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Questioni legali nei confronti della WTS

Ultimo Aggiornamento: 10/06/2023 15:33
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21/11/2020 15:49
 
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RESPONSABILITÀ GENITORIALE NELLA DIALETTICA DEL RAPPORTO EDUCATIVO FAMILIARE



Sommario1. Il diritto alla libertà religiosa e all’autonomia del minore – 2. La tutela della libertà religiosa del minore in ambito internazionale e nell’ordinamento giuridico italiano – 3. I contrasti tra genitori sull’educazione religiosa ed il ruolo del giudice nella risoluzione degli stessi alla luce del preminente interesse del minore – 4. Libertà religiosa del minore e trattamenti sanitari. L’ipotesi di conflitto tra il diritto-dovere dei genitori all’educazione religiosa della prole e la tutela della salute – 5. Educazione e libertà religiosa del minore in ambito scolastico

 


 


1. Il diritto alla libertà religiosa e all’autonomia del minore


La libertà religiosa, secondo una celebre definizione del Ruffini, è la «facoltà spettante all’individuo di credere quello che più gli piace, o di non credere, se più gli piace, a nulla»[1] E’ ritenuta generalmente un diritto indisponibile, inalienabile, inviolabile, intransigibile e personalissimo. La libertà religiosa è stata ampiamente tutelata quale irrinunciabile valore della persona[2], nucleo centrale e struttura portante dell’intero sistema giuridico. Si tratta della prerogativa che ciascun individuo ha di scegliere e professare liberamente e apertamente la propria fede, se lo vuole, o di non professarne alcuna se meglio crede: un diritto inviolabile[3] e fondamentale, intrinsecamente connesso al riconoscimento della dignità umana e allo sviluppo della personalità individuale che richiede l’adempimento degli inderogabili doveri di solidarietà politica, economica e sociale. Perciò la Carta Costituzionale ha garantito il diritto di libertà religiosa sia alle persone fisiche e alle formazioni sociali, sia gli enti e alle confessioni religiose. All’art. 19, con specifico riferimento agli individui, essa ha stabilito che «tutti» hanno il diritto di professare la propria fede religiosa, in forma individuale o associata, di farne propaganda e/o esercitarne il culto nel rispetto del buon costume e senza alcun limite preventivo[4]. La libertà religiosa può definirsi, più in generale, come la libertà garantita dallo Stato ad ogni individuo di scegliere la propria credenza in fatto di religione. Il diritto di religione è quindi un diritto pubblico che s’inquadra all’interno dei diritti di libertà. Come tutti i diritti di libertà, essa si differenzia dai c.d. «diritti sociali» (es. diritto all’assistenza) perché, mentre questi comportano la pretesa verso lo Stato ad una prestazione positiva, il diritto di libertà religiosa postula, invece, la pretesa di una prestazione negativa, sia da parte dello Stato che degli altri cittadini, tenuti ad astenersi da quegli atti che possono impedirne il libero esercizio. E’ una libertà che non può subire restrizioni che non siano espressamente previste dalla Costituzione giacché diversamente, il correlato diritto degraderebbe all’inferiore rango di interesse legittimo. L’unico limite che espressamente l’art. 19 Cost. pone all’esercizio della libertà religiosa è rappresentato dal divieto di riti contrari al buon costume. Questa espressione è stata intesa da taluni in maniera restrittiva, come esclusione della legittimità dei riti che offendono la libertà, il pudore e l’onore sessuale, e da altri in modo più ampio intendendola come esclusione della legittimità dei riti contrari al sentimento etico. Si tratta di un concetto elastico, caratterizzato da relatività storica. L’appartenenza ad una religione non può, tuttavia, costituire un obbligo per l’individuo, né la prerogativa di praticare la propria fede religiosa può pregiudicare altri valori costituzionalmente protetti. Il diritto di libertà religiosa, infatti, non si identifica unicamente in un diritto di libertà positiva che lo Stato di volta in volta si impegna a realizzare concretamente, ma si sostanzia anche in una libertà negativa nella quale si fa rientrare l’ateismo, vale a dire la facoltà di non professare alcuna fede e a non ricevere alcun indottrinamento religioso: anche questo diritto viene ricompreso nelle fattispecie garantite dall’art 19 Cost. Perciò, nel generale presupposto del rispetto della dignità umana e dei principi di libertà e di uguaglianza applicabili a chiunque, non è ammissibile la suddivisione degli individui in base alle condizioni fisiche, opinioni personali, origini razziali e, finanche, in fasce d’età.


