo, dove le persone possono trovare il vero conforto e la liberazione».



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21/03/2016 11:54
 
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Carlotta Nobile.  Violinista, blogger, storica dell'arte.

Era la Domenica delle Palme del 2013. Papa Francescoparlava ai giovani riuniti in piazza S. Pietro per la Giornata mondiale della Gioventù: “Voi non avete vergogna della Croce, anzi l’abbracciate perché avete capito che è nel dono di sé, nell’uscire da se stessi, che si ha la vera gioia e che con l’amore di Dio, Lui ha vinto il male”. Carlotta seguiva la celebrazione dalla tv, nella sua casa di Benevento. Sentì le parole di papa Francesco e in quel momento tutto acquistò un senso: la malattia, il dolore, la vita che a 22 anni già segnava la parola “fine”. Violinista precoce dal grande talento, concertista di fama nonostante la giovane età, studi storico artistici a La Sapienza e alla Luiss di Roma, corsi di storia dell’arte contemporanea all’Università diCambridge e al Sotheby’s Institute di New York, autrice di due libriCarlotta Nobile fino a quel momento aveva attraversato la vita di corsa, quasi con il vento nei lunghi capelli biondi che le donavano un aspetto scandinavo. “Sono come un fiume – scriveva nel 2007 – che per immettersi nel mare sceglie sempre la strada più tortuosa, la più lunga. La più difficile. Forse perché in fondo credo che vincere con facilità sia come perdere. E che perdere dinanzi all’impossibile sia come aver vinto. Per il solo fatto di averci provato. La mia vita è stata tutta così. Una sfida. Challenge. E penso che sarà sempre così”.

Infatti quando si presenta il cancro Carlotta affronta anche la malattia come una sfida da vincere. Nell’aprile del 2012 apre una pagina Facebook, intitolata “il Cancro e poi” in cui posta pensieri e riflessioni che l’attraversano, condividendole con tante persone che vivono la sua stessa lotta e a cui offre sostegno e aiuto morale. E alla sua “seconda famiglia” social comunica la “cosa straordinaria” che le è accaduta dopo un ricovero a Milano “e dopo la notizia delle nuove metastasi cerebrali oltre a quelle a polmoni e fegato”: “Ho trovato la fede e l’abbandono che questa croce di questo brutto cancro sia per me un’incredibile OPPORTUNITA’ DI CRESCITA, anche se a volte tutti noi ‘cancerosi’ sappiamo quanto sia difficile conviverci. (…) Il mio modo di vivere questo cancro (proprio ora, nel momento in cui si mostra più aggressivo con me!!!) è diventato di una serenità e di una fiducia uniche…E tutto questo grazie alla FEDE e a questo straordinario nostro Papa Francesco (…) che dice che i giovani devono portare la croce con gioia”.

Tutti quelli che stanno intorno a Carlotta – i genitori, l’amatissimo fratello Matteo, il fidanzato Alessandro, gli amici – diventano testimoni dello straordinario affidamento, dell’abbandono consapevole e senza condizioni a Dio che si esprime nella preghiera delPadre Nostro continuamente recitata.

Alla madre, insegnante di violino che le ha trasmesso la passione per questo strumento, Carlotta scrive sms del tipo:

“Mamma…il cancro è la cosa migliore che mi sia capitata…”.

“Ma è vero!!!”

“Cioè io mi sarei persa la parte migliore di me”

“A me dispiace tanto nn poterlo urlare a tutti. Perchè davvero è la cosa di cui sono più orgogliosa nella mia vita”

“Altro che di tutto quello che ho fatto in 24 anni, di tutta la fatica che ho fatto!”.

 Una santa? Oppure: “Un pò matta – come le risponde affettuosamente la madre, dilaniata dal peggiore dolore che un genitore si trovi ad affrontare -. Meravigliosa però…Capace di dimostrare di amare la vita oltre ogni limite…C’è una spiritualità straordinaria in tutto questo…Incredibile…Perciò sei e sarai aiutata”.

A Roma Carlotta incontra nella chiesa di san Giacomo al Corso, il parroco don Giuseppe Trappolini, a cui racconta la sua storia, la lotta con il melanoma e la gioia provata ascoltando le parole di papa Francesco. Don Trappolini decide di raccontare al pontefice in una lettera la storia di Carlotta e Bergoglio, con la spontaneità che lo contraddistingue, gli telefona in parrocchia per ringraziarlo e per assicurare a Carlotta la sua preghiera. Anche Carlotta scrive al papa, per comunicargli la sua fiducia nella vita e nell’incontro con Dio: “So che il cancro mi ha guarita nell’anima, sciogliendo tutti i miei grovigli interiori e regalandomi la Fede, la Fiducia, l’Abbandono e una Serenità immensi proprio nel momento di maggior gravità della mia malattia”.

 

Si può diventare santi in pochi mesi? La santità degli altari, il riconoscimento ufficiale della Chiesa – come persan Domenico Savio, santa Clelia Barbieri o il beato PierGiorgio Frassati, tutti santi giovani -, lo sa solo Dio se e quando avverrà, afferma don Trappolini. Tuttavia, aggiunge, “la santità di Carlotta come persona che abbia potuto incontrare Dio in questa vita e nell’altra vita per me è una certezza. Ho la certezza che abbia santificato gli ultimi mesi della sua vita nel modo più canonico che conosciamo: una vita profonda di fede, di preghiera, di sofferenza. Questa sua vita lei l’ha unita a Cristo crocifisso. Questa è santità. Io penso proprio che la santità è l’incontro con il Signore. I tempi sono soltanto nostri”.

Carlotta Nobile è morta il 16 luglio 2013 a 24 anni. Il desiderato incontro con papa Francesco, che le aveva dato la sua disponibilità, non si è potuto realizzare. E Carlotta non ha potuto nemmeno partecipare ai tre concerti organizzati con l’Associazione Donatori di Musica, con musicisti che suonano nei reparti oncologici degli ospedali per coadiuvare le terapie mediche. Dopo la sua morte le sono stati dedicati concerti, mostre d’arte, manifestazioni e assegnati riconoscimenti alla memoria. Nel 2015 è nata l’”Associazione Centro Studi Carlotta Nobile” con l’obiettivo di promuovere attività e di iniziative “legate alle sue ricerche culturali, alle sue passioni ed al suo amore – immenso – per la vita.”


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13/04/2016 11:53
 
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Svetlana Allilueva,
l’incredibile conversione cattolica della figlia di Stalin

figlia di stalin«Ho smesso di illudermi di potermi mai liberare dell’etichetta “la figlia di Stalin”. Non si può rimpiangere il tuo destino, anche se mi dispiace che mia madre non abbia sposato un falegname». Queste le parole pronunciate, in una delle sue ultime interviste, da Svetlana Iosifovna Allilueva, figlia di Joseph Stalin e della sua seconda moglie, Nadezhda Allilueva.

Svetlana è nata nel 1926, quando il padre era già primo segretario generale del Partito comunista sovietico. La madre morì sei anni dopo, ufficialmente di peritonite ma quasi sicuramente suicidatasi nella notte dell’8 novembre 1932, frequentò saltuariamente i genitori (seppur era la preferita del padre Joseph) e crebbe con una bambinaia. Ha comunque raccontato di essere sempre stata coccolata dal padre, il quale talvolta si sedeva per aiutarla nei compiti e cenare con lei e i suoi amici, figli dei collaboratori. A scuola veniva trattata come una “zarina”, un suo compagno di classe ha ricordato che il suo banco brillava come uno specchio, l’unico ad essere lucido. Durante le purghe, ogni volta che i genitori dei suoi compagni venivano arrestati, essi cambiavano classe, in modo che lei non entrasse in contatto con i “nemici del popolo”.

Tuttavia i rapporti con il padre si incrinarono all’età di 16 anni, sia perché Stalin fece “sparire” due zii a cui lei era molto affezionata, sia perché trovò un documento riservato sul suicidio della madre, che le era stato nascosto. «Qualcosa in me si distrusse»ha ricordato«Non fui più in grado di rispettare la parola e la volontà di mio padre». Poco dopo, infatti, si innamorò di un regista ebreo di 40 anni, Aleksei Kapler, che, con una scusa, venne condannato da Stalin a dieci anni di esilio in una città siberiana, poiché disapprovava il loro rapporto. A 17 anni si è sposata con Grigory Morozov, un compagno di studi, anche lui ebreo, ricevendo il permesso -seppur a malincuore- dal padre («È primavera. Se desideri sposarti, fallo, che l’inferno sia con te», è stata la sua reazione), che però non volle mai incontrare lo sposo. Nel 1945 ebbero un figlio, Joseph, ma divorziarono nel 1947. Due anni dopo, Stalin combinò il suo secondo matrimonio con con Yuri Zhdanov (figlio di un suo collaboratore), ma anche questo matrimonio -dal quale nacque la figlia Yekaterina- naufragò quasi subito.

Nel 1953, Svetlana assistette alla morte del padre, così la descrisse: «L’agonia era terribile, venne letteralmente soffocato dalla morte. In quello che sembrava essere l’ultimo istante di vita, ha improvvisamente aperto gli occhi, gettando uno sguardo sui presenti nella stanza, uno sguardo terribile, folle o forse di rabbia, pieno di paura. Poi, d’un tratto, ha alzato la mano sinistra. Il gesto era incomprensibile, sembrava di minaccia. E’ morto nell’istante successivo». Molti parlano di morte per avvelenamento e c’è chi sospetta proprio di Svetlana. Dopo la morte del padre, la donna ha assunto il cognome della madre, Allilueva, lavorando come docente e traduttrice a Mosca. Nel 1963 ha vissuto con un politico comunista indiano di nome Brajesh Singh fino al giorno della morte dell’uomo, in quell’occasione si recò in India, immergendosi nei costumi locali e fu l’occasione in cuiabbandonò l’ateismo trasmessole dal padre e dalla società sovietica. Si battezzò nella Chiesa ortodossa russa e nel 1967, dopo aver incontrato l’ambasciatore americano a Nuova Delhi, decise di trasferirsi negli Stati Uniti, ottenendo asilo politico, vivendo sotto la protezione dei servizi segreti.

La conversione al cattolicesimo arrivò grazie alla frequentazione del monastero carmelitano di Friburgo, dove rimase nascosta per un mese, ed in seguito al rapporto con padre Garbolino, un sacerdote italiano della Pennsylvania, che la invitò a recarsi in pellegrinaggio a Fatima in occasione del 70° anniversario dell’apparizione. «Nel 1969 padre Garbolino è venuto a farmi visita a Princeton, al tempo ero divorziata e infelice, ma lui, da buon sacerdote, ha sempre trovato le parole giuste e ha promesso di pregare sempre per me»ha scritto la donna, nel frattempo appassionatasi dei libri di Raïssa Maritain, moglie russa di Jacques Maritain, anche lei convertitasi al cattolicesimo dopo essere stata allevata nell’ebraismo e nell’ateismo. Dopo aver scritto due autobiografiche -diventate best-seller-, nelle quali ha denunciato il padre come un “mostro” e ha attaccato l’intero sistema sovietico-, dal 1970 al 1973 è stata unita in (terzo) matrimonio con William Wesley Peters, dal quale si separò quattro anni dopo. Da loro nacque Olga. Assunse il nome di Lana Peters e nel 1982 si trasferì a Cambridge, in Inghilterra dove, in occasione della festa di Santa Lucia, chiese ed ottenne ilbattesimo cattolico. Ad un certo punto, ha raccontato la stessa Svetlana, ha addirittura nutrito la speranza di diventare suora.

Dopo una breve permanenza in Unione Sovietica (disincantata dall’Occidente) e negli Stati Uniti, ritornò nel Regno Unito fino al 2009. Lacorrispondenza con il sacerdote cattolico inglese che la accolse nella Chiesa cattolica il 13 dicembre 1982, emersa solo dopo la sua morte, ha rivelato la profondità della sua fede cristiana. «Grazie e ancora grazie», scrisse al sacerdote pochi giorni dopo il battesimo. «Grazie per aver aperto questa porta per me. Non posso descrivervi il buio degli ultimi anni e la grande pace interiore che mi possiede ora!». Il 7 novembre 1982, prima del battesimo, ha descritto «la mia costante e persistente ammirazione per la Chiesa di Roma e il desiderio “di essere lì”. Come una bussola gira sempre verso il Polo Nord, io continuo a girare per tutto il tempo verso la stessa direzione: Roma. Frequento la messa a Cambridge, guardo i martiri inglesi e la Madonna, osservo il ritorno dei fedeli ai loro posti, dopo aver ricevuto la Comunione: guardo i volti puliti della gente. Mi piace guardare quella trasformazione così visibile». La stessa fede traspare anche dieci anni più tardi, in una lettera del 7 dicembre 1992, in cui racconta difrequentare quotidianamente i sacramenti e la chiesa carmelitana Kensington Church Street, a ovest di Londra. «Mi sento forte e più forte dopo questi 10 anni, sono nel posto giusto». L’ultima lettera al sacerdote risale al 23 gennaio 1993.

La figlia Olga, nipote di Stalin, ha oggi 44 anni e vive con il nome di Chrese Evans a Portland, nell Oregon. Un giornalista del Daily Mail è riuscito a rintracciarla, amante delle armi e dei tatuaggi, ha ricordato di sua madre: «Aveva una incredibile fede, mi ha amato in un modo incondizionato, come non ho sentito da nessun altro». Nel libro “The Last Words”, dedicato al suo amico sacerdote, Svetlana ha parlato della nonna paterna, che aveva mandato il giovane Stalin nel seminario ortodosso di Tbilisi, in Georgia. «Penso che tutti i problemi e le crudeltà di mio padre, la disumanità del suo partito, siano causate dall’abolizione del cristianesimo», ha scritto. «I suoi problemi sono iniziati quando ha abbandonato il seminario all’età di 20 anni. E’ stato allora, proprio allora, che la sua giovane anima smise di combattere il male, e dal Male è stato afferrata e mai più lasciata sola».

«Ho pregato Dio per la prima volta a 36 anni, chiedendo di guarire mio fratello Vasilij»ha scritto«Non conoscevo nessuna preghiera, nemmeno il Padre Nostro. Mi sono battezzata come ortodossa il 20 maggio 1962, ho avuto la gioia di conoscere Cristo, ma ignoravo quasi tutta la dottrina cristiana. Ho maturato la conversione cattolica per molto tempo e dal cattolicesimo ho imparato una cosa su tutte: la benedizione della vita quotidiana, anche della più piccola e nascosta azione. Non sono mai stata capace di perdonare e pentirmi, oggi, da cattolica, sono diversa da prima, sopratutto da quando frequento la messa ogni giorno. Sono stata accolta tra le braccia della Vergine Maria, che non ero mai stata abituata a chiamare per nome».

Svetlana Stalin è morta il 22 novembre 2011. Questa è l’incredibile storia di conversione della figlia del più sanguinario dittatore della storia, a capo del primo Paese ufficialmente e politicamente ateo.


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07/05/2016 08:42
 
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Conversioni,
quando l’imprevisto cambia la vita in Cina e a Taiwan

taiwanLa direzione di un importante canale televisivo di Taiwan, il Kuangchi Program Service, ha voluto creare un format sul messaggio di Papa Francesco, così la famosa e atea conduttrice ha iniziato ad informarsi su questo sconosciuto e sulla sconosciuta Chiesa cattolica, iscrivendosi di mala voglia ad un corso di catechesi.

E’ nata in questo modo la conversione di Chou Yong-Mei (nella foto, al centro) 20 anni di lavoro in televisione alle spalle, che negli ultimi due ha lavorato in maniera ininterrotta per la creazione di una lunga serie televisiva sulla vita del Pontefice, in onda proprio da pochi giorni con il titolo “Oh my God!”.

