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PROBLEMATICHE DI ESCATOLOGIA: SIGNIFICATO E SPIEGAZIONI

Ultimo Aggiornamento: 24/09/2021 16:06
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24/09/2021 16:03
 
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2 - La parusia di Cristo, nostra risurrezione

2.1. Nel Nuovo Testamento alla risurrezione dei morti viene attribuito un momento temporale determinato. Paolo, dopo aver enunciato che la risurrezione dei morti avrà luogo per Cristo e in Cristo, aggiunge: «Ciascuno però nel suo ordine: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo» (1Cor 15,23: en teì parousia autou). Viene indicato un avvenimento concreto come momento della risurrezione dei morti. La parola greca parousia significa la seconda venuta, ancora futura, del Signore nella gloria, diversa dalla prima venuta in umiltà: la manifestazione della gloria (cf. Tt 2,13) e la manifestazione della parusia (cf. 2Ts 2,8) si riferiscono alla medesima venuta. Lo stesso avvenimento viene espresso nel Vangelo di Giovanni (6,54) con le parole «nell'ultimo giorno» (cf. anche Gv 6,39-40). La medesima connessione di avvenimenti si ha nella vivace descrizione della lettera 1Ts 4,16-17 ed è affermata dalla grande tradizione dei padri: «Alla sua venuta tutti gli uomini risorgeranno». A questa affermazione si contrappone la teoria della «risurrezione nella morte». Nella sua forma particolarmente diffusa viene esposta in un modo che appare di grave detrimento al realismo della risurrezione, poiché afferma una risurrezione senza relazione al corpo che visse e ora è morto. I teologi che propongono la risurrezione nella morte vogliono sopprimere l'esistenza dopo la morte di «un'anima separata», che considerano un residuo di platonismo. È molto comprensibile il timore che muove i teologi favorevoli alla risurrezione nella morte: il platonismo sarebbe una gravissima deviazione dalla fede cristiana.

Secondo essa infatti il corpo non è un carcere, dal quale bisogna liberare l'anima. Ma proprio per questo non si comprende bene come i teologi che rifuggono dal platonismo affermino la corporeità finale, cioè la risurrezione, in modo tale che non si vede che si tratta realmente di «questa carne nella quale ora viviamo». Le antiche formule di fede sostenevano, con ben altra forza, che doveva risorgere quel medesimo corpo che adesso vive. La separazione concettuale fra corpo e cadavere, o l'introduzione di due concetti diversi nella nozione di corpo (la differenza è espressa in tedesco con le parole Leib e Koórper, mentre in molte altre lingue neanche esistono parole per esprimerla), appena si percepisce al di fuori dei circoli accademici. L'esperienza pastorale insegna che il popolo cristiano ascolta con grande perplessità omelie nelle quali, mentre si seppellisce un cadavere, si afferma che quel morto è già risorto. Bisogna temere che tali omelie esercitino un influsso negativo sui fedeli, poiché possono favorire l'attuale confusione dottrinale. In questo mondo secolarizzato, nel quale i fedeli sono attratti dal materialismo della morte totale, sarebbe ancora più grave aumentare le loro perplessità. D'altra parte, nel Nuovo Testamento la parusia è un avvenimento concreto conclusivo della storia. Si esercita violenza sui suoi testi, quando si cerca di spiegare la parusia come avvenimento permanente, il quale non sarebbe nient'altro che l'incontro di ogni individuo, nella propria morte, con il Signore.

2.2. «Nell'ultimo giorno» (Gv 6,54), quando risorgeranno gloriosamente, gli uomini raggiungeranno la comunione completa con Cristo risorto. Questo appare chiaramente, perché la comunione dell'uomo con Cristo sarà allora con la realtà esistenziale completa di entrambi. Inoltre, giunta ormai la storia alla sua fine, la risurrezione di tutti i con-servi e fratelli completerà il corpo mistico di Cristo (cf. Ap 6,11). Per questo Origene affermava: «È un solo corpo quello che si dice che risorge nel giudizio». Con ragione, perciò, il concilio di Toledo XI non solo confessava che la risurrezione gloriosa dei morti avverrà secondo l'esempio di Cristo risorto, ma anche secondo «il modello offertoci in Cristo nostro capo». Questo aspetto comunitario della risurrezione finale sembra dissolversi nella teoria della risurrezione nella morte, poiché tale risurrezione si convertirebbe piuttosto in un processo individuale. Perciò non mancano teologi, favorevoli alla teoria della risurrezione nella morte, che hanno cercato la soluzione in quello che si chiama l'atemporalismo: affermando che dopo la morte non può esistere più il tempo in nessun modo, essi riconoscono che le morti degli uomini sono successive, in quanto sono considerate da questo mondo; ma ritengono che siano simultanee le loro risurrezioni nella vita dopo la morte, nella quale non ci sarebbe nessuna specie di tempo.