Il costituente stigmatizzando gli atti di barbarie[5] che in passato hanno offeso gravemente la coscienza umana, ha fatto proprio il divieto di discriminazione fondata sul sesso, origini etniche, colore della pelle, opinioni politiche e/o diversità culturale, sociale e linguistica, convinzioni religiose e condizioni personali. Nel corso dei decenni, è cresciuta esponenzialmente la protezione giuridica nei confronti di soggetti non autosufficienti e la stessa libertà di coscienza e di religione del minore ha tagliato traguardi importanti. Dottrina e giurisprudenza sono sempre più attente e sensibili a considerare il minore un soggetto di diritto, membro a tutti gli effetti della comunità sociale, colto nel suo progressivo inserimento in essa. Ciò determina un processo di rivalutazione del minore nella sua qualità di persona. Su tali presupposti, si delinea un quadro generale di protezione dell’infanzia e della condizione minorile che assume dimensioni ampie e complesse, coinvolgendo ogni settore della società in cui opera il minore. E’ necessario, pertanto, che la tutela della personalità del minore venga sempre assicurata e siano riconosciuti alcuni spazi di libertà nel suo difficile itinerario di crescita. La presa in carico, da parte dell’ordinamento, della dimensione umana dei minori ha l’effetto di non tralasciare nulla della componente integrativa della personalità dei minori, anche alla luce delle loro convinzioni religiose e filosofiche e soprattutto delle scelte in materia di religione o credenza. Si tratta, perciò, di una scelta che punta a non ancorare le preferenze dei minori a schemi comportamentali prestabiliti dai genitori o dalla società, espressivi di modelli di credenze valutati come prevalenti o tradizionali. Ciò che si impone è che l’esercizio della libertà religiosa da parte del soggetto in età evolutiva si realizzi in armonia tra le contrapposte esigenze di libertà e di protezione.


Con il riconoscimento nell’ordinamento giuridico dei diritti inviolabili dell’uomo, ex art 2 Cost., parte della dottrina ritiene costituzionalizzato il diritto del minore non solo alla vita fisica, ma anche ad una esistenza pienamente umana, attraverso un adeguato processo educativo che gli permetta l’esercizio dei diritti fondamentali[6]. Questo diritto è inteso come la possibilità del minore di maturare una personalità autonoma e capace di determinarsi liberamente nella vita, di far propri, interiorizzandoli, i valori fondamentali della comunità a cui appartiene e di realizzare validi e profondi rapporti interpersonali. In altre parole, la Costituzione appronta i mezzi attraverso i quali l’individuo, nel nostro caso il minore, acquista coscienza d’essere persona; diviene persona[7]. Ciò ha permesso l’individuazione, nella Costituzione, di un diritto all’educazione dal contenuto ampio, che non investe soltanto lo status familiare dei minori, ma riguarda complessivamente la loro posizione nell’universo sociale, come il mezzo attraverso cui raggiungere la libertà responsabile dell’uomo cosciente di sé e del mondo. In quest’ottica, una certa autonomia in campo religioso appare funzionale ai fini educativi, in quanto «ben si può sostenere che la libertà religiosa fa parte dei valori positivi cui tende l’educazione e che pertanto si inserisce in una corretta educazione del minore il consentirgli l’autodeterminazione anche sotto il profilo religioso»[8]. «Dai tempi più antichi fino ad oggi presso i vari popoli si trova una certa sensibilità a quella forza arcana che è presente al corso delle cose e agli avvenimenti della vita umana, ed anzi talvolta vi riconosce la Divinità suprema o il Padre. Questa sensibilità e questa conoscenza compenetrano la vita in un intimo senso religioso»[9].


Il sentimento religioso è una dimensione costitutiva dell’uomo. Esso orienta la persona a cercare il senso dell’esistenza, le risposte alle domande del Mistero. L’educazione religiosa è un percorso profondo, non solo culturale, che avvia la persona all’autonomia di valutazione, di giudizio e di sintesi nella dimensione religiosa della propria esistenza.


Tutti devono essere accompagnati lungo il percorso delle domande fondamentali della vita per appropriarsi, consapevolmente, della propria religiosità[10]. Aderire infatti ad una religione per bisogni diversi da quelli posti dalla natura umana e senza un percorso della ragione, porta alla superstizione e alla suggestione. Per questo, quando la persona ha una maggiore coscienza di sé, deve essere educata ad una scelta responsabile, anche nella sfera religiosa.


