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CONOSCERE MEGLIO SE STESSI

Ultimo Aggiornamento: 31/05/2019 15:06
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02/07/2014 14:52
 
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La Scrittura ci manifesta con queste parole
la complessità del nostro essere:

Sal 63,7 ...un baratro è l'uomo e il suo cuore un abisso.

Sir 42,18 Egli (Dio) scruta l'abisso e il cuore e penetra tutti i loro segreti.

Accade spesso che credendo di conoscerci abbastanza facciamo delle cose o prendiamo delle decisioni che  successivamente si rivelano non essere state ben ponderate per scarsa conoscenza di noi stessi.

E allora, sulla base di alcuni elementi importanti, che lo studio dell'uomo ci mette a disposizione, possiamo apprendere alcune cose per conoscere meglio la nostra anima.

Ma più di ogni altra cosa dobbiamo desiderare che Dio stesso, il quale ci conosce perfettamente, ci aiuti a farci comprendere quanto siamo bisognosi della sua luce per illuminare i più reconditi recessi della nostra interiorità.


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 Innanzi tutto dobbiamo cercare il senso pieno della nostra vita.  Per fare questo occorre un ascolto di se stessi, un percorso di autocoscienza che ci permette di trovare con maggiore soddisfazione il nostro posto e il nostro spazio nella vita e nella complessità delle nostre reti di relazioni. Il professor Meluzzi anche oggi ci guida in un percorso attraverso la mente e il cuore, i desideri e le speranze tra Freud, Jung, Hillman e la consapevolezza che la felicità è abbandonarsi ad un progetto più grande.

Tre proposte 
 
    • la prima istanza: conoscersi per assecondarsi. Capire un po' cosa ci piace per farlo. Se non sappiamo cosa ci piace è difficile scoprire la propria vocazione alla felicità,

    • Accostare a questa considerazione una analisi razionale sulle propria vita, sulle proprie possibilità e capacità, non per una sorta di “castrazione” dei propri sogni, ma per evitare che il tutto non diventi una fonte di frustrazione come capita a tutto ciò che non è realizzabile

  • inserire tutto questo in una dinamica cervello, mente ed anima che se si è di fronte ad una vocazione realmente inserita in una dinamica d'amore altrimenti essa si trasforma in una mania oppure in una carriera. La vocazione è qualcosa che va al di là di tutto questo, ed è un percorso molto più pieno
sources: ALETEIA

[Modificato da Credente 09/05/2017 14:48]
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02/07/2014 14:56
 
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I segreti per migliorare l’autostima






La fiducia in se stessi si costruisce a piccoli passi, lo spiega il prof. Meluzzi

Come si conquista una vita piena? “A partire da un buon livello di autostima”, lo afferma il prof. Alessandro Meluzzi, psicologo e psichiatra, che sottolinea come questo sia “un processo che si costruisce a piccoli passi, a partire dall’educazione, primo seme di crescita della persona”. 

“L’autostima, che si traduce nella fiducia che abbiamo in noi stessi”, come spiega il professor Alessandro Meluzzi, “è una variante della nostra dimensione coscienziale, in cui esprimiamo un giudizio di valore su chi siamo noi, su qual è il nostro progetto di vita, il nostro divenire ed quindi è una sorta di dimensione di  autoriflessione, più o meno razionalmente fondata, con il quale non possiamo fare i conti dal punto di vista psicologico”.
 
Il professor Meluzzi identifica i tre passi indispensabili da cui partire per migliorare il livello di autostima e affrontare con maggiore serenità e sicurezza le sfide della nostra vita: 
 
    1. Valutare continuamente tutte le cose buone e positive che abbiamo realizzato nella nostra vita, che sono il grande patrimonio di ciascuna persona. E’ importante non focalizzarsi solo sulle cose negative.  
      Perché, per ogni amore infelice c’è stato probabilmente un amore felice, per ogni frustrazione, c’è sicuramente stato un successo.  Ma, le persone sono più portate a ricordare le sconfitte.
      Anche cristianamente, è importante imparare a “rendere grazie”, per quanto abbiamo ricevuto e dato nella nostra vita e di questo la nostra autostima, certamente ne gioverà.
    2. Porsi degli obiettivi realizzabili e concreti. Quindi, proporre a sé stessi non delle fughe megalomaniche, in delle realtà illusorie e non realizzabili, ma adottare sempre una strategia di piccoli passi concreti e possibili. E da ognuna di queste piccole realizzazioni ne conseguirà la più robusta iniezione di vitamine per la propria persona.
    3. L’autostima non è un fatto autoreferenziale, autocoscienziale, ma vive, nasce, si determina e si nutre in una rete di relazioni. Il primo fattore dell’autostima è di sapere con chi si vive, in quale realtà ci si vuole inserire. E’ importante circondarsi di persone che ci spingano non all’invidia, ma all’emulazione, che è anche un modo per migliorarsi. In fondo ciascuno assume la dimensione delle persone con cui si relaziona,   sia in senso agonistico che cooperativo: quindi una persona che vive ai livelli più bassi per sentirsi l’uomo con un solo occhio, che è re in un paese di ciechi, non è qualcosa che certamente aumenta l’autostima. Invece, mettersi in gioco, agire creativamente, insieme a personeche in qualche modo noi, originariamente, percepivamo più grandi e migliori di noi, è anche un modo per aumentare concretamente, e positivamente la propria autostima.

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02/07/2014 14:59
 
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 Chi nella vita non ha detto una piccola o grande bugia? Probabilmente, ciascuno di noi, a suo modo è, o è stato, un pò Pinocchio: quel burattino di legno uscito dalla fantasia del fiorentino Carlo Collodi, che incarna il bugiardo perfetto. 


Secondo uno studio condotto da Kang Lee dell’Università di Toronto, dire bugie nei bambini è sintomo di intelligenza, perché per raccontare falsità bisogna utilizzare dei processi cognitivi molto complessi. Si riconoscerebbe infatti che un bambino è molto intelligente quando all'età di due anni è già in grado di dire bugie. Generalmente, il 90% dei bambini di 4 anni mente, mentre sono il 100% dei ragazzi di 12 anni a dire bugie. Il problema però si pone quando la bugia diventa una modalità permanente di relazionarsi con gli altri. E, questo è un fenomeno sempre più diffuso nella nostra società.


Diventa quindi indispensabile capire come riconoscere se il nostro interlocutore ci sta mentendo. Il professor Alessandro Meluzzi ci indica due modi per difenderci dai bugiardi di professione 
    • Innanzitutto è necessario non farci abbindolare non accettare spiegazioni facili, solo in tal modo potremo farci un'opinione precisa e smascherare il bugiardol una volta scoperta la verità non iniziare una tragedia, ma cercare di instaurare una conversazione matura e pacata, perché ci sia una opportunità di conoscenza reciproca, sia che l'esito finale coincida con una rottura che con una riconciliazione
    • Scoperto che l'altro è un bugiardo, non farne una tragedia. Aver creduto a un bugia, non vuol dire essere degli sciocchi, cosa che molti pensano di se stessi in questi casi. Chi subisce una bugia non diventi una vittima del senso di colpa.

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02/07/2014 15:02
 
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Come affrontare il problema della depressione:

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02/07/2014 15:04
 
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Ostaggi dell'indecisione: mai più
Come imparare a scegliere ed essere protagonisti della nostra vita


Ogni giorno siamo chiamati a piccoli e grandi momenti di bivio, che ci permettono di disegnare la nostra vita e di metterci alla prova. Ma, se il dubbio e la riflessione favoriscono una scelta consapevole delle nostre azioni, cadere ostaggi dell'indecisione, essere incapaci di passare dalle parole ai fatti, traccheggiare tra una situazione e l'altra, può essere un campanello d'allarme di un disagio che fa da “inciampo” alla nostra capacità di essere protagonisti della nostra vita.

Il prof. Alessandro Meluzzi indica tre consigli di riflessione, per aiutare gli eterni indecisi a scegliere.

E, riprendendo le parole del grande autore americano Mark Twain, ricordiamoci che: "Tra vent’anni sarai più infastidito dalle cose che non hai fatto che da quelle che hai fatto. Perciò molla gli ormeggi, esci dal porto sicuro e lascia che il vento gonfi le tue vele. Esplora. Sogna. Scopri".
Cercare sempre di fare una adeguata ricognizione razionale delle scelte che si vogliono compiere per poterle valutare.

Non limitarsi all'uso della sola ragione: bisogna analizzare anche le emozioni che guidano le nostre scelte e i nostri desideri. Non tutto quello che siamo ci è “visibile” immediatamente.

Comprendere quali esperienze pregresse ci hanno portato nella nostra storia personale ad avere difficoltà con la scelta. Ricercare cosa possa aver generato un comportamento di tipo ossessivo: ad esempio, spesso un abbandono o una perdita possono essere causa di una “sterilizzazione” dei nostri sentimenti, causa di difficoltà nell'elaborazione di una scelta.
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02/07/2014 15:07
 
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Il SORRISO, come mezzo terapeutico

“Sorridere, ridere fa bene, con importanti ricadute anche sul nostro sistema immunitario”,

spiega il prof. Alessandro Meluzzi, psicoterapeuta e psichiatra di riconoscimento internazionale, nella terza puntata di “Appuntamento con lo psicologo”.
La capacità terapeutica del sorriso, aggiunge nel nuovo capitolo della “social serie” mandata in onda da Aleteia (www.aleteia.org), si sperimenta “soprattutto quando il sorriso, il ridere, non è soltanto un riso di comicità o di gioia, ma è quella capacità di rivedere la propria vita in una chiave diversa, profonda”.
Se da una parte è un bene sdrammatizzare la dimensione del dolore, avverte lo psicoterapeuta, “non è sano negare o rimuovere il dolore, perché questo diventerebbe un qualcosa di patologico”.

Il prof. Meluzzi indica tre spunti di riflessione, per cercare di trovare la forza per superare una pena, che sia di natura fisica o morale, con un sorriso:

1) Aiutare gli altri. Quando si soffre è bene mettersi ad aiutare gli altri, perché non c’è migliore maestro che il malato, che si mette in uno stato di apertura.

2) Non banalizzare il dolore, ma rispettando anche il sentimento tragico della vita.

3) Valorizzare il presente e il valore di regalare un sorriso. Perché, come diceva Madre Teresa di Calcutta “non sapremo mai quanto bene può fare un sorriso”.
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02/07/2014 15:10
 
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MATERNITA': ESPERIENZA CHE CAMBIA LA VITA

Mentre a Backingham Palace, si festeggia la nascita del piccolo royal baby, figlio dei duchi di Cambridge, William e Catherine (o Kate come e' più notoriamente conosciuta), nello stesso momento, in altre parti del mondo, molte altre donne, meno alla ribalta dei riflettori della cronaca, vivono con altrettanta intensità la loro esperienza di maternità.

Questa stato nella vita delle donne, rappresenta dal punto di vista psicologico e relazionale un evento dirompente quanto delicato, in cui il cambiamento “per amore”, è la parola chiave.

“L’amore materno”, spiega il prof. Alessandro Meluzzi, psicologo e psichiatra, “ è l’esperienza che nella vita della persona si può più accostare all’agàpe, all’amore che tutto dona senza pretendere nulla in cambio.  E questo trasforma il rapporto madre – figlio, come l’esperienza originaria “fontale”, di tutto quello che è l’esperienza dell’attacamento, del legame, della separazione, della stabilità, nella vita delle persone.

