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ALBERT EINSTEIN ERA CREDENTE?

Ultimo Aggiornamento: 15/06/2023 19:06
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27/07/2018 10:43
 
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CONCLUSIONE


Abbiamo cercato di suddividire la vita di Albert Einstein in tre fasi, provando a tracciare il percorso -spesso contraddittorio- del suo pensiero filosofico e religioso. Dal giovane fisico antimaterialista alla voce che richiama la necessità di ripresa dei valori evangelici di fronte alle dittature atee. Senza mai diventare cristiano. Dal netto rifiuto di un Dio personale, al suo definirsi “agnostico” ma anche “credente”, passando per Spinoza e Dostoevskji. Poco prima di morire, abbiamo visto, arriva a scrivere di un Dio personale, un “Lui” (“Him”).


In generale, commenta il saggista Francesco Agnoli, «il grande fisico professerà per lo più, in modo non sempre chiaro, la fede non in un Dio personale, ma in una sorta di Dio sovrapersonale, in una Intelligenza ordinatrice del cosmo, muovendosi ambiguamente, in modo non risolutivo, non definito, tra il Dio di Spinosa, il deismo e il Dio biblico» (F. Agnoli, Filosofia, religione e politica in Albert Einstein, ESD 2015, p. 213). La non linearità del pensiero di Einstein è confermata dal noto teologo Thomas F. Torrance, dell’Università di Edimburgo: «Quale significato intendeva Einstein quando si riferiva a Dio come “intelligenza cosmica” e “magnificenza della ragione incarnata nell’esistenza” o, riferendosi ad un’espressione del Talmud, “the Old man”? Egli non fu sempre coerente e quindi non è facile afferrare precisamente cosa intendesse dire. Ma sembra chiaro che egli concepiva Dio come il definitivo fondamento spirituale di tutto l’ordine razionale che trascende ciò con cui lo scienziato ha a che fare mediante le leggi naturali ma, diversamente dalla religione ebraico-cristiana, egli non lo pensava in modo “personale” o “antropomorfico”, cioè come un Dio ad immagine dell’uomo, ma in modo “sovrapersonale” (ausserpersönlichen) liberato dalle catene del “solo personale” (Nur-Persönlichen), cui lo legherebbe il desiderio della gente di soddisfare i propri bisogni».


Il teologo Giuseppe Tanzella-Nitti, scrive a proposito: «Siamo convinti che Einstein, di origine e cultura ebrea, ebbe esperienza di ciò che ragionevolmente potremmo chiamare “senso religioso”, come senso di dipendenza dall’Assoluto e percezione dei fondamenti dell’essere, sebbene non fu in grado in tematizzarlo in modo coerente, anche quando ritenne di poterlo fare. Alcuni fattori giocarono un ruolo importante nell’impedire una sintesi matura della sua nozione di Dio. In primo luogo vi giocò l’idea che la tradizione religiosa ebraico-cristiana, di cui apprezzava il ruolo sociale e il valore umano, fosse depositaria di una visione antropomorfa di Dio che egli riteneva (giustamente) incompatibile con quel logos che intravedeva nascosto nelle pieghe della comprensibilità del mondo. In secondo luogo, Einstein mostrò a nostro avviso un’eccessiva dipendenza da una interpretazione positivista dello sviluppo della religione, dalla quale non riuscì mai ad emanciparsi del tutto. Tale interpretazione coesisteva in lui con una visione kantiana dell’idea di religione, come traguardo razionale di una umanità spiritualmente matura». L’ateo più famoso del mondo, il filosofo Anthony Flew (poi convertitosi al deismo), si è lamentato con gli “atei di professione”, come Richard Dawkins, per la loro non sincerità: «la complessità integrata del mondo fisico ha portato Einstein a credere che dev’esserci una Intelligenza divina dietro a ciò». Il fisico Angelo Tartaglia, docente al Politecnico di Torino, ha scritto: «Fra gli scienziati, l’idea di un ente supremo non personale trova un qualche seguito. Valga in primis l’esempio di Albert Einstein»(A. Tartaglia, La luna e il dito. Viaggio di un fisico tra scienza e fede, Lindau 2009, p. 156).


Il suo biografo più autorevole, Walter Isaacson, a sua volta ha confermato: «Per tutta la vita respinse l’accusa di essere ateo. A differenza di Freud, Russell o di G.B. Shaw, Einstein non avvertì mai l’esigenza di denigrare coloro che credono in Dio; anzi, tendeva piuttosto ad attaccare gli atei […]. In effetti Einstein tendeva a essere più critico verso gli scettici, che sembravano privi di umiltà e di senso di meraviglia, che verso i credenti» (W. Isaacson, Einstein. La sua vita, il suo universo, Mondadori 2008, p. 376). La sua visione di Dio era in coerenza non con cammino religioso, ma con quello che l’Universo da sempre gli suggeriva: «Osservando tale armonia del cosmo che io, con la mia mente umana limitata, sono in grado di riconoscere, ci sono ancora persone che dicono che Dio non esiste. Ma ciò che mi fa davvero arrabbiare è che sostengono che io supporti tale punto di vista» (citato da Prinz Hubertus zu Löwenstein, Towards the Further Shore: An Autobiography, Victor Gollancz 1968, p. 156).


Per Alexander Moszkowski, autore di una biografia basata su conversazioni con Einstein, «la musica, la natura e Dio si mescolavano in lui in un complesso di sentimenti, in un’unità morale, la cui impronta non svanì mai» (W. Isaacson, Einstein. La sua vita, il suo universo, Mondadori 2008, p. 20). Certamente la sintesi del teologo Giuseppe Tanzella-Nitti è quella più convincente: «Classificare lo scienziato tedesco come panteista o come deista può risultare forse comodo al filosofo frettoloso, ma non darebbe ragione delle aspirazioni più profonde che lo animarono. E il teologo perderebbe una buona occasione per riflettere su quale immagine di Dio sia accessibile da un soggetto che si occupa di ricerca scientifica ma non possiede le risorse adeguate per porla in relazione con il vero contenuto della Rivelazione. Una più stretta relazione fra questi due mondi, ad esempio, avrebbe consentito ad Einstein di chiarire l’infondatezza dei suoi timori circa l’antropomorfismo del Dio cristiano e di meglio compredere l’autenticità della vita morale nata da questa tradizione religiosa. Le lettere degli ultimi anni della sua vita tornano frequentemente sul tema di Dio, nominandolo come di passaggio e con tono quasi confidenziale — il grande vecchio, colui che conosce i segreti del mondo, ecc. Riteniamo lo facciano al di là del puro espediente retorico, probabilmente manifestando la nostalgia, ma anche la necessità, di riferirsi all’Assoluto come Qualcuno e non solo come razionalità impersonale. “Una cosa ho imparato in questa lunga vita — scriverà a Michele Besso il 15 aprile del 1950 —: non volendo rimanere in superficie, è maledettamente difficile avvicinarsi a Lui”».


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