Il rapporto educativo è anzitutto l’incontro di due libertà e l’educazione ben riuscita è formazione al retto uso della libertà. Man mano che il bambino cresce, diventa un adolescente e poi un giovane; occorre dunque accettare il rischio della libertà, rimanendo sempre attenti ad aiutarlo a correggere idee e scelte sbagliate[11]. Tutte le nostre esperienze, fin dal concepimento, si depositano nella nostra memoria profonda, nell’ inconscio. Il nostro Io si ricorda di tutto quello che abbiamo percepito, vissuto, anche senza accorgercene. Andiamo a vedere un film, ci spaventiamo a morte, poi piano piano le paure passano. Ebbene, quel vissuto di immagini, sentimenti, emozioni rimane per sempre depositato nel nostro inconscio. Ciò vale anche per le gioie, per le esperienze felici, per fortuna. Quando siamo bambini viviamo più nel subconscio e sentiamo le paure in modo più forte. Il male e la morte assumono nei bambini rappresentazioni mentali terrificanti e, a volte, persistenti ma il gioco, quasi sempre, riesce a dominare queste paure. Crescendo, poi, le paure diventano sempre più domande che ci chiedono in modo pressante di trovare risposte. Crescere significa scoprire come funziona il mondo e la vita[12].


L’esperienza religiosa, come è noto, rappresenta uno dei fattori che maggiormente può incidere non solo nella crescita di un fanciullo, ma anche nella costruzione ed edificazione della sua personalità. Infatti, sono i valori etici e religiosi quelli che investono gli aspetti più sensibili di un soggetto in formazione e che lo accompagneranno nel corso della vita, soprattutto nei casi in cui si troverà di fronte a scelte critiche in merito alla sua esistenza e al suo futuro. L’uso corretto della libertà, inserito nell’ottica più ampia della giustizia e della solidarietà, diviene quindi un valore centrale nella promozione della giustizia e della pace «…che richiedono il rispetto per se stessi e per l’altro, anche se lontano dal proprio modo di essere e vivere»[13].


Dal punto di vista sistematico, pertanto, il diritto alla libertà religiosa e il diritto all’educazione possono essere annoverati tra i diritti della personalità, ed il secondo si può ritenere fondato anche nel riconoscimento del primo.


L’educazione, in generale, comporta il compito di promuovere libertà responsabili dei minori, affinché sappiano scegliere con buon senso e intelligenza, comprendendo senza riserve che la loro vita e quella della comunità in cui vivono è nelle loro mani e che questa libertà è un dono immenso. Mansuetudine, capacità di ascolto e di dialogo costituiscono tre doti indispensabili a ogni educatore; esse, insieme alla gioia e all’ottimismo, devono caratterizzare, per Papa Francesco, il modo di essere di chi svolge dei compiti educativi o formativi ed è perciò proiettato sulle esigenze degli altri. «Il bene tende sempre a comunicarsi. Ogni esperienza autentica di verità e di bellezza cerca per se stessa la sua espansione, e ogni persona che viva una profonda liberazione acquisisce maggiore sensibilità davanti alle necessità degli altri. Comunicandolo, il bene attecchisce e si sviluppa. Per questo, chi desidera vivere con dignità e pienezza non ha altra strada che riconoscere l’altro e cercare il suo bene»[14]. L’educazione viene invocata come una risposta efficace, quasi risolutrice dei problemi. Come giustamente è stato da molti osservato, il superamento di ogni forma di discriminazione e di intolleranza e la promozione di un clima di libertà e di rispetto, esige dagli individui un cambiamento interiore[15] che non può essere solo frutto di leggi, ma di una nuova consapevolezza che nasce da una più compiuta educazione a livello morale e spirituale. Tale educazione deve far sì che ogni essere umano venga riconosciuto come dotato di un’innata dignità, da proteggere e rispettare. La libertà religiosa sfida l’educazione perché la costringe ad andare al cuore del suo obbiettivo: la persona umana e la sua dignità. Infatti, il beato Giovanni XXIII nella Pacem in terris affermava: «In una convivenza ordinata e feconda va posto come fondamento il principio che ogni essere umano è persona e quindi soggetto di diritti e di doveri, che scaturiscono immediatamente e simultaneamente dalla sua stessa natura: diritti e doveri, che sono perciò universali, inviolabili, inalienabili»[16].


2. La tutela della libertà religiosa del minore in ambito internazionale e nell’ordinamento giuridico italiano


«Infanzia» è una parola di origine latina che individua un periodo ben preciso della vita umana, che corrisponde alla breve stagione della «mancanza della parola». Da qui anche «fanciullo» che deriva da «infans», cioè colui che ancora non parla; si tratta dunque di termini connotati negativamente, in quanto indicatori di incapacità, impossibilità di esprimersi e quindi di farsi capire. Anche «minore» deriva dal latino: «minor» era, nella società romana, colui che viene temporalmente dopo i «majores», depositari del sapere e del senso della società, da tramandare ai «minores», ovvero alle nuove generazioni, che avevano il compito di proseguire il sentiero dei padri, sulle quali bisognava investire affinché il presente non andasse perduto e si arricchisse nel futuro.


