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RICOSTRUZIONE CRONOLOGICA DELLA PASSIONE (Giuseppe Ricciotti)

Ultimo Aggiornamento: 06/06/2018 12:13
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13/04/2018 12:09
 
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Il processo civile davanti a Pilato ed Erode

§ 576. La condanna pronunziata dal Sinedrio non poteva essere ese­guita se non dopo esplicita approvazione del procuratore romano; perciò se i Sinedristi volevano raggiungere il loro scopo dovevano superare adesso questo nuovo ostacolo. Quale via seguire? L'approvazione del procuratore si poteva ottenere in due maniere: invitando il magistrato di Roma ad accettare la conclusione del processo svoltosi davanti al tribunale supremo del giudaismo e a fidarsi defla sua imparzialità; ovvero deferendo l'imputato al tribu­nale del procuratore per istituire un nuovo processo. Questa seconda maniera fu scelta dai Sinedristi, e astutamente: giac­ché se avessero chiesto a Pilato l'approvazione di una condanna a morte pronunziata per ragioni puramente religiose, egli certamente non avrebbe confermato ad occhi chiusi la sentenza del Sinedrio, ma avrebbe voluto indagare se le accuse erano vere, se la procedura era stata legale, se sotto pretesti religiosi non si nascondessero piuttosto rancori e rivalità personali; e allora c'era pericolo che l'intera procedura che aveva portato alla sentenza di condanna fosse riesaminata, e venissero alla luce molte cose che dovevano invece rimanere nell'om­bra. No, era maniera più facile e più sicura riaprire il processo, im­piantandolo su nuove basi: se poi si deferiva l'imputato al tribunale civile del procuratore, bisognava prender costui dal suo lato debole e presentare il Rabbi galileo quale pericoloso agitatore politico, suscitatore di ribellioni contro l'autorità di Roma. Imboccata tale strada, non c'era alcun dubbio che lo stato d'animo di Pilato e le generiche condizioni politiche avessero influito assai sullo svolgimento del nuo­vo processo, indirizzandolo alla mèta prefissa dai Sinedristi. Confor­me a questo piano, appena terminata la seduta mattinale, il Sine­drio quasi al completo si recò al luogo ov'era il pretorio di Pilato, conducendosi appresso Gesù. L'evangelista testimonio oculare avverte con precisione che era l'al­ba (Giov., 18, 28); dovevano essere circa le nostre ore sei antimeridiane (§ 565). I Romani infatti erano mattinieri: essi cominciavano la trattazione degli affari già all'alba e vi rimanevano occupati fin verso mezzogiorno, mentre riserbavano il pomeriggio e la sera alla cure personali e ai divertimenti; solo più tardi, quando l'Impero fu in­vaso da Barbari infingardi e sonnolenti, si perdette l'uso d'esser mat­tinieri e si rimandò la trattazione degli affari a giornata molto inol­trata. - Giunti pertanto sul limitare del pretorio, gli accusatori di Gesù si fermarono: quella dimora era d'un pagano ed essi non pote­vano entrarvi senza contaminarsi, mentre premeva loro di man­tenersi puri per celebrare la Pasqua che cadeva, secondo il loro computo, alla sera di quel giorno stesso (§ 536). Dov'era il pretorio di Pilato?

§ 577. Per i Romani il praetorium era il luogo ove il praetor stabi­lisse il suo ufficio il qual luogo poteva esser oggi una tenda mili­tare, domani un castello fortificato, un altro giorno il palazzo di un re debellato. Nato sotto la tenda militare, l'ufficio del pretorio con­servò sempre un'austera semplicità, rimanendo costituito essenzial­mente da due principali arredi, il “tribunale” e il seggio curule. Il “tribunale” era un suggesto o predella di forma semicir­oolare, di notevole altezza ed ampiezza, ma tale da potersi facilmen­te trasportare ed impiantare ove fosse opportuno; il seggio curule era l'antico seggio dei magistrati romani, destinato qui al pretore e colIlocato nel centro della predella semicircolare. Dall'alto del “tribu­nale” il pretore amministrava ufficialmente la giustizia, stando assiso sul seggio curule al centro e fiancheggiato ai due lati del semicer­chio dai suoi assistenti o consiglieri; davanti a quella predella dove­vano presentarsi imputati e accusatori, testimoni e difensori, e il pre­tore dopo aver ascoltato tutti e tutto ed essersi consultato con i suoi consiglieri pronunziava la sentenza dal seggio curule. A Cesarea, ove il procuratore della Palestina risiedeva ordinariamente (§ 21), il suo pretorio era impiantato nella reggia di Erode il Grande perché ivi era la su a abituale dimora (cfr. il pretorio di Erode a Cesarea, in Aui,23,35); anche a Gerusalemme, quando il procuratore vi si recava, la sua abituale dimora era la reggia di Erode, tuttavia da ciò non segue - astrattamente parlando - che ivi fosse sempre impianta­to il suo pretorio, giacché egli per ragioni speciali poteva prender dimora altrove, ad esempio nella fortezza Antonia, la quale si prestava molto meglio per sorvegliare le immense folle che accorrevano nell'attiguo Tempio in occasione della Pasqua e delle altre grandi fe­ste ebraiche (§ 49). Per la Pasqua in cui avvenne il processo di Gesù, dove stava impiantato il pretorio di Pilato? Una preziosa indicazione è fornita dal testimonio oculare allorché egli precisa che per pronunziare la sentenza finale Pilato s'assise sul tribunale (Giov., 19, 13). Dunque quel giorno Pilato im­piantò il suo pretorio in un luogo di Gerusalemme ch'era designato comunemente con due nomi diversi: Lithostrotos è nome schiettamente greco, e significa etimologicamente “strato di pietre” ossia “lastricato”; Gabbatha invece è nome aramaico, e significa “luogo eminente”, “altura”. Erano dunque due termini che non si tradu­cevano a vicenda, perché erano di significato etimologico diverso, ma praticamente designavano ambedue lo stesso luogo; tuttavia casi co­me questo si spiegano facilmente con le diverse ragioni che possono dare origine alle varie designazioni, e sono in realtà assai frequenti: basti ricordare soltanto nella Roma odierna Pantheon e Rotonda, Quirinale e Montecavallo, ecc. Per giustificare dal lato etimologico ambedue i nomi qui ricordati dall'evangelista bisognerà rintraccia­ne nella Gerusalemme antica un luogo che fosse geologicamente una ”altura”, e su cui fosse stato disposto un “lastricato” cosi notevole da meritare l'appellativo antonomastico.

