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RUOLO DEL CRISTIANESIMO NELL'ABOLIZIONE DELLA SCHIAVITU'

Ultimo Aggiornamento: 19/04/2021 11:36
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19/04/2021 11:30
 
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Uno degli studi più importanti in lingua italiana sulla storia della schiavitù è senza dubbio l’opera di Jean Andreau, direttore del dipartimento di Storia presso la Scuola di studi superiori in scienze sociali di Parigi, e Raymond Descat, professore di storia all’Università di Bordeaux. «E’ nel corso dell’Alto Medioevo», scrivono, «che si sono prodotti i cambiamenti più importanti e che si è definitivamente usciti, in Europa occidentale, dalla società schiavista» (J. Andreau e R. Descat, Gli schiavi nel mondo greco e romano, Il Mulino 2006, p.222). Ecco dunque che tramite questo dossier analizzeremo le ragioni per cui i due storici francesi sono arrivati a tale conclusione.

1. QUALI ACCUSE AL CRISTIANESIMO SULLA SCHIAVITU’?

 

Iniziamo considerando brevemente quali accuse vengono rivolte solitamente ai cristiani e alla Chiesa. Ad essi alcuni moderni hanno rimproverato di non aver saputo impedire lo schiavismo, tradendo il messaggio evangelico dell’eguaglianza tra gli esseri umani. Versioni più estreme rinfacciano addirittura alla Chiesa di aver teorizzato la diseguaglianza tra le razze, legittimando così l’istituto dello schiavismo. Sotto accusa solitamente finiscono il comportamento di Gesù Cristo, le parole di San Paolo, dei Padri della Chiesa e di Tommaso d’Aquino, l’esistenza della schiavitù nel Medioevo, le parole dei Pontefici durante il Colonialismo e infine alcune affermazioni di Papa Pio IX.

Alcuni storici, pur riconoscendo che la schiavitù scomparve effettivamente nel X secolo, in pieno Medioevo, sostengono che però questo avvenne in maniera indipendente dagli sforzi della Chiesa cattolica. «Il cristianesimo non condannò la schiavitù, le diede un buffetto», ha scritto ad esempio George Duby, docente di Storia del Medioevo al Collège de France (G. Duby, Le origini dell’economia europea, Laterza 1978, p. 32).

 
 

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2. SCHIAVITU’ PRIMA DEL CRISTIANESIMO


Osserviamo quale concetto di schiavitù era presente prima del cristianesimo, concentrandoci sulla legge mosaica presente nell’Antico Testamento e sul mondo greco-romano.

 

 

SCHIAVITU’ NELL’ANTICO TESTAMENTO

Occorre premettere che la schiavitù ovviamente precede di gran lunga il popolo d’Israele ed è sempre stata presente in tutti gli imperi antichi e le società sufficientemente ricche da potersela permettere. Se ci concentriamo specificamente sugli ebrei, osserviamo che in diversi casi l’Antico Testamento sembra effettivamente tollerare la pratica della schiavitù umana, per lo meno la presuppone, accettandola socialmente. Tuttavia uno dei maggiori profeti, Isaia, afferma chiaramente: «Lo spirito del Signore Dio è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri» (Is 61,1).

Occorre comunque ricordare che ai tempi dell’A.T., la schiavitù era differente da quella che abbiamo in mente oggi: essa non era basata sulla razza, sulla nazionalità o sul colore della pelle, ma aveva più a che fare con una condizione sociale. Le persone, ad esempio, si vendevano come schiave quando non riuscivano a pagare i loro debiti o a provvedere alla propria famiglia, alcuni sceglievano effettivamente di essere schiavi in modo che tutti i loro bisogni fossero soddisfatti dal loro padrone. Tuttavia nel popolo ebraico precristiano non c’è mai un concezione dello schiavo come “essere umano inferiore”, anzi vi è anche la condanna esplicita della schiavitù razziale, ad esempio quella sperimentata dagli Ebrei in Egitto, subita proprio per essere ebrei (Esodo 13:14).