Questo tentativo dell'atemporalismo, per cui coinciderebbero le morti individuali successive e la risurrezione collettiva, implica il ricorso a una filosofia del tempo estranea al pensiero biblico. Il modo di esprimersi del Nuovo Testamento sulle anime dei martiri non pare sottrarle né da tutta la realtà della successione né da tutta la percezione della successione (cf. Ap 6,9-11). In modo simile, se non ci fosse nessuna specie di tempo dopo la morte, neppure uno meramente analogo a quello terreno, non si comprenderebbe facilmente perché Paolo, ai tessalonicesi che lo interrogavano sulla sorte dei morti, parli della loro risurrezione con formule al futuro (anasteìsontai) (cf. 1Ts 4,13-18). Inoltre una negazione radicale di ogni nozione di tempo per quelle risurrezioni, allo stesso tempo simultanee e succedutesi secondo la morte, non pare tenere sufficientemente conto della vera corporeità della risurrezione; infatti non si può dichiarare vero corpo quello estraneo a ogni nozione di tempo. Anche le anime dei beati, poiché sono in comunione con Cristo, risorto in modo veramente corporeo, non possono considerarsi senza alcuna connessione con il tempo.

3 - La comunione con Cristo subito dopo la morte secondo il Nuovo Testamento

3.1. I primi cristiani, sia che pensassero che la parusia fosse vicina, sia che la considerassero ancora molto lontana, impararono presto, per esperienza, che alcuni di loro erano rapiti dalla morte prima della parusia. Poiché erano preoccupati della loro sorte (cf. 1Ts 4,13), Paolo li consola ricordando loro la dottrina della risurrezione futura dei fedeli defunti: «Prima risorgeranno i morti in Cristo» (1Ts 4,16). Questa persuasione di fede lasciava aperte altre questioni che presto si posero; per esempio: in quale stato si trovavano frattanto tali defunti? Per questo problema non fu necessario elaborare una risposta completamente nuova, perché in tutta la tradizione biblica si trovavano, già da tempo, elementi per risolverla. Il popolo d'Israele, fin dai primi stadi della sua storia che ci sono noti, pensava che qualcosa degli uomini sussistesse dopo la morte. Questo pensiero emerge già nella più antica rappresentazione di quello che viene chiamato lo sheol.

3.2. L'antica concezione ebraica dello sheol nel suo primo stadio di evoluzione era piuttosto imperfetta. Si pensava che, in contrapposizione al cielo, esso stesse sottoterra. Di qui si formò l'espressione «scendere nello sheol» (Gen 37,35; Sal 55,16 ecc.). Coloro che lo abitano sono detti refaim. Questa parola ebraica è priva di singolare: ciò pare indicare che non si prestava attenzione a una loro vita individuale. Non lodano Dio e stanno separati da lui. Tutti, come una massa anonima, hanno la medesima sorte. In questo senso la persistenza dopo la morte che si attribuisce loro non include ancora l'idea di retribuzione.

3.3. Simultaneamente a questa rappresentazione cominciò ad apparire la fede israelitica, la quale crede che l'onnipotenza di Dio possa liberare qualcuno dallo sheol (1Sam 1,6; Am 9,2 ecc.). Attraverso questa fede viene preparata l'idea di risurrezione dei morti, espressa in Dn 12,2 e in Is 26,19, e che al tempo di Gesù prevale ampiamente tra gli ebrei, con la nota eccezione dei sadducei (cf. Mt 12,18). La fede nella risurrezione introdusse un'evoluzione nel modo di comprendere lo sheol. Lo sheol già non si concepisce più come il comune domicilio dei morti, bensì come diviso in due strati, dei quali uno è destinato ai giusti e l'altro agli empi. I morti si trovano in essi fino al giudizio ultimo, nel quale sarà pronunciata la sentenza definitiva; ma già in questi diversi strati ricevono, in modo iniziale, la dovuta retribuzione. Questo modo di concepire appare nell'Henoch etiopico 22 e si presuppone in Lc 16,19-31.