Ciò dimostra che, già dal punto di vista etimologico, la parola «fanciullo» o «minore», rimanda immediatamente ad una condizione di «mancanza». Questa concezione si è per lungo tempo riflettuta anche nella concezione che la società aveva del bambino, inteso unicamente come individuo oggetto di tutela e protezione e non, invece, come un soggetto pienamente titolare dei suoi diritti.


In ordine alla questione inerente alla libertà religiosa del minore, in stretta connessione con il raggiungimento, da parte di questo, di una capacità di discernimento, gli atti internazionali sanciscono, per qualsiasi uomo, il diritto al rispetto della libertà religiosa, da intendersi come libertà di aderire a qualsiasi credo o di non averne alcuno[17]. In particolare, la Convenzione Europea per la salvaguardia delle libertà fondamentali prevede all’art. 9 che: «ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione e la libertà di manifestare la propria religione o credo individualmente o collettivamente, sia in pubblico che in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti».


L’art. 2 del Protocollo addizionale del 1952, inoltre, stabilisce che «lo Stato, nell’esercizio delle funzioni che assume nel campo dell’educazione e dell’insegnamento, deve rispettare il diritto dei genitori di provvedere a tale educazione e a tale insegnamento secondo le loro convenzioni religiose e filosofiche»[18]. E’ stato però osservato che «se rapportate ai minori queste enunciazioni si presentano molto attenuate dal fatto che nei medesimi testi viene posta nella massima evidenza la libertà dei genitori di educare i figli secondo le proprie credenze»[19]. Né la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, né il Patto sui diritti civili e politici, infatti, espressamente ricordano che la libertà di dare un’educazione religiosa ai figli sussiste in quanto «tale educazione corrisponda alle credenze del minore»[20]. Anche la Dichiarazione sull’eliminazione di tutte le forme d’intolleranza e di discriminazione fondate sulla religione o il credo, adottata dall’Assemblea Generale dell’ONU il 25 novembre 1981, impone il rispetto della libertà dei genitori di scegliere per i propri figli istituzioni private che assicurino loro un’educazione religiosa e morale corrispondente alle convinzioni dei genitori stessi, ma non fa riferimenti espliciti alla libertà del minore, capace di discernimento, di non ricevere un’educazione religiosa non corrispondente alle sue personali convinzioni. La svolta decisiva si è registrata con la Convenzione sui diritti del fanciullo ( Convention on the rights of the child ) adottata dall’ O.N.U il 20 novembre 1989, ratificata dal nostro ordinamento con la legge 25 maggio 1991, n. 176 e depositata presso le Nazioni Unite il 5 settembre 1991. Nella cultura giuridica occidentale si è assistito, infatti, pur con le naturali differenze che rispondono alle peculiarità dei singoli stati, ad una nuova sensibilità verso la tutela giuridica dei minori ed, in particolar modo, dei loro preminenti interessi; tale principio è divenuto fulcro della regolazione giuridica sull’infanzia, identificando tale concetto come principio ispiratore dei rapporti tra la sfera pubblica e quella privata, soprattutto in ambito familiare. L’attività legislativa internazionale si è occupata di assicurare al soggetto in età evolutiva un’efficace tutela da ogni forma di negligenza, malvagità, sfruttamento e discriminazione, con l’obiettivo di attuare, nel miglior modo possibile, il suo diritto ad una crescita intellettiva, sociale e spirituale sana ed armoniosa.


Si tratta di un corpus legislativo composto da cinquantaquattro articoli che, ratificato dalla maggioranza assoluta di tutti i paesi, ha modificato radicalmente il concetto giuridico sotteso alla figura del minore innovando, in modo coraggioso e significativo, tutte quelle tutele già attribuite al minore dagli ordinamenti. Essa rappresenta «il più organico tentativo di realizzare la tutela dei diritti umani con riferimento alla condizione minorile»[21] ed introduce, per la prima volta, una definizione di minore come essere autonomo, con delle caratteristiche a sé stanti, delle capacità interpretative, di discernimento e di formulazione di proprie opinioni. Essa affianca ai diritti universalmente riconosciuti, che amplia e specifica (quali il diritto al nome, alla sopravvivenza, alla salute, all’istruzione), una serie di diritti di nuova generazione (come il diritto all’identità del bambino, il rispetto della sua privacy, della sua dignità e della sua libertà d’espressione). Si tratta di un ampio riconoscimento di diritti nelle sfere più diverse: emerge la figura del minore come arbitro del proprio destino, in grado di far valere le proprie scelte e di veder garantito il proprio interesse nei confronti di qualsiasi altro soggetto. Si deve precisare che si parla, nella Convenzione, di «bambino» nella traduzione italiana a cura dell’Unicef. L’art. 1 chiarisce che «bambino» agli scopi della Convenzione, è «ogni essere umano al di sotto dei diciotto anni, a meno che per le leggi del suo Stato abbia già raggiunto la maggiore età»; si tratta dunque dei diritti del bambino e dell’adolescente, in una parola, del «minore», termine che probabilmente non si è voluto usare per l’impatto psicologico negativo e che, tuttavia, ha una connotazione ben precisa, soprattutto dal punto di vista giuridico. La crescente attenzione riservata, nel corso degli anni, all’infanzia ha condotto a qualificare il minore come individuo portatore di diritti soggettivi, perfetti ed autentici, dallo stesso azionabili in modo autonomo. Sicché, il concetto di soggetto bisognoso di aiuto, di speciale protezione e di idoneo orientamento è stato integrato da una inedita considerazione della sua essenza di persona: di individuo alla ricerca della propria identità, la cui ricchezza individuale va rispettata e potenziata nel doveroso accoglimento delle sue idee e del suo diritto allo sviluppo di una specifica personalità.