In generale, se si vanno a leggere le volte in cui l’A.T. tratta della schiavitù, vengono fornite delle istruzioni su come dovrebbero essere trattati gli schiavi, ma senza bandirne la pratica. Ad esempio si insegna ad offrire loro dei privilegi: «Nessun profano mangerà le offerte sante; né l’ospite di un sacerdote né il salariato potrà mangiare le offerte sante. Ma una persona che il sacerdote avrà comprato con il proprio denaro ne potrà mangiare, e così anche lo schiavo che gli è nato in casa: costoro potranno mangiare il suo cibo» (Lv 22, 10-11). E ancora: «Non consegnerai al suo padrone uno schiavo che, dopo essergli fuggito, si sarà rifugiato presso di te. Rimarrà da te, in mezzo ai tuoi, nel luogo che avrà scelto, in quella città che gli parrà meglio. Non lo opprimerai» (Dt 23,16). Di nuovo un altro esempio: «il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bue, né il tuo asino, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te, perché il tuo schiavo e la tua schiava si riposino come te» (Dt 5, 14). Le stesse promesse rivolte a tutti gli uomini, sono rivolte anche agli schiavi: «Anche sopra gli schiavi e sulle schiave in quei giorni effonderò il mio spirito» (Gl 2,3)

In Israele, come si è detto, era ammessa la schiavitù, però a determinate condizioni e, per la prima volta nella storia, apparve un principio di difesa dei diritti degli schiavi: «Quando tu avrai acquistato uno schiavo ebreo, egli ti servirà per sei anni e nel settimo potrà andarsene libero, senza riscatto […]. Quando un uomo colpisce l’occhio del suo schiavo o della sua schiava e lo acceca, darà loro la libertà in compenso dell’occhio. Se fa cadere il dente del suo schiavo o della sua schiava, darà loro la libertà in compenso del dente […]. Se il bue colpisce con le corna uno schiavo o una schiava, si darà al suo padrone del denaro, trenta sicli, e il bue sarà lapidato» (Es 21, 1-37). E ancora: «Se un tuo fratello ebreo o una ebrea si vende a te, ti servirà per sei anni, ma il settimo lo lascerai andare via da te libero. Quando lo lascerai andare via da te libero, non lo rimanderai a mani vuote. Gli farai doni dal tuo gregge, dalla tua aia e dal tuo torchio. Gli darai ciò di cui il Signore, tuo Dio, ti avrà benedetto» (Dt 15, 12-14).

Pertanto dunque, come si nota l’Antico Testamento ha condannato la schiavitù ma l’ha anche tollerata come struttura sociale ed economica già esistente, volendola tuttavia regolamentare affinché gli schiavi, laddove ce ne fossero stati, venissero trattati in modo umano e amorevole.

 

 

SCHIAVITU’ NELL’ANTICA GRECIA

Pur con tutto lo splendore della loro filosofia, i greci non superarono i limiti morali del mondo antico. Anzi, l’eminente storico e specialista della schiavitù, Moses Israel Finley, ha scritto che «i greci e i romani costituirono le prime vere società schiaviste, diventando pesantemente dipendenti dall’impiego su larga scala del lavoro degli schiavi sia nelle campagne che nelle città» (M.I. Finley, Economia e società nel mondo antico, Laterza 1984, p. 67). L’economia di tutte le città-stato greche si basava su una massiccia presenza di schiavi e l’apogeo del loro splendore coincise con il periodo in cui gli schiavi superarono i cittadini liberi, come ha riportato anche il celebre storico americano William Linn Westermann: «in molte città, Atene compresa, probabilmente gli schiavi erano più numerosi dei cittadini liberi. Persone le famiglie di condizione modesta spesso ne possedevano due o tre» (W.L. Westermann, Athenaeus and the Slaves of Athens, Harvard Studies in Classical Philology 1941, p. 451).

Per gli Antichi Greci si era schiavi per nascita, per marcato acquisto di stato civile o per perdita della libertà. Gli schiavi, non potendo partecipare alla vita della polis, a causa della loro stessa condizione, non erano propriamente uomini, infatti per essa non erano soggetti, ma oggetti di diritti. Il padrone aveva sullo schiavo autorità di sovrano e di giudice e poteva infliggergli punizioni corporali anche gravi (anche un marchio a fuoco sulla fronte in caso di furto o fuga). Come confermato dallo storico e sociologo delle religioni Rodney Stark: «Lo schiavismo era una caratteristica quasi universale della civiltà». Roma e la Grecia antica prevedevano un uso estensivo del lavoro degli schiavi, considerati oggetti, beni di proprietà, e come tali, privi di qualsiasi diritto e sottoposti all’arbitrio più totale da parte dei padroni. Seneca ne possedeva moltissimi grazie alla sua immensa ricchezza e quando consigliava un trattamento umano degli schiavi era principalmente per il bene morale del padrone, non per il valore intrinseco dello schiavo.

