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PROBLEMATICHE DI ESCATOLOGIA: SIGNIFICATO E SPIEGAZIONI

Ultimo Aggiornamento: 24/09/2021 16:06
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24/09/2021 16:05
 
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10 - La grandezza del progetto divino e la serietà della vita umana

10.1. Nell'unicità della vita umana si vede chiaramente la sua serietà: la vita umana non si può ripetere. Poiché la vita terrena è la strada verso le realtà escatologiche, il modo nel quale procederemo in essa ha conseguenze irrevocabili. Perciò questa nostra vita corporale conduce a un destino eterno. L'uomo, dal canto suo, comincerà a conoscere il senso del suo destino ultimo solo se considera la propria natura ricevuta da Dio. Dio creò l'uomo a sua «immagine e somiglianza» (Gen 1,26). Questo implica che lo fece capace di conoscere Dio e di amarlo liberamente, mentre, come signore, governa tutte le altre creature, le sottomette e se ne serve. Questa capacità si fonda sulla spiritualità dell'anima umana. Poiché questa è creata in ciascun uomo immediatamente da Dio, ogni uomo esiste come un atto concreto d'amore creativo di Dio.

10.2. Dio non solo creò l'uomo, ma inoltre lo pose nel paradiso (Gen 2,4); con questa immagine la sacra Scrittura vuole dire che il primo uomo fu costituito in vicinanza e amicizia con Dio. Si comprende allora che per il peccato contro un precetto grave di Dio si perde il paradiso (Gen 3,23-24), giacché quel peccato distrugge l'amicizia dell'uomo con Dio. Al peccato del primo uomo segue la promessa della salvezza (cf. Gen 3,15), che, secondo l'esegesi sia ebraica sia cristiana, doveva essere portata dal Messia (cf. in connessione con la parola sperma i LXX: autos e non auto). Di fatto, nella pienezza dei tempi, Dio «ci ha riconciliati con sé mediante Cristo» (2Cor 5,18). Cioè «colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio» (2Cor 5,21). Mosso da misericordia «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16). La redenzione ci permette di «svelare la profondità di quell'amore che non indietreggia davanti allo straordinario sacrificio del Figlio, per appagare la fedeltà del Creatore e Padre nei riguardi degli uomini creati a sua immagine e fin dal "principio" scelti, in questo Figlio, per la grazia e per la gloria».

Gesù è il vero «Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo» (Gv 1,29). Il perdono del peccato, ottenuto mediante la morte e la risurrezione di Cristo (cf. Rm 4,25), non è meramente giuridico, ma rinnova l'uomo internamente, più ancora lo eleva al di sopra della sua condizione naturale. Cristo è stato inviato dal Padre «perché ricevessimo l'adozione a figli» (Gal 4,5). Se con fede viva crediamo nel suo nome, egli ci dona il «potere di diventare figli di Dio» (cf. Gv 1,12). In questo modo entriamo nella famiglia di Dio. Il progetto del Padre è che diventiamo «conformi all'immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli» (Rm 8,29). Di conseguenza il Padre di Gesù Cristo diventa nostro Padre (cf. Gv 20,17). Poiché siamo figli del Padre nel Figlio, siamo «anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo» (Rm 8,17). Così appare il senso della vita eterna che ci è stata promessa, come partecipazione all'eredità di Cristo: «La nostra patria è nei cieli» (Fil 3,20), poiché nei confronti del cielo non siamo «stranieri né ospiti, ma [...] concittadini dei santi e familiari di Dio» (Ef 2,19).