Gli uomini, anche molto vecchi, muoiono molto frequentemente invocando il nome della mamma, come se l’inizio e la fine della vita, fossero collegati da un mistero d’amore che rende la dimensione dell’umano strettamente connessa nella sua totalità con la dimensione della maternità. Quindi, quando parliamo di “maternità”, parliamo di un aspetto psicologico che va molto al di là della donna che aspetta un bambino”.
 
Il professor Meluzzi, ci indica tre consigli, per ricreare e vivere in modo sano i nuovi equilibri che con la maternità si vengono a creare in famiglia e nella coppia.
 
Primo: ricordarsi che la maternità è un evento da accogliere, quando si realizza, perchè non può essere la risultante di una semplice pianificazione. Non esiste un momento ottimale. L’importanza è nell’accoglienza, nell’accettazione della vita che nasce.
 
Secondo: la maternità può capitare anche quando non c'è una presenza paterna, che sarebbe invece auspicabile. L’ideale è vivere questo evento in coppia: dovrebbe essere questo un momento di grande condivisione tra l'uomo e la donna, di scoperta di un affetto rinnovato, fatto di tenerezza e di genitorialità.

Terzo: la maternità è il momento in cui è possibile ricostruire una retetransgenerazionale, che significa sapere di poter contare su una rete di rapporti solidi. E’ questa un’opportunità per ricostruire i legami con le generazioni precedenti, per inserire i bambini in un ambiente relazionale. Si impara ad essere madre dalla propria madre, anche superando eventuali errori tramite l'esperienza.  
 
Riprendendo alcuni pensieri di Susanna Tamaro, ricodiamo che la maternità: “È la forza, la caratteristica dello spirito materno, la forza di questo amore capace di abbattere ogni ostacolo, di andare sempre avanti, senza scavalcare, senza aver fretta, ma accompagnando. Questo amore – da cui nasce ogni altro amore – è l’amore materno, perché la maternità non è un’ennesima tecnica da applicare al nostro corpo ma qualcosa che ci trascende, che ci lega misteriosamente all’essenza del nostro esistere”.

 
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01/08/2014 14:35
 
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PSICOLOGIA DI COPPIA


Nel fidanzamento si guarda soprattutto a ciò che ci rende simili
 l’uno all’altro. Quasi non vogliamo vedere le differenze di sensibilità, valori, modi di esprimersi, come se avessimo paura che possano diventare un motivo per allontanarsi.

Invece col tempo queste differenze emergono, perché ci sono eccome, e non è giusto nasconderle, anzi bisogna imparare a scoprirle come una ricchezza: siamo una coppia – non un clone l’uno dell’altro – proprio perché siamo diversi!

Molti contrasti e molte difficoltà, al contrario, spesso vengono dal non riconoscere le diversità, e quindi dalla pretesa che l’altro sia identico a me: che pensi, senta, reagisca nello stesso modo.

Uomo e donna non sono uguali. Questo non è un discorso “di moda”, perché alcuni pensano che facendo così si tolga qualcosa alla donna, ma evidentemente danno per scontato che l’uomo sia “di più” e quindi la donna, rendendosi uguale all’uomo, abbia solo da guadagnarci. Ma invece uomo e donna hanno un’identica dignità – infinita -, uno stesso valore, una profonda parità… e nello stesso tempo sono profondamente diversi.

La differenza fra uomo e donna è alla radice dell’amore: è condizione della complementarietà, della ricchezza del dono reciproco. Queste differenze sono un tesoro da scoprire, da valorizzare. Però vanno capite anche in quanto possono creare equivoci che fanno soffrire molto ed inutilmente… e mandano anche i matrimoni in malora.

Ci soffermiamo specialmente su due campi in cui le differenze sono marcate ed hanno conseguenze importanti sulla vita di coppia:

1. l’importanza data alla famiglia e al lavoro professionale;
2. il modo di comunicare.
Non ci interessa, qui, distinguere fra caratteristiche «biologiche» (cioè proprie dell’essere maschio o femmina, indipendentemente dagli influssi culturali) e «acquisite» (cioè frutto dell’educazione ricevuta, delle convenzioni sociali ecc.), anche se in teoria è possibile fare questa distinzione.
 
  DONNA UOMO
Autocoscienza profondamente integrata (corpo + interiorità) 
molto viva la sfera emotiva
più “a strati”; prevale la razionalità o la volontà
Centri di interesse prevalente le persone (intervenire nei rapporti tra persone) le cose (migliorare la realtà oggettiva)
Modalità di approccio agli altri integralità:
donazione o conquista 
parità
intimità
confronto, competizione, definizione di ruoli gerarchici
Stile di comunicazione complesso 
indiretto
forte componente non verbale
semplice 
diretto
scarsa componente non verbale
Luogo fondante dell’
autostima
rapporto con partner e figli lavoro professionale

Realizzazione nel lavoro: Quello che fa soffrire un uomo sul lavoro sono le minacce al suo successo personale, perché l’uomo fonda normalmente la parte preponderante della propria autostima su una felice situazione professionale. L’uomo è come se dicesse: io ho un buon lavoro, sono stimato dai capi e dai colleghi, quindi sono una persona che vale, in gamba. Quando un uomo perde il lavoro o non è valorizzato sul suo lavoro, sente minacciata o distrutta in sé una parte fondamentale della propria personalità.

La famiglia: Ciò che per l’uomo è il lavoro, per la donna è la famiglia. Questo vale anche per gli uomini molto “casalinghi”, molto “paparoni”, e anche per le donne-manager o in generale per le lavoratrici con una vita professionale molto intensa. Anche quando la donna ha un lavoro molto importante, molto gratificante, non è primariamente su quello che lei basa la propria autostima: ovvero, la donna sa di valere indipendentemente dal successo sul piano professionale. La donna inconsciamente dice: ho costruito una buona famiglia, sono amata da mio marito e dai figli, 

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01/08/2014 14:39
 
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SEGUITO
...quindi
 sono una persona che vale. Se invece non si sente appoggiata dal marito, se non c’è intesa con lui, se le sembra che i progetti familiari (fatti insieme nel fidanzamento, ma spesso proiezione dei sogni femminili) siano stati in qualche modo traditi, se i figli non crescono bene, eccetera, sarà la donna a sentirsi colpita profondamente.

Il gioco e la politica: due aspetti forse marginali ma che aiutano a capire il diverso atteggiamento di uomo e donna verso la realtà. Tempo fa alla tv un’attrice diceva di invidiare il modo allegro, intenso, spensierato in cui gli uomini si mettono d’accordo fra amici per giocare a calcio. Gli uomini giocano più delle donne, anche nel lavoro: la matrice creativa del loro rapporto con le cose, quando è sana, è ludica. Questo si vede per esempio quando discutono fra loro di politica: che siano politici di professione o amici al bar, anche quando si arrabbiano o si azzuffano, si vede che in fondo si divertono: è come se parlassero di calcio o di regate veliche. La donna ha un approccio molto più serio, viscerale, quasi drammatico alla politica: non riesce a scherzarci su, perché per lei è evidente che tutto è finalizzato alla vita delle persone. Quindi il suo atteggiamento va più in profondità, alla verità delle cose, nel bene e nel male, mentre gli uomini stanno più in superficie e “ci soffrono” di meno.

Da qui, ad esempio, l’irritazione di una donna quando le sembra che il proprio uomo non s’indigni o non si entusiasmi quanto lei su questioni riguardanti i rapporti fra le persone. Attribuendo subito le differenti reazioni maschili ad uno scarso coinvolgimento del partner in ciò che la riguarda, la donna – sbagliando – è indotta a pensare che la relazione sia in crisi.
Bisogna soprattutto imparare a comunicare, perché andare d’accordo ed essere felici nella vita di coppia non è mai questione di fortuna ma sempre di cura, di un lavoro continuo, di molte attenzioni … che però non pesano, perché si fanno per amore.

La “riuscita” di un matrimonio non è questione di fortuna, di aver azzeccato la combinazione giusta, come siamo indotti a credere dalla TV. E’ frutto di molto impegno, molta intelligenza, molto cuore, non è magia (anche se è anche mistero, perché ci lavora dentro – insieme a noi – lo Spirito Santo).

Nella comunicazione, la donna trasmette una serie di messaggi impliciti, sottintesi, ma che lei crede che arrivino chiaramente; in fase “ricevente”, poi, applica la stessa decodifica. L’uomo invece è più diretto e semplice, e normalmente le sue parole non hanno sottintesi. Se lei dice “ho mal di testa” intende dire “ma perché non mi dai una mano?” mentre lui dicendo “ho mal di testa” intende solo dire che ha mal di testa!

Nel conflitto la donna cerca il contatto, tende ad attaccarsi, ad aggrapparsi (sia perché è più capace di gestire il conflitto stesso, sia perché teme l’abbandono); invece l’uomo cerca di sfuggire, di allontanarsi “finché non le è passata” (perché il conflitto in sé gli dà più disagio)

Nel fare una critica, la donna tende a trasformare il “tu hai fatto…” in “tu sei un…”. In altre parole, tende a trasformare la critica su uno specifico comportamento negativo in un giudizio globale, spesso drastico e ingiusto, sulla persona, che quindi si sente “marchiata” anche solo per un singolo errore, e si allontana con molta amarezza, sentendosi profondamente non-capito, non-accolto, rifiutato. La donna fa così perché ha un inconscio fortissimo bisogno che lui sia buono-bravo-affidabile al massimo, e ogni suo sbaglio suscita un (sempre inconscio) terrore di aver sposato “quello sbagliato”. La donna è molto esigente nel rapporto, quindi molto severa.

Si potrebbero dire molte altre cose. In pratica:
la donna deve ricordarsi che …
▪ …i suoi messaggi inespressi, silenzi eloquenti, sottili allusioni, abili sottintesi nonvengono assolutamente captati dal marito: lei deve imparare a parlare apertamente (e ci vuole tutta la vita, per impararlo);
▪ non deve lanciare giudizi sulla persona, ma criticare (quando necessario) il fatto sbagliato in sé: “per favore metti la tua roba da lavare nel cestone” anziché “sei proprio disordinato!”;
▪ ricordarsi che lui non sopporta il conflitto e quindi se sfugge non è necessariamente perché “ha la coda di paglia”, ma solo perché non sa gestire la situazione dal punto di vista emotivo;

e l’uomo deve ricordarsi che …
▪ … molto, molto spesso dovrà chiedersi: «Cosa sta cercando di farmi capire, dicendomi questo?», soprattutto quando a un certo punto lei non gli dice più niente!
▪ … dietro a molti giudizi duri e magari ingiusti che lei gli lancia quando è arrabbiata, ci può essere paura, vulnerabilità, e una forma paradossale ma molto profonda di amore, come se lei gli dicesse: «per me sei così importante che non posso sopportare che tu mi deluda»;

mentre a tutti e due conviene …
▪ imparare a non emettere (o meglio a sparare) giudizi finché si è arrabbiati, perché chi è arrabbiato non ha mai una visione obiettiva dei fatti, e diventa inevitabile ferirsi a vicenda inutilmente. Possono bastare 20-30 minuti per calmarsi un po’ e riprendere la discussione più sereni. Bisogna che quello meno agitato dei due trovi il coraggio di dire «Per ora è meglio lasciar perdere, però non lasciamo cadere la cosa: ne parleremo più tardi».
SPUNTI PER UN DIBATTITO
1. Ho notato fra noi due differenze in ciò che riteniamo più importante?
2. Ho notato nella mia relazione col partner differenze di stile comunicativo? Quali?
3. Ci è mai capitato che uno fraintendesse profondamente qualcosa che l’altro gli aveva detto? Cosa ci ha aiutato a capirci?
4. Quali sono le cause dei nostri litigi? Chi inizia? Come reagisce l’altro? Cosa ci aiuta a uscire dal momento di conflitto?

fonte Qui

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13/08/2014 10:48
 
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Sei inquieto e non hai pace?