«All’inizio sono stata contattata per stendere una bozza per una serie di video della durata di sette minuti su papa Francesco»ha spiegato la donna. «Ho cominciato a leggere i suoi messaggi, la sua biografia e ad ascoltare alcuni contenuti. Ho capito subito che non si poteva fare una cosa ridotta, così ho chiesto alla presidente di progettare un programma serio con puntate di mezz’ora ciascuna. I contenuti di papa Francesco erano troppo importanti da presentare nella loro integrità, con esempi vissuti da persone reali nella vita reale. Dovevo informarmi e aggiornarmi, non ero cattolica. Ho deciso di iscrivermi al catechismo per capire come funziona il tutto. Quando ho incontrato le persone reali, in carne e ossa, all’interno della comunità cattolica, ho visto la loro dedizione e la forza della loro fede. Sono stata impressionata dalla quantità e dalla qualità del servizio prestato da molti membri della comunità e da molte istituzioni che non sapevo nemmeno fossero cattoliche».

Ha scelto di filmare in particolare «il lavoro delle comunità cattoliche, soprattutto per quanto riguarda l’attenzione ai bisognosi o all’impegno di molti fedeli e religiosi “sconosciuti” ai media. Ci siamo concentrati sulle realtà più periferiche, i villaggi e le campagne di Taiwan, quelli che non appaiono in prima pagina». Poco a poco, però, «partecipare al catechismo non è stato solo legato al fine di trovare informazioni, si è trasformato in una ragione di vita. Ho capito che la forza che veniva dalle persone che incontravo proveniva dalla scelta di fede che avevano fatto. Così mi sono convinta che dovevo chiedere il battesimo. I contenuti del programma sono rappresentati dal grande lavoro che i cattolici fanno per la società, non solo all’interno della Chiesa. Non mettiamo in onda papa Francesco per venerarlo, così come non riprendiamo fedeli, suore o preti per farne degli eroi, ma presentiamo il lavoro di un’intera comunità sostenuta da grandi ideali per la vita comune, attenta ai problemi di ogni giorno. Mi sembra questo lo spirito di papa Francesco».

Un’altra sorprendente conversione è quella di Yan Xu, un artista della Cina centrale. Triste dopo il licenziamento dal lavoro, ha vagato per la città conun album da disegno, realizzando schizzi degli edifici urbani. «E’ così che ho trovato la cattedrale di S. Giuseppe», ha raccontato. «Era magnifica, bellissima. Ci sono tornato altre volte, il terzo giorno mi si è avvicinato un sacerdote cattolico e abbiamo iniziato a parlare. Per anni avevo trascurato la religione e volevo sapere di più sulla fede. Ho iniziato a partecipare alla Messa domenicale, pregavo il Signore di mostrarmi la via anche se non ero cattolico». Dopo sette anni, nella Pasqua del 2011, Yan ha chiesto il battesimo cattolico.

«La Cina è lontano da Roma», ha spiegato, «ma i cattolici cinesi pregano sempre perché il Papa potrà visiterà la nostra terra, un giorno, in futuro. La Repubblica Popolare è un paese socialista, la maggior parte delle persone non ha preferenze religiose. Amo la mia Chiesa, ci sono tanti meravigliosi giovani cattolici». Tra le principali difficoltà nel vivere la fede in Cina c’è la mancanza dei giorni festivi, soprattutto per la vigilia del Natale, il giorno di Natale, il Venerdì Santo, la veglia pasquale e l’Assunzione della Vergine Maria. «Se si desidera partecipare alle celebrazioni si deve chiedere un giorno di ferie».


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09/05/2016 23:46
 
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STORIA DI UNA MUSULMANA DIVENTATA CATTOLICA

In questa nostra “Storia di una capinera”, la protagonista, a differenza di quella di Verga, è riuscita a volare verso la libertà, seppur a un prezzo altissimo. Si nasconde sotto lo pseudonimo di Sabatina James, ha 31 anni ed è costretta a vivere sotto scorta della polizia 24h al giorno, cambiando regolarmente località della Germania.

La sua storia è stata ripresa anche da Newsweek: quando ha dieci anni la sua famiglia musulmana sunnita si trasferisce da Lahore (Pakistan) ad un piccolo paesino dell’Austria. A 17 anni tornano in Pakistan perché i genitori vogliono celebrare le sue nozze con un cugino cui era stata promessa in sposa da bambina. Lei si ribella e viene segregata in una scuola coranica sunnita affinché impari ad essere una “pakistana decente”.

La durezza delle condizioni la piegano, così i genitori, credendo di averla trasformata, la lasciano tornare in Austria affinché termini gli studi per poi tornare in Pakistan per sposarsi. Raggiunti i 18 anni Sabatina scappa e l’amicizia con un compagno di scuola evangelico la conduce ad un percorso di conversione, oscillando tra il protestantesimo e il cattolicesimo.

Sempre presente è in lei il monito della comunità islamica che l’ha cresciuta: tra i cristiani non vi sono santi, le loro chiese sono vuote e i loro postriboli pieni. Eppure, ciononostante, i simboli cattolici l’attraggono, l’immagine di Dio che sceglie di soffrire in croce la commuove. La prima considerazione è che il timor di Dio professato dai cristiani, basato sull’amore, è diverso dal timor di Dio professato dai musulmani, basato sulla paura. L’amico cristiano le legge passi della Bibbia che le danno pace e serenità, come mai il Corano aveva fatto.

Sabatina ricorda così quei giorni: «Cristo mostrava misericordia verso le donne adultere, mentre Maometto permetteva che fossero lapidate. Più leggevo il Corano, più odio sentivo verso coloro che erano diversi; invece, come cristiana, provo amore per queste persone e desidero che ricevano lo stesso amore che ho provato io attraverso Gesù». Si confida con un sacerdote cattolico ma non riceve molta attenzione, le viene detto che anche Maometto è stato un profeta, troppa paura di offendere l’islam. Più confusa di prima, si orienta verso l’evangelismo subendo oltretutto le minacce dei genitori: se non torna sui suoi passi verrà uccisa. La polizia non la aiuta, lo fa invece la Chiesa evangelica.

Eppure continua a percepire una mancanza: rimane il fascino dell’esperienza cattolica,  dentro sé sente cheè quella “la Chiesa vera”, è una chiamata interna, così si accosta a grandi padri della Chiesa, quali Agostino, Ignazio di Antiochia e Ireneo. Le minacce aumentano, ma la forza della nuova conversione, al cattolicesimo, le dona il sorriso e la pienezza della vita. L’incontro con Cristo è reale adesso, rimane affascinata da questo passo: “Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia […] perché tu apra gli occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri, dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre” (Isaia 42,7-8).

Sabatina comprende che la sua missione è sostenere le donne musulmane che si rivolgono a lei perché picchiate e segregate dai mariti, che vogliono deportarle nei Paesi d’origine. E noi cattolici, lamenta Sabatina, «insegniamo che tutte le religioni sono uguali, e così otteniamo che i cattolici si convertono all’islam e vanno a combattere la Jihad in Iraq». Con la fondazione di cui è diventata ambasciatrice, Terre des Femmes, oggi si batte per l’uguaglianza delle donne musulmane. «Migliaia di donne sono torturate e assassinante in nome di Allah; negli ultimi anni, solo in Pakistan più di 4000 donne sono state bruciate vive», ha scritto nel suo libro “Mi lucha por la fe y la libertad (Ed. Palabra, 2013). Oggi, piena di quella gioia che solo lo Spirito, al di là di ogni consolazione umana, può dare, ha deciso di donare tutto ciò che ha ricevuto da Cristo alle capinere che, come lei, hanno vissuto in un gabbia, affinché volino libere.

fonte UCCR


[Modificato da Credente 22/06/2021 17:25]
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18/05/2016 13:27
 
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Michael Hopkins,
l’astronauta che ha portato il Santissimo Sacramento nello spazio

Mike-Hopkins«Quando si vede la Terra da questa posizione e si osservano dall’alto tutte le bellezze naturali esistenti, è davvero difficile concludere non è esistita una una Forza intelligente che ha creato tutto questo». Sono le parole Michael S. Hopkins, colonnello della U.S. Air Force e astronauta della Nasa, partito nel settembre 2013 a bordo della navicella Soyuz TMA-10M per raggiungere la Stazione Spaziale Internazionale.

Poche settimane prima di partire, l’astronauta americano ha completato il percorso di catechesi per adulti che la Chiesa cattolica propone a chi chiede di battezzarsi come cattolico. Una conversioneha spiegato, nata non solo perché la moglie e le due figlie adolescenti sono a loro volta cattoliche, ma perché «sentivo che mancava qualcosa nella mia vita».

Grazie ad uno speciale accordo con l’Arcidiocesi di Galveston-Houston e con l’aiuto di padre James H. Kuczynski, parroco della chiesa di Santa Maria Reina di Friendswood, Hopkins ha portato con sé nello spazio una pisside con sei ostie consacrate, divise ciascuna in quattro pezzi. Abbastanza da poter ricevere la Comunione una volta alla settimana per le 24 settimane che è rimasto a bordo della Stazione spaziale. «Sapendo che Gesù era con me, ho affrontato con maggior sicurezza il momento in cui sono uscito dalla stazione spaziale, camminando nel vuoto dell’universo», ha detto.

D’accordo con un funzionario della Nasa, Hopkins per tutte le 24 settimane della missione ha persino ricevuto via e-mail l’omelia del suo parroco. Le foto in cui l’astronauta pregava all’interno della “cappella” spaziale, un atrio a vetrate detto la “Cupola” che offre un panorama cosmico, hanno ricordato a molti la notte di Natale del 1968, quando l’americano Frank Borman, a bordo dell’Apollo 8 in orbita intorno alla Luna, lesse il libro dellaGenesi in diretta televisiva, uno dei momenti più memorabili che si ricordano. Nel 1994, Sid Gutierrez, Thomas Jones e Kevin Chilton pregarono assieme sullo space shuttle in volo a 125 miglia sopra l’Oceano Pacifico, mentre l’astronauta Mike Massimino volle confessarsi prima della partenza, nel 2000, portando con sé una bandiera del Vaticano che – una volta atterrato sulla Terra – regalò a papa Giovanni Paolo II.

Hanno fatto il giro del mondo le fotografie della “nostra” Samantha Cristoforetti sulla navicella che, nel 2014, l’ha portata nello spazio, alle cui spallecompaiono alcune icone cristiane e un crocifisso. «Dicono che non ci sono atei in trincea, ma probabilmente non ve ne sono nemmeno nelle navicelle spaziali»ha ironizzato l’astronauta statunitense Michael Timothy Good.


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13/06/2016 09:09
 
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Tom Colucci,
il capitano dei Vigili del Fuoco di New York diventa sacerdote

tomcolucciSe fino a ieri combatteva il fuoco degli incendi, oggi combatte le fiamme dell’inferno.

Le simpatiche freddure stanno accompagnando la singolare notizia che arriva dagli Stati Uniti: il capitano dei Vigili del Fuoco di New York (FDNY), Tom Colucci, è diventato da poco un sacerdote cattolico, mettendosi al servizio dell’arcidiocesi della città.

Il 21 maggio scorso, infatti, il card. Timothy Dolan, presidente della Conferenza Episcopale Americana, ha accolto ufficialmente Tom durante una speciale cerimonia nella St. Patrick. «Ho passato 20 anni a salvare la gente. Ora voglio salvare le loro anime»ha commentato l’ex vigile del fuoco, da qualche anno in pensione.

«Ho sempre pensato di farmi prete, ma poi sono entrato nei Vigili del Fuoco. Avvicinandomi al pensionamento, tuttavia, è ritornato il desiderio». Assieme a molti altri colleghi, il capitano Colucci ha partecipato e guidato le operazioni di salvataggio dopo l’attacco terroristico alle torri gemelle dell’11 settembre, perdendo anche cinque compagni di lavoro. «Come vigile del fuoco ho visto tanta sofferenza e miseria. Ma come ho visto il peggio, ho anche ammirato il meglio di umanità. A volte ti chiedi: “Come può Dio permettere questo?“, eppure capita anche che le tragedie ti avvicinano a Dio. Ho capito che voglio aiutare le persone in questi percorsi spirituali».

Colucci non si è mai sposato, è entrato nei FDNY nel 1985. Si è ferito più volte, addirittura nel 2005 ricevendo l’estrema unzione. Dal primo giorno di pensione ha iniziato il percorso del seminario, il più anziano tra gli studenti seminaristi. Durante la recente ordinazione come sacerdote, sotto le vesti ha indossato una maglietta dei Vigili del Fuoco e una medaglia dedicata a San Floriano, loro patrono.

Il primo incarico importante che gli è stato affidato è celebrare la messa cittadina in occasione dell’anniversario dell’attentato terroristico a New York, l’11 settembre prossimo.


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15/06/2016 14:25
 
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«Come Dio ha incasinato la mia tranquilla vita da atea»



Nicole Cliff 


di Nicole Cliffe*
*scrittrice canadese-americana e giornalista del quotidiano “The Guardian”

da Christian Today, 20/05/16

 

Sono diventata cristiana il 7 luglio 2015, dopo una piacevole vita adulta di risoluto ateismo. In realtà avevo già ammorbidito un po’ la mia posizione negli ultimi due o tre anni, nel corso dei quali scrivevo per un popolare sito web femminista.

Come molti atei ero irriverente nei confronti della religione, anche se pensavo che probabilmente era bello per le persone di fede avere la fede. Ma ritenevo una ovvia sciocchezza l’idea di una divinità benigna che ci ha creato e ci ha amati, ho incontrato più volte persone di fede ed era affascinante la loro dolce illusione. Ma io non credevo, non avevo aneliti senza risposta, tutto andava bene nello stato della Danimarca.

Ci sono due diversi punti di partenza per la mia conversione, il primo è una storia semplice: stavo attraversando un momento difficile. Ero preoccupata per il mio bambino, una volta da sola in una stanza, ho detto: “Stai con me”. E’ stato imbarazzante, non so perché l’ho detto o a chi lo dicevo. Mi sono trasferita, la situazione difficile si è risolta e non ho più pensato di nuovo a questo. So come la gente ascolta questa storia: “Oh, certo, Nicole, eri affaticata e avevi bisogno di un quadro più ampio per la sua vita!”. Questa è una parte della verità, ma non è tutta la verità.

Il secondo punto di partenza è stato mentre navigando su Internet, ho trovato il necrologio che John CT Ortberg ha scritto al filosofo Dallas Willard. Le figlie di John sono care amiche e ho sempre avuto un rapporto meraviglioso con i loro genitori, anche se mi sono sempre sembrate illuse nella loro fede cristiana. Comunque, ho cliccato sull’articolo e ho letto: «Qualcuno una volta ha chiesto a Dallas se credeva nella totale depravazione. “Credo nella depravazione sufficiente”, ha risposto immediatamente. “Cosa significa?”. Risposta: “Credo che ogni essere umano è sufficientemente depravato che quando saremo accolti in paradiso, nessuno potrà dire: “Io l’ho meritato”». A pochi minuti dall’inizio della lettura dell’articolo, sono scoppiata in lacrime. Più tardi quel giorno, sono scoppiata nuovamente in lacrime. E il giorno dopo, mentre lavavo i denti, mentre mi addormentavo, mentre ero sotto la doccia, mentre davo da mangiare ai miei figli, sarei scoppiata ancora in lacrime.

E’ stato molto inquietante sentirsi improvvisamente come una barca che viene gettata sulle onde. Non ero triste, non avevo paura, avevo solo sperimentato troppi sentimenti. Ho deciso di comprare un libro di Dallas Willard, come lettura antropologica, naturalmente. Ho letto “Hearing God” e ho pianto. Ho comprato “My God and I” di Lewis Smedes. Ho pianto. Ho comprato “Take This Bread” di Sara Miles. Ho pianto. Qualcosa stava sfuggendo di mano, non si può andare avanti a piangere tutto il tempo.

A questo punto ho raggiunto un bivio. Mi sono seduta e ho detto: “va bene, Nicole, hai due scelte. Opzione uno: smetti di leggere i libri su Gesù. Opzione due: cominci a pensare perché sei sopraffatta dalle tue emozioni”. Ho pensato che se l’opzione due si dimostrava infruttuosa, potevo sempre tornare all’opzione uno. Così, ho scritto ad un amico cristiano e gli ho chiesto se potevamo parlare di Gesù. Mi sono subito pentita appena ho inviato l’e-mail, ma lui ha risposto che era felice di parlare con me di Gesù, probabilmente sapete già che i cristiani amano parlare di Gesù. Ho trascorso i giorni prima del nostro incontro sentendomi un’idiota, chiedendomi cosa avrei dovuto chiedergli. Circa un’ora prima del nostro incontroio credevo già in Dio. Peggio ancora, ero una cristiana.