La ratio principale della rigenerata valutazione si identifica nell’intento di garantire ad ogni bambino il dovuto riguardo per la sua persona, assicurandogli l’adeguata tutela e l’esercizio dei diritti inviolabili che gli appartengono in quanto individuo. Perciò, unitamente ai diritti rispetto ai quali il soggetto in età evolutiva si pone come destinatario passivo, nell’anzidetta Convenzione, sono stati enunciati diritti fondamentali a lui riconducibili come soggetto attivo.


Una delle questioni più controverse, in sede di stesura della Convenzione sui diritti del fanciullo, ha riguardato le scelte fideistiche del soggetto in età evolutiva[22]. Nella sua originaria formulazione, infatti, l’art. 14, oltre al riconoscimento della libertà di coscienza e di religione, attribuiva al minore il diritto di optare per un credo di sua preferenza. La disposizione ha suscitato un’ampia ed accesa discussione per il disconoscimento, nel contesto islamico, di una qualsivoglia facoltà di scelta del bambino nell’ambito delle decisioni concernenti la sfera spirituale. Si è arrivati così alla decisione di proclamare il suo diritto di pensiero, di coscienza e di religione senza alcun riferimento esplicito a possibili autonome facoltà decisionali e, nella formulazione definitiva, non si è trascurato di affermare che i genitori e/o i tutori legali hanno il diritto-dovere di «guidare il fanciullo nell’esercizio del summenzionato diritto in maniera che corrisponda allo sviluppo delle sue capacità»[23]. La funzione educativa dei genitori si presenta, quindi, come strumentale all’educazione in sé dei fanciulli, i quali sono i principali protagonisti del rapporto educativo. La funzione educativa riconosciuta alla famiglia è finalizzata, in definitiva, al conseguimento e rafforzamento della graduale e completa maturità del minore stesso[24]. L’art. 14, 2 della Convenzione formula tale funzione come diritto-dovere dei genitori ma in termini di «guida» al fanciullo nell’esercizio di tale diritto. Non a caso la Santa Sede, pur essendo tra i primi soggetti di diritto internazionale ad aver sostenuto e ratificato nel 1990 la Convenzione ONU, per richiamare la garanzia del diritto primario e inalienabile della famiglia all’educazione religiosa dei figli, preferì formulare una riserva al riferito art. 14[25] .


La mancanza di espressa previsione convenzionale sulla facoltà di scelta del minore in tale materia non cambia, tuttavia, la sostanza delle cose.