I pensieri distruttivi e che si concentrano sempre sulla colpa sono quelli che ci danneggiano



I turbamenti non vengono da Dio, perché ci tolgono la pace e ci allontanano dalla preghiera. Quando i pensieri non sono costruttivi, è meglio metterli da parte, perché non diano fastidio, perché ci sono pensieri distruttivi che non ci aiutano a crescere e ci turbano.


Una persona mi diceva poco tempo fa: “L'altro giorno ho letto che i pensieri non pronunciati sono pensieri che pesano, che si incancreniscono, che ti rendono impacciato, ti immobilizzano e non lasciano spazio a pensieri nuovi”.

È necessario tirar via i pensieri che ci turbano, quelli non pronunciati, quelli che ci fanno del male, che sono oscuri e non danno luce. Quei pensieri che ci paragonano ad altri, che ci fanno vedere continuamente il male in noi e negli altri, che non ci lasciano essere costruttivi e si concentrano sempre sulla colpa. Giovanni Paolo II diceva che non sono i sentimenti che devono guidare il pensiero, ma il pensiero cosciente che deve funzionare come rampa di lancio dei sentimenti.

A volte crediamo che i sentimenti siano la prima cosa e non si possano controllare. Non è così. I pensieri precedono i sentimenti. I sentimenti di frustrazione in genere sono preceduti da pensieri negativi che ci sminuiscono.

L'unico modo per crescere è cambiare il nostro modo di pensare, il nostro atteggiamento interiore di fronte alle contrarietà, la nostra forma abituale di vedere le cose, soprattutto le croci di ogni giorno. Non siamo schiavi di un mare di sentimenti incontrollati che gestiscono a loro piacimento la barca della nostra vita. Non siamo schiavi della frustrazione che nasce dal cuore, della paura che non ci lascia rischiare, dello scoraggiamento che ci toglie la pace e ci confonde. Non siamo schiavi delle nostre passioni che ci vogliono portare da un lato all'altro senza ascoltare i desideri del cuore. Possiamo cambiare il nostro modo di pensare. Possiamo acquisire pensieri positivi che ci elevino e ci incoraggino, pensieri che ci permettano di osservare la vita con un altro sguardo.

L'altro giorno leggevo un aneddoto su un bambino in spiaggia. Visto che siamo in estate, pensiamo oggi a tanti bambini che costruiscono i propri castelli di sabbia sulla spiaggia.

La madre del bambino racconta: “Qualche giorno fa siamo andati in spiaggia con i nostri figli. Le nostre bambine correvano come pazze da una parte all'altra, costruendo castelli di sabbia, ma Eduardo, di quattro anni, è rimasto fermo con la sua paletta gigantesca e dopo un po' si è seduto sulla sabbia arrabbiato. Quando gli ho chiesto cosa succedeva ha risposto: 'Mamma, qui non posso costruire la mia casa, non c'è alcuna roccia, e io voglio costruire sopra la roccia'”.

Pensavo a questo bambino e al suo desiderio sincero e ingenuo di costruire la sua casa sulla roccia. Sapeva che Gesù vuole che facciamo così: non costruire sulla sabbia della spiaggia, ma sulla roccia che le onde non possono trascinare via. Investiamo tanto tempo per formarci intellettualmente, vogliamo imparare molte lingue e avere molti titoli con i quali poter affrontare la vita e giustificare il nostro valore, ma a volte possiamo trascurare la cosa più importante, la formazione del nostro interiore, la costruzione dei principi sui quali costruiamo la nostra vita.

Se costruiamo sulla sabbia perderemo la base salda quando nella nostra vita arriveranno le difficoltà. Come mi diceva una persona malata qualche giorno fa, “è facile offrire la vita a Dio quando tutto ci va bene, ma quando iniziano le difficoltà è più difficile rinnovare l'offerta”.

Se costruiamo la nostra vita sulla roccia, sarà possibile affrontare la vita con uno sguardo positivo, con la fiducia di saperci nelle mani di Dio.


da Aleteia
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25/11/2014 21:09
 
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Abelardo Eloisa amor d'amicizia amore cortese trovadori
 

L'armonia difficile e possibile di maschile e femminile


di padre Ermes Ronchi


Tu sei per me vivace melodia. Io sono per te cantus firmus.
Seren Kierkegaard
 
Nell'epoca in cui l'Occidente, tra il XII e il XIII secolo, «inventa» l'amore moderno, così come oggi è inteso, santi come Francesco e, prima ancora, Bernardo di Chiaravalle portano un contributo determinante alla comprensione dell'amore d'amicizia: quando nell'orizzonte della loro vita entrano, gloriosamente e gioiosamente, delle donne, sanno esprimere, come nessun altro, i riti dell'amore d'amicizia; lo sanno interpretare come bellezza ed enigma dell'uomo e della donna; sanno gustarlo con animo adulto e fanciullo insieme.

II XII secolo è «il secolo della dominanza femminile» (G. Duby). La Vergine entra maestosamente in tutte le cattedrali, scortata da uno stuolo di sante donne: la Maddalena, speranza delle peccatrici, trionfa a Vézelay; le tre Marie (Maria di Betania, Maria di Cleofa e Maria di Magdala) approdano, secondo la leggenda, proprio nella terra dell'amore redento che è la Provenza, e il loro culto prende salde radici in Francia. E mentre nel cristianesimo si delinea una svolta verso i valori femminili, nelle corti cavalleresche si comincia a esaltare la donna. «Il culto della Vergine e quello della dama hanno motivazioni diverse, di cui la storia comincia appena a intravedere pulsioni e sviluppi, che però coincidono» (G. Duby).

Tra il XII e il XIII secolo si verifica una delle più grandi conquiste nel campo dei diritti umani: per la prima volta nell'Europa cristiana viene richiesto ufficialmente il consenso della donna per il matrimonio. E' il tempo di Abelardo (1079-1142) ed Eloisa. I loro nomi, benché sinonimi della passione amorosa, di un'avventura dello spirito che reca i caratteri dell'universalità, sono oggi finalmente compresi fra quelli di uomini e donne che intrapresero un'opera spirituale concepita in comunione: l'opera monastica del Paracleto fondato da Abelardo e dove Eloisa divenne abbadessa. Non sul terreno dell'amore umano, ma su quello della fede e dell'amicizia conobbero infine la grazia di pacificarsi come creature complementari, pensate da Dio come aiuto reciproco. E' il tempo del fin amor, dell'amor cortese, della «gaia scienza» delle cose d'amore, il gaio saber cantato dai trovadori.

Nell'epoca in cui l'Occitania catara, sconfitta, intraprende la conquista estetica dell'Europa con le armi della poesia e della musica, sono i monaci cistercensi a possedere il più ampio vocabolario amoroso del Medioevo, e non i trovadori. Anzi, molti tra i trovadori provenzali e occitani concludono la loro ricerca d'amore diventando monaci cistercensi, componendo canti indirizzati non più alla propria dama, ma al cielo. Folco di Marsiglia si fa cistercense a Le Thoronet; Bernard di Ventadorn, il massimo rappresentante dell'arte trobadorica, diventa monaco nell'abbazia di Dalon. E si immerge nel «sole», come aveva cantato nel suo canzoniere. La lingua dei trovadori ha fame della sovrabbondanza d'amore: per questo l'inevitabile approdo per molti di loro è l'abbazia.

II trobar è cercare parole per dire, con immagini belle e metafore di luce, con la musica delle parole e la poesia della musica, che cosa sia l'arte di amare, «l'arte delle arti» secondo il monaco Guglielmo di Saint-Thierry. Bernardo di Chiaravalle, il polemista spietato contro Abelardo, il predicatore di crociate, è anche il «seduttore della Borgogna», come diceva lo stesso Guglielmo. Colui che scrive la Regola monastica per i monaci guerrieri, i temibili Cavalieri del Tempio, i più efficienti soldati dell'epoca, scrive anche struggenti lettere d'affetto a Ermengarda. Colui che fa venire duchi e regine al suo monastero, devia e allunga i suoi viaggi di ministero solo per poter incontrare la sua amica Ermengarda. Francesco d'Assisi morente chiama al suo fianco l'amica che non ti aspetteresti.

Iacopa, Melisanda, Ermengarda, Teresa la Grande hanno un posto nella storia dell'amore in Occidente, e non solo nella storia della spiritualità. Perché «andare per amici» partendo da santi e monaci? Dovrebbe essere come un limite, a priori. Invece i grandi monaci, i santi poeti, propongono un nuovo progetto di umanità. Da loro affiora una pienezza del vivere, la bellezza di un cuore plurale, dove umanità e santità coincidono. Senza quel filone di letteratura nata nei chiostri non sarebbero neanche pensabili lo Stil Novo, la più pregevole poesia amorosa, Dante stesso. Se l'amicizia tra uomo e donna - che sia al contempo appassionata, fedele e libera dal retaggio dell'atto sessuale - sembra quasi irrealizzabile, proprio in questo punto di connessione tra amore e sessualità i monaci poeti possono portare un annuncio alternativo, una parola che viene da altrove, all'uomo e alla donna d'oggi.

 
 
UNA TEOLOGIA DELLE PASSIONI
A differenza dei grandi uomini del Medioevo, oggi noi, gente delle cose di Dio, non sappiamo più comprendere e trattare le passioni, abbiamo dimenticato la «gaia scienza». I monaci poeti possedevano una vera teologia della passione amorosa, mentre noi ci accontentiamo di un'etica degli affetti, di una serie di prescrizioni. E' urgente che la Chiesa riprenda a trattare i temi vitali dell'uomo, come il grande dono dell'eros, una spiritualità che parli al cuore, il posto del corpo, l'aldilà, il rapporto con la natura e il cosmo, facendone una teologia, riconoscendoli come luogo teologico, e non riducendoli solo a una morale.

La vita non è statica, ma estatica. In cammino verso qualcosa che è al di là di sé. L'essere è estasi, è divenire, movimento, diffusione di sé, attrazione. La vita avanza per passioni, non per ingiunzioni. E la passione nasce da una bellezza. Acquisire fede è acquisire bellezza del vivere: è bello amare, sposarsi, generare, godere della luce e degli abbracci, gustare l'umile piacere di esistere; è bello essere di Dio e insieme del mondo; è bello attendere e stare con l'amico, perché tutto va verso un senso luminoso e positivo, nella finitezza e nell'infinito.

La vita non è etica, ma estetica. Nel suo senso letterale, estetico significa sensibile; il suo contrario non è il brutto, ma - letteralmente - l'anestetico, l'insensibile, l'immobile. Ogni vivente ha una vita affettiva, parte alta e forte della sua identità, necessaria per essere felice. Possiamo negarla ma non eliminarla. La dimensione degli affetti, fondamentale per l'equilibrio della persona, necessaria per vivere (se non amiamo, non viviamo: 1 Gv 3,14), e per vivere con gioia, è un autentico luogo teologico: l'amicizia rivela qualcosa di Dio.

Ogni vivente nasce come persona appassionata, e quel malinteso spirito religioso che ci spinge a negare le nostre passioni inaridisce le sorgenti della vita e rende molti cristiani dei predicatori di cose morte. Bisogna non tanto soffocare, ma convertire le passioni; non raggelare, ma liberare i desideri per desiderare Dio. Soltanto chi ama la vita è sensibile al richiamo del Vangelo: « sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza» (Gv 10, 10).

- Ami la vita?
- Sì, amo la vita.
- Allora hai fatto metà del cammino.
F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov


La santità non consiste in una passione spenta, ma in una passione convertita. Dio non è presente dove è assente il cuore.
E non ci interessa un divino che non faccia fiorire l'umano.