10.3. Gesù, nel rivelarci i segreti del Padre, desidera farci diventare suoi amici (cf. Gv 15,15). Ma nessuna amicizia può essere imposta. L'amicizia, come anche l'adozione, si offrono per essere liberamente accettate o rifiutate. La felicità del cielo è la consumazione dell'amicizia offerta gratuitamente da Cristo e liberamente accettata dall'uomo. «Essere con Cristo» (Fil 1,23) nella condizione di amico, costituisce l'essenza dell'eterna beatitudine celeste (cf. 2Cor 5,6-8; 1Ts 4,17). Il tema della visione di Dio «faccia a faccia» (1Cor 13,12; cf. 1Gv 3,2) deve intendersi come espressione di amicizia intima (cf. già in Es 33,11: «Il Signore parlava con Mosè faccia a faccia, come un uomo parla con un suo amico»). Quest'amicizia consumata, liberamente accettata, implica la possibilità esistenziale del rifiuto. Tutto quello che si accetta liberamente può essere rifiutato liberamente. Chi sceglie così il rifiuto «non avrà parte al regno di Cristo e di Dio» (Ef 5,5). La condanna eterna ha la sua origine nel libero rifiuto, fino alla fine, dell'amore e della pietà di Dio. La Chiesa crede che questo stato consista nella privazione della visione di Dio e nella ripercussione eterna di questa pena in tutto il proprio essere. Questa dottrina di fede mostra sia l'importanza della capacità umana di rifiutare liberamente Dio, sia la gravità di questo libero rifiuto. Fino a quando il cristiano rimane in questa vita, si sa posto sotto il giudizio futuro di Cristo: «Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, ciascuno per ricevere la ricompensa delle opere compiute finché era nel corpo, sia in bene sia in male» (2Cor 5,10). Solo davanti a Cristo e attraverso la luce da lui comunicata diventerà intelligibile il mistero di iniquità che esiste nei peccati che commettiamo. Attraverso il peccato grave l'uomo arriva a considerare, nel suo modo di operare, - Dio come nemico della propria creatura e, prima di tutto, come nemico dell'uomo, come fonte di pericolo e di minaccia per l'uomo. Poiché il corso della nostra vita terrena è unico (Eb 9,27) e poiché in esso ci vengono offerti gratuitamente l'amicizia e l'adozione divine con il pericolo di perderle con il peccato, appare chiaramente la serietà di questa vita; infatti le decisioni che si prendono in essa hanno conseguenze eterne.

Il Signore ci ha posto dinanzi «la via della vita e la via della morte» (Ger 21,8). Sebbene attraverso la grazia preveniente e adiuvante egli ci inviti alla via della vita, noi possiamo scegliere una delle due. Dopo la scelta, Dio rispetta seriamente la nostra libertà, senza cessare, qui sulla terra, di offrire la sua grazia salvifica anche a coloro che si separano da lui. In realtà bisogna dire che Dio rispetta quello che abbiamo voluto fare liberamente di noi stessi, sia accettando la grazia sia rifiutandola. In questo senso si comprende che, in qualche modo, sia la salvezza sia la condanna cominciano qui sulla terra, in quanto l'uomo, con le sue decisioni morali, liberamente si apre o si chiude a Dio. D'altro canto diventa chiaramente manifesta la grandezza della libertà umana e della responsabilità che deriva da essa. Ogni teologo è consapevole delle difficoltà che l'uomo, sia del nostro tempo sia di ogni altro tempo della storia, sperimenta per accettare la dottrina del Nuovo Testamento sull'inferno. Perciò si deve raccomandare molto un animo aperto alla sobria dottrina del Vangelo sia per esporla sia per crederla. Contenti di tale sobrietà, dobbiamo evitare il tentativo di determinare, in modo concreto, le vie attraverso le quali possono essere conciliate l'infinita bontà di Dio e la vera libertà umana. La Chiesa prende sul serio la libertà umana e la misericordia divina che ha concesso la libertà all'uomo come condizione per ottenere la salvezza. Quando la Chiesa prega per la salvezza di tutti, in realtà sta pregando per la conversione di tutti gli uomini che vivono. Dio «vuole che tutti gli uomini siano salvi e arrivino alla conoscenza della verità» (1Tm 2,4). La Chiesa ha sempre creduto che questa volontà salvifica universale di Dio ha, di fatto, una grande efficacia. Mai la Chiesa ha sancito la condanna di alcuna persona in concreto. Ma poiché l'inferno è una vera possibilità reale per ogni uomo, non è lecito - sebbene oggi lo si dimentichi talora nella predicazione durante le esequie - presupporre una specie di automatismo della salvezza. Perciò, riguardo a questa dottrina, è assolutamente necessario far proprie le parole di Paolo: «O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie» (Rm 11,33).

10.4. La vita terrena sembra ai reincarnazionisti troppo breve per poter essere unica. Per tale ragione pensavano alla sua reiterabilità. Il cristiano dev'essere cosciente della brevità di questa vita terrena, che sa bene essere unica. Poiché «tutti manchiamo in molte cose» (Gc 3,2) e il peccato è stato presente frequentemente nella nostra vita passata, è necessario che «profittando del tempo presente»( Ef 5,16) e deponendo «ciò che è di peso e il peccato che ci intralcia, corriamo con perseveranza nella corsa, tenendo fisso lo sguardo su Gesù autore e perfezionatore della fede» (Eb 12,1-2). «Non abbiamo quaggiù una città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura» (Eb 13,14). Così il cristiano, come straniero e pellegrino (cf. 1Pt 2,11), si affretta per giungere con la vita santa alla patria (cf. Eb 11,14), nella quale starà sempre con il Signore (cf. 1Ts 4,17).



