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PROBLEMATICHE DI ESCATOLOGIA: SIGNIFICATO E SPIEGAZIONI

Ultimo Aggiornamento: 24/09/2021 16:06
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24/09/2021 16:04
 
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6 - La morte cristiana

6.1. La concezione antropologica caratteristicamente cristiana offre un modo concreto di comprendere il senso della morte. Siccome nell'antropologia cristiana il corpo non è un carcere, dal quale il carcerato desidera fuggire, né un vestito che si possa togliere facilmente, la morte considerata naturalmente non è per nessun uomo una cosa desiderabile né un avvenimento che l'uomo possa abbracciare con animo tranquillo senza previamente superare la ripugnanza naturale. Nessuno deve vergognarsi dei sentimenti di naturale ripulsa che prova di fronte alla morte, giacché lo stesso Signore volle soffrire dinanzi alla propria morte e Paolo confessa di averli avuti: «[...] non volendo venire spogliati ma sopravvestiti» (2Cor 5,4). La morte scinde l'uomo intrinsecamente. Più ancora, poiché la persona umana non è solamente l'anima, ma l'anima e il corpo essenzialmente uniti, la morte colpisce la persona. L'assurdo della morte appare più chiaro se consideriamo che nell'ordine storico essa esiste contro la volontà di Dio (cf. Sap 1,13-14; 2,23-24): poiché «l'uomo sarebbe stato esentato [dalla morte corporale] se non avesse peccato». La morte va accettata con un certo sentimento di penitenza da parte del cristiano che tiene davanti agli occhi le parole di Paolo: «[...] il salario del peccato è la morte» (Rm 6,23). È anche naturale che il cristiano soffra per la morte delle persone che ama. «Gesù scoppiò in pianto» (Gv 11,35) per il suo amico Lazzaro, che era morto. Anche noi possiamo e dobbiamo piangere i nostri amici morti.

6.2. La ripugnanza che l'uomo sperimenta di fronte alla morte e la possibilità di superare tale ripugnanza sono un atteggiamento tipicamente umano, completamente diverso da quello di qualsiasi animale. In questo modo la morte è un'occasione nella quale l'uomo può e deve manifestarsi come uomo. Il cristiano può inoltre superare il timore della morte, appoggiandosi su altri motivi. La fede e la speranza ci mostrano un'altra faccia della morte. Gesù assunse la paura della morte alla luce della volontà del Padre (cf. Mc 14,36). Egli morì per «liberare quelli che per timore della morte erano tenuti in schiavitù per tutta la vita» (Eb 2,15). Di conseguenza, già Paolo può avere il desiderio di partire per stare con Cristo; questa comunione con Cristo dopo la morte è considerata da Paolo, in paragone con lo stato della vita presente, come qualcosa che «sarebbe assai meglio» (cf. Fil 1,23). Il vantaggio di questa vita consiste nel fatto che «abitiamo nel corpo» e così abbiamo la nostra piena realtà esistenziale; ma rispetto alla piena comunione dopo la morte «siamo in esilio lontano dal Signore» (cf. 2Cor 5,6). Sebbene con la morte usciamo da questo corpo e ci vediamo così privati dalla nostra pienezza esistenziale, la accettiamo di buon animo, più ancora possiamo desiderare, quando essa arriva, di «abitare presso il Signore» (2Cor 5,8). Questo mistico desiderio di comunione, dopo la morte, con Cristo, che può coesistere con il timore naturale della morte, appare più volte nella tradizione spirituale della Chiesa, soprattutto nei santi, e dev'essere inteso nel suo vero senso. Quando questo desiderio giunge a lodare Dio per la morte, tale lode non si fonda, in alcun modo, su una valorizzazione positiva dello stato stesso nel quale l'anima manca del corpo, bensì sulla speranza di possedere il Signore con la morte. La morte si considera allora come porta che conduce alla comunione, dopo la morte, con Cristo e non come liberatrice dell'anima nei confronti di un corpo che le sarebbe di peso.