LA POLIFONIA DEL CUORE
Dio non copre tutte le gamme d'onda del nostro cuore. L’amore di Dio non risponde a tutte le dimensioni del cuore dell'uomo, neppure del cuore del monaco. C'è una estensione delle capacità amanti dell'uomo, alla quale Dio non pretende di essere unico, geloso sbocco.

Infatti Gesù offre tre oggetti all'amore, diversi e non in concorrenza tra loro: ama Dio, ama il tuo prossimo, come ami te stesso. La polifonia, appunto, dell'amore. «Amerai il Signore con tutto il cuore » (Dt 6,5) non significa: «Ama Dio solamente, riservando tutto il cuore a lui», ma: «Amalo con totalità, senza mezze misure». Così devi, allo stesso modo, amare il tuo amico: «con tutto il cuore», senza riserve. Ma non solo il tuo amico. La totalità del cuore non significa esclusività. «Non avrai altri dèi di fronte a me» (Es 20,3), chiede il Signore, ma non già: «Non avrai altro amore all'infuori di me». La vita ha come sua sorgente un cuore plurale. Polifonia è termine che nasce da un insieme di cose complete e non diminuite. Non è figlia di sottrazioni, ma di addizioni. L'espressione «polifonia dell'esistenza» è stata coniata da Bonhoeffer in una lettera a un amico:

II rischio implicito in ogni grande amore è quello di smarrire la polifonia dell'esistenza. Voglio dire che Dio e la sua eternità pretendono di essere amati dal profondo del cuore, senza però che l'amore terreno ne venga danneggiato o indebolito; qualcosa come un cantus firmus, in rapporto al quale le altre voci della vita formino il contrappunto. L'amore terreno, sponsale o amicale o familiare, segue la legge del contrappunto, i cui temi sono del tutto autonomi e tuttavia correlati al «canto fermo» (l'immagine musicale è mutuata da S. Kierkegaard: «Tu sei per me vivace melodia. lo sono per te cantus firmus»).

Scrive Bonhoeffer:

[...] anche nella Bibbia c'è infatti il Cantico dei cantici, e non si può veramente pensare amore più Caldo, sensuale, ardente di quello di cui esso parla (cfr. 7,6!); è davvero una bella cosa che appartenga alla Bibbia, alla faccia di tutti coloro per i quali lo specifico cristiano consisterebbe nella moderazione delle passioni (dove esiste mai una tale moderazione nell'Antico Testamento?). Dove il cantus firmus è chiaro e distinto, il contrappunto può dispiegarsi col massimo vigore. Per parlare con il Calcedonese, l'uno e l'altro sono « indivisi eppure distinti », come lo sono la natura divina e la natura umana di Cristo. La polifonia in musica non ci sarà magari così vicina e importante per il fatto di costituire il modello musicale di questo fatto cristologico e dunque anche della nostra vita christiana? […] Volevo pregarti di far risuonare con chiarezza nella vostra vita insieme il cantus firmus, e solo dopo ci sarà un suono pieno e completo, e il contrappunto si sentirà sempre sostenuto, non potrà deviare né distaccarsene, e resterà tuttavia qualcosa di specifico, di totale, di completamente autonomo. Solo quando ci troviamo in questa polifonia la vita è totale, e contemporaneamente sappiamo che non può succedere nulla di funesto finché viene mantenuto il cantus firmus. Forse diventerà più facile sopportare molte cose, in questi giorni di vita insieme e in quelli della separazione che probabilmente verranno. [...] abbandònati al cantus firmus.
Un rischio implicito in ogni grande amore è quello di smarrire, in nome appunto di un amore totalizzante, la polifonia dell'esistenza.


Tale smarrimento è stato una delle conseguenze più negative di un malinteso, deviante amore sacro, che si è tradotto - in troppi luoghi religiosi - in incapacità di amicizia, freddezza di rapporti, acidità delle relazioni, brinate sui sentimenti, distorsioni delle proposte affettive. E come immiserire la vita, perché all'infuori delle relazioni non esiste manifestazione dell'infinito. La cosa più importante dell'esistenza restano i rapporti umani. L'opposto della polifonia è la monotonia. Un termine che indica un venir meno, una vita vissuta (cantata) su di un tono solo, su di una sola dimensione, un solo amore: la monotonia come noia del vivere. Contro il rischio dell'impoverimento dell'esistenza, Clemente Rebora definisce la vita «una multanime fiamma». Una fiamma con molte anime, un'anima con molti fuochi, polifonia. Smarrendo il cuore plurale, la vita spirituale vegeta come frutto di sottrazioni, si disidrata nell'illusione di amare Dio perché non ama nessuno sulla terra!

D'altra parte, si potrà perdere la polifonia dell'esistere anche coltivando soltanto rapporti umani; nell'ansia del riconoscimento e del signi­ficare tutto per l'altro, senza la luce dei grandi pensieri e di un grande amore, si corre il rischio di arrivare a un culto monotono dell'umano. Tuttavia resta il lieto annuncio che la cosa più bella del mondo sono le creature. Al punto da sedurre con un centuplo chi ha lasciato tutto: questa moltiplicazione utopica ha come oggetto non tanto le cose materiali, quanto le relazioni  umane. Gesù non fa che ribadire che si tratta di fratelli, sorelle, figli, madri, padri: che si tratta di una proliferazione di affetti, di nuove creatu­re da amare, di nuovi oggetti d'amore! II centuplo promesso è una proliferazione d'amicizia. E, di passaggio, ci sono anche la ca­sa o i campi, ma nella debita proporzione, in un rapporto di frequenza di 2 a 4 (Mc 10,28-30) o di 2 a 5 (Mt 19,27-29).

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09/12/2014 21:43
 
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PénduloCome gestire l'insicurezza
 
I cambiamenti d'animo. Le circostanze che cambiano. La vita che ha tante svolte. L'unica cosa che resta immutabile è Dio in alto, che sostiene il pendolo della mia vita.
 
Le cose e le circostanze potranno cambiare, ma Egli non cambia, non smette di essere al centro. Posso dimenticarmi di Lui, ma Lui non si dimentica di me. Vorremmo imparare a confidare sempre.
 
Di fronte alla vita che scorre e cambia, dov'è l'equilibrio? Chi ci sostiene? Il punto di equilibrio è in Dio. Egli ci sostiene nei nostri cambiamenti e nelle nostre oscillazioni.
 
 
 
Ci sembra che la vita ci trascini, per questo abbiamo bisogno di ancorarci al profondo del cuore di Dio. Per questo sigliamo l'alleanza con Maria. Non perché siamo tranquilli e confortati nel Santuario, non perché ci sentiamo forti e sicuri.
 
Piuttosto, è perché abbiamo bisogno di abbandonarci a Colui che ci dà sicurezza. Solo Dio ci dà la sicurezza. Solo nel cuore di Gesù possiamo affrontare la vita e lottare.
 
Abbandono che ha a che vedere con un atto della volontà, del cuore. È necessario imparare ad essere bambini.
 
In qualche momento del cammino sperimentiamo l'abbandono. Ci sentiremo soli in mezzo al mondo, abbandonati. Toccheremo l'aridità del cammino. Dio non ci donerà la consolazione che cerchiamo.
 
Ci sentiremo buttati in mezzo agli uomini. Ci toglieranno le sicurezze sulle quali basiamo la nostra vita. Tremeremo di paura e di freddo. In quei momenti non ci resterà altro che alzare lo sguardo e confidare. Consegnare il cammino percorso.
 
La malattia, l'insuccesso, la vecchiaia ci metteranno in questa situazione di fragilità, di precarietà. E dovremo imparare a lasciare il timone della nostra barca.
 
La verità è che una persona non impara a confidare dalla mattina alla sera. Tutto nella vita richiede il suo tempo, serve un allenamento.
 
Dobbiamo imparare ad abbandonarci, a lasciare che la vita quotidiana non sia sotto il nostro controllo. Confidare di più in Dio e in Maria e meno nelle nostre forze, che un giorno ci abbandoneranno.
 
Dobbiamo imparare a tollerare la possibilità dell'insuccesso senza avere una paura profonda e lacerante. Sapere che non abbiamo il controllo sul presente e ancor meno sul futuro.
 
Quanto ci fa bene abbandonarci a quell'àncora che è Dio! Il pendolo della nostra vita prosegue il suo corso. Oscilla da un estremo all'altro. Non ci importa. L'unico elemento sicuro continua ad essere Dio.
 
Abbiamo paura, è vero, ma continuiamo a camminare. La paura fa parte del nostro bagaglio. Una persona molto malata scriveva:
 
“La realtà è che in questo mondo non sappiamo nulla, siamo ciechi e l'unica cosa che ci aiuta è la fede. Io devo averne molto poca perché ho molta paura e molta angoscia sempre, ogni giorno. In fondo penso di non credere al cielo, anche se sento Gesù e Maria molto vicini a me, regalandomi continuamente le loro carezze attraverso quello che ho e l'amore di tutti coloro che mi vogliono bene”.
 
Quanto è difficile mantenere una fede salda nei momenti di solitudine e malattia! Solo la fede in quel Dio che ci sostiene e ci ama può mantenerci in piedi. Quell'amore che si abbassa per sostenere la nostra vita ci esorta a lottare di più.
 
A volte le nostre forze verranno meno. Dovremo incontrare persone che ci aiutino a camminare quando non sappiamo dove guardare. Persone che ci indichino con la loro vita dove deve essere la nostra sicurezza.
 
Sono persone unite al cielo, che mostrano il cielo con le loro parole e i loro gesti. Il cielo è in loro. Sono gli angeli che ci parlano di Dio.
 
L'Avvento è il periodo in cui anche noi siamo quegli angeli che portano a Dio. Quegli angeli che con il loro sguardo e la loro vita rendono trasparente Gesù che si fa carne.
 
Viviamo in un mondo in cui intorno a noi non c'è sicurezza. Non possiamo confidare nelle cose che tocchiamo. Oggi abbiamo tutto, domani forse niente.
 
Per questo il cammino è imparare a vivere confidando in Dio, distaccati da tutto ciò che possediamo, liberati da tutto quello che ci lega. Consapevoli del fatto che la nostra vita è nelle sue mani.
 
Siamo figli di un Padre che ci cerca, che ci abbraccia, che ci sostiene, che si fa carne, uomo come noi. Un Padre che è vasaio e ci modella, crea un'opera d'arte con la nostra argilla.
 
Questo ci rallegra. Pensare che è Lui e non io a realizzare l'opera. Ma a volte ci fa male. L'argilla quando si indurisce si spezza. Quanto è difficile lasciarsi “fare” da Dio! Quanta insicurezza sul nostro cammino!
 
Pensavo all'insicurezza di Maria e Giuseppe mentre andavano a Betlemme. Innamorati. Pieni di Dio. Allegri e timorosi. Con la paura delle difficoltà. Custodendo il Figlio di Dio tra le loro povere mani.
 
Come non angosciarsi pensando alle proprie forze e alla missione così grande che avevano tra le mani! Hanno vissuto quello che spesso viviamo anche noi. Nel loro essere indifesi, hanno confidato.
 
Anche oggi l'uomo si sente indifeso davanti alla vita. Vive senza radici, povero, abbandonato, indigente. È pieno di paure e di angosce. Diceva padre Kentenich: “Quando sono buoni gli effetti della paura? Quando ci spingono a gettarci tra le braccia di Dio. La benedizione più grande che porta con sé la paura consiste in quello stimolo a cercare sicurezza e riparo su un piano superiore.
 