§ 578. Avendo presenti queste esigenze dell'indicazione evangelica tutto c'induce a concludere che il pretorio di Pilato fosse impiantato quel giorno nella fortezza Antonia. Questa fortezza, oltre a pre­starsi meglio per la sorveglianza nelle giornate poliziescamente torbi­de, era collocata veramente sopra un'”altrura”, quella del Bezetha (§ 384), chiamata da Flavio Giuseppe la piu' alta di tutte le colline di Gerusalemme (Guerra giud., v, 246); fu dunque naturale che i cittadini riservassero per antonomasia il termine di “altura” a quel­la collina che emineva su tutte le altre, sebbene il termine fosse ge­nerico e risultasse precisato solo dall'uso. Ma quando più tardi fu costruita la massiccia fortezza Antonia, l'e­minenza della collina sembrò quasi scomparire sotto l'enorme mole. Ecco allora avvenire una sostituzione del termine generico di “al­tura” col termine nuovo di “lastricato” provocato dalla nuova co­struzione, sebbene per qualche tempo i due nomi fosse usati promiscuamente, mentre il nome antico e indigeno era usato più dai con servatori e il nuovo e forestiero più dai progressivi. Resta da vedere se nell'edificio dell'Antonia esisteva veramente que sto Lithostrotos, questo “lastricato” cosi' importante da designare per estensione tutta la zona; e qui non si potrà rispondere se non sulla base degli antichi documenti e delle recenti scoperte archeolo­giche. Dalla minuta descrizione che Flavio Giuseppe fa dell'Antonia (§ 49) risulta ch'essa era costituita da un quadrilatero rafforzato agli angoli da quattro potenti torri; ma il quadrilatero non era totalmen­te coperto di costruzioni, bensi racchiudeva nel mezzo un vasto cor­tile a cielo scoperto contornato da portici, da casematte e dai muri del quadrilatero. Il cortile naturalmente era frequentatissimo, passandovi quanti an­davano e venivano; in esso i soldati ivi di guarnigione si saranno schierati a rassegna, avranno fatto taluni esercizi militari, avranno passato lunghe ore in ozio giocando a dadi, a “filetto” e a simili passatempi intuitiva, quindi, la necessità che quel cortile fosse provvisto di un buon “lastricato” che ne proteggesse il suolo. Eb­bene, questo “lastricato” è stato ritrovato e nettamente riconosciuto dalle ricerche archeologiche praticate sul posto in questi ultimi anni. Da calcoli approssimativi fatti sui ruderi si è potuta valutare la su­perficie dell'intero cortile a mq. 2.500. Sul luogo si sono scoperti, oltre ad avanzi di varie costruzioni fiancheggianti la fortezza Anto­nia, anche larghi strati di « lastricato » molto ben conservati nono­stante le successive trasformazioni del luogo. All'esame archeologico il « lastricato » si mostra quale opera tipicamente romana, come usa­va farne Erode il Grande costruttore dell'Antonia. Le lastre di pie­tra, ampie e solide, misurano talvolta fino a 2 metri di lunghezza, su 1,50 di larghezza e 0,50 di spessore; fra le molte tracce che que­ste pietre portano dell'intenso uso che se ne fece lungo i secoli, le piu' curiose sono varie delineazioni o trame di giuochi romani, quali il « filetto » e simili, che furono indubbiamente incise dai soldati per le loro ore di riposo. Si può quindi ritenere come praticamente sicuro che il “lastricato” ritrovato sia il Lithostrotos dell'evangelista, e che in questo luogo chiamato anche Gabbatha fosse impiantato in quel giorno il pre­torio di Pilato.

§ 579. Il procuratore romano, avvertito che i membri del Sinedrio con molta folla s'erano fermati fuori del pretorio e volevano par­largli a proposito di un certo imputato chiamato Gesu' di Nazareth, uscì verso di loro e dato uno sguardo attorno domandò per comin­ciare Quale accusa portate contro quest'uomo? Gli fu risposto: Se costui non fosse un malfattore, non te l'avremmo consegnato. Veramente questa risposta non era un'accusa: voleva esser piutto sto una implicita captatio benevolentia, col suo latente invito a fi­darsi di ciò che gli accusatori affermavano e a rimettersi al giudi­zio dato dal Sinedrio sull'imputato. Stesse pur tranquillo il gover­natore: i suoi governati la pensavano in tutto come lui riguardo alla giustizia e all'equità, e deferivano al suo tribunale quell'imputato perche' era proprio un malfattore assolutamente meritevole di morte. La captatio benevolentia fu interpretata da Pilato per quel che va­leva. Il navigato romano capì subito che si trattava di una delle tante questioni che vertevano su idee religiose giudaiche e nelle quali egli non voleva affatto entrare; richiamandosi quindi alle norme vigenti, rispose: Prendetelo voi, e giudicatelo secondo la vostra legge. Queste parole non significavano certamente che gli accusatori potes­sero fare dell'imputato ciò che volevano, compreso il metterlo a morte: erano soltanto un invito ad applicare le leggi nazionali, sem­pre con la notoria esclusione della pena capitale. Ma precisamente qui era il punto piu' delicato della questione, e gli accusatori lo se­gnalarono direttamente al procuratore dicendogli: A noi non e' leci­to uccidere alcuno. Questa risposta manifestava al pmcuratore l'oc­culto desiderio degli accusatori, facendogli anche intravedere ciò che era avvenuto in quella notte. Se il Sinedrio si era rivolto al rappre­sentante di Roma non aveva fatto ciò per poter infliggere una mul­ta o una scomunica o le 39 staffilate legali (§ 61), tutte pene che esso poteva legittimamente infliggere senza l'approvazione del procuratore: gli accusatori invece volevano il permesso di eseguire la pena capitale, pronunziata in quella notte dal Sinedrio ma rimasta fino allora inefficace. Da questa risposta pertanto Pilato capì che l'impu­tato, nell'intenzione degli accusatori, era già un uomo destinato alla morte.