11 - Lex orandi - lex credendi

11.1. È un principio teologico «che la legge dell'orazione stabilisca la legge della fede». Possiamo e dobbiamo cercare e trovare nella liturgia la fede della Chiesa. Poiché qui non è possibile una ricerca completa sulla dottrina escatologica nella liturgia, tenteremo di esporre solo una breve sintesi delle principali idee che si trovano nella liturgia romana rinnovata dopo il concilio Vaticano II.

11.2. In primo luogo bisogna notare che nella liturgia dei defunti Cristo risorto è la realtà ultima che illumina tutte le altre realtà escatologiche. Conseguentemente la speranza suprema si colloca nella risurrezione corporale: «Cristo, primogenito di coloro che risorgono, trasformerà il nostro corpo mortale a immagine del suo corpo glorioso: raccomandiamo il nostro fratello al Signore, perché accolga la sua anima nella pace eterna e risusciti il suo corpo nell'ultimo giorno». In questo testo è chiaro che si afferma la risurrezione non solo come futura, cioè come ancora non realizzata, ma anche che deve aver luogo alla fine del mondo.

11.3. Poiché bisogna attendere per la risurrezione sino alla fine del mondo, nel frattempo esiste un'escatologia delle anime. Per questa ragione, nel benedire il sepolcro si dice una preghiera perché «mentre il corpo del nostro fratello viene deposto nella terra, l'anima sia accolta in paradiso». Con parole bibliche, prese da Lc 23,43, si ricorda che c'è una retribuzione «immediatamente subito dopo la morte» per l'anima. Anche altre formule di preghiera confessano questa escatologia delle anime. Così l'Ordo exsequiarum contiene questa preghiera che si dice nel deporre il corpo nel feretro: «Accogli, Signore, l'anima fedele di N., che hai chiamato da questo mondo a te, e fa' che, liberata da ogni colpa, sia partecipe della beata pace e della luce senza tramonto, e meriti di unirsi ai tuoi santi ed eletti nella gloria della risurrezione». Un'orazione per l'«anima» del defunto si ripete altre volte. È del tutto tradizionale e molto antica la formula che si deve dire per il moribondo, quando sembra ormai prossimo il momento della morte: «Parti, anima cristiana, da questo mondo in nome di Dio Padre onnipotente che ti creò, in nome di Gesù Cristo Figlio di Dio che patì per te, in nome dello Spirito Santo che fu infuso in te; sia oggi il tuo luogo nella pace e la tua abitazione assieme a Dio nella santa Sion».

Le formule che si usano in tali orazioni includono una domanda che non sarebbe comprensibile se non ci fosse una purificazione dopo la morte: «La sua anima non soffra lesione alcuna, [...] perdonale tutti i suoi delitti e peccati». Il riferimento ai delitti e peccati deve intendersi dei peccati quotidiani e delle vestigia di quelli mortali, poiché nella Chiesa non si fa nessuna preghiera per i condannati. In un'altra orazione si sottolinea opportunamente che l'escatologia delle anime è ordinata alla loro risurrezione: «Nelle tue mani, Padre clementissimo, consegniamo l'anima del nostro fratello N., con la sicura speranza che risorgerà nell'ultimo giorno insieme a tutti i morti in Cristo». Questa risurrezione viene concepita in modo del tutto realistico sia per il parallelismo con la risurrezione dello stesso Cristo, sia per la relazione che si afferma nei confronti della salma che sta nel sepolcro: «Signore Gesù Cristo, che, riposando per tre giorni nel sepolcro, hai illuminato con la speranza della risurrezione la sepoltura di coloro che credono in te, fa' che il nostro fratello N. riposi in pace fino al giorno in cui tu, che sei la risurrezione e la vita, farai risplendere su di lui la luce del tuo volto e lo chiamerai a contemplare la gloria del paradiso». La Preghiera eucaristica III sottolinea a sua volta il realismo della risurrezione dei morti (insieme certamente all'idea della trasformazione gloriosa), la sua relazione con la risurrezione dello stesso Cristo e la sua indole futura: «[...] come per il battesimo l'hai unito alla morte di Cristo, tuo Figlio, così rendilo partecipe della sua risurrezione, quando farà sorgere i morti dalla terra e trasformerà il nostro corpo mortale a immagine del suo corpo glorioso».

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Questa è la vita: che conoscano Te, solo vero Dio, e Colui che hai mandato, Gesù Cristo. Gv.17,3
 
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