Non cercate tranquillità e sicurezza sullo stesso piano nel quale vivete, ma in uno superiore, in Dio. Questo è ciò che Dio vuole ed è questo il senso della paura.
 
Dicevamo che l'uomo è un essere pendolare, e per questo Dio vuole che cerchiamo e troviamo la serenità nell'alto, in Lui. Dio vuole che cerchiamo e troviamo riparo nella donazione semplice e filiale a Lui”.
 
Questa è la via. Non possiamo trovare rifugio e sicurezza nelle nostre forze. Non importa se abbiamo paura, se la paura ci porta a Dio. Bisogna andare più in alto. Arrivare in cima.

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26/04/2015 21:25
 
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I VARI LIVELLI DI BELLEZZA
Garrett Johnson



La bellezza è la gloria del corpo. Ci sono molti modi per percepirla, e troppo spesso non riusciamo ad afferrare i tipi di bellezza che, come tesori, sono sepolti nella parte più profonda. Molti, inoltre, ritengono la moralità cattolica la soppressione della bellezza piuttosto che una sua celebrazione. Questo non è aiutato dal fatto che l'idea della bellezza è stata distorta e consistentemente ridotta al significato “sexy”.

Come risultato, a volte non siamo sicuri di cosa fare con la bellezza o il sesso. Per semplificare le cose, potrebbe sembrare più semplice usare un approccio fondamentalmente morale, pratico: “Puoi fare questo e questo, ma non puoi fare questo e quest'altro”. Ancora una volta, le guide pratiche sono necessarie. Se non siamo capaci di trasmettere una visione molto più ricca e complessa della bellezza, molti – soprattutto i giovani – avranno l'impressione che Cristo sia venuto a costruire recinzioni più che a portarci alla pienezza di vita. Un mio buon amico una volta ha paragonato la visione della bellezza della nostra cultura a un pezzo di cioccolato del Dollar Store, mentre ciò che ci offre la fede è cioccolato Godiva (personalmente preferisco il cioccolato Lindt, ma avete capito il concetto). Il primo può essere buono, ma Dio ci ha dato così tanto di più!

Noi cristiani siamo tipi audaci: osiamo affermare che le caratteristiche corporee di una persona e i rapporti sessuali non sono il culmine della bellezza nella nostra vita. Lo facciamo, ad ogni modo, perché la bellezza ci affascina, e così anche la purezza, perché con occhi puri possiamo celebrare sia la bellezza della pelle che quella del cuore. Non possiamo fare nulla, però, se non piangere quando la seconda viene “divorziata” dalla prima.

Oggi vorrei quindi offrirvi qualche pensiero su 5 tipi di bellezza, ciascuno più profondo dell'altro. La mia idea è che i nostri occhi sono stati fatti per la bellezza, ma per tipi di bellezza che vanno molto più in profondità rispetto alle versioni sessualizzate (sessualizzate in un senso molto banale) che vediamo in genere nella pubblicità. Non dobbiamo limitarci a guardare questo tipo di bellezza. Dobbiamo cambiare il modo di guardare. Richiede sacrificio e determinazione, ma come ha detto un uomo saggio, la bellezza salverà il mondo.

Spero quindi di offrire qualche pensiero e delle immagini che aiuteranno a illuminare questa via molto positiva della bellezza che la nostra fede ci invita a percorrere. I pensieri sono basati sul libro di Xavier Lacroix Il corpo e lo spirito.



1. Bellezza plastica
In questo caso ci concentriamo sulle semplice armonia di forme e volumi. Il livello di piacere e attrazione che genera dipende dalla personalità, dalla storia e dal background culturale. Per le donne, ad esempio, una carnagione luminosa e senza macchie e cose come occhi grandi, naso piccolo e labbra piene potrebbero essere considerate tratti di un volto bellissimo. Questa bellezza è sicuramente degna di essere apprezzata ed è una parte importante e affascinante della nostra vita.

Alcuni dicono che questi tratti (simmetria, luminosità...) sono belli perché trasmettono segni biologici di salute e fertilità. Oggi, purtroppo, la bellezza e la vita sono state in molti casi divorziate. Se la vera bellezza non solo attira, ma trasforma anche chi ammira (e così un uomo che si innamora diventa un marito e un padre, cioè un donatore e non solo un ricettore), oggi facciamo passi da gigante per riempirci di questa attrazione, abbandonando qualsiasi trasformazione (pornografia, rapporti senza rischio...).

Detto ciò, questo tipo di bellezza è piuttosto simile a quello che troviamo in un oggetto d'arte, forse una statua. È una bellezza quasi anonima (una bellezza indipendente da un soggetto), senza storia, qualcosa di effimero che viene creato rapidamente con Photoshop o gli strumenti di un chirurgo plastico.








2. Grazia d'espressione sensibile


Avviene qualcosa di diverso quando guardiamo il volto in modo differente. Il volto è soprattutto manifestazione, rivelazione. È qualcosa che riceviamo. Più che la manifestazione, ad ogni modo, riceviamo l'espressione. Messa in termini semplici, in questo caso non stiamo percependo un oggetto, ma un soggetto.

La bellezza sensibile in questo caso risiede nella capacità di esprimere. Alcune persone sono più espressive di altre. Perché? È molto difficile da capire. Quel dono noto come carisma, quella gioia semplice di vivere che irradia intelligenza, umorismo, luce, agilità e che esercita una spinta quasi gravitazionale sugli altri è inafferrabile e misteriosa.

Alcuni volti sono semplicemente “benedetti”, e gli altri non possono fare a meno di apprezzare quel fascino. A volte, però, è solo quel fascino ad essere bello, e basare un rapporto soltanto su quelle basi può portare a conseguenze tragiche.



3. Irradiazione di una presenza

Procedendo lungo il nostro sentiero che porta alla profondità della bellezza, raggiungiamo un tipo di bellezza che va al di là di qualsiasi tipo di bellezza piacevole e plastica, o perfino del tipo armonioso di sensibilità. In questo caso, lo sguardo dell'ammiratore va oltre (senza ovviamente disprezzarla) la forma e il fascino per cogliere un tipo di evento in cui viene manifestata una presenza.

Forse la simmetria manca e abbondano le rughe. Forse l'espressione è riservata e timida. Ha poca importanza. Qui lo sguardo cade su una persona, su una presenza vivente, piena di dignità e mistero. Alcune presenze sembrano essere più luminose, altre più oscure. Ad ogni modo, qui percepiamo la bellezza di un soggetto, di una persona, di una storia. Le rughe non devono essere abolite, ma piuttosto celebrate e narrate. L'asimmetria diventa bellezza perché è la sua asimmetria, la sua storia, la bellezza di essere lei, quella donna che mi sta davanti.



4. Gloria nascosta


A volte una presenza può essere nascosta, velata dietro una mancanza di simmetria o addirittura dietro segni di deturpazione. Alcuni volti mostrano cicatrici, deformità, tumori... forse sono passati per l'inferno della guerra o le grinfie della violenza. Forse hanno avuto la semplice sfortuna di nascere così.

Uno sguardo banale potrebbe provare ripugnanza, avversione o disgusto. Chi soffre della miopia della superficialità non scoprirà mai la gloria presente in quel volto. Chi non riesce a vederla non ha mai sentito il Piccolo Principe dire: “Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L'essenziale è invisibile agli occhi”.

Ci sono comunque coloro che, pieni di una certa esuberanza che può derivare solo dalla vita spirituale, abbracciano questa gloria. È la gloria di essere unici, assolutamente unici. È la gloria di essere fatti a immagine e somiglianza di Dio. È la gloria la cui luce brilla anche più forte perché è nascosta agli occhi dei più. È una gloria segreta, una bellezza misteriosa, come quella del volto di Cristo sulla croce.



5. Volto trasfigurato



La bellezza finale presentata da Lacroix è quella di una gloria segreta che diventa sensibile. Le occasioni sono rare e sante. Non si può fare a meno di pensare a Mosè - “Aronne e tutti gli Israeliti, vedendo che la pelle del suo viso era raggiante, ebbero timore di avvicinarsi a lui” (Es 34, 30) - o a Cristo, davanti ai suoi apostoli, quando “il suo volto brillò come il sole” (Mt 17, 2).


Qui stiamo parlando di una bellezza quasi divina, come vediamo in 2 Cor 3, 18: “E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria”.


Anche se è raro, non è per forza impossibile vedere questo tipo di bellezza. Avete mai visto un certo tipo di luminosità sul volto di qualcuno? È quella fonte di gioia scintillante emessa da anziano monaco, o dalla giovane suora che ha appena preso i voti, o da una madre che ha appena partorito.


Percepire questo tipo di bellezza è un dono, ma è anche l'orizzonte di ciascuna delle nostre vite cristiane. In un certo senso, infatti, l'invito universale a fare apostolato, a condividere il messaggio di Cristo, significa che ciascuno di noi è chiamato a trasmettere questo tipo di bellezza ad altri.




Vorrei infine condividere una splendida citazione dal libro del vescovo Fulton Sheen Three to Get Married:


“La bellezza del corpo attira gli occhi, la bellezza dell'anima attira Dio. Gli uomini guardano il volto, Dio guarda l'anima. La splendida purezza di Maria deve essere stata tale da attirare meno gli occhi che l'anima degli uomini. Nessuno avrebbe amato la sua mente o la sua anima per la bellezza del suo corpo, ma avrebbe amato talmente la bellezza della sua anima da dimenticare quasi che aveva un corpo. È molto probabile che un occhio umano, guardando Maria, sarebbe stato a malapena consapevole del fatto che era bellissima agli occhi. Quando una persona è pazza di gioia per la bellezza del quadro, non fa molta attenzione alla cornice...



Il culto del corpo può essere inteso in due modi: uno che segue la moda del mondo, uno alla luce di Maria. Entrambi concordano sul fatto che il corpo dovrebbe essere bello. Uno lo abbellisce dall'esterno, l'altro dall'interno. Uno adorna il corpo perché possa essere attraente attraverso ciò che ha, l'altro con il riflesso delle virtù interne. È solo dopo che i nostri primi progenitori hanno peccato che si sono accorti di essere nudi. Quando l'anima ha perso le sue vesti di grazia, il corpo ha perso la sua capacità di attrazione. Meno è bella l'anima, più c'è bisogno di abbellire il corpo. L'eccessivo lusso nel vestire e lo sfoggio di bellezza esteriore sono segni della nudità dell'anima. “Tutta la gloria della figlia del re è interiore”.



I ciechi hanno sempre volti gentili, probabilmente perché sono meno materializzati dalle cose che gli altri uomini vedono. Una radiosità interna sembra brillare attraverso di loro. Chi è poco attraente per natura, come San Vincenzo de' Paoli, diventa molto attraente una volta che diventa pio, come nel suo caso. Gli unici ad essere realmente belli sono coloro che sembrano belli sotto la pioggia. Quel tipo di bellezza viene da dentro, non da fuori. È il prodotto della Virtù, non del trucco; è profondo non quanto la pelle, ma quanto l'anima”.



[Traduzione dall'inglese a cura di Roberta Sciamplicotti]
sources: CATHOLIC LINK

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01/02/2016 21:25
 
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Il vero significato del fidanzamento è spesso traviato dalle condizioni in cui vive la nostra società. La realtà è che è un periodo di tempo in cui le persone scoprono se sono veramente affini, un periodo in cui conoscere i gusti, le preferenze e le abitudini l’uno dell’altro. Il fidanzato e la fidanzata fanno di tutto per risultare graditi, ma ci sono vari aspetti che ci possono indicare quando le cose non vanno bene, quando non stanno prendendo la direzione giusta e può essere che si stia con la persona sbagliata.