Nella tradizione orientale è frequente il pensiero della bontà della morte in quanto condizione e via verso la futura risurrezione gloriosa. «Se pertanto non è possibile senza la risurrezione che la natura giunga a una migliore condizione e stato, e se la risurrezione non può aver luogo senza che prima avvenga la morte: la morte è qualcosa di buono, in quanto essa è per noi inizio e via di un cambiamento verso il meglio». Cristo con la sua morte e la sua risurrezione conferì alla morte questa bontà: «Dio si è piegato sul nostro cadavere tendendo per così dire la mano a colui che giaceva, e si è accostato alla morte fino ad assumere lo stato di cadavere e a offrire alla natura per mezzo del proprio corpo il principio della risurrezione». In questo senso, Cristo «cambiò l'occidente in oriente». Anche il dolore e la malattia, che sono un inizio della morte, devono essere assunti dai cristiani in modo nuovo. Già in se stessi si sopportano con molestia, ma ancor più in quanto sono segni del progredire della dissoluzione del corpo. Ebbene con l'accettazione del dolore e della malattia, permessi da Dio, diventiamo partecipi della passione di Cristo, e con l'offerta di essi ci uniamo all'atto con il quale il Signore offrì la propria vita al Padre per la salvezza del mondo. Ciascuno di noi deve affermare come già Paolo: «Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1,24). Attraverso l'associazione alla passione del Signore siamo condotti a possedere la gloria di Cristo risorto: «portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo» (2Cor 4,10). In modo simile non ci è lecito rattristarci per la morte degli amici «come gli altri che non hanno speranza» (1Ts 4,13). Da parte di costoro «con lamenti fino alle lacrime e con gemiti [...] si è soliti deplorare una certa miseria di quelli che muoiono o la loro estinzione quasi totale»; noi invece, come per Agostino in occasione della morte della madre, siamo consolati dal pensiero: «Ella [Monica] non moriva né miseramente né del tutto».

6.3. Questo aspetto positivo della morte si raggiunge solo con il modo di morire che il Nuovo Testamento chiama «morte nel Signore»: «Beati fin d'ora i morti che muoiono nel Signore» (Ap 14,13). Questa «morte nel Signore» è desiderabile in quanto ci conduce alla beatitudine e si prepara con la vita santa: «Sì, dice lo Spirito, riposeranno dalle loro fatiche, perché le loro opere li seguono» (Ap 14,13). In questo modo la vita terrena è ordinata alla comunione con Cristo dopo la morte, che si raggiunge già nello stato di anima separata, il quale è, senza dubbio, ontologicamente imperfetto e incompleto. Poiché la comunione con Cristo è un valore superiore alla pienezza esistenziale, la vita terrena non si può considerare il valore supremo. Ciò giustifica nei santi il desiderio mistico della morte, che, come abbiamo detto, è frequente. Attraverso la vita santa, alla quale la grazia di Dio ci chiama e per la quale ci assiste con il suo aiuto, la connessione originaria tra la morte e il peccato quasi si rompe, non perché la morte venga soppressa fisicamente, ma in quanto comincia a condurre alla vita eterna. Questo nuovo modo di morire è una partecipazione al mistero pasquale di Cristo. I sacramenti ci dispongono a tale morte. Il battesimo, nel quale moriamo misticamente al peccato, ci consacra con la partecipazione alla risurrezione del Signore (cf. Rm 6,3-7).