E poi ho capito: piangevo continuamente pensando a Gesù perché avevo cominciato a credere che Gesù era davvero chi diceva di essere, e questa idea da inconsapevole è diventata cosciente, come se fosse sempre stato così. Così, quando il mio amico è arrivato, gli ho detto, goffamente, che volevo avere un rapporto con Dio. Abbiamo pregato, ridacchiato un po’, pianto un po’ e poi mi ha regalato una pila di libri di Henri Nouwen.

E siamo arrivati a oggi, vado in chiesa, prego. Le mie idee politiche non sono cambiate ma è aumentato il fervore con cui cerco di vivere. Mio marito è stupefatto di me, ma mi sostiene amorevolmente. Dio non mi ha parlato, piuttosto, come il protagonista di Memento mette il suo passato su una Polaroid, ho capito quello che già sapevo: quello che è successo durante quell’ora è stato il culmine naturale della mia venuta alla fede: mi sono aperta al divino. La mia conversione cristiana non mi ha concesso alcuna semplicità, anzi ha complicato tutte le mie relazioni, ha cambiato l’uso dei soldi, ha incasinato il mio personaggio pubblico. Ovviamente, è stato molto bello.


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28/07/2016 10:51
 
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10 ATLETI CHE TESTIMONIANO LA LORO FEDE

Possono anche essere criticati da burocrati e sponsor, ma non esitano a usare il loro prestigio per annunciare la fede che professano. In gare o interviste, dedicano le loro vittorie a Dio e lo indicano come motivazione principale per superare i limiti.

Ecco 10 atleti che non hanno paura di mostrare la propria religiosità in pubblico:

Kaká

Foto: Reuters
Foto: Reuters

Il calciatore brasiliano dedica spesso le proprie vittorie a Dio, a volte anche con magliette che rendono ancora più esplicita la sua fede. Nato in una famiglia cristiana, è diventato una star nel mondo evangelico grazie alle sue frequenti e coraggiose testimonianze.

Kobe Bryant

Kobe Bryant e famiglia. Foto: Bigstock
Kobe Bryant e famiglia. Foto: Bigstock

Il giocatore di basket è cattolico, e ha già raccontato in alcune interviste come la sua fede lo abbia aiutato ad affrontare il momento più difficile della sua vita. Nel 2001 Bryant è stato accusato di stupro e ha cercato nella religione un sostegno per affrontare questa situazione. In quel momento ha detto che un sacerdote cattolico è diventato il suo miglior consigliere.

David Luiz

Foto: Wikimedia Commons
Foto: Wikimedia Commons

È un altro calciatore famoso per le sue dimostrazioni di religiosità in campo. Non si vergogna a mettere la mano sulla testa dei compagni e a pregare per loro in momenti delicati come i rigori. Nel 2015 è stato battezzato nella Chiesa Hillsong di Parigi, dove abita, e fa parte del movimento evangelico Ho Scelto di Aspettare, che predica la castità prematrimoniale.


Manny Pacquiao

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Primo campione mondiale di boxe a vincere in otto categorie di peso diverse e con sei titoli mondiali guadagnati nella carriera, l’atleta filippino è un cristiano evangelico che ha già reso pubblico il suo desiderio di diventare pastore, avendo anche costruito una chiesa nella sua città natale. Pacquiao è nato in una famiglia cattolica ma è diventato evangelico dopo che secondo lui ha sentito la voce di Dio in un sogno, il che l’avrebbe convinto del fatto che conduceva “una vita sregolata”.

Vitor Belfort

 

Foto: riproduzione/Facebook
Foto: riproduzione/Facebook


Il lottatore della MMA è evangelico e sottolinea sempre la sua fede, sia nel ringraziamento che rivolge a Dio dopo gli incontri che nel modo di parlare e agire nelle interviste o addirittura nel modo di portare i capelli. A volte, infatti, ha optato per un taglio a forma di croce.

 

Tim Tebow

Foto: riproduzione/Facebook
Foto: riproduzione/Facebook

Il giocatore di football americano è figlio di missionari battisti ed è nato nelle Filippine. Ha studiato all’Università della Florida, dove è diventatoquarterback e si è messo in mostra venendo considerato dai commentatori uno dei migliori giocatori universitari della storia. Dopo ogni vittoria, Tim si inginocchiava nel campo e recitava una breve preghiera. Il gesto è diventato il suo marchio di fabbrica ed è stato chiamato “tebowing”. Ama anche citare versetti biblici quando si dipinge il volto come fanno in genere i professionisti dello sport.

Clint Dempsey

 

Foto: riproduzione/YouTube
Foto: riproduzione/YouTube


Il giocatore è stato capitano della squadra americana di football che ha disputato la Coppa del Mondo 2014, essendo stato l’autore del gol più rapido della competizione. È cattolico, e in un’intervista ha raccontato come dopo la morte della sorella di 12 anni a causa di un aneurisma abbia abbandonato Dio, tornando a incontrare le sue vie anni dopo, all’università, in un gruppo di studio biblico. Dice che è la fede in Cristo che gli dà la forza per andare avanti.

Meseret Defar

 

Foto: Reuters
Foto: Reuters


La campionessa di corsa etiope è cristiana ortodossa e si è fatta notare nelle Olimpiadi di Londra del 2012, quando attraversando la linea d’arrivo della corsa dei 5.000 metri ha dedicato la sua vittoria alla Madonna, mostrando alle telecamere di tutto il mondo l’immagine della Vergine con il Bambino Gesù, che aveva portato con sé durante tutto il percorso.

 

Lewis Hamilton

 

Foto: riproduzione/Facebook
Foto: riproduzione/Facebook


Il pilota di Formula 1 è cattolico, e ha affermato in un’intervista che è Dio a dargli i suoi doni. Quando corre porta sempre una catenina con un crocifisso al collo e prega prima di ogni corsa. Nel 2014 si è recato in Vaticano per conoscere personalmente papa Francesco accompagnato dalla sua fidanzata di allora, la cantante Nicole Scherzinger.

 

Matt Birk

Foto: archivio personale
Foto: archivio personale

Cattolico e padre di sei figli, Birk ha fatto scalpore nel 2013 quando ha rifiutato di incontrare il Presidente Barack Obama dopo la vittoria del Super Bowl da parte della sua squadra, i Baltimore Ravens. Ha affermato che la sua decisione è stata dovuta alle dichiarazioni del Presidente a sostegno di Planned Parenthood, la principale rete di cliniche abortive degli Stati Uniti. Birk è un militante attivo del movimento pro­vita negli Stati Uniti, che cerca di ottenere l’abolizione della legalizzazione dell’aborto nel Paese.


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10/08/2016 11:53
 
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A Lebanese Christian woman stands in front of her shop, her forehead marked with an ash cross, as she marks Ash Monday in Beirut on February 08, 2016.
La toccante conversione di una ragazza libanese

Lei era una bambina di sette anni, mentre Lui esiste fin da prima dell’inizio della storia. Lei lo amava fin dalla nascita, guardando le storie su di Lui in televisione, soprattutto in occasioni speciali, ma non Lo conosceva visto che nessuno di coloro che la circondavano Lo conosceva. Le persone intorno a lei rifiutavano di conoscerlo o riconoscerlo.

Lei è cresciuta, e Lui è rientrato nella sua vita senza permesso. Lei Lo ha tradito molto, ma Lui l’ha perdonata ogni volta, e lei Lo ha adorato ancor di più. Quando i suoi familiari hanno saputo della sua storia d’amore l’hanno rifiutata e condannata, ma lei ha insistito a indossare l’abito bianco per Lui per essere la Sua sposa ed è diventata la figlia di Dio e il tempio dello Spirito Santo.

Questa è la mia storia. Sono Yasmin Amin Baydawi, una donna libanese sunnita, e Lui è il mio amore, il mio amico, il mio signore, il mio salvatore, il mio Gesù. Com’è iniziata la mia storia, chi sono gli eroi e cos’è cambiato dentro di me?

La mia storia è iniziata quando ho deciso di rifiutare la dottrina dei miei genitori e l’ambiente a cui appartenevo. Ho iniziato a porre a mio padre e a mia madre domande sulla loro religione, ma le loro risposte non erano sufficienti. Ho chiesto loro di essere iscritta a lezioni di religione, visto che nella mia scuola era decisamente proibito parlare di religione, dato che tutti gli studenti erano musulmani.

Sono andata due volte a quelle lezioni, ma lo sceicco era infastidito dalle domande di una 14enne su poligamia, divorzio, status delle donne nell’islam, ecc. Preferisco non parlare delle sue risposte, che mi hanno fatto capire che non appartenevo a quel posto. E allora è iniziato il mio viaggio. Credevo nella presenza di Dio, ma Lo stavo cercando senza trovarlo. Il mio Dio è diverso dal loro, e per anni ho vissuto un conflitto interiore.

A 23 anni ho incontrato un cristiano per la prima volta nella mia vita. Mi ha regalato una Bibbia e un CD sulla Trinità, permettendomi di capire quel concetto che per me era assai vago. Poi ho aperto la Bibbia a caso e ho letto questo versetto: “In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio” (Gv 1, 1). Non capivo quello che leggevo, ma mi sono venuti i brividi e ho capito di aver trovato in quel versetto Dio, il Dio che avevo sempre cercato.

Ho deciso di impegnarmi in un partito politico cristiano. Ho raccontato ai suoi membri la mia storia e ho chiesto loro di aiutarmi ad essere battezzata. Ed è quello che è avvenuto. Ho iniziato a studiare con padre Georges Kamel e poi conpadre Jean Jermani e le Sorelle della Carità. Quando la data del mio Battesimo si avvicinava e il vescovo ha dato la sua approvazione, ho confessato ai miei genitori quello che probabilmente si aspettavano. Mia madre si è infuriata e mi ha detto: “Sarai battezzata solo dopo la mia morte”, mentre mio padre ha detto: “Fai quello che vuoi ma non cambiare il tuo status religioso sui documenti ufficiali. Non portare il disonore nella nostra famiglia”.

Tutto questo non mi ha fermato. Il giorno del mio Battesimo mia madre mi ha implorato di non andare, ma io sono andata comunque a ricevere questo grande sacramento.

I miei amici non lo sono più; hanno deciso di prendere le distanze da me. All’inizio mia madre mi chiamava infedele quando mi vedeva pregare e praticare la mia fede, ma abbiamo superato questa cosa con la Grazia di Dio. Sono impegnata in un gruppo di preghiera chiamato “Il Messaggio d’Amore”, fondato da padre Jermani, che mi ha aiutata molto. Il Signore me lo ha mandato come un santo sulla Terra. I santi non sono solo in paradiso, perché la santità inizia qui. Colgo l’opportunità per ringraziare lui e tutti i sacerdoti e le suore, i miei amici, il mio padrino, la mia madrina e il gruppo di preghiera, che è diventato la mia seconda famiglia, se non la prima.

Molte cose sono cambiate dentro di me. Ho imparato come perdonare come ha fatto Gesù quando è stato crocifisso. Ho imparato a vedere attraverso il volto dei miei fratelli e delle mie sorelle il volto di Gesù e a non aver paura di amare perché sono fatta a immagine di Dio, e Dio è Amore libero e assoluto. Ho imparato come essere una cosa sola con Gesù. Sto andando avanti con la mia vita tra genitori, parenti, amici, parrocchia, in un viaggio che mi porterà da Gesù.Pregate per me.


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26/08/2016 11:12
 
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Per Abbey D'Agostino è la fede la forza motrice della sua carriera atletica



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Athletics - Olympics: Day 11

 





Dopo essere inciampata su un’atleta rivale durante la gara di 5000 metri femminili, la statunitense Abbey D’Agostino avrebbe potuto continuare a correre. Il suo allenatore le aveva addirittura detto, prima della gara: “Se dovessi cadere… rialzati, scrollati la polvere di dosso, dà una rapida occhiata intorno e torna subito a correre”. Lei invece si è girata verso l’avversaria, la neozelandese Nikki Hamblin, e l’ha aiutata a rialzarsi, incoraggiandola a finire la gara, dicendole “Alzati, non abbiamo ancora finito qui”.


 


Prima di quel momento la Hamblin non aveva mai incontrato la D’Agostino, ed è rimasta scioccata dalla sua disinteressata preoccupazione nel bel mezzo di una competizione olimpica. Hamblin ha successivamente commentato così quel momento: “Lei è lo spirito olimpico fatta persona… Non l’avevo mai incontrata prima. Mai. Non è meraviglioso? Che donna straordinaria”.


Hamblin e D’Agostino hanno continuato a correre, fianco a fianco. La D’Agostino è uscita dallo scontro ben più infortunata della Hamblin, facendo fatica a terminare la gara.


Nonostante abbia provato molto dolore durante la corsa, la D’Agostino è riuscita a terminare la gara (dietro alla Hamblin) ed è stata poi portata via su una sedia a rotelle. Entrambe le atlete sono riuscite ad arrivare in finale; ma dopo una risonanza magnetica a cui si è sottopostamercoledì, la D’Agostino ha scoperto di avere uno strappo al legamento crociato anteriore. Per diverso tempo non sarà più in grado di correre.


Quanto accaduto è stato definito come “l’autentico spirito olimpico” e un “grandioso esempio di sportività”. Ma sarebbe meglio definirlo “un’espressione della profonda fede cristiana della D’Agostino”.


L’atleta ha dichiarato ai media: “In quegli attimi ho agito d’istinto, ma l’unico modo con cui posso razionalizzare quanto successo è che Dio ha preparato il mio cuore a reagire in quel modo… Per tutto il tempo mi ha mostrato che la mia esperienza qui a Rio sarebbe stata qualcosa di più di una semplice performance atletica… e appena Nikki si è alzata, ho capito che era quello il caso”.


D’Agostino non ha mai fatto mistero della sua fede in Dio, parlandone spesso sui social media. Per lei la fede è la forza motrice della sua carriera atletica, come detto anche inun’intervista di Julia Hanlon.


“Ho sentito pace interiore, perché sono consapevole di non correre soltanto con la mia forza. E penso che aver ammesso le mie paure davanti a Dio sia stato il segreto di quella pace. Volevo conoscere un Dio che operasse nella mia vita in questo modo”.


Oltre ad allenarsi seguendo una prassi rigida, la D’Agostino si sveglia ogni mattina ascoltando musica d’adorazione, leggendo la Bibbia e registrando su un diario tutte le grazie ricevute. Anche il riposo domenicale è stato una parte importante della sua vita fisica e spirituale, permettendo al suo corpo di recuperare la fatica, e alla sua anima di elevarsi nella preghiera. Spesso sente la presenza di Dio mentre corre, sentendosi ancora più motivata ad andare avanti e fare del suo meglio.


Quel semplice atto di gentilezza della D’Agostino non le farà ottenere medaglie olimpiche, e l’episodio potrebbe non venire annotato nei registri ufficiali. Ci sarebbe potuta essere una standing ovation in suo onore prima della gara di venerdì, ma l’infortunio non le permetterà di godere di tale momento. Ma il suo altruistico atto di bontà continuerà ad ispirare persone negli anni a venire; rimarrà a lungo nei nostri cuori, molto di più di tutte le medaglie d’oro vinte in quella stessa sera.


Con il suo gesto la D’Agostino ha mostrato al mondo che vincere non è tutto. Come ha detto una volta Madre Teresa, “Dio non pretende da me che abbia successo. Dio mi chiede di essere fedele”.




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06/12/2016 17:47
 
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La testimonianza di un soldato mi ha mostrato che il rosario è molto di più di un'ammirevole preghiera di devozione

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Anche se è una storia che ho ascoltato anni fa, le immagini mi sono rimaste impresse nella mente.

Ed erano impressionanti.

Un giovane soldato americano era stato gettato con noncuranza in mezzo al mucchio in una soffocante prigione nella giungla. Malato e malnutrito, giaceva in stato di semi-incoscienza sul pavimento sporco. Veniva picchiato ogni giorno, a volte ogni ora. I giorni si susseguivano alle notti, le settimane si accavallavano e la brutalità costante divenne senza senso, senza misericordia e senza fine.