Non sono un guru in tema di fidanzamento e relazioni interpersonali, ma in base a quello che ho vissuto e alle esperienze di amici e familiari posso elencare 12 segni che indicano quando bisogna porre un freno alla relazione o semplicemente metterle fine. Non sto dicendo che non vale la pena di provare e di cercare di maturare insieme, facendo tutto il possibile perché le cose vadano bene, ma bisogna discernere in quale momento la relazione deve prendere un’altra direzione se dopo averci provato le cose non vanno da nessuna parte e men che meno dove Dio vuole.


1. Quando dopo averci provato il tuo partner non condivide le tue convinzioni



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Può essere che quella donna o quell’uomo sia tutto ciò che hai sognato a livello fisico. È intelligente e i suoi scherzi sono divertenti, ma oltre a non credere in Dio si oppone a tutti i mandati della Chiesa. In questo caso la cosa più consigliabile è avvicinarlo a Dio, guidarlo e motivarlo, ma se la persona con cui stai (oltre a non essere credente) conduce una vita folle, ti allontana da Dio e non è molto interessata a cambiare, è meglio riflettere e prendere una decisione saggia chiedendo lumi allo Spirito Santo.


2. Quando non rispetta la tua religione


2

Quando sei davvero credente, devi anche essere coerente con ciò che permetti e ciò che non permetti. Il tuo partner non deve fare commenti offensivi o irrispettosi quando si tratta di religione. Come cattolico devi essere saldo, non permettere derisioni o scherzi “innocenti”, men che meno proibizioni che influiscano sul tuo rapporto con Dio. “Non andare a Messa”, “Non recitare il rosario”, “A che ti serve pregare tanto?” – tutto questo può portarti a dare più importanza a lui/lei che a Dio.


3. Quando ti manca di rispetto


3

Quando succede questo non c’è modo di fare marcia indietro. È come quando un piatto si rompe: possiamo riattaccare i pezzi, ma non sarà più come prima. Quando in una relazione il/la fidanzato/a insulta o usa costantemente parole e frasi aggressive, si perde il rispetto e si perde per sempre. Se permettiamo che questo succeda e rimaniamo in silenzio sarà molto difficile fare marcia indietro.


4. Quando gli/le piace mentire


4

Mentire può diventare un’abitudine. Alcune persone si fanno scudo con bugie “pietose”, ma non esistono, perché una bugia piccola porta a un’altra più grande. Le conseguenze della menzogna sono fatali, perché la verità viene sempre alla luce, prima o poi. Il rapporto di coppia dev’essere sempre trasparente. Se al tuo partner piace mentire, non te lo raccomando…


5. Quando promette, promette, promette ma non mantiene mai


5

Se sai che non puoi mantenere una promessa, semplicemente non farla. Giocare con i sentimenti degli altri non è sano, e finirai per incrinare la fiducia della persona che ami di più. Arriverà il giorno in cui forse prometterai davvero ma nessuno ormai ti crederà più.


6. Se dopo tutto ciò che avete vissuto è contrario/a al matrimonio


6

Da buoni cattolici conosciamo l’importanza del sacramento del matrimonio. Per arrivarci ovviamente bisogna essere prima fidanzati, e se il tuo partner fa costantemente commenti come “Il matrimonio è per gli sciocchi”, “Perché sposarci se stiamo bene?” o siete fidanzati da sette anni e lui/lei continua a dire “Non c’è fretta”, invitalo/a a parlare, non fare supposizioni e non nutrire false speranze. Questi temi non sono facili da affrontare, ma è importante discuterne e sapere con certezza cosa cerca il tuo partner nella relazione.


7. Quando ti è infedele e non cambia


7

Il fidanzamento è un impegno, un’unione volontaria, e quindi anche uscirne è volontario. Se il tuo partner ti è infedele o semplicemente ormai ti sei “abituato/a”, taglia una volta per tutte. Non c’è alcun motivo per cui tu debba consentirgli/le l’infedeltà costante. Se lui/lei non è sicuro/a di ciò che prova, potete mettere fine alla relazione prima di lasciarvi trasportare dalla tentazione. Quello che è accaduto una volta, se non gli si dà l’importanza dovuta e non lo si corregge, può ripetersi altre mille.


8. Quando non vuole conoscere i tuoi genitori


8

I genitori non sono forse stati una volta fidanzati? Il primo incontro genera aspettative da entrambe le parti, ma non c’è niente di meglio della verità. Se il tuo partner ti ama davvero non avrà mai problemi a conoscere le due persone più importanti della tua vita. Papà e mamma a volte possono renderci la vita impossibile, ma lo fanno sempre pensando al nostro bene.


9. Se non gli/le piace trascorrere del tempo con la tua famiglia o i tuoi amici


9

Chi è stato con te fin dall’inizio? Chi ti conosce in tutto? La tua famiglia e i tuoi amici. Non devi allontanarti, e men che meno abbandonarli su richiesta del partner. Chiaramente devono esserci spazio e tempo per ogni cosa separatamente, ma se al tuo partner non piace MAI l’idea di dover passare del tempo con la tua famiglia o i tuoi amici, avanti un altro!


10. Se le sue mete sono solo materiali


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Tutti sogniamo una bella casa grande, una carriera, una macchina… ma dobbiamo anche puntare alle mete spirituali: diventare esseri umani migliori, aiutare gli altri, essere il sostegno di chi ne ha più bisogno… Se il tuo partner parla solo di denaro, forse gli/le manca un po’ di umiltà. Il tuo dovere come fidanzato/a è fargli cambiare prospettiva. Puoi fargli/le vedere la realtà che vivono molte altre persone: quelle che soffrono, gli affamati o chi non ha dove rifugiarsi. Se nonostante questo le sue mete non cambiano e mira solo ad avere sempre di più, ripensa al tuo fidanzamento.


11. Quando sminuisce i tuoi successi


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Sminuire gli altri non ti rende una persona migliore. Il tuo partner dev’essere pronto a rallegrarsi dei tuoi trionfi. Non si tratta di competere per vedere chi arriva più lontano, ma di procedere insieme, mano nella mano, sulla stessa strada. Devi incoraggiare il tuo partner quando senti che la meta è molto lontana e contribuire alla costruzione dei suoi obiettivi. State insieme per aiutarvi, amarvi e sostenervi, non per umiliare l’altro o provare invidia per i suoi successi.


12. Se ti abbandona quando hai più bisogno di lui/lei


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I momenti di difficoltà sono perfetti per conoscere meglio il nostro partner. La morte di una persona cara, la malattia, l’instabilità economica, un insuccesso negli studi o nel lavoro sono opportunità per rafforzare il rapporto. Essere fidanzati non è facile quando si prende sul serio l’altra persona. Non si ama il partner solo nei momenti di gioia, ma anche in quelli di incertezza e tristezza. Se il tuo partner è il primo a scappare via quando ci sono delle difficoltà, non è un buon segno.


La maggior parte delle volte ci riempiamo di scuse per non porre fine a una relazione. Pensiamo che l’altra persona possa cambiare, che le cose migliorino o che accadrà un miracolo. Quello che non sappiamo è che la solitudine può essere il regalo perfetto che Dio ha preparato per noi, non solo per conoscere meglio noi stessi, ma per stare più vicino a Lui. Non dobbiamo aver paura di pregare, chiedendo a Dio che ci dia un uomo come San Giuseppe e una donna come Maria Santissima!


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31/03/2016 12:06
 
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IMPARIAMO A RICONOSCERE I SINTOMI DELLA DEPRESSIONE

La depressione è una malattia fisica. Dipende da uno squilibrio chimico dei neurotrasmettitori e richiede un adeguato supporto psichiatrico, dalla diagnosi al trattamento in sé. Senza queste misure, la depressione tende ad aggravarsi.

Oltre ai sintomi legati allo scoraggiamento, ci sono anche delle sensazione fisiche che possono indicare questo malessere: la pagina “Minha Vida” (Vita mia) ne ha citate alcune:

  1. Stanchezza o fatica

Woman at work

 

La psicologa e psicanalista Priscila Gasparini Fernandes, dell’Università di San Paolo (USP), spiega che “la mancanza di un’adeguata produzione di neurotrasmettitori quali la serotonina, noradrenalina e dopamina genera una grande prostrazione nei pazienti”, causando debolezza, stanchezza, scoraggiamento e mancanza di iniziativa per qualsiasi attività.


  1. Disturbi del sonno

picture of woman sleeping at work in funny pose - it

 

Il paziente dorme di più, cercando nel sonno una fuga dalla realtà, oppure non riesce a dormire, perché non è in grado di mettere da parte i problemi che l’hanno condotto alla depressione. Il risultato è un sonno di pessima qualità. Il paziente non si riposa sufficientemente e di conseguenza le sue attività ne risentono negativamente.


  1. Problemi di digestione

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La depressione comporta la diminuzione di alcuni neurotrasmettitori, quali la serotonina e la noradrenalina, che sono responsabili della modulazione del dolore e dell’equilibrio emotivo. Di conseguenza il paziente presenta una maggiore sensibilità a dolori gastrointestinali, molto comuni in caso di depressione.

  1. Cambio di appetito e di peso

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La depressione altera l’appetito, sia per la sua mancanza o per il suo eccesso. A seconda dell’individuo, si può perdere peso o ingrassare. È necessario monitorare il comportamento anomalo e cercare aiuto per avere diagnosi e trattamento adeguati. È possibile incorrere in anoressia o bulimia, cose diverse dalla depressione, che però potrebbero condurre ad essa.


  1. Mal di testa

Obama e progetto cervello umano

 

Chi è depresso accumula sintomi emotivi, frustrazioni, paure e insicurezze e le scarica sul corpo, somatizzandole, afferma la psicologa Priscila. Da qui l’emicrania. È un processo inconscio, su cui l’individuo non ha alcun controllo. È necessario cercare un aiuto professionale.


  1. Tensione sul collo e sulle spalle

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Come conseguenza della somatizzazione, il paziente depresso è in costante stato di allerta, ansia e nervosismo. Questo si riflette in una tensione muscolare, principalmente sul collo e sulle spalle.


  1. Dolori generali

A Mans Perspective on the Pain of Infertility Stu Willis - it

 

Tutto il corpo presenta dolori, ma ad essere maggiormente colpiti sono la schiena e il petto. La stanchezza tipica della depressione compromette la postura fisica del paziente, peggiorando la tensione e i dolori muscolari. La mancanza di attività fisica rende il quadro generale ancora più pesante.


  1. Basse difese immunitarie

A woman with a doctor

La persona affetta da depressione si sente male, sia fisicamente che mentalmente, e questo può interferire con il sistema immunitario. Se non si sta bene emotivamente può esserci un rilascio incontrollato di ormoni, il che ha effetti sulle cellule di difesa.

Sei depresso? Qui una preghiera che può aiutarti





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03/04/2016 17:59
 
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I TRAUMI POSSONO AIUTARCI A CRESCERE ?

La famiglia Kushner ha vissuto una tragedia quando il fratellino di 11 anni è stato rapito e ucciso in un piccolo paesino di campagna della Florida.

Anche se Kushner aveva solo quattro anni all’epoca, crescendo ha fatto fatica a comprendere come i genitori abbiano potuto sopportare una cosa simile, dando a lui e all’altro fratello delle vite normali e felici, mentre erano ancora tormentati dalla memoria di qualcosa di così orribile.

L’articolo tratta dell’affascinante idea della crescita post-traumatica, termine usato per descrivere come il senso della vita possa diventare più profondo per coloro che hanno sofferto un’esperienza traumatica.

Questa profondità può portare a sperimentare “relazioni migliori, maggiore accettazione di sé e un più alto apprezzamento della vita”.