§ 580. Così veniva impostato il nuovo processo di Gesù davanti all'autorità civile. Ma per convincere il nuovo giudice, che quasi cer­tamente non aveva mai inteso parlare di un Gesù di Nazareth, oc­correvano delle prove; e gli accusatori addussero prove adatte a far impressione sul giudice. Dissero pertanto i Giudei: Noi troviamo co­stui che perturba la nostra nazione ed impedisce di dar tributi a Cesare e dice di essere Cristo (Messia) re (Luca, 23, 2). Questa era un'accusa strettamente politica, e come tale veniva a sostituirsi alle accuse religiose ch'erano state addotte davanti al tribunale del Si­nedrio: qui, davanti al tribunale del magistrato di Roma, Gesù è presentato come un rivoluzionario politico, e più esattamente come un imitatore di Giuda il Galileo (§ 514) nell'impedire il pagamento dei tributi a Cesare, nonché come un condottiero nazionalista che dice di essere il re-messia politico; è certo, infatti, che l'ultimo capo d'accusa si riferisce alla regalità politica. Senonché Pilato non era davvero tanto ingenuo da prender per oro colato tali accuse, e sotto ad esse intravide subito qualcosa di ben diverso. Ad ogni modo il terreno su cui erano scesi gli accusatori era di natura delicatissima per lui, e tale da obbligarlo a scendervi an­ch'egli: a lui, rappresentante di Roma, veniva deferito un imputato sotto l'accusa di congiurare contro Roma ed egli, sebbene avesse ca­pito subito che l'accusa era priva di fondamento, non poteva sot­trarsi all'obbligo di accogliere e discutere tale accusa; se avesse tra­scurato di far ciò, c'era pericolo che gli accusatori delusi inviassero denunzie a Roma, dipingendolo come remissivo e negligente nel re­primere moti politici contro l'autorità da lui rappresentata. Egli perciò, quale uomo di legge, si proponeva di smascherare gl'infingi­menti degli accusatori: ma nello stesso tempo, quale magistrato di Roma, si proponeva di figurare come vigile custode dell'autorità im­periale. Non restava che interrogare l'imputato stesso.

§ 581. Pilato allora rientrò nell'interno del pretorio, ove nel frat­tempo l'imputato era stato condotto mentre gli accusatori rimane­vano scrupolosamente al di fuori, e cominciò con la questione piu' scottante domandando a Gesù: Tu sei il re dei Giudei? Questa in­terrogazione ripeteva materialmente l'ultimo capo d'accusa, ma in hocca a Pilato il termine re dei Giudei assumeva un significato vo­lutamente ambiguo. Andando a fondo, l'interrogazione sonava a un dipresso cosi: Sei tu re dei Giudei in qualcuno di questi sensi ol­tramondani e numinosi impiegati spesso negli scritti della tua nazio­ne; oppure sei re dei Giudei nel senso in cui Numa Pompilio fu re dei miei antenati a Roma, ed Erode figlio di Antipatro era re dei tuoi antenati qui in Palestina mezzo secolo fa? Sei re di un mondo invisibile e ideale, oppure re di questo mondo visibile e materiale? Gesù rispose a Pilato: Da te stesso dici tu questo, oppure altri te (lo) disse di me? A Pilato non sfuggi che la risposta mirava appunto a distinguere quell'equivoco ch'era contenuto nella domanda; ne fu stizzito, e con una certa sdegnosità replicò: Sono io forse un giudeo? La tua na­zione e i sommi sacerdoti ti consegnarono a me. Che cosa hai fatto? La replica di Gesù insistette ancora nel distinguere i due sensi della prima domanda: Il regno mio non è di questo mondo. Se di questo mondo fosse il regno mio, i miei ministri avrebbero lottato affinchè (io) non fossi consegnato ai Giudei. Ora, invece, il mio regno non è da qui. Pilato, alquanto sorpreso da queste parole, intervenne per mettere in chiaro almeno in punto, e replicò: Dunque, tu sei re? aspettandosi senza dubbio che l'imputato respingesse senz'altro l'af­fermazione. Gesù invece l'accettò in pieno, giacché rispose: Tu dici che sono re; il che equivaleva a dire: “Sono veramente re come tu dici” (cfr. § 543, 567). Tuttavia a questa affermazione tenne subito die­tro uno schiarimento, nel senso forse già previsto da Pilato: Io a questo (scopo) sono nato e a questo (scopo) sono venuto nel mondo per render testimonianza alla verità. Chiunque e' dalla verita, ascol­ta la mia voce. Pilato, infastidito, tagliò corto, dicendo: Che cos'e' verita?

§ 582. Queste parole in sostanza non erano una domanda ma una esclamazione, tant'è vero che Pilato appena le ebbe pronunziate non aspettò risposta e si mosse per uscire a parlamentare con i Giudei fuori del pretorio; esse volevano semplicemente segnalare che la di­scussione era uscita dal suo vero campo praginatico per entrare in quello delle idee astratte, che non interessavano affatto il magistrato. Avvedutosi di ciò, egli esclama negligentemente: “Ma che cosa vuoi che sia la verità!”. A Roma Pilato aveva forse assistito centinaia di volte a discussioni di graeculi filosofeggianti nelle case e sulle piazze in cerca di sonanti sesterzi, e si era annoiato mortalmente a udire interminabili disquisizioni sulla verità e sull'errore: ragion per cui, quella mattina, egli non aveva la più lontana voglia di udirne an­cora un'altra da quell'oscuro giudeo. Ad ogni modo, dal breve dialogo avuto con Gesù, Pilato si era sem­pre più convinto che l'imputato era del tutto innocente e che l'inte­ra denunzia era effetto dell'odio che gli portavano i capi della na­zione per loro beghe religiose. E qui vennero ad incontrarsi e som­marsi insieme due spiccati lineamenti del carattere di Pilato: uno, il sentimento del ius che egli certamente possedeva come magistrato romano e che lo spingeva a far rispettare la legge; l'altro, un senti­mento di disprezzo e di scontrosità ch'egli nutriva per quei capi del giudaismo, e che qui trovava un'ottima occasione per impuntarsi a contraddire in nome della legge. Ambedue questi sentimenti del giu­dice esigevano che l'imputato fosse rimandato assolto. Frattanto dal di fuori giungeva un vociare confuso, e a sbalzi si di­stinguevano or l'una or l'altra delle accuse ripetute adesso da tutta la folla. Pilato, che aveva già terminato il dialogo con Gesù, prima di affrontare la folla cercò dall'imputato quasi un suggerimento o un aiuto per la difesa di lui, e ritornatogli vicino gli domandò cori curiosità: Non rispondi nulla? Vedi di quante cose ti accusano? (Marco, 15, 4). Ma colui che poco prima si era proclamato testimo­ne della verità non rispose nulla, e serbò assoluto silenzio.