 

Aristotele riteneva lo schiavo un “oggetto con l’anima” (“instrumenti genus vocale”), confutava coloro che ritenevano la schiavitù ingiusta e cercava di dimostrare che essa è invece necessaria e addirittura utile agli stessi schiavi (Aristotele, Politica, Libro I, 1253 a/1255 a).

In “Politica” si legge:

«Il termine “oggetto di proprietà” si usa allo stesso modo che il termine “parte”: la parte non è solo parte d’un’altra cosa, ma appartiene interamente a un’altra cosa: così pure l’oggetto di proprietà. Per ciò, mentre il padrone è solo padrone dello schiavo e non appartiene allo schiavo, lo schiavo non è solo schiavo del padrone, ma appartiene interamente a lui […]. Dunque, quale sia la natura dello schiavo e quali le sue capacità, è chiaro da queste considerazioni: un essere che per natura non appartiene a se stesso ma a un altro, pur essendo uomo, questo è per natura schiavo: e appartiene a un altro chi, pur essendo uomo, è oggetto di proprietà: e oggetto di proprietà è uno strumento ordinato all’azione e separato» (Politica, I, 1254a 14 ss.).

La schiavitù fa parte per Aristotele dello stato perfetto: lo stato si compone di case e la casa perfetta è formata di liberi e di schiavi, la schiavitù è secondo natura (M. Sordi, Paolo a Filemone o della schiavitù, Jaca Book 1987, p. 28). Alla sua morte, le proprietà personali di Aristotele comprendevano quattordici schiavi (C. Freeman, The Greek Achievement: The Foundation of the Western World, Penguin Books 1999, p.121).

Platone era contrario al porre in schiavitù i suoi compagni “elleni” (greci), ma nella sua repubblica ideale gli schiavi “barbari” (stranieri) avevano un ruolo essenziale, compivano tutto il lavoro produttivo. Le sue regole sul trattamento degli schiavi erano brutali perché riteneva che la natura crea “persone servili” che non possiedono le capacità mentali per far proprie la virtù o la cultura, adatte solo a servire. Platone arriva alla giustificazione della schiavitù muovendo dalla schiavitù spirituale: come è giusto sottomettere alla parte divina che è nell’uomo il bestiale che è dentro di lui, così è giusto che colui che non riesce a comandare all’animale che è nel suo interno sia schiavo di colui nel quale comanda la parte divina (Rep. ix, 589 d/590 c/d), egli afferma che non è un danno per lo schiavo sottostare al comando, lo schiavo lo è per natura e la schiavitù diventa un fatto etnico e naturale (M. Sordi, Paolo a Filemone o della schiavitù, Jaca Book 1987, p. 26). Lo stesso Platone possedeva cinque schiavi, come si evince dal suo testamento (R. Schalaifer, Greek Theories of Slavery from Homer to Aristotle, Harvard Studies in Classical Philology, n. 47, 1936, pp- 165-204; D.B. Davis, Il problema della schiavitù nella cultura occidentale, Società Editrice Internazionale 1975, p- 96).

Non risulta che mai nessun filosofo greco si sia mai levato contro la schiavitù, come ricordato dal sociologo statunitense Rodney Stark: «Nessun filosofo greco fu abbastanza “illuminato” da condannare la schiavitù. La condanna dovette attendere la nascita del cristianesimo: a quanto si sa, la prima presa di posizione per una generale abolizione della schiavitù in qualsiasi parte del mondo sarebbe avvenuta dopo un millennio, nell’Europa medievale» (R. Stark, La vittoria dell’Occidente, Lindau 2014, p. 49). Nemmeno Epitteto, filosofo ed ex schiavo, ha mai criticato tale istituzione come ingiusta. Anche lui la vide come uno sviluppo del destino ed un risultato della cieca e grande catena di causa ed effetto. La schiavitù, per Epitteto e gli Stoici, apparteneva alla categoria del “non dipende da noi”.

 




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