Quando riceve l'eucaristia, che è «medicina d'immortalità», il cristiano riceve la garanzia di partecipare alla risurrezione di Cristo. La morte nel Signore implica la possibilità di un altro modo di morire, cioè la morte fuori del Signore che conduce alla morte seconda ( cf. Ap 20,14). In tale morte, la forza del peccato, attraverso il quale la morte entrò nel mondo (cf. Rm 5,12), manifesta, in grado sommo, la sua capacità di separare da Dio. 6.4. Presto si formarono - e certo sotto l'influsso della fede nella risurrezione dei morti - gli usi cristiani di seppellire i cadaveri dei fedeli. Il modo di parlare, espresso nelle parole «cimitero» (in greco koimeìteìrion, «dormitorio») o «deposizione» (in latino depositio: diritto di Cristo a recuperare il corpo del cristiano, in opposizione a «donazione»), presuppone questa fede. Nella cura che si ha del cadavere, si vedeva «un obbligo di umanità», ma «se quelli che non credono nella risurrezione della carne, fanno queste cose», tanto più le devono prestare quelli «che credono che quest'obbligo che si adempie verso il corpo morto, ma che deve risorgere e rimanere per l'eternità, è anche, in certo modo, una testimonianza di questa medesima fede». Per molto tempo rimase proibita la cremazione dei cadaveri, perché storicamente la si percepiva in connessione alla mentalità neoplatonica, la quale con essa intendeva la distruzione del corpo, affinché cosi l'anima si liberasse totalmente dal suo carcere (in tempi più recenti implicava un atteggiamento materialista o agnostico). La Chiesa ora non la proibisce «a meno che non sia stata scelta per motivi contrari alla dottrina cristiana». Si deve far sì che l'attuale diffusione della cremazione, pure fra i cattolici, non oscuri in alcun modo la loro corretta mentalità sulla risurrezione della carne.



7 - Il «consorzio vitale» di tutti i membri della Chiesa in Cristo

7.1. L'ecclesiologia di comunione, che è molto caratteristica del concilio Vaticano II, ritiene che la comunione dei santi, ossia l'unione in Cristo dei fratelli, la quale consiste in vincoli di carità, non s'interrompa con la morte, «anzi, secondo la perenne fede della Chiesa, è consolidata dalla comunicazione dei beni spirituali». La fede dona ai cristiani che vivono sulla terra «la possibilità di comunicare in Cristo con i propri cari già strappati dalla morte». Questa comunicazione avviene attraverso diverse forme di preghiera. Un tema molto importante nell'Apocalisse di Giovanni è costituito dalla liturgia celeste. Ad essa partecipano le anime dei beati. Nella liturgia terrena, soprattutto «quando celebriamo il sacrificio eucaristico, ci uniamo in sommo grado al culto della Chiesa celeste, comunicando con essa e venerando la memoria soprattutto della gloriosa Vergine Maria, ma anche del beato Giuseppe e dei beati apostoli e martiri e di tutti i santi». Realmente, quando si celebra la liturgia terrena, si manifesta la volontà di unirla con quella celeste. Così, nell'anafora romana, questa volontà appare non solo nell'orazione «In comunione con tutta la Chiesa» (almeno nella sua formula attuale), ma anche nel passaggio dal prefazio al canone e nell'orazione del canone «Ti supplichiamo, Dio onnipotente», nella quale si chiede che l'offerta terrena sia portata sull'altare sublime del cielo.

Ma questa liturgia celeste non consiste solo nella lode. Il suo centro è l'Agnello che sta in piedi, come immolato (cf. Ap 5,6), cioè «Cristo Gesù, che è morto, anzi, che è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi» (Rm 8,34; cf. Eb 7,25). Poiché le anime dei beati partecipano a questa liturgia d'intercessione, in essa hanno cura anche di noi e del nostro pellegrinaggio, «poiché intercedono per noi e con la loro fraterna sollecitudine aiutano grandemente la nostra debolezza». Poiché in questa unione della liturgia celeste e terrena diventiamo coscienti che i beati pregano per noi, «è quindi sommamente giusto che amiamo questi amici e coeredi di Gesù Cristo e anche nostri fratelli e insigni benefattori e che per essi rendiamo le dovute grazie a Dio». Inoltre, la Chiesa ci esorta con impegno a «invocarli umilmente e ricorrere alle loro preghiere, al loro potere e aiuto per ottenere benefici da Dio, per mezzo del Figlio suo Gesù Cristo, nostro Signore, che è l'unico Redentore e Salvatore». Questa invocazione dei santi è un atto per cui il fedele si affida fiduciosamente alla loro carità. Poiché Dio è la fonte dalla quale si diffonde tutta la carità (cf. Rm 5,5), ogni invocazione dei santi è riconoscimento di Dio, quale fondamento supremo della loro carità, e tende, come ultimo termine, a lui.