§ 583. Pilato ne rimase meravigliato; ma non recedette dal propo­sito di difendere quel silenzioso imputato anche senza l'aiuto di lui, e uscito fuori proclamò davanti a Sinedristi e plebei: Io non trovo in lui alcuna colpa! Con questa dichiarazione il processo doveva con­siderarsi terminato. I Sinedristi, più che i plebei, ne rimasero sdegnati. Protestando violentemente, si dettero essi a ripetere alla rinfusa le varie accuse ma specialmente quella politica: Fa insorgere il popolo, insegnando per tutta la Giudea e cominciando dalla Galilea fin qua (Luca, 23, 5). Queste ultime parole colpirono Pilato, perché sembravano offrirgli un elemento nuovo onde risolvere la questione; egli domandò se Ge­sù fosse galileo, ed essendogli risposto ch'era dei dominii del tetrarca Erode Antipa vide in questo particolare un buon appiglio in proprio favore. Egli era sicuro che, anche ad un esame fatto da Erode, Gesù sareb­be risultato innocente come all'esame testé subito al suo proprio tri­bunale: con ciò egli avrebbe avuto un nuovo argomento per ridurre al silenzio gli accusatori di lui, infliggendo inoltre ad essi una lega­lissima umiliazione. Inoltre il caso di quell'imputato offriva al pro­curatore una bell'occasione per riavvicinarsi al tetrarca, col quale egli da tempo era in cattivi rapporti, probabilmente perché Erode faceva la spia a danno dei magistrati romani d'Oriente presso l'imperatore Tiberio (§§ 15, 26). Perciò il procuratore, ostentando deferenza verso il tetrarca, decise d'inviargli il suo suddito affinché lo giudicasse. Veramente Gesù era stato denunziato al tribunale del rappresentante di Roma, e ivi doveva esser giudicato qualunque fos­se il suo paese d'origine; tuttavia Pilato rinunciò volentieri alla pro­pria giurisdizione, per i motivi pratici suddetti.

§ 584. Erode Antipa era appunto a Gerusalemme in quei giorni, per l'occasione della Pasqua. Quando seppe che il procuratore gl'invia­va quell'imputato galileo, fu assai contento, perché era desideroso da molto tempo di vederlo a cagione di ciò che udiva di lui e spe­rava vedere qualche prodigio fatto da lui. Già sappiamo infatti che, per Erode Antipa, Gesù passava come Giovanni il Battista risusci­tato (§ 357), e l'innata superstizione di colui che aveva assassinato il precursore era qui tanto più viva in quanto si riconnetteva col ri­cordo della sua propria vittima. Quando Erode ebbe Gesù alla sua presenza gli rivolse numerose do­mande, ma non ottenne neppure una risposta. Tuttavia se non parlò l'imputato, parlarono abbondantemente gli accusatori di prima che si erano presentati anche al nuovo tribunale: qui, davanti al Giudeo incoronato, essi avranno insistito piuttosto su accuse tipicamente giu­daiche, quali le pretese bestemmie di Gesù, le violazioni del sabba­to, le minacce contro il Tempio, la sua proclamazione d'essere pari a Dio. Il silenzio dell'imputato fu una disillusione per Erode; tutta­via egli aveva giuridicamente la vista più chiara degli accusatori, e nonostante la sua disillusione capi che tutte quelle accuse erano frut­to di livore e che l'imputato era innocente. Sarebbe stato quindi il caso di proclamarlo tale senz'altro, e di rinviarlo libero: ma la tron­fia alterigia del tetrarca volle la sua vendetta per la disillusione patita. Dalle guardie che lo circondavano Erode fece rivestire il silenzioso imputato di una veste sgargiante, uno di quegli indumen­ti vistosi usati in Oriente da persone insigni per occasioni solenni: forse era qualche capo di vestiario, consunto e fuori uso, che il te­trarca fece rimetter fuori per beffeggiare l'imputato, il quale così anche esteriormente figurava da re come si era proclamato. Perciò anche quella beffa con cui si concludeva l'inquisizione fatta da Erode mostrava che a giudizio dell'inquirente l'imputato era uomo, scioc­co e ridicolo bensì, ma tale da non offrire alcun pericolo: la beffa stessa già respingeva implicitamente la tesi degli accusatori, secondo cui l'imputato era un rivoluzionario e un sacrilego. Un delinquente siffatto sarebhe stato punito severamente, non già beffeggiato alle­gramente. Vestito in quella maniera, fra i clamori sarcastici degli accusatori che lo seguivano dappertutto, Gesù fu rinviato da Erode a Pilato. Luca, il solo evangelista che narra questo episodio, conclude dicendo che divennero amici fra loro Erode e Pilato in quello stesso giorno, giac­ché dapprima erano in ostilità fra loro (Luca, 23, 12).

§ 585. Quando Pilato vide che Erode rinviandogli Gesù non voleva immischiarsi nell'affare, s'impensierì e cominciò a capire che si trat­tava di cosa più seria ed imbrogliata di quanto gli fosse apparsa da principio. Tuttavia egli tenne ancora fermamente all'innocenza del­l'imputato: solo che si propose di trovar una via d'uscita cedendo in qualche parte agli accusatori. L'uomo di legge si ritirava alquan­to indietro, e si metteva sulla stessa linea dell'uomo politico. Rivolto quindi agli accusatori, tenne loro questo ragionamento: Mi recaste quest'uomo come pervertitore del popolo; ed ecco che io, interro­gando davanti a voi, nulla trovai di colpevole in quest'uomo di quan­to l'accusate. Ma neppure Erode, giacché lo rinviò a noi. Ed ecco, nulla degno di morte e' stato commésso da lui. Fin qui ha parlato l'uomo di legge, che ha il sentimento del ius. Ma subito appresso si fa avanti l'uomo politico e comincia a parlar lui, togliendo la pa­rola all'uomo di legge; Pilato infatti termina il precedente ragiona­mento con questa inaspettata conclusione: Dopo aver dunque sottoposto lui ad un castigo, (lo) rimanderò (libero). Il vero errore dialettico di questa conclusione sta in quel dunque; se né Pilato né Erode avevano trovato nulla di colpevole e nulla degno di morte, come giustificare quel dunque? Come legittimare quel castigo pro­messo, che certo non sarebbe stato una pena leggiera, ma la terribile flagellatio romana? Ma per il procuratore ciò che non era ammesso dal diritto era ri­chiesto dalla politica.