Ciò che rileva, infatti, è la considerazione globale del documento che reclama «un’applicazione concentrata dei diritti del bambino»[26]. Non è immaginabile che il consolidamento della «libertà di ricercare, di ricevere e di divulgare informazioni e idee di ogni specie, indipendentemente dalle frontiere in forma orale, scritta, stampata o artistica, o con altro mezzo a scelta del fanciullo»[27] e la contestuale attribuzione al minore, capace di discernimento, di un certo grado di autodecisione su qualsivoglia questione che lo riguardi, escludano una sua progressiva partecipazione nelle specifiche decisioni concernenti la sfera spirituale. Né una tale limitazione sarebbe comprensibile. Va pure precisato che il riferimento dell’art. 14 al diritto-dovere dei genitori di guidare il bambino nell’esercizio del diritto di libertà religiosa in modo da consentire lo sviluppo delle sue capacità, implica la necessità di renderlo partecipe, in modo progressivo, a tale esercizio, proprio perché possa acquisire la graduale capacità nell’assunzione delle responsabilità. Per di più, laddove si negasse al minore la possibilità di optare per una fede religiosa di sua preferenza, non per una sua riscontrata incapacità ma, per il solo fatto di non aver raggiunto la maggiore età, si attuerebbe una disparità di trattamento del tutto incompatibile, sia con il principio di uguaglianza, sia con la ratio legis, vale a dire con gli stessi obiettivi che il legislatore ha inteso perseguire. E, se è vero che la Convenzione non ha espressis verbis inserito l’età tra i fattori discriminatori di cui l’art. 2, 1, essa non ha tralasciato di indicare tra gli stessi la locuzione «ogni altra circostanza». Tale generica espressione ha l’obiettivo di ampliare le ipotesi discriminatorie, indicate in modo esplicito, con altre cause non individuate in sede normativa, suscettibili di cagionare una qualsiasi differenziazione oggettivamente e ragionevolmente ingiustificata ed ingiusta. Nella delineata prospettiva la Convenzione rappresenta un importantissimo strumento di tutela giuridica dell’infanzia che, superando l’impianto assistenzialista, ne ha definito gli standard minimi di protezione, nel dovuto rispetto dei suoi diritti. Essa rappresenta un punto di arrivo di un lungo percorso di limitazione della potestà dei genitori che era pressoché assoluta nel determinare l’educazione religiosa dei figli[28]. Caratteristica della normativa internazionale è lo spostamento dell’accento sugli interessi propri del minore, mentre nelle precedenti norme il punto di riferimento era costituito prevalentemente dall’interesse dei genitori. Il cammino del riconoscimento dei diritti del bambino, al contrario che per l’adulto, non è stato quello tradizionale, ossia prima il riconoscimento dei diritti di libertà e poi quelli sociali, ma è stato l’inverso. La totale delega della funzione educativa alla famiglia, l’acritica convinzione che il genitore è sempre impegnato ad assicurare il benessere del figlio, la diffusa opinione che la situazione di dipendenza familiare del minore fosse incompatibile con l’esercizio dei diritti di libertà, l’idea che la protezione del minore dovesse di necessità risolversi in una pesante tutela, la generale convinzione che il ragazzo fosse più un oggetto da plasmare che un soggetto da rispettare nelle sue peculiari potenzialità già in atto, tutto ciò ha sicuramente contribuito alla sottovalutazione di queste situazioni giuridiche meritevoli di tutela[29].


L’obiettivo di intensificare la salvaguardia dei diritti del fanciullo emerge anche dalla legislazione dell’UE, sempre più orientata ad elevarne il grado di protezione sia mediante il potenziamento degli strumenti di diritto internazionale già esistenti, sia attraverso la predisposizione, in una politica comune, di strumenti normativi adeguati ed una più assidua vigilanza sull’applicazione degli stessi negli Stati membri. Una tappa significativa è costituita dalla Convenzione europea sull’esercizio dei diritti del fanciullo che, nell’elevare il bambino a co-protagonista delle scelte di vita che lo riguardano, ha elaborato il suo diritto di essere ascoltato[30] in sede processuale. Non si può dunque costringere il soggetto in età evolutiva, capace di discernimento, a soggiacere alle scelte imposte dagli educatori. Ciò vale anche per le opzioni religiose, nella costante tensione tra la necessità di salvaguardarlo dalla sua incapacità e l’urgenza di assicurargli un più appropriato e progressivo esercizio dei suoi diritti.


All’interno della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, proclamata a Nizza nel dicembre del 2000, sono contenute alcune previsioni normative che si riferiscono alla tutela dei diritti dei minori; in particolare l’art. 14, 3 co. sancisce la responsabilità educativa dei genitori; l’art. 22 esplicita, inoltre, che la religione viene ad assumere un ruolo fondamentale nel processo di crescita del bambino. Ma è l’art. 24 che statuisce il principio cardine secondo cui i fanciulli, oltre ad avere il diritto alla protezione e alle cure che sono loro necessarie, divengono legittimi ed esclusivi titolari del diritto di esprimere liberamente, cioè senza alcuna coercizione fisica o psicologica, opinioni su questioni che li riguardano, che saranno vagliate e prese in considerazione pur sempre in funzione della loro età e della loro maturità. L’inserimento dell’età tra i motivi di non discriminazione[31] costituisce una precisazione di non poco conto, non solo ai fini di una più completa operatività del principio di uguaglianza ma, anche nell’ottica dell’integrale sviluppo del bambino, nella giusta valutazione della sua personalità in rapporto alla capacità di discernimento acquisita. L’età, come è stato osservato, non può costituire un fattore di discriminazione sic et simpliciter nel godimento dei propri diritti. Né può essere posta a fondamento del disconoscimento di libere opzioni, se non entro i limiti in cui le scelte operate costituiscano reale pericolo per il soggetto che le compie.