Pur se schiacciato dal peso di un dolore indicibile e in preda al delirio febbrile, nei momenti di lucidità il soldato tracciava col dito qualcosa sul suolo di terra. Univa alla bell’e meglio dieci punti in un cerchio con al centro una croce, e poi, quasi impercettibilmente, le sue labbra sanguinanti e tumefatte iniziavano a mormorare:

Ave Maria, piena di grazia, il Signore è con te…

Il rosario, ha ricordato in seguito il soldato, è quello che lo mantenuto sano di mente in un momento di spietatezza incomprensibile. Recitare le parole pronunciate dall’Angelo Gabriele e da Santa Elisabetta alla Madonna – Ave Maria, piena di grazia, il Signore è con te, tu sei benedetta tra le donne… -, il Padre Nostro e il Gloria e contemplare i misteri gaudiosi, dolorosi e gloriosi ha portato Dio in quella cella. Spingere le dita lungo i punti tracciati nel suolo sporco era sentire che l’ordine dissipava momentaneamente il disordine e la grazia eclissava la sofferenza insensata.

Dio era davvero presente.

Perché il rosario, come ha capito tanto chiaramente questo soldato, non è recitare meccanicamente frase dopo frase o una fredda catalogazione degli eventi della vita di Cristo. No. Piuttosto, è un’immersione profondamente mistica in Dio. È astraersi dal duro momento presente per accostarsi all’Eterno pieno d’amore. È un’opportunità per lasciarsi abbracciare da Cristo usando preghiere, frasi e immagini tratte da devozioni millenarie. O, come ha affermato uno scrittore,

La parole [del rosario] sono come gli argini di un fiume, e la preghiera è come il fiume stesso. Gli argini sono necessari per dare una direzione e per far continuare a scorrere il fiume, ma è il fiume che ci interessa. Allo stesso modo, nella preghiera conta solo l’inclinazione del cuore verso Dio… Mentre il fiume sfocia nel mare, gli argini sfumano. Similmente, mentre ci avviciniamo al senso più profondo della presenza divina, le parole sfumano e… rimaniamo in silenzio nell’oceano dell’amore di Dio”.

Davvero.

Quando sono diventato cattolico credevo che il rosario fosse un’ammirevole preghiera di devozione. Forse, pensavo, è qualcosa che dovrei recitare di tanto in tanto. È stata la straordinaria testimonianza di questo soldato a dimostrarmi che il rosario è molto di più. È un incontro senza paragoni con Cristo capace di trascendere la realtà più dura. È un luogo in cui le parole presto svaniscono e “rimaniamo in silenzio nell’oceano dell’amore di Dio”.

 

Un soldato che ha subito torture infernali ha capito e abbracciato il rosario come un incontro con Dio, un incontro profondo e che sostiene la vita.

Non dovremmo forse farlo anche noi?

[Traduzione dall’inglese a cura di Roberta Sciamplicotti)


[Modificato da Credente 06/12/2016 17:48]
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11/01/2017 21:32
 
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Il cammino di Albert Camus verso il Senso della vita,
proprio come fecero i Magi

La conversione di Camus come i re MagiL’analogia del cammino dei Magi verso la capanna come un simbolo dell’uomo moderno che si mette in cammino per una risposta, per andare ad accogliere Colui che offre senso alla vita, è davvero azzeccata.

L’ha proposta oggi Papa Francesco nell’omelia dedicata alla festa dell’Epifania. «Questi uomini hanno visto una stella che li ha messi in movimento», ha detto. «Avevano il cuore aperto all’orizzonte e poterono vedere quello che il cielo mostrava perché c’era in loro un desiderio che li spingeva: erano aperti a una novità. I magi riflettono l’immagine di tutti gli uomini che nella loro vita non si sono lasciati anestetizzare il cuore. In tal modo, esprimono il ritratto dell’uomo che ha nostalgia di Dio».

Viene in mente il percorso esistenziale del filosofo Albert Camus, proprio due giorni fa è stato il suo anniversario di morte. Un esponente di quel profondo esistenzialismo ateo, lontano anni luce dal bambinesco laicismo di oggi, che si autogiustifica con gli scandalucci dei preti o sulle percentuali di scienziati atei. Per lui il problema era l’assoluta indifferenza del cosmo alla sua radicale domanda di senso, di significato della vita, al problema del male, ben descritto nel suo Il Mito di Sisifo. Non c’è giustizia, non c’è di che cercare e tutto è irragionevolezza: la natura umana chiede un significato che la realtà nasconde. Una visione tragica che però non lo portò mai nelle grossolane reti del materialismo storicista. Anzi, evidentemente non si chiuse nemmeno al pregiudizio, al “non c’è” risposta.

Solo chi cerca, trova. Come insegna il Papa, i Magi videro la stella perché cercavano, scrutavano il cielo, aspettavano una risposta più grande. Infatti tutta la tensione scientifica -lo ha ben spiegato l’astrofisico dell’Università di Milano, Marco Bersanelli-, altro non è, a suo modo, che «una manifestazione di quella inguaribile tendenza dell’essere umano a domandarsi il perché delle cose, mai sazio di risposte parziali. La ricerca scientifica mostra di avere il suo seme e le sue radici profonde proprio nel terreno dell’esigenza umana di soddisfazione e di senso» (M. Bersanelli e M. Gargantini, Solo lo stupore conosce, Rizzoli 2003, p. XII).

Proprio nel libro già citato, del 1942, Camus riconosce la tragicità di una vita ridotta al sopravvivere, vedendo il suicidio come l’unica risposta, nonché il problema fondamentale della filosofia. «La levata, il tram, le quattro ore di ufficio o di officina, la colazione, il tram, le quattro ore di lavoro, la cena, il sonno e lo svolgersi del lunedì, martedì, mercoledì, giovedì, venerdì e sabato sullo stesso ritmo…Soltanto che, un giorno, sorge il “perché?”». Questo “perché” non è scontato, è già tanto se gli uomini moderni arrivano a percepire l’effemericità della vita che vivono. Proprio questa onestà intellettuale, l’ammettere che non siamo fatti per una risposta che non c’è, gli ha permesso di lasciare aperta la ragione: la natura non può esser un inganno! «O il mondo ha un senso più alto, o nulla è vero fuori di tali agitazioni».

Così Camus si mise in “cammino” e su di esso incontrò il pastore metodista Howard Mumma con cui strinse amicizia, diventando suo confidente. Nel 1956, un anno prima del Nobel, rivelò un suo cambiamento nel libro The fall, ringraziando infatti «numerose anime pie». Il critico francese Alain Costes fu il primo a parlare della sua conversione. Frequentava la messa a Parigi, lesse per la prima volta i Vangeli e interpretò il racconto della Genesi come una parabola dell’origine della coscienza umana: il tentativo dell’uomo di essere un dio, restando infelice perché non ha risposte da darsi. Arrivò così a chiedere il battesimo al reverendo Mumma: «Cosa significa nascere di nuovo? Cerco qualcosa che il mondo non mi sta dando», E, al termine della spiegazione: «Howard, io sono pronto». Camus era già battezzato come cattolico ed inoltre non desiderava appartenere ad una chiesa, così Mumma prese del tempo per rifletterci. Seppe però della morte improvvisa del filosofo in un incidente stradale, il 4 gennaio 1960. Ricordò le ultime parole che Camus gli disse, salutandolo: «Amico mio, io nel frattempo continuo a lottare per la fede». I dialoghi tra Mumma e Camus, citati in questo articolo, sono stati pubblicati da quest’ultimo in Albert Camus & the Minister (Paraclete Press 2000).

Ecco un esempio di uomo che, come i Magi, si è messo in cammino perché «sente la mancanza della propria casa, la patria celeste», come ha detto stamattina Francesco. «La santa nostalgia di Dio scaturisce nel cuore credente perché sa che il Vangelo non è un avvenimento del passato ma del presente. La santa nostalgia di Dio ci permette di tenere gli occhi aperti davanti a tutti i tentativi di ridurre e di impoverire la vita. La santa nostalgia di Dio è la memoria credente che si ribella di fronte a tanti profeti di sventura. Questa nostalgia è quella che mantiene viva la speranza della comunità credente che, di settimana in settimana, implora dicendo: “Vieni, Signore Gesù!”».


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16/01/2017 19:16
 
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Incredibile! Famoso predicatore evangelico ammette che nella Chiesa cattolica
ci sono più miracoli grazie all'Eucarestia

Una testimonianza sicuramente inattesa quella del famoso telepredicatore pentecostale Benny Hinn.

In un video che sta facendo il giro del mondo, il predicatore parla in maniera favorevole dell’Eucarestia ammettendo che proprio per la presenza viva e reale di Gesù in essa, i cattolici possono sperimentare molti più miracoli rispetto ai pentecostali.

Queste le parole di Benny Hinn:

“E’ stato condotto uno studio dal quale si è visto che molte più persone sono guarite nella Chiesa cattolica rispetto alle chiese pentecostali.”

Fa poi un’ipotesi e dice:” E questo perché i cattolici venerano l’Eucarestia”. “Molte più persone sono guarite nella Chiesa cattolica rispetto ai pentecostali, perché per noi è solo simbolico.”

Poi ha avuto il coraggio di difendere la dottrina sulla presenza reale: “Beh … Gesù non ha detto , ‘Questo è il simbolo del mio corpo’. Ha detto ‘Questo è il mio corpo’. [Non ha detto] ‘Questo simboleggia il mio sangue’. Ha detto , `Questo è il mio sangue ‘”.

“E credo – e ho sempre creduto – che è in Spirito che questo è il suo corpo, che è in Spirito che questo è il suo sangue, cosicché noi lo veneriamo. Vi è la guarigione nella comunione attraverso l’eucarestia. Sicuramente, questo l’ho visto nel mio ministero “.

E’ importante notare che i cattolici credono nella transustanziazione, per cui il pane e il vino diventano veramente Gesù nella sostanza, non solo spiritualmente. Quando Hinn sostiene che il pane e il vino sono Gesù solo “in spirito”, sta insegnando invece qualcosa di diverso alla dottrina cattolica.

Alla fine del video Hinn parla di miracoli nelle comunità cristiane copte, affermando che avvengono per le stesse ragioni per cui avvengono nella Chiesa cattolica.

Da notare che tale predicazione è rivolta ad un pubblico pentecostale, non sappiamo quando o dove il video sia stato registrato.




Ecco il video in inglese

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16/01/2017 19:19
 
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Giovanni Galli. «Senza fede non sarei sopravvissuto alla perdita di mio figlio»



Giovanni Galli a Tv2000. Una testimonianza toccante
La toccante testimonianza dell'ex portiere, campione del mondo nel 1982, a Tv2000. Niccolò è morto a 17 anni in un incidente stradale. Il rapporto con Dio e la venerazione per santa Rita da Cascia.

“Dopo l’incidente di Niccolò due cose sono state fondamentali nella mia vita: il grande amore della mia famiglia e la fede. Ho perso mio padre a 19 anni e non pensavo di dover portare i fiori al cimitero a mio figlio. Se non avessi avuto questa grande fede e la convinzione di ritrovare e rivedere mio figlio sarebbe stato difficile convivere con questo dolore. Il dolore non passa mai, ci si può solo convivere”. È la toccante testimonianza di Giovanni Galliex portiere e campione del mondo con l’Italia nel 1982, ospite del programma Beati Voi-Tutti santi in onda ogni giovedì alle 21.05 su Tv2000, ricordando il figlio Niccolò morto nel 2001 in un incidente stradale.

Nella carriera da calciatore, ha spiegato Galli, “la domenica mattina dovunque fossi a giocare andavo a messa, mi sentivo di doverci andare, era una chiamata più forte di me. La fede è un qualcosa che ti senti dentro e andare a messa mi faceva sentire bene. Con la mia famiglia non siamo stati mai superficiali. Abbiamo sempre dato valore alla vita, alle cose e alle persone ma dopo la scomparsa di Niccolò qualcosa in più c’è stata”.

Nella lunga intervista l’ex calciatore ha raccontato anche dei particolari della vita privata e famigliare legati alla scomparsa del figlio: “Davanti a mia moglie e alle mie figlie volevo essere la persona alla quale loro potessero aggrapparsi e cercavo di non farmi vedere piangere. Mi è mancato poter piangere, lo facevo di nascosto sotto la doccia perché non volevo farlo davanti a loro. Ma è stato comunque un errore perché sia il dolore che la felicità devono essere condivise con tutti. A distanza di tempo mi sto portando dentro ancora tante ferite”.

Giovanni Galli, durante la puntata di ‘Beati Voi – Tutti Santi’ con protagonista la vita di santa Rita da Cascia, ha voluto ricordare un episodio importante: “Niccolò era nato il 22 maggio 1983 quel giorno si festeggia Santa Rita. Quando è successo l’incidente ci siamo sentiti in dovere di andare a Cascia e portare una fotografia di Niccolò che abbiamo perso nel 2001 all’età di 17 anni. Con quella foto abbiamo restituito nostro figlio a santa Rita. Lei ce lo aveva ‘dato’ il 22 maggio e noi glielo abbiamo riportato”.

“Dopo la scomparsa di Niccolò – ha concluso Giovanni Galli – il mio rapporto con Dio non è cambiato. Ogni sera prima di dormire faccio le mie preghiere e l’ultima immagine è quella di Niccolò. Non so come lo rivedrò se nell’età in cui ci ha lasciati o invecchiato. Speriamo di riconoscerci”.


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21/01/2017 13:05
 
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La fede di Alessandro Greco

La fede di Alessandro Greco: castità come valore, matrimonio come bene aggiunto

di Francesca D’Angelo

A volte i ricordi possono trarre in inganno. Tutti noi infatti associamo ancora il nome di Alessandro Greco a quel ragazzo sbarbatello, gioviale e scanzonato, che a soli 25 anni conduceva su RaiDue Furore. Quel giovane conduttore (o meglio, il più giovane conduttore della storia Rai) è invece cresciuto: è andato avanti nel suo cammino di fede, si è sposato, è diventato padre di due figli, ha maturato una visione del mondo profonda e contemplativa. Di sé parla con pacatezza, prendendosi i suoi spazi di silenzio, soppesando le parole. Ama raccontare soprattutto di Dio e delle “Dioincidenze” (le chiama così) che costellano la sua vita. Impossibile insomma non rimanerne spiazzati perché, appunto, i ricordi a volte depistano e l’aspettativa era di trovarsi davanti a un uomo inquieto e sopra le righe. Nulla di più sbagliato.

Lo ammetto, non me l’aspettavo. Da dove nasce questa fede così fervida?

«Non è altro che l’ennesimo dono meraviglioso che Dio mi ha voluto concedere, insieme all’esistenza stessa. Se credo, è solo perché il Signore è buono e misericordioso».

Anche la sua famiglia è cattolica?

«Ho imparato, assorbito e respirato i principi della fede proprio nella mia famiglia d’origine, che era cattolica anche se non molto praticante. Diciamo che, per quel che riguarda la frequentazione della Chiesa, sono stato io ad alzare l’asticella. Addirittura alcune persone deridevano mio padre sostenendo che avesse un figlio prete, perché andavo in parrocchia e servivo a Messa. Purtroppo la mia eventuale vocazione era vista non per quella che sarebbe dovuta essere, ossia una grazia, ma come una strada non auspicabile, soprattutto per un figlio maschio».

C’è stato un momento in cui ha valutato di entrare in seminario?

«No, non era la mia strada! Fin da subito invece ho sentito la vocazione artistica: amavo fare le imitazioni e improvvisare spettacoli. Così, ben presto, il sacro fuoco dell’arte mi ha portato a girare per le piazze: la mia gavetta è stata legata agli spettacoli itineranti del Sud Italia, la maggior parte abbinati a feste religiose. E qui ci vedo una Dio-incidenza».

Prego?