§ 586. Appena fatta questa concessione, Pilato di rincalzo ofirì agli accusatori un altro motivo per calmarsi. Era consuetudine, in occa­sione della Pasqua, che il procuratore liberasse un carcerato scelto dalla folla; parve pertanto a Pilato che questa volta sarebbe stata cosa equa e insieme opportuna far cadere la grazia su Gesù, cosicché la giustizia sarebbe rimasta salva (almeno in parte) e sarebbero an­che rimasti appagati gli accusatori. Ora, in quei giorni era detenuto un famigerato malfattore chiama­to Barabba (“figlio del padre”), nome abbastanza comune negli scrit­ti rabbinici: secondo poi alcuni codici evangelici, scarsi tuttavia di numero e d'autorità, il nome intero di quest'uomo sarebbe stato Gesu' Barabba, in cui Barabba sarebbe piuttosto un epiteto e Gesu' il vero nome. Costui in una sedizione popolare, suscitata forse da lui stesso, aveva commesso un omicidio: abitualmente, poi era un la­dro. Arrestato, stava in prigione attendendo la sentenza del procu­ratore. Pilato pertanto previde che, se avesse proposto agli accusa­tori la grazia o di Gesù o di Barabba, la scelta sarebbe certamente caduta su Gesù a causa del carattere palesemente infame di Barabba. Si presentò quindi sul limitare del pretorio e fece la proposta: Chi volete che vi dimetta, Barabba oppure Gesu', quello chiamato Cristo? e per meglio specificare aggiunse il re dei Giudei? La previsio­ne di Pilato, che la scelta sarebbe caduta su Gesù, dimostra ch'egli aveva una conoscenza assai difettosa, non tanto della nazione da lui govennata, quanto delle guide spirituali di quella nazione. La pro­posta infatti a bella prima fece impressione sulla folla degli accusa­tori, i quali stavano là davanti al pretorio a gridare ciò ch'era sug­gerito loro dai sommi sacerdoti e dagli anziani, loro guide spirituali; a quel gregge di servitori Gesù era certamente sgradito perché era sgradito ai loro padroni, ma anche per essi Barabba era tale furfante da meritarsi invece della grazia la più severa delle condanne. Ci fu una breve sosta fatta di perplessità, in cui il servitorame vociante non riusciva a decidersi tra la richiesta del fondo onesto della sua coscienza e la richiesta dei suoi inflessibili padroni.

§ 587. Durante questa sosta avvenne un incidente curioso. Mentre lilato credeva d'aver trovato la buona via d'uscita, ricevette priva­tamente un avviso di sua moglie, formulato in questi termini: Non aver nulla (da fare) con quel giusto, poiché molti sogni ho avuti oggi a cagione di lui. La notizia è data soltanto da Matteo, l'accu­rato segnalatore di comunicazioni divine avvenute per mezzo di so­gui (§ 239). Storicamente, poi, risulta che solo da poco tempo era stato permesso ai magistrati dell'Impero romano di recar seco le proprie mogli quando andavano a governare il territorio loro asse­gnato, mentre ai tempi della Repubblica la moglie non poteva se­guire il marito. A Pilato l'avviso della moglie dovette far molta impressione. Scet­tico riguardo a teorie filosofiche e a disquisizioni sulla verità e sull'errore, era certamente assai sensibile a quegli arcani segni che riscotevano tanto credito presso i Romani del suo tempo. Tutta Ro­ma sapeva benissimo che Giulio Cesare avrebbe evitato le 23 pugna­late delle fatali Idi di marzo se avesse dato ascolto alla moglie Cal­purnia che lo aveva pregato di non recarsi quel giorno nella curia, perché essa nella notte precedente lo aveva visto in sogno trafitto da molte ferite. Il caso di Calpurnia poté benissimo venire in mente a Pilato; ad ogni modo egli, oramai implicato nel processo di quel giusto, ricevette certamente dall'avviso della moglie una nuova conferma ad adoperarsi per quanto poteva in favore dell'imputato.

§ 588. Nel frattempo la sosta di perplessità era cessata, perché il servitorame vociante era stato ammaestrato dai suoi padroni e si era deciso ad obbedire ad essi più che al fondo onesto della sua coscien­sommi sacerdoti e gli anziani persuasero le folle che chiedessero Barabba e mandassero in rovina Gesu' (Matteo, 27, 20). Ricorninciava per tanto la battaglia, dopoché ambedue i combatten­ti avevano ricevuto rinforzi: il procuratore dal messaggio della mo­glie, la folla dalle istigazioni dei Sinedristi. Rivolgendosi di nuovo agli accusatori, Pilato ripeté la domanda: Chi volete che vi rimetta dei due? Tutti risposero concordi: Barabba! Meravigliato della scelta, Pilato non si preoccupò del delinquente prescelto ma dell'innocente scartato, e istintivamente richiese: Che farò dunque di Gesu', quello chiamato Cristo? GI'istigatori fecero gridare dalla folla: Sia crocifisso! Il procuratore insisté: Ma che cosa ha fatto di male? Evidentemente la sua mentalità giuridica esigeva una giustificazione alla gravissima pena richiesta; la giustificazione fu data, e consistette nel grido rinnovato più e più volte: Sia crocifisso! (Matteo, 27, 22-23). Da questo modo di ragionare Pilato rimase, non propriamente addo­lorato, ma piuttosto interdetto, sconcertato, nauseato. Con quegli schiamazzanti egli non riusciva a discutere: l'uomo di legge parlava una lingua che quelli non capivano. Ma anche materialmente sa­rebbe stato difficile farsi intendere, perché le alte e continue grida avrebbero ricoperto la voce dell'oratore. Pilato tuttavia volle egual­mente far conoscere ch'egli non condivideva affatto i propositi san­guinari manifestati da loro, e a tale scopo sostituì la comunicazione orale con un'azione rappresentativa percettibile con lo sguardo: fat­tosi portare un catino d'acqua si lavò le mani li in presenza della folla, mentre questa chiedeva a gran voce la morte dell'imputato. L'azione di lavarsi le mani assumeva spontaneamente un senso sim­bolico sia presso gli Ebrei (Deuteronomio, 21, 6-7) sia presso altri popoli antichi (Erodoto, 1, 35; Eneide, Il, 719; ecc.); in quel caso essa mostrava che il procuratore respingeva ogni responsabilità della domanda rivoltagli, qualunque fosse stato l'esito di tutto l'affare. In un momento poi in cui il clamore diminuì alquanto, egli per spie­gare anche meglio il senso simbolico gridò: Sono innocente di questo sangue! Voi (ve la) vedrete! Le sue parole furono udite da parecchi, e la risposta fu data con prontezza e con sicurezza assolute: Il san­gue di lui (sia) sopra noi e sopra i nostri figli!