Ciò che rileva, al riguardo, è che all’incessante impegno nella tutela del minore corrisponda una politica di definizione di strumenti sempre più efficienti e pressanti finalizzati alla prevenzione di eventuali abusi, non solo del suo diritto di libertà religiosa negli ordinamenti statuali ma anche per ciò che ne attiene l’esercizio. L’adeguata difesa dei diritti del minore, del resto, è l’unica via per arricchire e migliorare la comunità di oggi e di domani.


Circa, poi, la tutela della libertà religiosa del minore nel nostro ordinamento giuridico, giova ricordare che già Teresa Mattei, la più giovane deputata dell’Assemblea Costituente del 1946, intervenendo alla Conferenza Nazionale sull’Infanzia e sull’adolescenza tenutasi a Firenze dal 19 al 21 Novembre 1998, ha posto un quesito inatteso: «All’Art. 3 della nostra Costituzione si afferma la pari dignità dei cittadini, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. Perché non viene citata l’età. In quale momento, un cittadino può dirsi e sentirsi tale?». Nell’opinione di Teresa Mattei, un cittadino diviene tale e deve sentirsi tale, dal momento stesso della nascita. Ne deriva che ogni neonato ha gli stessi diritti di chiunque altro e, da sottolineare, anche per il neonato vale l’art. 1 della Costituzione, ossia «la sovranità appartiene al popolo».


In seguito a questo intervento, secondo un orientamento minoritario, ciò che rifulge è l’irragionevole mancanza dell’età nel catalogo dei criteri discriminanti individuati dal testo costituzionale, sebbene tale fattore non possa non essere compreso, per via interpretativa, nella più generale espressione «condizioni personali»[32]. Si ritiene si tratti di un grosso errore, di una lacuna di garanzia apertamente incompatibile, non solo con l’irrefutabile operatività del principio di uguaglianza ma anche con la rinnovata qualificazione del minore come soggetto attivo di diritti. Tale orientamento ha avanzato proposte di modifica dell’art. 3 Cost. finalizzate ad inserire, nell’elenco dei fattori discriminanti, la parola «età» dopo le parole «senza distinzione»[33]. Di seguito è riportata la proposta di legge costituzionale presentata il 24 Novembre 1998, d’iniziativa dei deputati Soda, Manzini, De Simone, Cananzi e Abbate, in cui si chiedeva la modifica all’articolo 3 della Costituzione in materia di applicazione del principio di uguaglianza senza distinzione di età: «Onorevoli colleghi!. Un insigne membro della Costituente, Maria Teresa Mattei, a distanza di cinquant’anni dalla data di entrata in vigore della Costituzione, ha inviato a tutti noi un messaggio di alto significato etico e giuridico. Nella Conferenza sull’infanzia, tenutasi a Firenze nel novembre del 1998, proprio in un momento in cui sembra smarrito nuovamente il valore della vita e della dignità del fanciullo dopo le faticose conquiste dell’ultimo secolo, la Costituente, chiedendo scusa ai bambini, ha denunciato un vuoto della nostra Costituzione. All’articolo 3, fra le qualità, le condizioni e gli stati, che non devono costituire fonte di limitazione o di discriminazione per la pienezza del diritto di uguaglianza, manca ogni espresso riferimento all’età. «Oggi sono qui» ha esclamato la Mattei, «perché la parola età venga aggiunta in quel testo». Noi dobbiamo prontamente accogliere il monito e l’appello racchiusi in questa profonda ed elementare intuizione. Fin dalla nascita, ad ogni bambina e bambino deve essere consegnata la garanzia costituzionale di compiuta cittadinanza. L’integrazione del principio di uguaglianza con il riferimento espresso all’età non è soltanto rimedio ad una dimenticanza, ma attribuzione di valore costituzionale, vincolante per il legislatore ordinario, per tutti gli organi della Repubblica e per tutti gli interpreti delle sue leggi, alla condizione delle persone più fragili e più deboli: i fanciulli aperti all’avvenire, ma anche i loro nonni avviati a completare l’esistenza. La modifica proposta comporterà necessariamente la conseguenza di considerare i fanciulli titolari autonomi dei diritti di cittadinanza: quelli fondamentali, necessari per l’esistenza, e quelli di nuova generazione, che attengono alla qualità della vita. La presente proposta di legge costituzionale prevede dunque di inserire, al primo comma dell’articolo 3 della Costituzione, le parole: «di età», dopo le parole: “senza distinzione”». L’esplicitazione dell’età come elemento discriminante costituirebbe, dunque, l’incontestabile testimonianza di una più completa valorizzazione del fanciullo, in armonia con la mutata concezione della sua stessa condizione giuridica. Altre modifiche sono state proposte riguardo l’art. 2 Cost.[34]. Tale norma, nel consacrare il principio personalistico, riflette i caratteri di una categoria aperta tesa al riconoscimento ed alla protezione di nuovi valori della persona. La sollecitata modifica ha riguardato sia l’integrazione della dizione «diritti inviolabili dell’uomo», contenuta nel testo normativo, con l’aggiunta dell’espressione «e del fanciullo», sia l’inserimento, nell’attuale formulazione, della locuzione «in conformità alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, alla Dichiarazione dei diritti del fanciullo del 1959, nonché alla Convenzione dei diritti del fanciullo del 1989».