«Mi piace chiamarle così. Quando i tuoi recettori spirituali si accendono, rivedi la tua vita con un nuovo sguardo e molti fili, apparentemente scollegati, si uniscono. Nello specifico, non penso sia stata una coincidenza che da giovane fossi sempre fisicamente vicino a una chiesa: era un modo con cui Dio mi assisteva nel coltivare i talenti che avevo ricevuto in dono. Dunque, una Dio-incidenza»

Il mondo dello spettacolo non è certo facile e lei ha raggiunto il successo a vent’anni: non ha mai vacillato?

«Nell’animo non mi sono mai allontanato da Dio, ma ci sono stati anni in cui ho praticato meno: conducevo una vita scombussolata, più notturna che diurna. Però Dio mi ha sempre preservato, donandomi la grazia del discernimento: quando sentivo puzza di zolfo, me la davo a gambe. Sentivo dentro di me proprio un impulso ad allontanarmi! È stato così anche quando divenni famoso con Furore, tanto che molte persone mi davano dell’altezzoso perché non frequentavo certi giri. Non era così. Il mio è stato un modo – diretto o indiretto – di dire sì a Dio: di lasciare fare a lui, di togliere l’“io” e mettere “Dio”, che è poi l’essenza del cammino che desidero fare».

Poi, di colpo, è sparito dal radar della tv: come ha gestito il momento di stop?

«Non sono mai stato una meteora: Dio non mi ha mai fatto mancare il pane e ho sempre continuato a lavorare. Certo, a volte ho provato dispiacere e un certo senso di ingiustizia ma non ho mai cercato di gestire tali situazioni da solo. Mi sono rifugiato nei porti sicuri che ognuno di noi ha, come la famiglia. Con i doni che ho ricevuto e con l’aiuto di Dio ho cercato di rimanere dritto e andare avanti, amando e rendendo belle tutte le cose che facevo, anche se di minore visibilità».

Negli anni ha aderito a qualche movimento religioso?

«Appartengo prima di tutto al movimento di Dio. Tuttavia mi sento molto vicino alla corrente di grazia del Rinnovamento nello Spirito, anche perché l’esperienza di padre Roberto Basilico si inserisce in quel solco: lui è il padre spirituale mio e di mia moglie Beatrice».

 

Di solito le coppie non amano fare entrare un terzo incomodo e, quando succede, spesso si tratta di uno psicologo e l’amore è in crisi. Com’è nato il desiderio di una guida comune?

«È una decisione che non abbiamo preso a tavolino, anzi, non ce lo siamo nemmeno detti. Semplicemente, è successo: frequentando questo frate, è nato il desiderio di essere guidati da lui. E questo non perché eravamo in crisi! La direzione spirituale è come la preghiera: non ci si rivolge al Signore solo per chiedere aiuto, ma anche per ringraziarlo e lodarlo. Dio, infatti, va invitato alle nostre feste».

So che il rapporto con sua moglie non è stato privo di prove.

«Anche Beatrice è cresciuta in un contesto cattolico e, per entrambi, il matrimonio è sempre stato quello in Chiesa. Poiché c’erano tutti i presupposti per l’annullamento del precedente matrimonio di Beatrice, siamo subito ricorsi alla Sacra Rota ma, purtroppo, ci sono stati anni e anni di impedimenti. Abbiamo iniziato a convivere. Poi, un giorno, siamo andati a Medjugorje e qui Beatrice si è confessata con Fra Renzo. Durante il colloquio, lui le ha suggerito di intraprendere un periodo di castità: “Dimostra con i fatti quello che hai nel cuore. Mettete veramente nelle mani di Dio questo desiderio di matrimonio, mettetevi in preghiera: cosa siete disposti a donare per arrivare, con i suoi tempi e i suoi modi, a lui?”, le disse».

Lei come reagì a questa proposta?

«L’ascoltai e poi risposi: “Se sta succedendo questo a Medjugorje e tu lo desideri, io ti dico sì. Sono con te”. Il periodo di castità è durato tre anni. È stata una umile decisione che è possibile portare avanti solo con la forza del cuore: senza Dio, è impossibile».

Quando siete riusciti a sposarvi?

«Anche qui, si è verificata una Dio-incidenza. Un giorno ci siamo recati a un itinerario di preghiera con le famiglie (era il terzo che facevamo) e i frati diedero a ognuno di noi una frase. Quella di Beatrice era: “Infrangerò il giogo che ti opprime, spezzerò le tue catene”. Lo stesso giorno, a Roma, il nostro avvocato ricevette una comunicazione dal tribunale ecclesiastico di Roma: la procedura di Beatrice era stata annoverata nel nuovo ordinamento, le cui procedure erano più snelle. Gli dissero che c’erano tutti i presupposti per l’annullamento immediato. Il giogo era stato infranto. Ci siamo sposati il 6 aprile 2014. I nostri sensi spirituali erano connessi con Gesù e lui era presente su quell’altare a celebrare il matrimonio. Magari nel 1997/1998 non sarebbe stato così…».

 

LA CARRIERA

Classe 1972, Alessandro Greco ha debuttato in tv nel 1995 con UnoMattina Estate. Il successo non si fa però attendere: due anni dopo, a soli 25 anni, conduce su RaiDue Furore appassionando milioni di italiani. Il quiz va avanti fino al 2001. Dal 2008 si apre anche al mondo delle radio entrando nella squadra di RTL 102.5 con cui collabora tuttora. Di recente ha partecipato, come concorrente, a Tale e quale show e ha presentato Una voce per Padre Pio su RaiUno. Inoltre i bene informati sostengono che, da gennaio, sarà lui il nuovo volto de L’eredità


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21/01/2017 21:38
 
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Ex vescovo luterano diventa prete cattolico


La storia di padre Joseph Jacobson e di sua moglie, diventati cattolici dopo aver riscontrato che “le Chiese luterane sono state invase dalla cultura dominante”


19 gennaio 2017 - FONTE ZENIT.ORG


Quella che oggi conosciamo come la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, appuntamento annuale che ha avuto inizio ieri, in passato per noi cattolici era una preghiera per “il ritorno di tutte le altre pecore all’ovile di Pietro, l’unico pastore”.


Alla luce dei mutamenti del costume ecclesiale, dell’apporto ecumenico del Concilio Vaticano II, una simile invocazione può apparire oggi obsoleta. Eppure esistono ancora numerosi esempi di persone – cristiani appartenenti a Chiese riformate – che hanno dato una svolta spirituale alla loro vita confluendo nella Chiesa cattolica apostolica romana.


Eloquente in tal senso la vicenda di Joseph Jacobson e di sua moglie Carolyn. Padre Joseph è oggi un sacerdote cattolico, ma fino a pochi anni fa rivestiva il ruolo di vescovo luterano di circa 150 comunità sparse ad Alberta, vasta regione centro-occidentale del Canada.


Ha raccontato la sua storia di conversione in un programma spagnolo dell’emittente internazionale Hm Tv. Figlio di un pastore luterano, padre Joseph ha sentito il desiderio di seguire le orme del padre quando aveva 13 o 14 anni, mentre stava leggendo un passo del Vangelo seduto sotto un albero.


Finito il liceo, si è così iscritto all’Università di Sant’Olaf, nel Minnesota, dove ha completato i suoi studi per diventare pastore luterano. Dopo appena due settimane dalla laurea, si è inoltre sposato con la sua fidanzata Carolyn.


La sua carriera come guida di fedeli luterani si è fin da subito indirizzata su un cammino in discesa. Da pastore di una piccola comunità, in pochi anni è stato promosso a responsabile di 150 parrocchie, comprendenti oltre 200 fedeli. Nel corso della sua esperienza come vescovo, ha preso parte anche ad incontri di dialogo con i cattolici.


Quegli incontri, che si svolgevano due volte l’anno, si sono rivelati un vero e proprio detonatore spirituale per padre Joseph. “Questo dialogo è stato molto importante per me per capire che c’erano possibilità alternative alla Chiesa luterana” spiega. Ma perché egli sentiva la necessità di verificare l’esistenza di tali alternative? Perché – afferma con franchezza – “stavo vedendo che la possibilità luterana stava cadendo a pezzi”.


L’amara riflessione di padre Joseph nasceva dalla consapevolezza che il luteranesimo non era in grado di opporsi al pensiero dominante, rimanendo impassibile dinanzi agli attacchi perpetrati alla vita e alla famiglia.


Quando a decidere le linee guida di una Chiesa sono assemblee analoghe a un parlamento, il parere della maggioranza prevale sul dovere di tutelare tradizione e diritto naturale. A soffiare su queste assise – sottolinea padre Joseph – sono “i venti del tempo, piuttosto che il vento dello Spirito”.


I suoi tentativi di persuadere gli altri pastori luterani sulla necessità di un impegno in ambito sociale, per difendere le basi antropologiche, si rivelavano inutili. “Ho provato più e più volte – racconta – a convincerli a prendere una posizione sul tema dell’aborto, contro le istanze delle femministe radicali. Oppure a battersi per difendere il matrimonio, che oggi è minacciato”. Ma simili argomentazioni non facevano presa sui vertici della Chiesa luterana.


Padre Joseph iniziò così a maturare la volontà di entrare nella Chiesa cattolica, ma sapeva che una simile scelta avrebbe ferito suo padre e i suoi parrocchiani. Inoltre temeva che questo gesto sarebbe equivalso ad abbandonare la nave anziché “lottare per difendere la buona dottrina”.


Tuttavia era cosciente che una battaglia di questo tipo non aveva possibilità di successo, perché “la cultura dominante stava invadendo la Chiesa luterana, e la Chiesa luterana aveva deciso di iscrivere gli obiettivi di questa cultura nella sua agenda”.


Il suo ingresso nella Chiesa cattolica è stato graduale, avvenuto grazie anche all’amicizia con mons. Joseph Neil MacNeil, vescovo di Edmonton. Proprio con quest’ultimo, durante una cena organizzata a casa Jacobson, padre Joseph dichiarò con malcelata leggerezza: “Ciò che è certo è che io e mia moglie siamo più cattolici che luterani”. Ed ancora: “Non c’è alcun motivo per cui noi non dobbiamo diventare cattolici, a questo punto è un’esigenza per la nostra coscienza”.


Mons. MacNeil dapprima reagì con un efficace sorriso, e poi chiese: “Se la Chiesa cattolica ti chiedesse di diventare sacerdote, con il permesso del Santo Padre, tu saresti disposto ad esserlo?”. La risposta di padre Joseph fu allora un pronto “sì, se questo è ciò che vuole la Chiesa per me”.


L’ideale passo verso Roma fu la diretta conseguenza di quella cena. Padre Joseph si spogliò dell’abito di vescovo protestante ed entrò, insieme a sua moglie, a far parte di una comunità cattolica come semplice laico.


“Abbiamo imparato molte cose – confida -. Abbiamo letto insieme tutto il Catechismo, dall’inizio alla fine. Abbiamo appreso tanti elementi della fede che non avremmo avuto modo di apprendere, se fossi rimasto vescovo luterano”. Egli ha inoltre iniziato un percorso vocazionale.


È così che nel 2007, a 67 anni, età in cui molti preti vanno in pensione, padre Joseph è diventato un sacerdote cattolico. Essenziale nel suo discernimento vocazionale è stato il confronto con l’allora card. Joseph Ratzinger. Il futuro Papa Benedetto XVI gli scrisse che anzitutto questa scelta doveva avere il consenso di sua moglie e che, qualora avesse deciso di farsi prete, non avrebbe potuto trascurare la sua vocazione primaria di marito e padre.


“È un problema reale”, afferma padre Joseph riflettendo sui tanti anni trascorsi a cercare di combinare il ministero di vescovo e il ruolo di capo famiglia. Dunque – aggiunge – “il card. Ratzinger aveva colpito il bersaglio”.


Volgendo lo sguardo indietro, padre Joseph si duole per i suoi fratelli rimasti nella Chiesa luterana. Il protestantesimo – dice – “perde molta ricchezza cattolica: il misticismo, la tradizione dei mistici, Maria, i santi, tutto ciò che è la Chiesa universale…”.


In particolare padre Joseph pensa ad Hans Urs von Balthasar, che ha identificato in Pietro e Maria i due pilastri per rimanere fedeli al Vangelo. “Soffro per i miei fratelli protestanti, che non hanno nessuno di questi due pilastri: né Pietro né Maria”, osserva padre Joseph.


Intanto sua moglie Carolyn, che si è ritrovata in età avanzata ad avere un marito divenuto prete, ha iniziato un percorso spirituale leggendo il Diario di Santa Faustina Kowalska. “Non avrei mai fatto questo percorso da sola, perché non ne avrei avuto il coraggio. Per questo ringrazio Joseph di avermi dato quel coraggio che mi mancava”. Il coraggio di tornare “all’ovile di Pietro, l’unico pastore”.







L'immagine può contenere: 2 persone, persone in piedi e spazio all'aperto





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31/01/2017 10:21
 
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la conversione del pompiere che salvò la Sindone




Fallita ogni possibilità di aprire la teca in cui è riposta, uno dei vigili del fuoco si prende la responsabilità di frantumarla con una mazza. Passano quindici minuti di colpi e cristalli frantumati, poi all’1:30 la reliquia viene estratta.


Il nome di quell’eroico pompiere è emerso lentamente, si chiama Mario Trematore, ed è lui nelle foto e nei video a portare in spalla la Sindone fuori dal duomo. «In 22 anni di lavoro pensavo di averne visti tanti di incendi, ma uno così terrificante da gelarti il sangue nelle vene non mi era mai capitato», ha dichiarato in un’intervista recente. «Ancora oggi non so spiegarmi cosa sia successo. Non avevo pensieri né per il capolavoro del Guarini, né per l’uomo muto della Sindone. Avevo altro in mente: la mia vita e quella dei miei colleghi. È stato faticoso, ma dentro di me sentivo una forza che non era umana».


Un’esperienza che ha cambiato la vita di Trematore, ateo e disinteressato dalle questioni di fede, che vedeva nella Sindone solo un simbolo culturale. In un libro recentemente pubblicato in lingua spagnola, Las páginas secretas de la Historia (Plaza y Janés 2017), Trematore racconta la sua conversione. Si descrive come un sindacalista attivo di sinistra, senza alcuna fede in Dio. Eppure, «Dio mi ha dato la forza di rompere quel vetro».


Fra le tante lettere di ringraziamento che ha ricevuto dopo quel giorno, «rimasi toccato dalle parole del gesuita Vitale Savio, che diventerà mia guida spirituale e amico carissimo»ha rivelato«I segni della passione lasciati impressi su quel lenzuolo rimandano a Gesù. Il Maestro ha tracciato quella strada duemila anni fa e io, dopo quell’incontro così misterioso e drammatico, provo a seguirla, pur rimanendo un peccatore. In questi anni ho fondato due piccoli gruppi, uno a Torino e l’altro a Bari, dal nome “Il Mandylion”», nome che indica la Sindone in lingua orientale. «Ci riuniamo una volta al mese, con la guida spirituale di Adrian Hancu, sacerdote cattolico di rito bizantino, e di Giampietro Casiraghi, missionario della Consolata e docente universitario di Paleografia latina. Tocchiamo molti temi spirituali, dalla preghiera alla concretizzazione dell’amore divino. Al termine di ogni incontro ci fermiamo per condividere il cibo preparato da ciascuno di noi e per donare un’offerta da destinare ai più bisognosi».


 



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14/02/2017 22:50
 
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«Abusato da piccolo, ma la mia fede è rimasta intatta»



pedofilia chiesa«Nel prete che mi ha abusato ho visto un malato, e lui non c’ entra con la mia fede che è restata intatta». Sono queste le parole che più ci hanno colpito della dolorosa storia emersa in questi giorni, raccontata da Daniel Pittet, 57 anni di Friburgo.


La pedofilia nella Chiesa -al di là dei numeri che vanno temporalmente contestualizzati e ridimensionati rispetto a quelli immaginati dall’opinione pubblica-, è una piaga e un crimine insopportabile, causa di sofferenze incredibili. Un dolore atroce anche per i fedeli cattolici e per la comunità cristiana, «che ci fa vergognare», ha scritto il Papa. Ci ha colpito che Daniel, sposato e padre di sei figli, abbia comunque mantenuto salda la sua fede in Dio e rivendicato la sua appartenenza alla Chiesa. Il Male non è riuscito a vincere fino in fondo.