§ 589. Questo augurio, o voto che fosse, invita ad una breve ed ele­mentare riflessione, che del resto non è estranea al processo di Gesù. L'augurio fu espresso concordemente sia dalle guide spirituali del giudaismo sia da una larga rappresentanza del popolo di Gerusalem­me: era dunque veramente una rappresentativa vox populi, un voto strettamente ufficiale che riassumeva i desideri sia del capo che del­le membra, sia del Sinedrio che del popolo. L'augurio o voto fu indirizzato certamente non al procuratore romano ma ad un giudi­ce ben più alto, ossia a quel giudice tante volte invocato nelle sacre Scritture d'Israele il quale solo poteva far si che quel discusso san­gue ricadesse anche sulle teste dei lontani figli. Solo quel sovreminen­te giudice poteva mutare la vox populi in una vox Dei, accoglien­do quel voto e mostrandolo avverato nella storia. Ora, se tutto ciò sia realmente avvenuto, lo storico odierno riscontrerà per conto suo rivolgendosi appunto alla storia, e non soltanto a quella antica ma anche a quella odierna. E ciò anche perché ai nostri giorni la questione è stata ripresa, e precisamente da quei figli di cui parla il voto. Non esistendo più oggi il Sinedrio che 19 secoli fa condannò Gesù ed espresse il voto che il sangue di lui ricadesse sui più lontani figli d'Israele, questi figli nel 1933 istituirono a Gerusalemme un tribunale ufficioso, com­posto di cinque insigni Israeliti, affinché riprendesse in esame l'an­tica sentenza del Sinedrio. Il verdetto pronùnziato da questo tribunale, con quattro voti favorevoli e uno contrario, fu che l'antica sentenza del Sinedrio doveva essere ritrattata, perché l'innocenza dell'imputato era dimostrata, la sua condanna era stata uno dei piu' terribili errori che gli uomini abbiano commesso, riparando il quale la razza ebraica ne sarebbe onorata.

§ 590. A questo punto del processo Pilato si ritrovò in condizioni di spirito assai contrastanti fra loro. Convintissimo personalmente dell'innocenza di Gesù, egli era stato rafforzato in questa sua convinzio­ne dal misterioso messaggio della moglie; dippiù, la puntigliosità e scontrosità del governatore trovava qui un'opportuna occasione per fare ai suoi govemati uno di quei dispetti di cui egli tanto si com­piaceva, e che questa volta sarebbe stato giustificato dalla legge e dall'equità. Ma, d'altra parte, la pertinacia degli accusatori invece di scemare era andata sempre crescendo, e se fosse stata contrad­detta in maniera totale e definitiva poteva facilissimamente accen­dere uno di quegli incendi popolari ch'erano il sommo spavento d'o­gni governatore romano della Giudea: la previsione di siffatta con­seguenza, nonché la paura di ricorsi inviati a Roma contro di lui, inducevano Pilato a riflettere con massima accortezza sulla decisione da prendere, e mentre annebbiavano sempre più ai suoi occhi l'au­stera visione della giustizia la sostituivano man mano con le lusin­ghiere fattezze del tornaconto politico. Egli quindi cercò di aggirare l'ostacolo, ricorrendo a ripieghi e cer­cando quasi d'illudere gli avversari mediante concessioni minorL In primo luogo, accolse la domanda della folla e graziò Barabba; inol­tre, sempre con la speranza di rendere gli accusatori più remissi­vi, fece eseguire la precedente promessa di sottoporre Gesù alla fla­gellazione.

§ 591. Presso i Romani la flagellatio precedeva ordinariamente la crocifissione, ma alcune volte costituiva una pena a sé e poteva essere inflitta in sostituzione della pena capitale. Era eseguita dai soldati. Il paziente veniva denudato e quindi legato per i polsi ad un palo, in maniera da offrire il dorso ricurvo. I colpi erano dati non già con verghe, riservate al cittadino romano condannato a morte, ma con uno strumento speciale, il fiagellum, ch'era una robusta frusta con mol­te code di cuoio, le quali venivano appesantite da pallottole di me­tallo o anche armate di punte aguzze (scorpione). Mentre presso i Giudei la flagellazione legale era contenuta entro un numero di col­pi ben fisso (§ 61), presso i Romani non era limitata da alcun nu­mero ma solo dall'arbitrio dei flagellatori o dalla resistenza del pa­ziente. Il flagellando, specialmente se destinato alla pena capitale, era considerato come un uomo senza più nulla di umano, un vuoto simulacro di cui la legge non aveva più cura, un corpo su cui si poteva infierire liberamente: e in realtà chi avesse ricevuto la flagella­zione romana era ridotto ad un mostro ripugnante e spaventoso. Ai primi colpi il collo, il dorso, i fianchi, le braccia, le gambe s'illividi­vano, quindi si rigavano di strisce bluastre e di bolle tumefatte; poi man mano la pelle e i muscoli si squarciavano, i vasi sanguigni scop­piavano, e dappertutto rigurgitava sangue; alla fine il flagellato era divenuto un ammasso di carni sanguinolente, sfigurato in tutti i suoi lineamenti. Spessissimo egli sveniva sotto i colpi; spesso vi lasciava la vita. Orazio, che pure non aveva un cuore tenerissimo, chiama lo strumento di questa pena horribile flagellum. A questa pena Pilato sottopose Gesù, pur mirando con questa nuova concessione a scamparlo dalla pena capitale.