7.2. L'idea dell'evocazione degli spiriti è completamente distinta dal concetto d'invocazione. Il concilio Vaticano II, che raccomandò d'invocare le anime dei beati, ricordò anche i principali documenti emanati dal magistero della Chiesa «contro ogni forma di evocazione degli spiriti». Questa costante proibizione ha origine biblica, già nell'Antico Testamento (Dt 18,10-14; cf. anche Es 22,17; Lv 19,31; 20,6.27). È molto noto il racconto dell'evocazione dello spirito di Samuele ('obot) da parte del re Saul (1Sam 28,3-25), alla quale la Scrittura attribuisce il rifiuto, anzi anche la morte di Saul: «Così Saul morì a causa della sua infedeltà al Signore, perché non ne aveva ascoltato la parola e perché aveva evocato uno spirito per consultarlo. Non aveva consultato il Signore; per questo il Signore lo fece morire e trasferì il regno a Davide figlio di Iesse» (1Cr 10,13-14). Gli apostoli mantengono questa proibizione nel Nuovo Testamento in quanto rifiutano tutte le arti magiche (At 13,6-12; 16,16-18; 19,11-20). Nel concilio Vaticano II, la commissione dottrinale spiegò quello che s'intende con la parola «evocazione»: essa sarebbe qualsiasi metodo «con cui si cerca di provocare con tecniche umane una comunicazione sensibile con gli spiriti o le anime separate per ottenere notizie e diversi aiuti». Questo insieme di tecniche si suole designare generalmente col nome di «spiritismo». Con frequenza - come si dice nella risposta citata - dall'evocazione degli spiriti si pretende di ottenere notizie occulte. In questo campo, i fedeli devono rimettersi a quello che Dio ha rivelato: «Hanno Mosè e i profeti; ascoltino loro» (Lc 16,29). Una curiosità ulteriore su cose dopo la morte è insana e perciò va repressa. Non mancano oggi sètte che rifiutano l'invocazione dei santi, com'è fatta dai cattolici, richiamandosi alla proibizione biblica: in questo modo non la distinguono dall'evocazione degli spiriti. Da parte nostra, mentre esortiamo i fedeli a invocare i santi, dobbiamo loro insegnare a invocarli in modo da non offrire alcuna occasione alle sètte per tale confusione.

7.3. Riguardo alle anime dei defunti, che dopo la morte hanno bisogno ancora di purificazione, «la Chiesa di quelli che sono in cammino [...] fino dai primi tempi della religione cristiana [...] ha offerto per loro anche i suoi suffragi». Crede, infatti, che per questa purificazione «riceveranno un sollievo [...], mediante suffragi dei fedeli viventi, come il sacrificio della messa, le preghiere, le elemosine e le altre pratiche di pietà, che i fedeli sono soliti offrire per gli altri fedeli, secondo le disposizioni della Chiesa».

7.4. La Institutio generalis (Princìpi e norme per l'uso) del Messale romano, dopo il rinnovamento liturgico postconciliare, spiega molto bene il senso di questo molteplice consorzio di tutti i membri della Chiesa, che raggiunge il suo culmine nella celebrazione liturgica dell'eucaristia: attraverso le intercessioni «si esprime che l'eucaristia viene celebrata in comunione con tutta la Chiesa, sia celeste sia terrestre, e che l'offerta è fatta per essa e per tutti i suoi membri, vivi e defunti, i quali sono stati chiamati a partecipare alla redenzione e alla salvezza acquistata per mezzo del corpo e del sangue di Cristo».
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Questa è la vita: che conoscano Te, solo vero Dio, e Colui che hai mandato, Gesù Cristo. Gv.17,3
 
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