3.4. Nel Nuovo Testamento si afferma un certo stadio intermedio di questo tipo, poiché si insegna una sopravvivenza immediatamente dopo la morte come tema diverso dalla risurrezione, la quale, di certo, nel Nuovo Testamento mai si pone in connessione con la morte. Bisogna aggiungere che, mentre si afferma questa sopravvivenza, si sottolinea, come idea centrale, la comunione con Cristo. Così Gesù crocifisso promette al buon ladrone: «In verità (ameìn) ti dico: oggi sarai con me in paradiso» (Lc 23,43). Il paradiso è un termine tecnico ebraico, che corrisponde all'espressione Gan Eden. Ma lo si afferma, senza descriverlo ulteriormente: l'idea fondamentale è che Gesù vuole accogliere il buon ladrone in comunione con sé immediatamente dopo la morte. Stefano durante la lapidazione manifesta la medesima speranza; nelle parole: «Ecco, io contemplo i cieli aperti e il Figlio dell'uomo che sta alla destra di Dio» (At 7,56), insieme con la sua ultima orazione: «Signore Gesù, accogli il mio spirito» (At 7,59), afferma che spera di essere accolto immediatamente da Gesù nella sua comunione. In Gv 14,1-3 Gesù parla ai suoi discepoli dei molti posti che ci sono nella casa del Padre. «Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io» (v. 3). Si può a stento dubitare che queste parole si riferiscano al tempo della morte dei discepoli, e non alla parusia, la quale nel Vangelo di Giovanni passa in secondo piano (mentre non è così nella Prima lettera di Giovanni). Nuovamente l'idea di comunione con Cristo è centrale. Egli è non solo «la via, [ma anche] la verità e la vita» (Gv 14,6). Bisogna notare la somiglianza verbale tra monai (posti) e menein (rimanere). Gesù, riferendosi alla vita terrena, ci esorta: «Rimanete in me, e io in voi» (Gv 15,4), «rimanete nel mio amore» (v. 9). Già sulla terra «se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora (moneìn) presso di lui» (Gv 14,23). Questa «dimora», che è comunione, diviene più intensa oltre la morte.

3.5. Paolo merita speciale attenzione. Circa lo stato intermedio, il suo passo principale è Fil 1,21-24: «Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno. Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa debba scegliere. Sono messo alle strette infatti tra queste due cose: da una parte il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; d'altra parte, è più necessario per voi che io rimanga nella carne». Nel v. 21 «la vita» («il vivere», to zeìn) è soggetto e «Cristo» è predicato. Così si sottolinea sempre l'idea di comunione con Cristo, la quale, iniziata sulla terra, è proclamata come l'unico oggetto di speranza nello stato dopo la morte: «essere con Cristo» (v. 23). La comunione dopo la morte diventa più intensa e perciò è desiderabile quello stato dopo la morte. Paolo non va avanti con disprezzo per la vita terrena; alla fine si decide per la permanenza «nella carne» (cf. v. 25). Paolo non desidera naturalmente la morte (cf. 2Cor 5,2-4). Perdere il corpo è doloroso.

Si è soliti contrapporre gli atteggiamenti di Socrate e di Gesù di fronte alla morte. Socrate considera la morte come una liberazione dell'anima rispetto al carcere o sepolcro (seìma) del corpo (soìma); Gesù, che si consegna per i peccati del mondo (cf. Gv 10,15), nell'orto del Getsemani prova anche paura di fronte alla morte che si avvicina (cf. Mc 14,32). L'atteggiamento di Paolo non è privo di somiglianza con quello di Gesù. Lo stato dopo la morte è desiderabile solo perché nel Nuovo Testamento (con l'eccezione di Lc 16,19-31, dove però il contesto è del tutto diverso) implica sempre unione con Cristo. Sarebbe completamente falso affermare che in Paolo ci sia stata un'evoluzione, per cui sarebbe passato dalla fede nella risurrezione alla speranza dell'immortalità. Le due cose coesistono sin dal principio. Nella stessa Lettera ai filippesi, nella quale espone il motivo per il quale si può desiderare lo stato intermedio, parla, con grande gioia, della speranza della parusia del Signore, «il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso» (Fil 3,21). Perciò, lo stato intermedio viene concepito come transitorio, senza dubbio desiderabile per l'unione che implica con Cristo, ma in modo che la speranza suprema rimanga sempre la risurrezione dei corpi: «È necessario infatti che questo essere corruttibile [cioè il corpo] si vesta d'incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta d'immortalità» (1Cor 15,53).
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Questa è la vita: che conoscano Te, solo vero Dio, e Colui che hai mandato, Gesù Cristo. Gv.17,3
 
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