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RUOLO DEL CRISTIANESIMO NELL'ABOLIZIONE DELLA SCHIAVITU'

Ultimo Aggiornamento: 19/04/2021 11:36
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19/04/2021 11:31
 
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SCHIAVITU’ NELL’ANTICA ROMA


Anche nel mondo romano la schiavitù era ampiamente praticata, soprattutto aumentò col procedere delle conquiste in guerra. Lo stato servile aveva origine dalla nascita o dalla perdita della libertà e il diritto sottoponeva lo schiavo all’illimitato arbitrio del padrone. La situazione era certamente migliore rispetto ai Greci: la schiavitù non era per natura ma per diritto positivo, si potevano liberare gli schiavi a determinate condizioni, c’era un freno sociale verso la crudeltà dei padroni nei loro confronti (orientato verso l’utile che potevano dare e verso il controllo sociale) anche se i padroni mantenevano il diritto di vita e di morte sugli schiavi (M. Sordi, Paolo a Filemone o della schiavitù, Jaca Book 1987, p. 29-35).


Marco Porcio Catone fu l’unico a permettere, tra i suoi servi, rapporti sessuali. Pur tuttavia a pagamento, ed intascandone il prezzo. Al di là di ciò, gli «schiavi erano tra le personae alieno iure subiectae: e questo, come ricorda Gaio (Dig. I,6,1,1), non solo presso i romani, ma apud omnes peraeque gentes, comportava che i padroni avessero diritto di vita e di morte sugli schiavi presso tutte le genti» (M. Sordi, Paolo a Filemone o della schiavitù, Jaca Book 1987, p. 34,35). Il diritto romano considerava lo schiavo come oggetto di diritto ma, pur essendo astrattamente classificato fra le cose, era pur sempre un homo dotato di intelligenza e di volontà, distinguendosi così dalle cose materiali (come invece considerava Aristotele). Questo tuttavia non comportò cambiamenti pratici sostanziali, tanto che lo storico romano Tacito racconta che quando uno schiavo assassinava un padrone, trecento o quattrocento schiavi venivano massacrati (Annali, libro 14,34). In Italia, all’apogeo dell’impero romano, c’erano 2/3 milioni di schiavi (il 35-49% della popolazione) (M. Bloch, La servitù nella società medievale, La Nuova Italia 1993, p.3).


 
 

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3. GESU’ E LA SCHIAVITU’

 

Quei pochi uomini che nella storia hanno accusato qualcosa a Gesù Cristo, lo hanno fatto riferendosi alla sua non condanna diretta della schiavitù. Si ricorda, ad esempio, l’episodio del servo malato del centurione (Lc 7,2), quando Gesù guarisce il servo senza liberarlo o senza ammonire il padrone per l’averlo messo in schiavitù. Effettivamente non vi sono parole di Gesù di Nazareth contro la condizione morale della schiavitù, ma d’altra parte non si è mai nemmeno soffermato sulla condizione etico-morale della prostituzione o degli uomini che ne usufruivano, né ha mai condannato chi maltrattava gli animali. E, chi volesse proseguire, potrà rivendicare che nemmeno ha guarito tutti i malati di Gerusalemme, lasciando che molti suoi concittadini morissero nella fame e nella miseria. Se si guarda i suoi tre anni di vita pubblica, Gesù non ha mai inteso modificare direttamente le istituzioni sociali e nemmeno fondare un codice civile, ma ha semplicemente mostrato agli uomini se stesso: si è fatto accompagnare da prostitute, ha mangiato assieme a ladri e peccatori, si è avvicinato ai lebbrosi, ha trattato gli schiavi allo stesso modo dei padroni (guarendoli, per l’appunto), ha rispettato le donne e i bambini (tutte cose per nulla scontate allora) ecc. Se si guarda al messaggio di Gesù si intuisce subito la sua attualità ancora oggi, questo perché egli si rivolgeva agli uomini di allora come si sarebbe rivolto a noi. Ha inteso comunicare un messaggio eterno, il senso della vita, non soltanto utile in un contesto temporale circoscritto.

E’ vero dunque, non ha mai accennato alla condizione specifica della schiavitù ma, tuttavia, ha cambiato la storia invitando gli uomini a imitarlo: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri» (Gv 15; 12-17). Ha inoltre insegnato l’uguaglianza tra gli uomini, tutti fratelli perché figli di Dio, e a considerare l’altro quanto se stessi, perciò, dato che nessuno vorrebbe essere schiavo, non dovrebbe ritenere nessuno uno schiavo: «Amerai il tuo prossimo come te stesso. Non c’è altro comandamento più grande di questi» (Mc 12;31). Gesù inoltre ha valorizzato più volte la condizione umile del servitore, usandola come analogia di sé stesso: «chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10, 43-45).

Per lo stesso motivo, non si può condannare Gesù perché non ha parlato mai della guerra e della pace, perché ha dato un insegnamento ben più grande: «Avete inteso che fu detto: “Occhio per occhio e dente per dente”. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra […]. Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli […]. Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario?» (Mt 5; 38-47). L’insegnamento di Gesù non è anzitutto la proposta di una società nuova, ma di un uomo nuovo, di una coscienza nuova, di una nuova concezione di Dio e dell’umanità da cui può sorgere una civiltà nuova: nessunva volontà di prendere il potere con il fine utopico di eliminare il male dalla terra, nessuna similitudine alla rivoluzione francese e comunista. Il biblista Mauro Pesce, storico del cristianesimo, ha riconosciuto: «Gesù non è un fondatore di società come sarà Maometto, non affronta tutti i problemi della società, individua soltanto dei punti su cui fare leva attraverso i quali l’intera società può essere ripensata e, forse, riorganizzata» (M. Pesce, C. Augias, Inchiesta su Gesù, Mondadori 2006, p. 22)

E’ evidente dunque che la profondità del suo messaggio andava, e va, ben oltre i limiti temporali in cui venne pronunciato, tanto che i principali abolizionisti dell’epoca moderna si giustificano con il messaggio evangelico (a partire da Martin Luther King). Prendendo sul serio il suo insegnamento, chiunque -dal contadino al politico- ha potuto dedurne e trarne un insegnamento di comportamento sociale e capire -come accadde, infatti- che la schiavitù è ed era incompatibile con il pensiero cristiano. Questo è tanto vero che anche gran parte dei non credenti riconosce comunque il valore del suo messaggio, ad esempio Natalia Ginzburg, la quale scrisse: «Il crocifisso rappresenta tutti perché prima di Cristo nessuno aveva mai detto che gli uomini sono eguali e fratelli di tutti, ricchi e poveri, credenti e non credenti, ebrei e non ebrei, neri e bianchi» (L’Unità, 22/10/1988). Infine, la novità radicale del Nuovo Testamento, come spiegato dalla storica Marta Sordi, è sul piano religioso: «Per l’uomo che serve Dio e fa la sua volontà, sia egli libero o schiavo, si apre una prospettiva nuova, al di là di ogni speranza umana: egli non è più servo, ma amico» (M. Sordi, Paolo a Filemone o della schiavitù, Jaca Book 1987, pp. 49)

 


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