Le predette modifiche avrebbero costituito un indicativo segnale nei confronti del minore d’età per la più viva sensibilità che emerge nell’apprezzamento della sua persona, sia come soggetto «debole» bisognoso di speciali cure, sia come protagonista attivo con un personalità da rispettare[35]. L’intento era quello di consacrare, in modo inequivocabile, il suo rinnovato status giuridico[36] con uno specifico parametro di legittimità realizzando, al tempo stesso, una migliore qualificazione degli impegni assunti in sede internazionale.


Secondo tale orientamento dunque, una più attenta ed esplicita definizione dei diritti del soggetto in età evolutiva nella Carta costituzionale, nel rimarcare il valore della dignità della sua persona alla stregua di ogni altro essere umano, avrebbe finanche l’effetto di proteggerlo più efficacemente da errate interpretazioni, evitando che i suoi stessi diritti finiscano per essere troppo facilmente disattesi, elusi o addirittura calpestati. Occorre considerare però che la Costituzione, benché redatta nella vigenza di una concezione che considerava il minore solo riguardo alle responsabilità nascenti in capo ai genitori e/o tutori e ai doveri spettanti alle istituzioni pubbliche preposte a garantire il suo benessere, non ha chiuso la porta ad un suo ruolo più attivo[37]. Così, nel sancire un diritto di libertà religiosa ascrivibile a chiunque si trovi nel territorio italiano, non prescrive la maggiore età, né per l’acquisto della titolarità, né per l’esercizio del diritto medesimo. La vera libertà, cui la Carta si ispira, non può del resto tradire o offendere la dignità umana, né può disattendere i diritti fondamentali di cui ciascun individuo è portatore. L’ art. 3, in particolare, stabilisce il principio di uguaglianza formale: «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge senza distinzioni di alcun genere». Si ritiene che questo articolo vada riferito anche ai minori. Nella medesima disposizione è stabilito che è compito dello Stato rimuovere gli ostacoli che impediscono la realizzazione dell’uguaglianza formale. A tal fine, il secondo comma dello stesso articolo attribuisce allo Stato il compito di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e, quindi, anche del minore. Rilevante è anche l’art. 10, che impone di conformare l’ordinamento alle norme internazionalmente riconosciute, comprese, quindi, quelle a tutela dei diritti dei minori. La posizione del fanciullo, in sostanza, non occupando, in sede costituzionale, una posizione centrale, risulta plasmata dalle disposizioni generali applicabili tanto all’adulto quanto al minore[38]. Una equiparazione che è tendenziale, come è chiaro, in ragione della necessità di porre limiti derivanti dalle peculiarità della situazione del minore come donna o uomo in formazione, peculiarità che, del resto, giustificano, insieme con i limiti, anche i doveri che sono stati disegnati a beneficio dei minori.


Libertà religiosa ed educazione del minore all’interno del nucleo familiare


La formazione primaria della personalità di ogni soggetto si riceve nella famiglia, definita dall’art. 29 Cost. come «società naturale fondata sul matrimonio». Tale articolo ha consacrato la parità morale e giuridica dei coniugi a garanzia dell’unità familiare. Si tratta di una statuizione ispirata al generale principio di uguaglianza che, nel superamento di un’antica concezione che concedeva al marito uno stato di preminenza, collega la preparazione del minore con la paritaria posizione dei diritti e dei doveri di entrambi i genitori[39]. L’attenzione degli studiosi, specialmente a partire dagli anni settanta, si è concentrata nell’elaborare una concezione sempre più personalistica dell’istituto matrimoniale e familiare. Una simile prospettiva si è identificata, con il passare del tempo, nella maggiore attenzione riposta sugli interessi dei singoli componenti del nucleo familiare. Tale concezione intende coniugare la dimensione istituzionale con la solidità delle relazioni simmetriche tra coniugi e asimmetriche tra genitori e figli proprie della famiglia tutelando, con varie misure, che i legami giuridici intrafamiliari siano realmente fondati su relazioni personali e personalizzanti.



fonte:
http://www.salvisjuribus.it/liberta-religiosa-del-minore-e-responsabilita-genitoriale-nella-dialettica-del-rapporto-educativo-familiare/


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Poi dissero: «Venite, costruiamoci una città e una TORRE, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un NOME...Gen 11,4
 
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