Il termine rimanda all’eroica e durevole fiamma dello spirito umano, ma conferma anche le verità per cui, come cattolici, abbiamo lottato per comprendere e per fare proprie in ciascuna nuova generazione, per oltre 2000 anni. Come ci dice solennemente Gesù, la corona di spine della sofferenza, se noi lo permettiamo, può condurci a una vita più abbondante.

“In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto”. (Giovanni 12:24)

È interessante che da una prospettiva squisitamente psicologica e laica, la paradossale affermazione di Gesù si rivela essere vera. Se rispondiamo alla grande sofferenza nella nostra vita attraverso un’apertura alla grazia, le nostre vite possono acquisire un significato più profondo. L’articolo mostra il tipo di frutti che sperimentano coloro “che hanno avuto un approccio positivo alla separazione, ad una tragedia e alla morte”:

“Queste persone meravigliose”, come le chiama nell’articolo, “che hanno sofferto una grande tribolazione, sono aperte e non stanno sulla difensiva, mostrano intensità, un senso di scopo, nelle loro vite c’è passione… Mostrano saggezza, serenità, integrità, un approccio stranamente spensierato e ottimistico”.

Il Cardinale Christoph Schönborn, nel suo libro Happiness, God and Man, ci ricorda che quando perdiamo qualcosa e siamo nella più totale tristezza e angoscia, abbiamo ancora il potere di scegliere il sentiero che ci conduce alla vita.

“L’uomo diventa triste quando perde qualcosa a cui tiene: qualche caro, la salute, beni materiali, la reputazione, la pace mentale, e così via. Eppure bisogna scegliere tra due sentieri: quello che ci fa chiudere in noi stessi e il sentiero che conduce alla vita”.

Queste parole aiutano poco se paragonate alla nostra personale sofferenza. Se ci succede qualcosa di traumatico e di devastante, soltanto molto tempo e la grazia possono farci accettare quanto successo e farci apprezzare maggiormente la vita, invece di farci sprofondare nella disperazione. Una spiga di grano porta frutto gradu

La famiglia Kushner ha vissuto una tragedia quando il fratellino di 11 anni è stato rapito e ucciso in un piccolo paesino di campagna della Florida.

Anche se Kushner aveva solo quattro anni all’epoca, crescendo ha fatto fatica a comprendere come i genitori abbiano potuto sopportare una cosa simile, dando a lui e all’altro fratello delle vite normali e felici, mentre erano ancora tormentati dalla memoria di qualcosa di così orribile.

L’articolo tratta dell’affascinante idea della crescita post-traumatica, termine usato per descrivere come il senso della vita possa diventare più profondo per coloro che hanno sofferto un’esperienza traumatica.

Questa profondità può portare a sperimentare “relazioni migliori, maggiore accettazione di sé e un più alto apprezzamento della vita”.

Il termine rimanda all’eroica e durevole fiamma dello spirito umano, ma conferma anche le verità per cui, come cattolici, abbiamo lottato per comprendere e per fare proprie in ciascuna nuova generazione, per oltre 2000 anni. Come ci dice solennemente Gesù, la corona di spine della sofferenza, se noi lo permettiamo, può condurci a una vita più abbondante.

“In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto”. (Giovanni 12:24)

È interessante che da una prospettiva squisitamente psicologica e laica, la paradossale affermazione di Gesù si rivela essere vera. Se rispondiamo alla grande sofferenza nella nostra vita attraverso un’apertura alla grazia, le nostre vite possono acquisire un significato più profondo. L’articolo mostra il tipo di frutti che sperimentano coloro “che hanno avuto un approccio positivo alla separazione, ad una tragedia e alla morte”:

“Queste persone meravigliose”, come le chiama nell’articolo, “che hanno sofferto una grande tribolazione, sono aperte e non stanno sulla difensiva, mostrano intensità, un senso di scopo, nelle loro vite c’è passione… Mostrano saggezza, serenità, integrità, un approccio stranamente spensierato e ottimistico”.

Il Cardinale Christoph Schönborn, nel suo libro Happiness, God and Man, ci ricorda che quando perdiamo qualcosa e siamo nella più totale tristezza e angoscia, abbiamo ancora il potere di scegliere il sentiero che ci conduce alla vita.

“L’uomo diventa triste quando perde qualcosa a cui tiene: qualche caro, la salute, beni materiali, la reputazione, la pace mentale, e così via. Eppure bisogna scegliere tra due sentieri: quello che ci fa chiudere in noi stessi e il sentiero che conduce alla vita”.

Queste parole aiutano poco se paragonate alla nostra personale sofferenza. Se ci succede qualcosa di traumatico e di devastante, soltanto molto tempo e la grazia possono farci accettare quanto successo e farci apprezzare maggiormente la vita, invece di farci sprofondare nella disperazione. Una spiga di grano porta frutto gradualmente e solo dopo molto tempo.

Recentemente, e del tutto inaspettatamente, un’amica dei miei genitori ha perso il marito. Era un uomo di appena 50 anni, sano, gentile, gran lavoratore. La sua famiglia vive vicino ai miei genitori e quando lo scorso Natale ero di visita, lo vedevo tagliare il prato o ritirare la posta. Solo qualche settimana più tardi, per delle serie e improvvise complicazioni di salute, era attaccato a un respiratore. E qualche settimana dopo è scomparso, lasciando la sua amata moglie e le due giovani figlie.

Quando ci penso e prego per lui, per la moglie e per le figlie, faccio davvero fatica a comprendere la ragione di tale tragedia. Che parole di conforto abbiamo per questa povera donna e per le sue figlie? Come può tanta sofferenza portare vita ed abbondanza?

Non c’è una risposta semplice.

Non spetta a noi sapere come Dio opererà in questa sofferenza. Dobbiamo solo sapere che Dio – Padre di ogni misericordia – vuole di continuo spargete la sua vita abbondante su di noi. Come ci dice Gesù, “beati coloro che sono in cordoglio”, perché Dio porterà via ogni lacrima. E non solo in cielo ma anche in questa vita Lui ci conforterà in ogni sofferenza, portandoci a vivere in modo più profondo.

Anche se potremmo avere ferite che non si rimargineranno pienamente in questa vita, Dio le userà per fare cose grandiose e miracolose, portando i nostri cuori a essere più simili al suo.

Pensando agli amici dei miei genitori, posso solo pensare che Gesù fa cordoglio con loro come ha fatto per Lazzaro. Anche se ora piangono, un giorno conosceranno l’amore curativo di Dio che li abbraccerà, asciugherà le loro ferite e li porterà nel posto che ha preparato per loro per l’Eternità.

Recentemente, e del tutto inaspettatamente, un’amica dei miei genitori ha perso il marito. Era un uomo di appena 50 anni, sano, gentile, gran lavoratore. La sua famiglia vive vicino ai miei genitori e quando lo scorso Natale ero di visita, lo vedevo tagliare il prato o ritirare la posta. Solo qualche settimana più tardi, per delle serie e improvvise complicazioni di salute, era attaccato a un respiratore. E qualche settimana dopo è scomparso, lasciando la sua amata moglie e le due giovani figlie.

Quando ci penso e prego per lui, per la moglie e per le figlie, faccio davvero fatica a comprendere la ragione di tale tragedia. Che parole di conforto abbiamo per questa povera donna e per le sue figlie? Come può tanta sofferenza portare vita ed abbondanza?

Non c’è una risposta semplice.

Non spetta a noi sapere come Dio opererà in questa sofferenza. Dobbiamo solo sapere che Dio – Padre di ogni misericordia – vuole di continuo spargete la sua vita abbondante su di noi. Come ci dice Gesù, “beati coloro che sono in cordoglio”, perché Dio porterà via ogni lacrima. E non solo in cielo ma anche in questa vita Lui ci conforterà in ogni sofferenza, portandoci a vivere in modo più profondo.

Anche se potremmo avere ferite che non si rimargineranno pienamente in questa vita, Dio le userà per fare cose grandiose e miracolose, portando i nostri cuori a essere più simili al suo.

Pensando agli amici dei miei genitori, posso solo pensare che Gesù fa cordoglio con loro come ha fatto per Lazzaro. Anche se ora piangono, un giorno conosceranno l’amore curativo di Dio che li abbraccerà, asciugherà le loro ferite e li porterà nel posto che ha preparato per loro per l’Eternità.

 

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15/04/2016 22:00
 
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Old happy couple looking at their photo album


I matrimoni duraturi dipendono da due fattori




Nonostante l’elevato numero di divorzi, le persone continuano a sposarsi. Solo nel “mese delle spose” (giugno), negli Stati Uniti la media è di 13.000 matrimoni.

Molte delle migliaia di coppie che iniziano una vita insieme non saranno però capaci di mantenere la propria relazione per molto tempo.

Tenendo in considerazione tutto questo, John e Julie Gottman, una coppia di psicologi, ha condotto un ampio studio sulle coppie per comprendere i motivi principali del successo o del fallimento del loro matrimonio.

Le conclusioni dello studio possono sembrare ovvie, ma servono da avvertimento per aspetti che meritano più attenzione nel rapporto.

Gli psicologi hanno montato il cosiddetto “Laboratorio dell’Amore” e vi hanno portato 130 coppie. Ogni coppia ha trascorso una giornata nel laboratorio, svolgendo i compiti quotidiani – mangiare, cucinare, pulire -, mentre gli esperti osservavano.

Alla fine dello studio, le coppie sono state classificate in due gruppi: “maestri” e “disastri”.

Dopo sei anni, le coppie sono state richiamate dagli psicologi. I “maestri” continuavano a stare insieme e ad essere felici, i “disastri” non erano più sposati, o lo erano ancora ma erano infelici.

Quali sono state le conclusioni dello studio?

Domande come “Hai visto quella notizia?” possono essere l’opportunità per far sì che un coniuge dimostri più interesse per i gusti dell’altro, agendo con generosità e bontà, il che porta a creare un maggior legame tra i due.

Ignorare ciò che ha detto l’altro, rispondere con durezza, disinteresse o indifferenza può mostrare molto più di mancanza di tempo o stanchezza. Per questo, bisogna curare con attenzione tutti questi dettagli.

Abbiamo sempre la possibilità di scegliere di rispondere con generosità o in modo brusco. I “maestri” dimostravano interesse per le necessità emotive dell’altro, cercavano di creare un’atmosfera di ammirazione e gratitudine per le cose che l’altro faceva.

Le coppie “disastro” costruivano un ambiente basato sull’insoddisfazione, sottolineando sempre gli errori dell’altro, ciò che l’altro non aveva fatto, trascurando le qualità del coniuge.

Generosità e bontà possono quindi salvare un matrimonio.

Non si tratta soltanto di fare una bella sorpresa il giorno dell’anniversario di matrimonio. Ciò che ha dimostrato lo studio implica l’applicazione di piccole dosi di generosità e bontà nella vita quotidiana: gentilezze, complimenti, concentrarsi su ciò che l’altro ha fatto di positivo e non di negativo.

Puoi lodare ciò che il tuo coniuge ha fatto di buono o lamentarti per ciò che non ha fatto. A te la scelta. E il tuo matrimonio può dipendere da questo.

Gli psicologi Gottman hanno studiato le coppie con elettrodi durante la loro intervista e hanno verificato che i coniugi “disastri” erano fisicamente stressati quando conversavano tra loro; fisiologicamente, era come se si trovassero in mezzo a una battaglia. I “maestri” mostravano invece passività, relax e tranquillità nelle loro conversazioni.

E voi, a quale gruppo volete appartenere? C’è ancora tempo per applicare questi suggerimenti semplici e pratici alla vostra vita quotidiana!