Papa Francesco ha scritto la prefazione del suo libro, nel quale Pittet racconta di essere stato violentato nel 1968 da un frate cappuccino svizzero, Joel Allaz. Dopo la sua denuncia, il malato è stato semplicemente mandato in Francia, dove ha abusato ancora. L’anno scorso, racconta in un’intervista, ha incontrato «l’orco della mia infanzia. Mi ha guardato, ho visto la sua paura. Ma non mi ha chiesto scusa». Eppure lo ha perdonato, «e ho costruito la mia vita su quel perdono». Ha poi incontrato Francesco: «Mi ha chiesto: dove trovi la forza, il tuo spirito missionario? Non era mai soddisfatto della risposta. Alla fine gli ho detto: Padre sono stato violentato da un sacerdote. Mi ha guardato in silenzio con le lacrime agli occhi e mi ha abbracciato».libro pedofilia chiesa


Oggi «in Svizzera le cose sono cambiate», afferma Daniel, «ma in Francia e in Italia a quanto so ben poco». In Francia, in realtà, le cose fortunatamente sono cambiateci sono norme severe a favore della cooperazione con l’autorità giudiziaria e sulla riconsiderazione degli atti passati non denunciati o ritenuti prescritti. Lo stesso accade in Germania,  «l’esempio di come si può organizzare seriamente il contrasto alla pedofilia» secondo Marco Politi de Il Fatto Quotidiano. Nel 2011 la Congregazione per la dottrina della fede ha ricordato alle conferenze episcopali che l’abuso sessuale di minori è un «delitto canonico» ma anche un «crimine perseguito dall’autorità civile», invitando a cooperare con essa e rimarcando il «dovere di dare una risposta adeguata» tramite il diritto canonico.


Nella prefazione al libro, Francesco parla di una «mostruosità assoluta, di un orrendo peccato, radicalmente contrario a tutto ciò che Cristo ci insegna», che mostra fino «a che punto il male può entrare nel cuore di un servitore della Chiesa. Come può un prete, al servizio di Cristo e della sua Chiesa, arrivare a causare tanto male? Come può aver consacrato la sua vita per condurre i bambini a Dio, e finire invece per divorarli in quello che ho chiamato “un sacrificio diabolico”, che distrugge sia la vittima sia la vita della Chiesa?».


Benedetto XVI aveva la buona abitudine di definirli sempre «atti peccaminosi e criminali». Proprio il Papa emerito, ha spiegato Bergoglio, «è stato molto coraggioso e ha aperto una strada. La Chiesa su questa strada ha fatto tanto. Forse più di tutti. Le statistiche sul fenomeno della violenza dei bambini sono impressionanti, ma mostrano anche con chiarezza che la grande maggioranza degli abusi avviene in ambiente familiare e di vicinato. La Chiesa cattolica è forse l’unica istituzione pubblica ad essersi mossa con trasparenza e responsabilità. Nessun altro ha fatto di più. Eppure la Chiesa è la sola ad essere attaccata». Queste riflessioni del Papa sono condivise anche dalla cronista giudiziaria de La StampaGrazia Longoper la quale siamo «di fronte a una Chiesa che si mette in discussione su una materia tanto delicata come la pedofilia (che registra molte vittime anche in ambienti ecclesiastici), la società e gli organi istituzionali predisposti non possono certo rimanere a guardare».


La pedofilia è un crimine diffuso sopratutto fuori dal mondo ecclesiale, nell’ambiente familiare, in quello scolastico, nelle altre religioni e in ogni luogo in cui adulti -sposati o no, celibi o no-, sono a contatto con minori. Proprio in questi giorni, ad esempio, è emerso nel Regno Unito un enorme caso di abusi sessuali nel mondo calcistico: 184 potenziali pedofili, 1.016 denunce e 526 vittime. I club sportivi sono stati omertosi, in molti casi raggiungendo accorti privati con le vittime per chiudere la vicenda senza scandalo. «La maggior parte degli allenatori che hanno commesso abusi sono stati ritenuti idonei, seguivano i ragazzini per grandi club come City e Chelsea»ha spiegato l’avvocato Nocivelli. Anche il calcio italiano viene coinvolto, le società calcistiche «anche in Italia vogliono tutelare il loro “buon nome” e spesso non denunciano. Lo stesso accade nel Karate».



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15/03/2017 18:25
 
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C’è un nuovo seminarista,
è un neuroscienziato dell’Università di Yale

seminario neuroscienziatoDallo studio delle neuroscienze alla dedizione totale a Cristo. E’ stata questa la decisione del neuroscienziato portoricano Jaime Maldonado-Aviles, docente presso la celebre Yale University, dove ha insegnato e fatto ricerca nella divisione di psichiatria molecolare (autore di studi pubblicati anche dalla rivista Nature).

Ne hanno parlato i media americani pochi giorni fa, raccontando la storia del nuovo seminarista del Theological College presso la Catholic University di Washington. Dopo aver vinto prestigiose borse di studio dal National Institutes of Health, a 37 anni lo studioso ha sentito la chiamata alla vocazione, troppo potente per essere ignorata. Ha così lasciato la carriera ed il laboratorio di ricerca: «Questa costante intuizione»ha dichiarato Maldonado-Aviles, «che forse ero stato chiamato a servire il mondo in un modo diverso, era sempre più frequente». Ha così obbedito alla chiamata, trovando in seminario molti dei suoi compagni di classe del college, tra cui un dottorato in chimica e uno scienziato delle nanotecnologie. Ora lo aspettano due anni di filosofia e quattro di teologia.

Il card. Donald Wuerl, arcivescovo di Washington, ha spiegato che è alto il numero di studenti universitari in discipline scientifiche che decidono di diventare sacerdoti: «cercano Dio dopo aver trovato la scienza»Ken Watts del Pope St. John XXIII Seminary ha raccontato di aver accompagnato al sacerdozio diversi scienziati: «quando le questioni morali ruotano attorno alle aree medico-scientifiche, è certamente utile avere persone che capiscono perfettamente di cosa si parla così da chiarire davanti all’opinione pubblica il pensiero della Chiesa».

«Non direi che sto facendo più sacrifici di chiunque viva un matrimonio», ha risposto l’ex neuroscienziato in una intervista. «Dio mi chiama ad essere sacerdote, sarà Lui a darmi i carismi che mi aiuteranno». Si è stupito di trovare alcuni colleghi della Yale University riempire i banchi della Messa cattolica. «La complessità e, tuttavia, l’ordine con cui le cose funzionano nel nostro corpo e nel nostro cervello, ti fa pensare che ci sia più di una semplice casualità», ha spiegato. Ci sono stati comunque dei momenti difficili, ad esempio ha realizzato che la ricerca sulla corteccia umana viene condotta su embrioni umani abortiti in Europa. «Avrei mai compromesso la mia fede sotto la pressione per il successo?», si è chiesto.

Alla Catholic University ha frequentato un simposio sull’enciclica Laudato Sii di Papa Francesco, in quanto interessato all’integrazione tra scienza, tecnologia e teologia nella ricerca della verità, volendo rispondere alla chiamata del Papa nella cura della creazione. «La teologia deve imparare dalla scienza. Siamo informati su come funziona la vita. Ma la scienza deve anche imparare dalla teologia», ha detto Maldonado-Aviles dirigendosi verso il suo seminario dove vive, prega e si forma come missionario di una fede che soddisfa pienamente la ragione umana.


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17/03/2017 13:09
 
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Costretta a prostituirsi e ad abortire,
poi la visione di Gesù. Così Naomi ha vinto la sua battaglia

 

La ragazza nigeriana arrivata in Italia sperando in una vita nuova è stata soccorsa dalla Comunità Papa Giovanni XXIII

Naomi è una giovanissima ragazza nigeriana che ha rischiato di morire perché costretta all’aborto dalla sua trafficante. Poi il coma, i giorni in ospedale e quella visione di Gesù, preludio alla “salvezza”.

A farle fuoriuscire dalla palude sono stati i I volontari delle unità di strada provenienti della Comunità Papa Giovanni XXIII di una città del nord Italia in cui viveva e “lavorava” Naomi.

Sono stati loro a recarsi in ospedale per le sue condizioni e lei si è totalmente aperta a loro. Ma non lo ho fatto a caso. Lo ha fatto dopo un sogno visionario, avuto durante il coma.

IL VIAGGIO DELLA SPERANZA

Una volta approdata in comunità la ragazza è stata più di un mese è in stato di choc. Aveva lo sguardo perso nel vuoto, vuoti di memoria: aveva persino rimosso il numero di telefono di sua mamma.

Lei che era arrivata in Italia da profuga, attraversando il deserto, la Libia e imbarcandosi sulle carrette del mare. Ha sfiorato la morte, ha subito pestaggi e violenze quando al confine i trafficanti le chiedevano somme di danaro che lei non aveva. Ma alla fine è riuscita a sbarcare.


LEGGI ANCHE: L’incredibile storia di Anna, nigeriana, salvata dalla prostituzione da un finto cliente


“MI FACEVANO SCHIFO…”

La donna che aveva come punto di riferimento in Italia, in realtà non l’ha mai accolta a braccia aperte. Era una trafficante e le ha spiegato che la “vita migliore” promessa consisteva nel prostituirsi in strada. Ma Naomi non ha accettato. Si è ribellata, ha fatto la voce grossa, ma la sua sfruttatrice l’ha picchiata violentemente ed è stata costretta ad andare a lavorare in strada. «A me facevano schifo, mi chiedevano rapporti sessuali non protetti e avevo paura…. ma avevo paura anche delle botte che avrei presa a casa», dice Naomi. La condizione imposta era drammatica: se ogni giorno non tornava alla base con almeno 100 euro di incasso, avrebbe digiunato.

LE 26 PILLOLE ABORTIVE

«Un giorno – prosegue la ragazza – l’amica della mia sfruttatrice si era accorta che si vedeva il mio pancino. Io non sapevo di essere incinta quando ero arrivata in Italia. Alla fine ho fatto il test ed è risultato positivo: ero incinta di quattro mesi e mezzo del mio fidanzato. Allora mi imposero di abortire. Mi fecero assumere 26 compresse di pillole abortive, e questo sotto gli occhi di tutte le altre ragazze sfruttate come me. Perché le altre vittime dovevano vedere con i loro occhi cosa succedeva alle ragazze che si ribellavano». Naomi assunse le pillole con un litro di alcool, dopo essere pestata a sangue perché si era strenuamente opposta ad ingerirle.

LA VISIONE DI GESU’

Il suo risveglio è stato in ospedale dopo giorni di coma. Ed è stato durante il coma che dice di aver visto un tunnel, poi il suolo e due fosse nel suolo che era vuote: una per lei e l’altra per il suo bambino che portava in grembo. In quel momento sente la voce di Gesù che le dice: “non è arrivato ancora il tuo momento, scegli il sentiero giusto”. «Davanti a me- ricorda Naomi, che ha uno sguardo lucidissimo su quell’episodio – vedevo due sentieri: uno stretto e buio e l’altro largo e luminoso. Gesù mi disse: scegli quello luminoso… e io quando mi risvegliai trovai i volontari pronti ad accogliermi… perciò’ dissi senza esitare “si” alla loro proposta. Loro erano il sentiero luminoso che mi ha indicato Gesù».

Naomi, si è poi trasferita in comunità, e siccome ha una grande fede tutti i giorni fa un’ora di Adorazione eucaristica per ringraziare Dio di questa «vita nuova», oltre a testimoniare in tutta Italia la sua storia.


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21/08/2017 16:45
 
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Conversione folgorante:
da Mohammed al-Sayyid al-Moussaoui a Joseph Fadelle



Già dignitario sciita, Joseph Fadelle, iracheno, si è convertito al cattolicesimo in seguito a un’intuizione sconvolgente. Ma non si lascia l’Islam tanto facilmente. Ancora oggi, ogni giorno ne paga il prezzo.

Il vero nome di Joseph Fadelle è Mohammed al-Sayyid al-Moussaoui, nato nel 1964 in una delle più grandi famiglie dell’aristocrazia sciita d’Iraq, discendente dall’imam Ali, cugino del Profeta. Ignora praticamente tutto del cristianesimo fino al suo primo incontro con un cristiano, all’epoca del suo servizio di leva. Con lui ingaggia discussioni su islam e cristianesimo. Ha 23 anni. Massoud, che da principio guardava in cagnesco, comincia a poco a poco a intrigarlo. Come lo intrigherà uno dei suoi libri, intitolato I miracoli di Gesù, che si sarebbe messo a leggere un giorno in cui l’altro era assente, lasciandosi presto trasportare dal fascino di questo personaggio che non conosceva e che gli procurava, senza che sapesse dirne il motivo, «una gioia benefica». Da questo libro, Mohammed passa alla Bibbia, ma non senza aver attentamente e intelligentemente riletto il Corano, come gli aveva chiesto di fare Massoud.

«Come una violenta deflagrazione…»
Poco a poco la sua fede nell’Islam si affievolisce. Perde tutti i suoi punti di riferimento – religione, identità, rango sociale, famiglia – ma non la sua fede in Dio. Il Signore gli si rivela allora in modo misterioso, in un sogno che gli procura una felicità nuova:

Accade in me qualcosa di straordinario, come una deflagrazione violenta che spazza via ogni cosa – accompagnata a una sensazione di benessere e di calore… Come se tutto d’un colpo una luce esplosiva illuminasse la mia vita in un modo completamente nuovo e le desse senso completo. Ho l’impressione di essere ubriaco, mentre nel mio cuore sale un inusitato sentimento di forza, una passione quasi violenta e innamorata per questo Gesù Cristo di cui parlano i Vangeli.
«Bisogna che tu mangi il pane della vita»
Mohammed, nel suo sogno, si trova in riva a un ruscello. Dall’altra parte sta un personaggio di una quarantina d’anni, «di una grande bellezza» e dallo sguardo «di una dolcezza infinita». Una forza misteriosa attira il giovane musulmano verso quest’uomo, ed eccolo sospeso nell’aria che cerca di raggiungerlo. «Per attraversare il ruscello, bisogna che tu mangi il pane della vita», gli dichiara l’uomo tendendogli la mano per aiutarlo. Dall’indomani, Massoud – il suo amico cristiano – lo avrebbe introdotto ai misteri della fede cristiana, e da lì sarebbe poi partita la ricerca del battesimo, con le relative peregrinazioni per chiese cattoliche. Ci sarebbero ancora voluti molti anni, per trovare un prete che accettasse di battezzarlo e di dargli “il pane della vita”, cioè l’Eucaristia, il corpo di Cristo.

E poi un giorno la famiglia di Mohammed, divenuto Joseph Fadelle dopo il suo battesimo, finì per apprendere della sua conversione – e quello fu l’inizio della persecuzione: imprigionato, bastonato, frustato, torturato dalla propria famiglia, dovette fuggire dopo un tentativo di assassinio da parte di suo zio e dei suoi fratelli. Ancora oggi vive in esilio in Francia con sua moglie, anche lei convertita, e i loro primi due figli.

Joseph Fadelle è l’autore del pungente libro Le Prix à payer.
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07/09/2017 22:46
 
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La preghiera ha cambiato la mia vita







     






Una commovente testimonianza dell'azione di Dio nella storia personale di una giovane donna. Tra prove, dolcezza inattesa e promesse mantenute dal Signore


Di Romana Cordova


In quest’ultimo periodo ho ascoltato a Medjugorje, e non solo, tante testimonianze di conversione, racconti di storie di vita e dei modi, vari e unici come è unica ogni persona, in cui la fede è stata determinante, in cui credere e affidarsi all’amore di Dio è stata la chiave che ha aperto le porte di una vita piena.


Racconti che spiegano annunciano affermano come la vera gioia, la pace, la salvezza terrena prima ancora che eterna si trovano solo in Gesù.


E allora ho pensato di raccontarvi la storia della mia vita finora, per testimoniare anch’io quanto in Dio sia il senso di tutto, della gioia e del dolore, nelle sue vie incomprensibili il più delle volte, nelle prove, anche in quelle aspre e difficili, nei tempi di prosperità, in ogni attimo. Leggerete tanta sofferenza, ma l’amore di Dio è incommensurabile e quello che voglio dirvi con la mia storia è proprio questo: siamo amati!