§ 592. Terminata la flagellazione, Gesù rimase ancora per qualche tempo in balia dei soldati che lo avevano flagellato, e che fecero con lui quanto si usava fare con i condannati a morte. Verso co­storo, come già cancellati dall'albo del genere umano, era permesso qualunque lubidrio, qualunque lazzo brutale o beffa disumana: per­ciò quando i carnefici ebbero finito di flagellare Gesù e vollero rive­stirlo, chiamarono altri soldati della coorte e radunatisi allegramen­te attorno alla vittima, gli misero addosso una clamide rossa, di quel­le usate dai trionfatori dopo una vittoria; intrecciarono quindi una corona di spine, e gliela misero in testa a guisa di diadema; gl'infi­larono poi fra le mani legate ai polsi una canna, che doveva figu­rare come scettro di comando. Non si era proclamato egli re dei Giudei? Ebbene, apparisse re an­che allo sguardo di essi soldati, col suo scettro, col suo diadema, con la sua clamide. E con tanto maggior gusto si dovevano sfogare in que­gli schemi quei soldati, in quanto essendo non legionari ma auxilia­ res delle coorti dovevano esser reclutati in massima parte tra popo­lazioni vicine ma ostili ai Giudei, specialmente tra i Siri e soprat­tutto fra i Samaritani nemicissimi dei Giudei ma fedelissimi ai Roma­ni (cfr. Flavio Gius., Guerra giud., Jt, 52, 69, 96; ecc.). Per tutti costoro era un divertimento davvero gustosissimo ricoprire di beffe e ludibri un re di quei cialtroni di Giudei. Come ai trionfatori militari si tributavano particolari onoranze, cosi quei beffeggiatori cominciarono a sfilare avanti a Gesù, inginocchian­dosi davanti a lui e ripetendogli umili ed ossequiosi: Salute, re dei Giudei! Ma subito appresso, rialzatisi in piedi, gli sputarono in fac­cia e sfilatagli la canna di tra le mani gliela sbattevano sulla corona di spine.

§ 593. Fra tutti questi fatti era passato parecchio tempo; dalla prima presentazione di Gesù a Pilato avvenuta all'alba (§ 576), erano trascorse non meno di quattro ore fra discussioni del governatore con la folla, invio ad Erocle e ritorno, flagellazione e schemi dei soldati, e a questo punto si doveva essere fra le nostre dieci o undici ore antimeridiane. Intanto Pilato rifletteva sul modo di fare un ultimo tentativo in favore di Gesù, mentre la folla aspettava fuori del pre­torio clamorosa e pertinace. Agli schemi inflitti all'imputato dopo la flagellazione Pilato non at­tribuì importanza alcuna, non avendoli né comandati né proibiti; egli invece fece assegnamento sull'effetto giuridico e morale della flagellazione. Quando Gesù, sfigurato dai colpi e mascherato dagli indumenti burleschi, fu condotto di nuovo alla presenza del procu­ratore, egli decise d'impiegare quest'ultimo argomento sperando sul­l'impressione che avrebbe fatto quel sanguinolento cencio umano; perciò si fece seguir da lui uscendo fuori del pretorio, e preannunciò la sua comparsa alla folla: Ecco, ve lo conduco fuori affinché cono­sciate che nessuna colpa ritrovo in lui! Gesù, malfermo sulle gambe e vacillante nei passi, fu sospinto sul li­mitare del pretorio e comparve, come dice il testimonio oculare (Giov., 19, 5), portando la corona di spine e la veste purpurea. Al­lora, additandolo ai suoi inflessibili e urlanti accusatori, Pilato escla­mò: Ecce homo! In greco quest'esclamazione equivaleva al nostro: “Ecco quel tale”, e non aveva certo un senso di commiserazione; tuttavia, implicita­mente, invitava gli accusatori a riflettere se era ancora il caso di in­veire tanto contro un uomo ridotto in quelle condizioni. E qui è opportuno ricordare che chi invitava era un adoratore di Giove e di Marte, mentre coloro ch'erano invitati erano gli adoratori dello spi­rituale Dio Jahvè.

§ 594. La scena che avvenne dopo questo invito è descritta dal te­stimonio con parole che non potrebbero esser sostituite: Quando per­tanto lo videro i sommi sacerdoti e gl'inservienti, gridarono dicen­do:”Crocifiggi! Crocifiggi!”. Dice ad essi Pilato:”Prendetelo voi e crocifiggete, perché io non ritrovo in lui colpa!”. Risposero a lui i Giudei:”Noi abbiamo una legge, e secondo la legge deve morire perché si fece figlio di Dio!” (Giov., 19, 6-7). Le parole di Pilato non significavano affatto che egli permetteva agli accusatori di cro­cifiggere liberamente l'imputato; erano invece un nuovo invito a ri­flettere ancora una volta che egli non poteva in coscienza pronunziare la sentenza capitale richiesta, e quindi l'imputato non poteva esser messo a morte perché gli accusatori non ne avevano facoltà. Gli accusatori penetrarono sottilmente nel pensiero del procuratore e con la loro replica, che si appellava alla Legge ebraica, attirarono il magistrato su un campo non suo, quello religioso, nel quale Roma era stata sempre rispettosissima con i sottoposti Giudei. In sostanza, essi fecero balenare a Pilato la minaccia che, se non avesse consentito alla pena capitale, egli sarebbe stato considerato come favoreggiatore di empi e di sacrileghi. Anche qui la narrazione dell'evangelista testimone non può essere sostituita: Quando pertanto Pilato udì questo discorso, s'impaurì an­che piu'. Ed entrò nuovamente nel pretorio e dice a Gesu': “Donde sei tu?”. Probabilmente lo sconcertato Pilato s'aspettava dalla rispo­sta di Gesù qualche nuovo elemento per allargare e prolungare il processo e qualche nuova obiezione contro gli accusatori. Ma alla nuova domanda Gesù non rispose affatto. Gli dice dunque Pilato: «Non mi parli? Non sai che ho potestà di dimetterti e ho potestà di crocifiggerti?». Rispose Gesu':”Non avresti nessuna potestà con­tro di me, se (ciò) non ti fosse stato dato dall'alto; per questo chi mi ha consegnato a te ha un maggior peccato”. Dopo questa risposta, Pilato si ritrovò del tutto solitario nella sua resistenza. L'imputato non gli offriva alcun aiuto per la sua propria salvezza, mentre i Giudei s'irrigidivano sempre più nel richiederne la condanna; egli, il procuratore, era sostenuto nella sua resistenza solo dalla convinzione che l'imputato era innocente e dal desiderio di non cedere ai Giudei, ma la prima ragione non aveva alcuna efficacia sugli accusatori e la seconda non doveva essere comunicata per prudenza ad essi. Egli quindi, titubante, non vedeva maniera di uscire da quella situazione pur non volendo cedere; il quale stato d'animo è riassunto dall'evangelista con quelle generiche parole: Da questo (momento) Pilato cercava di dimetterlo (Giov., 19, 2). Gli accusatori intravidero il pericolo, e per scongiurarlo ricorsero a un argomento che non poteva non essere efficacissimo sul procuratore; si dettero cioè a gridargli: Se dimetti costui, non sei amico di Ce­sare! Chiunque si fa re, contraddice a Cesare!