Parto dall’inizio.


L’infanzia in una famiglia “formalmente” cattolica


Ho avuto un’infanzia piena di affetto, attenzioni, coccole, ma triste. Una famiglia formalmente cattolica, a Reggio Calabria. Mio padre faceva l’avvocato (da giovane era stato pieno di interessi, aveva preso due lauree, una in Economia e lavorato per un po’ come commercialista, poi in Giurisprudenza e nel frattempo fin dai diciotto anni era giornalista per un quotidiano locale), mia madre era insegnante di Lettere.


Avevano saldi principi di stampo cattolico, soprattutto mio padre, mia madre era più influenzata da alcune idee che hanno sedotto milioni di persone dagli anni 60/70, in particolare per quel che riguarda il ruolo della donna, anche se in modo attenuato dalla cultura cattolica che comunque era molto presente nelle città del sud. Erano praticanti in modo superficiale, senza assiduità e soprattutto non pregavano.


Entrambi eccessivamente legati alle loro famiglie d’origine, soprattutto mia madre, sono stati più volte sull’orlo della separazione, senza mai farlo, e di questo sono felice. I motivi erano incomprensioni dovute all’intrusività dei parenti, alla mancata costruzione di un’unione sponsale profonda e forte e preminente su gli altri affetti parentali. L’orgoglio di entrambi è sfociato in una guerra fredda molto pesante per me.


Questo acuito dal fatto che ero rimasta figlia unica e che tranne la scuola, unico luogo in cui frequentavo coetanei, stavo sempre con gli adulti, e mi mancava la spensieratezza di quell’età. Mi sentivo sola e tanto oppressa, infelice al punto che a dodici anni pensavo che avrei tenuto duro fino ai diciotto e poi se niente fosse cambiato mi sarei buttata da un balcone come soluzione per non soffrire. Era un ragionamento influenzato anche da quel modo di pensare, oggi sempre più diffuso, che vede la morte come soluzione per fuggire dalle sofferenze in un’autodeterminazione per cui si decide se vivere o no in base al tipo di qualità di vita che si vuole. E cioè un atteggiamento depresso. Desideravo una famiglia pur avendola, desideravo l’armonia, nonostante non fossi minimamente trascurata dai miei genitori che avrebbero dato la vita per me.


Le prove e il desiderio di felicità


Malattia e morte del padre e della nonna paterna


Avevo quattordici anni quando mio padre scoprì di avere un tumoreai polmoni ed esattamente l’anno successivo, dopo chemioterapia e la grazia di avere pochissime sofferenze rispetto a quelle previste in quei casi, muore. L’anno successivo si ammala di mielite e in pochi mesi muore anche la mia nonna paterna, a cui ero strettamente legata, e io ho vissuto un dolore fortissimo aggravato dal fatto che lei non era amata da nessuno, per colpa sua dicevano, fatto sta che non era amata né capita, quindi per me quel periodo è stato un’esperienza di solitudine, sua e quindi anche mia, immensa, lacerante. Ho passato così l’anno dei miei sedici anni.


Trascorro quegli anni di adolescenza dopo la morte di mio padre catapultata nell’atmosfera dei parenti di mia madre, genitori, fratelli, ma soprattutto i numerosi zii e cugini che lei era felice di riprendere a frequentare assiduamente e a cui era fortemente legata. Finita la scuola mi iscrivo all’università come tappa obbligata per far qualcosa, per seguire l’onda. Scelgo Lettere moderne solo perché per me era una cosa facile, ma senza alcuna passione, interesse. Il mio desiderio per la vita era solo costruirmi una famiglia. Non ho sviluppato passioni da coltivare o l’interesse per un’attività lavorativa per esprimere le mie potenzialità. Mi mancavano le basi. Quello che cercavo era il calore umano, il calore di una famiglia, amicizie, amare ed essere amata, relazioni affettive profonde e durature. Forse anche per questo non mi interessavano i fidanzatini adolescenziali, quelle cose che sapevi che difficilmente sarebbero state per sempre. E quindi non ne avevo mai avuto uno. Mi invaghivo delle ipotetiche suocere e delle famiglie dei ragazzi più che di loro, cercando un modello di donna a cui ispirarmi, che era sempre la madre di vari figli, classica, raffinata, casalinga, con una bella casa. Sognavo. Speravo nel futuro.


Malattia e morte della madre


Conclusa l’adolescenza, avevo ventun’anni quando mia madre si ammala di tumore al seno. Diagnosi precoce, operazione, chemio. Sembrava tutto sconfitto ma un anno e mezzo dopo arrivano le metastasi al fegato e in pochi mesi dopo nuova chemio e radioterapia con tutto quello che comporta vivere la malattia, e farlo sola io e lei come famiglia, ma con la pressante e costante, amorevole forse per lei, ma estenuante per me presenza dei suoi parenti, muore circa un mese dopo la mia laurea.





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A ventitré anni mi ritrovo sola al mondo.


E in questa condizione ho vissuto per nove lunghi anni, fino a quando poi ho incontrato mio marito. Lunghi anni in cui ho conosciuto la disperazione, la ricerca del senso della vita, il vuoto, la speranza, lo sconforto, le incomprensioni, le maldicenze, il pietismo, tanto tanto pietismo, la superficialità della gente, l’aiuto, ancora il vuoto e ancora la speranza. E la fede.


La solitudine


Sola al mondo. Il pensiero di farla finita come soluzione per non soffrire, per una vita la cui qualità mi terrorizzava, per una vita che non mi sembrava vita in quelle condizioni, c’è stato nei primi mesi. Ma, grazie a Dio, il pensiero che era il momento di attuarlo mi faceva ancor più ribrezzo, dal più profondo della mia anima c’era un rifiuto, istintivo, viscerale. Non ce l’avrei mai fatta a suicidarmi. E così ho capito che non potevo fare altro che sopravvivere, con la speranza, cieca, aggrappata allora solo vagamente a Dio, di riuscire poi a vivere, col sogno di vivere bene.


La solitudine annienta. Il fatto di non appartenere, di non aver nessuno da amare e da cui essere amata, di abitare da sola, di occuparmi di tutto da sola, mi toglieva il senso del vivere.


C’erano i parenti, ma tra me e loro non c’erano mai stati rapporti veri, profondi, e dopo qualche tentativo con alcuni di instaurare una vicinanza familiare ho dovuto allontanarmi. Con alcuni c’era troppa diversità di mentalità, di vedute, in particolare poi per le antipatie passate tra alcuni di loro e mio padre, soprattutto con mia nonna, sentivo come se avessi dovuto rinnegarlo, rinnegare una parte di me, i tratti suoi in me che a loro certo non piacevano. Altri proprio non volevano o non sentivano di aiutarmi veramente, il loro unico interesse era chiaramente solo apparire buoni agli occhi degli altri, per cui io me ne sono allontanata. Ovviamente ho subìto attacchi, non diretti, ma subdoli che si sono manifestati successivamente perfino in lettere anonime indirizzate ad ambienti e ad amici che frequentavo, che miravano a screditarmi e a farmi apparire come una cattiva persona sottolineando la bontà dei parenti da cui io mi ero allontanata.


Incontri: un medico diventa il primo testimone dell’amore di Dio


Nel periodo del primo tumore di mia madre la paura di poter rimanere da sola e l’infelicità di quella vita che sentivo troppo stretta mi aveva portata a iniziare la psicanalisi da un dottore molto conosciuto e amato in città. E, rimasta sola, lui è stato la mia fonte di salvezza. Di sicuro uno strumento del Signore e il primo che mi ha portata verso di Lui.Data la mia situazione di totale mancanza di affetti, il rapporto con lui è poi cambiato, il rapporto professionale è venuto meno ed è diventato un sostegno parentale, infatti lo chiamo zio, perché da zio si è comportato, fornendomi aiuto nelle varie vicende pratiche e burocratiche di ogni tipo, presentandomi come sua nipote, fornendomi così calore e protezione.


Ma soprattutto mi ha formata umanamente, mi ha insegnato a vivere, trasmettendomi anche la sua fede. Gran parte di come sono lo devo a lui. Il fatto che lui mi volesse bene mi ha dato la forza di andare avanti. Quando inizialmente gli ho chiesto perché faceva tanto per me senza trarne nessun vantaggio e senza avere nessun dovere verso di me, in modo così chiaramente donativo, lui mi ha risposto: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”. Io non sapevo in quel momento che fosse una frase del Vangelo, che fosse parola di Gesù, ma quelle parole mi hanno dato vita nel profondo del cuore, qualcosa di indescrivibile. E così via via ho imparato da lui a guardare tutto in un’ottica di fede cristiana e ad approfondire cosa davvero fosse questa fede cristiana. Lui è stato per me la luce nel buio, l’acqua nel deserto, l’aria che fa respirare, una figura paterna che mi ha guidato, fatto crescere, insegnato a vivere.


Ero sempre stata credente, da bambina a scuola dalle suore tra gli otto e i dieci anni pensavo di farmi suora da grande, ma poi il fervore dell’infanzia era passato e io avevo acquisito abbastanza della mentalità del mondo, utilitaristica, egoistica, pur rimanendo sotto tanti aspetti diversa, un po’ “antica” come ragazza, con modi di pensare e sogni considerati retrogradi.


Non pregavo, non avevo mai pregato. In quei primi anni di vita da sola avevo iniziato ad andare alla Messa quotidiana nel pomeriggio ma solo perché mi faceva star meglio. Andavo e mi passava il mal di testa, mi sentivo sollevata, rilassata, al sicuro e avrei voluto che la messa durasse più a lungo perché lì mi sentivo meglio, poi uscivo e l’effetto durava per un po’. E allora volevo tornarci il giorno dopo. Ma ancora non pregavo.
È stato tramite questo “zio” che ho conosciuto un’altra persona che sarebbe diventata importantissima per me, diventando anche lei e suo marito degli “zii” che si sono resi disponibili ad aiutarmi e darmi affetto.

La “zia”e il Rosario: la via della guarigione

Ed è stato tramite questa “zia”, che è una figura particolare, molto legata alla preghiera, che ho iniziato a pregare. Ho iniziato a pregare il rosario e non ho più smesso. La preghiera mi ha cambiato, ho iniziato a sentirmi amata, a sentire che Dio mi ama, a considerare ogni cosa con uno sguardo diverso. Piano piano sono guarita dalla depressione che il susseguirsi di eventi dolorosi e la situazione che vivevo mi aveva procurato. Chi, solo al mondo, non si deprime? Una depressione esogena (dovuta ad eventi esterni) non endogena, forse per questo meno grave, ma comunque sempre dolorosa che ho superato, o meglio, da cui sono stata liberata, oltre che con la supplica anche dando quel poco che ognuno ha da dare, la propria volontà.

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Il volersi lasciar andare, la svogliatezza, il non volersi alzare dal letto o dal divano, mangiare a fatica e male solo per sopravvivere, guardarsi allo specchio e desiderare di prendersi a schiaffi, tutto questo l’ ho superato solo quando ho capito che questo atteggiamento nei confronti di me stessa era sbagliato come se fosse nei confronti di un’altra persona e cioè nei confronti di qualcuno che è di Dio. Io non sono mia, sono Tua, Tu mi ha creata. Lì si poneva la scelta: mi alzo dal divano con grande fatica e lo faccio anche se non capisco niente, neanche perché ci sono sprofondata, solo per amor Tuo. Mi alzo perché voglio credere in Te, nel tuo amore. Mangio anche se non mi va di mangiare perché so che il cibo mi serve e Tu vuoi che io viva. Devo trattare me come è giusto trattare un’altra persona, una persona quindi tua … E questi ragionamenti hanno spronato la mia forza di volontà in un rapporto che era diventato personale, d’amore con Gesù e non più come con il Dio lontano che immaginavo prima. Dopo lo sforzo, cioè l’offerta dell’unica cosa che abbiamo, la volontà, il peso diventa più leggero, i malesseri diminuiscono e scompaiono, la forza ritorna. Il Signore guarisce, salva.

Ho capito che il valore di ogni persona è incommensurabile, e che questo non dipende da ciò che si ha, ma è solo perché siamo creati da Dio e lui è Amore. Quante volte camminando per la strada e vedendo i mendicanti mi sentivo come loro. Mi sentivo l’ultima su questa terra. E la cosa che mi sollevava nei fiumi di lacrime era sapere, credere che anche se su questa terra non ero importante per nessuno, per Dio che mi ha creata e che è morto in Croce per me ero importante. In quel mistero incomprensibile alla ragione ma che il cuore riconosce e che dà vita. Questo mi dava il senso del vivere.

Come i mendicanti, ma io non mendicavo soldi. Sotto questo aspetto mi sentivo come gli uccelli del Cielo e i gigli dei campi che vengono nutriti dal Padre. A me era dato di vivere con quello che mi avevano lasciato i genitori senza la necessità di lavorare. Non avrei potuto per sempre, ma per quei dieci anni ho avuto di che vivere tranquillamente e senza il bisogno di lavorare. Ho lavorato per due anni in una segreteria politica e poi periodicamente, dopo aver studiato come docente di italiano a stranieri, come insegnante di italiano, appunto, a stranieri.

Ho fatto queste cose per occupare il tempo, per cercare di far cose normali, cercando una strada, senza che questi lavori mi appagassero o che li sapessi fare. Io mendicavo amore, affetto, calore umano. E non lo mendicavo apertamente, ma con una corazza protettiva di autodifesa che mi faceva sembrare più forte di quella che ero e agli occhi dei più superficiali sembravo fredda e credo anche cattiva. Sì, in certi periodi ho innalzato scudi protettivi molto grandi, soprattutto nei confronti di alcuni parenti, ma volevo vivere e volevo farlo al meglio e quindi erano necessari. Mi comporterei di nuovo allo stesso modo. Ho sempre avuto un’attrazione per il Vero, il Bello, il Buono, anche prima della conversione che mi ha resa consapevole e dove non trovavo istintivamente questo dovevo difendermi, non potevo permettere che la vulnerabilità della solitudine mi penalizzasse più di quanto fosse già penalizzante soffrire per la mancanza di tutto.

Inoltre non esternare il mio dolore, fingere di star bene o meglio di quanto stessi, spesso scambiato per orgoglio, era un modo per rendere la mia vita il più possibile uguale agli altri, normale. Per lottare con il peso della diversità, del sentirsi quella con la vita strana, brutta, fuori dal comune, piena di sofferenze, che soprattutto quando si è giovani e donne e in un mondo superficiale che certo non aiuta è più difficile da sopportare. Facevo di tutto per contrastare e soprattutto salvaguardarmi dal pietismo, dalla mentalità depressa degli altri che distrugge. Ho dovuto farlo anche nei confronti di mia nonna, da cui ho dovuto allontanarmi per non essere fagocitata in un vortice di tristezza mortifera, delusa del perché neanche in lei trovassi aiuto.
In più in quegli anni altre vicende mi hanno prostrata, angherie che hanno condizionato la mia vita notevolmente da parte di due ragazze che consideravo amiche e in un contesto di preghiera, in un sistema di sottomissione psicologica in cui ero caduta. Non voglio parlare oltre di questo, ma accennarlo sì, devo. Il Signore mi ha liberato anche da quest’oppressione. Ci vengono date prove, ma Lui non ci lascia mai e non ci dà prove più grandi di quanto possiamo sopportare. Non è retorica, è la verità.

Non più sola perché di Dio ma ancora “single. Fino al “marito pensato per me”

Avendo sperimentato la solitudine a 360° ho conosciuto anche la sofferenza della “singletudine”. Passavano gli anni con qualche invaghimento da parte mia non corrisposto e qualche rifiuto dato senza che mai iniziasse una storia. Il mio primo e unico fidanzato l’ho conosciuto a 32 anni ed è quello che avrei sposato l’anno dopo. L’ho atteso per tanti anni, mi sembra di averlo atteso da sempre e poi è arrivato. Un’amica mi ha detto “ l’hai trovato proprio come lo volevi!”. Sì, come lo volevo, come era adatto a me, pensato per me, ma non solo, molto molto di più di quanto avessi mai immaginato. Davvero non avevo mai immaginato che sarei stata amata così tanto.
Con il matrimonio tutto è cambiato. Ho conosciuto la gioia, che prima non avevo mai sperimentato. Il trasferimento in un’altra città, una vita completamente nuova. E si è arricchita di amicizie, persone che stimo, persone veramente belle con cui condividere la fede, lo sguardo, il modo di vivere e vedere la vita, una porzione di mondo che avevo sempre desiderato incontrare, ma che prima non trovavo. La vita prosegue…vediamo cosa ci sarà…

Non posso che concludere questo racconto della mia storia andando a confessarmi per tutte le volte che ho mancato e che manco di fiducia nel Signore. Perché riguardando il mio passato è evidente quanto mi abbia sollevato e liberato e dato forza per affrontare ogni cosa. Strettamente legata alla fede è la fiducia in Lui e nel suo amore ed è la cosa che bisogna accrescere e mantenere viva e sempre più forte. La chiedo.

Sia lodato Gesù Cristo. Sempre sia lodato!




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10/09/2017 09:56
 
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Conversione folgorante: Christine Roy, il cuore spaccato in due







     






«Allora esisti!» – è così che la donna reagì quando Cristo venne verso di lei, che tentava di suicidarsi.


Christine Roy aveva quarant’anni e da tempo non si curava più dell’esistenza di Dio. Eppure, nata in una famiglia cattolica praticante, avrebbe potuto accoglierlo nel suo cuore. Ma fin dai suoi anni di studentessa è stata presa da un profondo malessere e da pulsioni suicide. Scombussolata, era arrivata a dirsi: «Dio non esiste, mi hanno mentito».


E per quindici anni non ha più creduto né in Dio né nell’uomo: «Ero fiera di me. Né Dio né padrone! Facevo quello che volevo ed ero libera da ogni costrizione» – così si vantava questa donna divenuta istruttrice ginnica. Il Signore l’ha riacchiappata. «Abitata dallo scoramento, la disperazione e l’idea del suicidio» si è ritrovata una notte in un campo vicino alla discarica del suo paese, considerandosi lei stessa come “un rifiuto”. Ma mentre desiderava mettere fine ai suoi giorni e gridava la sua sofferenza, domandandosi chi potesse aiutarla, improvvisamente ha sentito il suo cuore spaccarsi in due. Dio era lì per lei.



Istantaneamente, ho visto un raggio di luce scendere dal cielo, come quello di un potente proiettore. In un istante, non soffrivo più, non avevo più freddo. Niente. Nessun pensiero. Ho sentito che quel raggio di luce, nel quale ero immersa, era Qualcuno, una persona: l’Amore in tutta la sua purezza e la sua potenza e, interiormente, ho detto: «Ma allora esisti!». Dio era lì per me, e io ho compreso che al contempo era ovunque nell’universo. Sono rimasta lì, avvolta da quella magnifica luce silenziosa, e ho avuto pure la certezza che Dio non mi avrebbe tolto nulla della mia personalità.



La fiducia, tutto d’un colpo, si mise a scorrere nelle sue vene. Si sentiva portata da questo “raggio di luce” che aveva visto e che più tardi avrebbe riconosciuto per lo Spirito Santo. Si è allora lasciata guidare verso una chiesa, poi verso un cimitero, come invitata a tornare a messa e a pregare. L’indomani mattina, racconta, «mi sono svegliata con una gioia immensa e la voglia di gridare al mondo intero: “Dio esiste e ci ama infinitamente!”».


Adorazione, preghiere…


In seguito a quest’esperienza folgorante, Christine ha sollecitato un prete perché l’aiutasse a trovare “delle risposte giuste” sulla sua vita passata. Un incontro con un monaco ha completato la sua conversione folgorante. Quest’ultimo le ha detto: «Creda che Dio le perdona tutti i suoi peccati, e che Egli le restituisce la sua anima di battezzata neonata». Le ha dato per penitenza di andare ad adorare Cristo in una cappella l’ vicino. «Cristo è veramente presente in quest’ostia. Gli apra il suo cuore e lasci entrare la sua luce», le aveva ingiunto.


Christine Roy gli ha obbedito e davanti all’ostensorio ha detto: «Dio, se ci sei, ti apro il mio cuore. Vieni». Dall’ostia è allora uscito un raggio di luce che ha “avvolto” il suo cuore di “tenerezza”. Cristo le aveva mostrato il suo «bel volto di risorto», con le sue stesse parole. Oggi Christine Roy consacra un’ora al giorno all’adorazione e partecipa quotidianamente alla messa. Ha un’intensa vita di preghiera e una devozione particolare allo Spirito Santo, al Sacro Cuore di Gesù e alla Sacra Famiglia.



Cristo è veramente presente nell’Eucaristia e noi lo riceviamo nel nostro cuore quando ci comunichiamo. Egli ci desidera e ci attende con un amore e una tenerezza infiniti, per ciascuno di noi: alla messa, all’adorazione, nella lettura della sua Parola e in tutti i sacramenti della sua Chiesa, che davvero è il suo Corpo. È quello che Egli mi fa vivere e sentire sempre più profondamente nel mio cuore, perché Dio è il mio Amore!




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26/09/2017 21:39
 
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«Il cancro è un dono». Così David, una notte, ha incontrato Dio



 



Il 17 enne è volato in cielo dopo una terribile malattia. Ma nonostante le sofferenze ha raggiunto una incredibile pace interiore


Quando si vive il cancro come un “dono” e si ritiene che le proprie sofferenze facciano parte del disegno di Dio, ci si ritrova di fronte ad una persona veramente speciale.


Se poi quella persona è un ragazzo di soli 17 anni, affetto da tumore maligno alle ossa molto aggressivo, con una soglia di dolore massima, che lo logora in meno di un anno, allora l’esempio diventa qualcosa di raro e straordinario.


Alcuni mesi fa, David è volato in cielo a Roma. Si è battuto come un leone contro l’osteosarcoma che lo ha aggredito sin dalla prima diagnosi, avvenuta un anno fa. Nessuno scampo, solo tanta sofferenza, tanto dolore. Ma lui ha sfidato la malattia come pochi. Trasformandola in un’incredibile prova d’amore verso Dio.


LE PRIME SOFFERENZE


David proviene da una famiglia che lo ha educato ai valori cattolici. Ha sempre frequentato la messa, la catechesi. E’ un ragazzo molto sveglio, in gamba. Fa sport, esce con gli amici. La sua è una vita assolutamente normale. Poi a 16 anni inizia ad avvertire un indolenzimento ad una gamba. Ma pensa che sia dovuto alla troppa attività sportiva che pratica in quel periodo. I dolori aumentano col trascorrere dei giorni. La notte fatica a dormire e gli anti dolorifici provocano un effetto quasi nullo.


LA DIAGNOSI SENZA USCITA


Allora decide di fare alcuni esami e i medici non riescono a tracciare una diagnosi. Davide dentro di sé sapeva che al suo fianco c’era Dio, a prescindere da quello che gli stava capitando. Ne avvertiva la presenza, aveva come la sensazione che ci fosse costantemente qualcuno accanto a lui pronto a supportarlo.


Dopo aver ripetuto le analisi, e sostenuto una serie di visite, arriva la triste sentenza. Il ragazzo ha un osteosarcoma, un tumore maligno alle ossa che sta lacerando il nervo sciatico. La famiglia è abbattuta, lui però prova a combattere il cancro con il sorriso. Nelle sue giornate non manca mai la preghiera. Invoca il Signore sperando che si possa curare.


D’altro canto il 70 per cento delle persone affette da quel tipo di tumore guarisce. Ma le batoste arrivano una dopo l’altra: gli viene diagnosticata una metastasi al polmone. La strada inizia a farsi in salita.


“AFFIDA LA MALATTIA AL SIGNORE”


Allora David chiede aiuto a dei sacerdoti su come affrontare la difficile battaglia che l’aspetta. Uno di questi gli dice: affida in toto la malattia al Signore. E gli chiede di fare un atto di fede. La paura della morte inizia a subentrare, e il ragazzo è scettico su quello che gli consiglia il prete. Lui vuole vivere, ma se i piani di Dio sono diversi? La domanda che lo tormenta. Il sacerdote che dialoga con lui gli ricorda più volte le sofferenza di Gesù prima della morte in croce.


 


LA PAURA DI MORIRE E IL ROSARIO


Una notte in ospedale, tra una terapia e l’altra, David non riesce a prendere sonno. Avverte la voglia di pregare. Sono le tre del mattino. Allora decide spontaneamente di recitare il rosario. In quel momento, come racconta lui a stesso, inizia a provare una sensazione unica, indescrivibile. Una gioia immensa che lo fa abbandonare a se stesso, mista ad una tristezza che lui ha sempre definito, paradossalmente, “positiva”. «Un po’ come si è innamorati con le farfalle nello stomaco», spiega ai suoi amici.


EMOZIONE CHE NON SI PUO’ DESCRIVERE


Più David recita il rosario, più l’emozione è forte e inizia a piangere. Piange per mezz’ora.


Eppure era consapevole di non essere solo in quella stanza: c’era qualcuno altro che stava manifestando tutto il suo amore nei suoi confronti. Una presenza, già avvertita quando ancora non conosceva la diagnosi, che  percepiva sempre con più forza. E’ in quel momento che gli vengono in mente le parole del prete: «Affida la malattia al Signore».


IL CONTATTO CON DIO


Alla fine della lunga notte di preghiera, il ragazzo sente la svolta dentro di sé. E’ come se fosse sparita la paura di morire. Da quell’istante, dice a se stesso, qualsiasi cosa accade in merito alla malattia, dovrà essere affrontata con uno spirito nuovo.


David è un uomo diverso. Ha assaggiato l’amore di Dio, e Dio non può che volere solo il meglio per ogni persona. Qualsiasi cosa che coincide con la volontà di Dio, ragiona il ragazzo, è la cosa migliore, nel bene e nel male. 


LA PACE INTERIORE


Così raggiunge una tranquillità interiore mai avuto prima, grazie alla presenza di Dio che accompagna le sue giornate. David definisce la vita una partita a scacchi perfettamente giocata, dove ogni mossa che avviene si innesta alla perfezione con l’altra. Ha il sorriso stampato sulle labbra e un ottimismo che di spiegabile ha poco, visti i dolori alle ossa, causati dalla violenza del cancro.


Lui, però, si sente pieno di gioia. La sua storia fa il giro del mondo. In tanto pregano per lui nei cinque continenti. Quelle preghiere, dice lui, sono «grazie» che non capitano a tutte le persone. E anche ciò che appare negativo, la malattia, è un “dono”, è qualcosa di positivo.


«Un cancro che può’ ucciderti è un dono». Una frase che ripete spesso a chi lo incontra in ospedale e poi a casa. Sino al giorno in cui le forze lo abbandonano definitivamente e spira sereno. 


“IL DIAVOLO? NON MI FARO’ TENTARE”


Durante il suo funerale, il parroco ha ricordato il modo in cui David ha affrontato la malattia. Si sono visti spesso nei giorni del decorso clinico e sopratutto nelle ultime settimane quando ormai il tumore aveva avvolto diversi organi vitali. Il ragazzo soffriva molto, faticava a respirare, ma non si è mai lamentato.


Raccontava il parroco di un colloquio simpatico con David poche ore prima che si aggravasse ed entrasse in coma. «Attento che il demonio rimetterà’ dubbi sull’esistenza di DIo». E David replicava sicuro: «Veramente non accadrà». E il prete: «Attento il demonio è sentimentalista… quando andrai in coma la tua anima è vigile… devi rimetterti in piedi». La risposta del ragazzo, mentre boccheggiava, era in un incredibile sorriso.


“SENTIRE VOI E’ UN DONO DEL SIGNORE!”


Uno dei suoi gruppi musicali preferiti, la band de “I Reale“, lo ha omaggiato con un post su Facebook. «SPEZZATO dalla malattia, ha DONATO a tutti noi la testimonianza di gioia e fiducia in Dio nonostante il dolore, MANGIATO da tutti noi che continuiamo a portare nel cuore il suo esempio di Santità».


Con David, proseguono i Reale «ci siamo conosciuti pochi mesi fa, a febbraio dopo una testimonianza. Ma siamo rimasti affascinati dal suo sorriso e dalla forza con cui diceva a tutti i suoi coetanei “se riesco ad essere felice io, perchè non puoi farlo tu?”. Ci siamo scambiati in questi mesi molti messaggi, era un fan della nostra musica e “spacciava” nostri cd a tutti, uno degli ultimi messaggi diceva: “Ale, anche se ci siamo conosciuti da poco e per poco tempo sento di provare un grande affetto per voi, questo per me è un dono del Signore che ci permette di sentirci veramente fratelli anche a distanza! Che Dio vi benedica tutti e possiate sentire quanto veglia sulla vostra vita!”


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24/11/2017 10:47
 
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Grothendieck, matematico alla ricerca di Dio



Alexander Grothendieck

Sono passati quasi tre anni da quel 13 novembre 2014, giorno in cui moriva quello che è stato definito il più grande matematico del XX secolo, e tra i più importanti di sempre: Alexander Grothendieck.

Nato nel 1928 a Berlino da famiglia ebrea, ebbe un'infanzia segnata dalle vicende storiche legate alla Seconda Guerra mondiale. «Divenuto adulto, Grothendieck meriterà il titolo di “Einstein della matematica”. Certamente, come Albert, è un ebreo; come lui viene da una famiglia del tutto atea; come lui, nel corso della sua vita verrà sempre più attratto dalla fede religiosa e dal cristianesimo». A questa figura importantissima in campo matematico e significativa sotto il profilo autobiografico, ha dedicato il suo ultimo libro lo scrittore Francesco Agnoli: Lo splendore che ci trascende - Alexander Grothendieck l’Einstein della matematica alla ricerca di Dio(Edizioni Gondolin, 2017).

Analizzando la carriera di Grothendieck, non si può che rimanere stupiti nel constatare che a neanche quarant'anni, nel 1966, era già arrivato a ottenere il massimo riconoscimento mondiale per un matematico: la medaglia Fields. Medaglia che tuttavia rifiutò, in segno di coerenza con le sue idee: «Per riceverla bisognava andare a Mosca, ma Alexander si rifiuta, in segno di protesta contro il totalitarismo sovietico. I soldi non gli interessano e rinuncia così anche agli altri premi e al relativo guadagno. [...] Nel 1988, insignito del Crafoord Prize, lo rifiuta, insieme ai 250.000 dollari annessi».

Non sono dunque le soddisfazioni personali, il successo o i soldi a mancare a Grothendieck. Eppure il matematico ha il cuore inquieto, non sazio della pura scienza matematica: ha bisogno di (un) Altro per trovare pace, si potrebbe dire parafrasando Sant'Agostino. Ecco quindi che, a un certo punto, «come era già successo al grande matematico e fisico Blaise Pascal, a Niccolò Stenone, divenuto sacerdote dopo aver fondato la geologia moderna, a Jan Swammerdam (1637-1680), considerato il padre dell’entomologia, a Gaetana Agnesi, che aveva lasciato la matematica e il successo per la fede e le opere di carità, anche Grothendieck abbandona piano piano i suoi amati studi perché sempre più attratto dalle domande spirituali. I segnali di questo mutamento di priorità ci sono già negli anni Sessanta».

Dapprima Grothendieck si avvicina al Buddismo, che però trova insoddisfacente: si tratta infatti di una religione che non è in grado di dare una risposta alla sua sete di "perché", ma che rimane sul piano del "come", del metodo... e questo, all'insigne matematico, non basta più. Il celebre matematico non può più fare a meno di Dio e la sua vita si trasforma dunque in una ricerca continua, con continui progressi e cadute... 

Ne Lo splendore che ci trascende ancora una volta Francesco Agnoli parte da una storia di vita concreta, per tanti aspetti vicina a quella di ognuno di noi, per andare quindi ad indagare lo stretto rapporto che intercorre tra Scienza e Fede e, più nello specifico, tra la matematica e il misticismo. Il tutto alla luce dell'affermazione, divenuta nota, del matematico e logico ateo Bertrand Russel: «La matematica è, credo, ciò su cui sostanzialmente poggia la fede in un'eterna ed esatta verità, nonché in un mondo intelligibile al di sopra dei sensi».


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