§ 595. Davanti a quel grido, Pilato, uomo di carne ed ossa, magi­strato romano ignaro di qualunque preoccupazione religiosa e solle­cito soltanto della sua posizione a Roma e della sua carriera poli­tica, non poteva rimaner titubante ancora per lungo tempo; tutta­via non era ancora disposto a cedere. Seccatissimo di vedersi sempre più sopraffatto dai quei suoi odiati sottoposti che strillavano come scimmie, irritato da tutto lo svolgimento del processo, sperò ancora una volta nell'ignoto e volle affron­tare direttamente la conclusione del processo parlamentando di nuovo con gli accusatori. Poco prima essi avevano minacciato di considerarlo come favoreggia­tore di empi e sacrileghi se avesse liberato Gesù. Ma l'imputato non si era forse proclamato re spirituale degli accusatori stessi? Egli, go­vernatore politico, non voleva entrare in questioni religiose; ma punto per questa ragione non poteva agire contro chi si attribuiva una sovreminenza che non aveva nulla di politico ed era puramente religiosa. Sapeva forse egli se, dietro l'imputato, non venisse una lun­ga schiera di seguaci una specie di confraternita come quella degli Esseni (§ 44) - dispostissmi ad accettare quella sua regalità reli­giosa? Poteva egli uccidere il capo di una confraternita puramente religiosa e poi mettersi a perseguitare tutti i membri? No: egli, da magistrato laico neutrale, era in obbligo di rispettare e di far ri­spettare la regalità religiosa dell'imputato. Quest'argomento, nel pen­siero di Pilato, poteva ancor salvare Gesù, ed egli vi fece ricorso co­me all'ultima speranza. Era l'ora quasi sesta (Giov., 19, 14), ossia un poco prima del nostro mezzogiorno. Prevedendo di venire a una conclusione e di pronun­ziare la sentenza finale, Pilato fece impiantare fuori del Lithostrotos, alla presenza degli accusatori, il suo “tribunale” con il seggio cu­rule (§ 577); quindi uscì fuori conducendosi appresso l'imputato, e seduto che fu sul seggio curule riapri la discussione. Additando Gesu', egli esclamò: Ecco il vostro re! Che pensavano gli accusatori di que­sta regalità dell'imputato? Regalità politica certamente non era, co­me risultava indubbiamente al magistrato che se ne intendeva. Era regalità religiosa? Di ciò Pilato non s'intendeva e non voleva immi­schiarvisi. Gli rispondessero quindi gli accusatori. Le parole del procuratore sonarono per la folla come un sarcasmo; tutti risposero a gran voce: Togli via! Togli via! Crocifiggilo! Pilato insistette: Crocifiggerò il vostro re? La risposta questa volta fu da­ta, come espressamente ricorda l'evangelista testimone, dai sommi sacerdoti i quali gridarono: Non abbiamo re se non Cesare! Pilato si vide allora chiusa anche l'ultima strada. La regalità dell'im­putato non poteva essere presa suI serio né dal magistrato né dagli accusatori. Costoro, e precisamente i più insigni fra essi, non rico­noscevano alcuna regalità a Gesù e proclamavano di avere per re uni­co ed esclusivo il Cesare di Roma: evidentemente il rappresentante del Cesare di Roma non poteva esprimere un parere diverso, come per non urtare i sentimenti religiosi degli accusatori doveva croci­figgere quel falso re. Tale, a un dipresso, fu il ragionamento che Pilato dovette fare den­tro di sé: e allora, conclude l'evangelista, egli lo consegnò loro af­finché fosse crocifisso.

§ 596. Finalmente gli accusatori furono appagati; ma fu appagato anche un loro voto a cui li per li non dettero molto peso, sebbene storicamente avesse quasi tanta importanza quanto il loro preceden­te voto che il sangue di Gesù ricadesse sui lontani figli (§ 589). Per riuscire nel loro intento essi proclamarono di non aver re se non Cesare: e ciò proclamarono precisamente i sommi sacerdoti, i quali conoscevano le sacre Scritture ebraiche, e senza dubbio aveva­no letto ivi con quanta “gelosia” il Dio Jahvè teneva ad essere l'uni­co re di Israele e con quanta ritrosia aveva tollerato che fosse eletto un uomo come primo re israelita nella persona di Saul (I Samuele, 8); adesso invece quei rappresentanti ufficiali d'Israele, non solo non pensarono affatto al loro re divino, non solo non si rammentarono dei loro antichi re umani o dei loro superstiti discendenti, ma entu­siasticamente proclamarono loro re colui che si chiamava Tiberio Claudio Nerone Giulio Cesare, straniero di razza, incirconciso di car­ne, idolatra di spirito. Ebbene, furono appagati anche in questo: eb­bero effettivamente per re Tiberio e i suoi successori, i quali però esercitarono in pieno la loro sovranità solo un quarantennio più tar­di, allorché distrussero per sempre il Tempio, la città, e la nazione di cotesti loro sudditi. Lo storico odierno farà bene a riflettere anche su questi avvenimen­ti, tanto più che sono tali realtà storiche da non poter essere richia­mate in dubbio da nessuna teoria critica.
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