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05/05/2017 13:43
 
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7 segni che indicano una “depressione nascosta”

Attenzione: qualcuno della vostra famiglia (o anche voi stessi) potrebbe nascondere la depressione, o non sapere nemmeno di averla

Ci sono persone che vivono con una “depressione mascherata” o “nascosta”: cercano di nascondere la propria depressione agli altri o non sanno nemmeno (o non vogliono ammettere) di esserne affetti.

Ciò avviene perché esistono ancora idee vaghe o sbagliate su questa malattia dai sintomi complessi, che variano da persona a persona. Non è sempre facile identificare la presenza della depressione in familiari, amici, colleghi o perfino in noi stessi. La mancanza di conoscenza e i preconcetti riguardo alla depressione stanno diminuendo, è vero, ma continuano ad essere piuttosto frequenti.

Anche nei casi in cui la sofferenza sembra “invisibile”, lascia dei “segnali” che possiamo captare se stiamo attenti.

Ecco 7 segni del fatto che una persona può avere una “depressione nascosta”:

1. La persona depressa può non sembrarlo, ma è costantemente stanca

Molti pensano che le persone affette da depressione non vogliano uscire dalla propria stanza, siano trascurate e sempre tristi, ma la depressione non presenta gli stessi sintomi in tutti. Molti malati riescono a mostrare buone condizioni mentali ma sotto sotto sono esausti. Un effetto piuttosto comune della depressione è infatti una stanchezza permanente – e se la malattia non viene diagnosticata in modo adeguato neanche il malato sa che la causa di quella stanchezza è la depressione. Forse pensa di lavorare troppo, o si incolpa sentendosi pigro. Una diagnosi seria è fondamentale per iniziare a risolvere il quadro depressivo.

2. La persona depressa si può irritare facilmente

È ancora comune l’idea che una persona affetta da depressione sia silenziosa, musona e apatica. Per questo molti non immaginano che la persona depressa si possa irritare, ma è così, e anzi accade spesso, visto che deve continuare a far fronte alle responsabilità quotidiane nonostante la mancanza di energie, il che esaurisce. Visto che oggi tutti sembrano sempre di corsa e impazienti, è comune che le persone non interpretino questa irritabilità come un sintomo della depressione, ed è per questo che bisogna stare attenti, perché l’irritabilità può proprio essere un sintomo della malattia.

3. La persona depressa può sembrare indifferente all’affetto altrui

La persona affetta da depressione non si sente sempre triste. Spesso semplicemente non prova nulla. Sono relativamente comuni i resoconti di pazienti che si sentono freddi, indifferenti, “intorpiditi”, e in questo quadro non reagiscono alle parole e agli atti d’affetto. È un altro segnale che richiede attenzione.

4. La persona depressa può abbandonare le attività che prima amava

Il disinteresse per le attività che prima piacevano è un segno frequente della depressione, visto che la malattia esaurisce le energie fisiche e mentali, riducendo drasticamente la capacità di provare soddisfazione. Se non c’è una spiegazione plausibile al disinteresse crescente della persona per le attività che prima amava, questo fatto può essere un sintomo importante della depressione.

5. La persona depressa può assumere abitudini alimentari dannose

L’alterazione delle abitudini alimentari può essere un effetto collaterale della trascuratezza nei confronti della propria vita o anche un tentativo di far fronte alla malattia. Può essere che l’eccesso di cibo sia un modo per provare qualche piacere, ad esempio, o che la perdita dell’appetito sia un segno del fatto che anche l’atto di mangiare è diventato pesante. È comune pensare che le cattive abitudini alimentari di qualcuno siano dovute a una mera mancanza di disciplina, ma possono anche essere segnali rilevanti di depressione clinica.

6. La persona depressa si può sentire pressata oltre quello che le permettono le forze

Una persona depressa non ha le stesse disposizioni di chi è mentalmente e fisicamente sano. Esigere da lei quello che non è capace di fare serve solo a peggiorare la sua situazione, perché la cosa può turbarla e frustrarla quanto ferirla e farla vergognare. Se è sempre importante essere pazienti e comprensivi con tutte le persone nella vita quotidiana, è ancor più importante avere la sensibilità di mantenere la pazienza e la comprensione nei confronti di chi affronta il peso della depressione. Queste persone non riescono davvero a fare le cose con la stessa disposizione di chi non è affetto da questa malattia. È una malattia reale e richiede una cura – e molta pazienza.

7. La persona depressa può avere grandi oscillazioni di umore

La depressione può essere piena di alti e bassi, alternando “giorni sì” e “giorni no” apparentemente senza una grande logica. In genere non si percepisce una motivazione specifica per le variazioni di umore, che possono essere una forma di manifestazione della depressione. È importante prestare particolare attenzione alla falsa impressione che la persona sia guarita quando passa per una serie di “giorni sì”. Il quadro potrà cambiare all’improvviso, rafforzando la necessità di aiuto specializzato.

Cosa fare se mi sono identificato in questi sintomi?

Se avete identificato voi stessi o una persona che conoscete in questi sintomi e avete concluso che possa esserci una depressione, non spaventatevi. La depressione è piuttosto comune nella nostra società ed è perfettamente curabile. Non ricorrete all’automedicazione: è fondamentale cercare un orientamento medico specializzato e responsabile perché la cura abbia successo. Provate a consultare uno psicologo per capire meglio cosa sta accadendo. Se necessario, vi farà rivolgere a uno psichiatra, che è il medico specializzato nei trattamenti con una medicazione appropriata per riequilibrare il funzionamento del sistema nervoso. Insieme al trattamento, nutrite la vostra mente e la vostra anima con motivazione e fede, sapendo che questa perdita di energia può essere superata. La vostra determinazione a vincere e a seguire la cura con impegno, anche quando non vi va di fare nulla, è essenziale per sconfiggere la depressione!
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11/07/2017 18:57
 
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Vorrei essere più semplice per essere capace di intuire tutto e meravigliarmi


Guardo sempre le cose che accadono nella mia vita da un solo punto di vista, il mio. Guardo tutto con i miei occhi. Lo osservo, lo analizzo, lo interpreto. Quante volte credo che sia l’unico punto di vista possibile! Mi sembra che il mio modo di vedere le cose sia l’unico vero, e non accetto altre interpretazioni possibili di uno stesso fatto.


Condanno o approvo in base al mio cuore. Alla mia storia personale. Al mio modo di essere e di guardare. A volte non è uno sguardo semplice. È contaminato dai miei pregiudizi e dalle opinioni che mi sono formato in precedenza. Non mi sembra che gli altri possano avere una visione più chiara della mia.


Credo che sarebbe bene accettare almeno che possano esserci altri punti di vista su uno stesso fatto. Mi sembra una menzogna ma è la verità. Ci sono altri modi di vedere la vita. Il mio è l’unico valido? No. Ma a volte mi erigo a criterio assoluto di verità.


Il mio modo di vedere le cose sembra oggettivo, mentre quello degli altri non lo è. Penso che sbaglino. Quanto mi farebbe bene aprirmi a quanto c’è di vero nel modo altrui di vedere le cose!


C’è molta verità nascosta negli altri punti di vista. In chi vede la realtà in base al proprio cuore. Quando non coincide con il mio mi costa accettarlo. Ricostruisco i fatti accaduti e creo un film nella mia testa. È così, mi dico, e non accetto correzioni. Non ci sono errori.


Forse non so davvero se è reale tutto ciò che vedo e se è come lo interpreto. È solo il mio modo di guardare la realtà. Il mio modo parziale e soggettivo di giudicarla. I miei occhi vedono solo una parte e perdono i dettagli. Mi manca il complemento di chi mi circonda. Il tutto si forma con l’apporto degli altri.


Giorni fa ho visto un film, Mi primer amor. È la storia di due ragazzi. Tutto inizia quando si conoscono da bambini. Nel prosieguo della pellicola ciascuno racconta la sua parte, il suo modo di vedere la stessa realtà. I due punti di vista si sovrappongono e si completano, e mi mostrano una versione più completa dei fatti. Quello che vedono, quello che pensano vedendo come sono le cose, quello che interpretano, quello che giudicano.


È bello vedere angolazioni e posizioni tanto diverse. Spesso non voglio sapere cosa pensano gli altri. Non voglio accettare il modo in cui vedono la realtà. Impongo la dittatura del mio punto di vista. Credo che quello che penso io sia assoluto. E forse ci sono elementi che non conosco. Una parte invisibile della realtà mi sfugge.


Il padre della protagonista le dice un giorno: “Un dipinto è più della somma delle sue parti. Una mucca di per sé è solo una mucca, un prato di per sé è solo pascolo e fiori, come il sole che filtra tra gli alberi è solo un raggio di luce, ma unisci tutto e otterrai una magia”. “È stato in un giorno come questo che la frase di mio padre sul fatto che una cosa era più della somma delle sue parti si è spostata dalla mia testa al mio cuore”, dice lei.


E allora sorge una domanda: “Il tutto di una persona è più o meno della somma delle sue parti?” Non è facile rispondere. “La gente a volte è meno della somma delle parti”. E questo è triste.


A volte mi soffermo solo sulle parti di una persona. Su qualche aspetto. Mi concentro su quello che mi piace e su quello che non mi piace. Ma non arrivo al tutto. Non c’è magia. Mi sembra che a volte ci siano persone che valgono di meno della somma delle loro parti.


Ma so anche che ci sono persone che valgono molto di più. È qualcosa di magico, di intangibile. Il paesaggio è sempre molto di più della somma di alberi, terra ed erba. È la magia di colui che lo osserva e vede una realtà superiore, irraggiungibile. Qualcosa che non riesco a ridurre a parole. Qualcosa di più grande del mio stesso cuore.


Non è facile vedere il valore del tutto. A volte fallisco nell’intento. Sommo le parti e giudico. Interpreto, resto con la mia parte della realtà. Ma non vedo il tutto. Non lo abbraccio e credo di possedere la verità, quando neanche conosco la totalità.


C’è sempre qualcosa di più che sfugge al mio sguardo e che si vede solo con il cuore. C’è sempre un altro punto di vista. Lo sguardo che complementa il mio. Uno sguardo più profondo che non si ferma ai dettagli.


Vorrei essere più semplice per essere capace di intuire tutto e meravigliarmi. La mia vita sarebbe più bella, e avrei il dono di stupirmi della bellezza che Dio pone davanti ai miei occhi.


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02/08/2017 18:45
 
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Ecco come distruggiamo la mente dei nostri figli






     



 



     





di dott.ssa Tiziana Cristofari*


Figli svogliati e disattenti.


Sette mesi prima di morire, il famoso psichiatra americano Leon Eisenberg, che ha scoperto il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD), ha dichiarato al settimanale tedesco Der Spiegel che le cause genetiche di tale malattia (sulla quale si basavano l’esclusione della responsabilità genitoriale e molte delle prescrizioni di pillole) erano chiaramente sovrastimate.


Sono una pedagogista-docente e mi occupo di formazione oramai da diversi anni.


Troppo spesso però vedo una situazione che non posso più tacere, anche se non è la prima volta che ne parlo.


Sono molto indignata per la facilità con cui i nostri bambini vengono giudicati e “torturati” psicologicamente.


E non sto esagerando!


Perché la tortura non è solo quella fisica, ma anche e ai nostri giorni soprattutto, quella psicologica.


Viviamo in una società molto superficiale, dove i tempi frenetici e la poca pazienza che abbiamo nei confronti dei nostri bambini e delle nostre bambine, ci spingono a conclusioni affrettate sulle loro potenzialità e capacità cognitive, purché ci sollevino dall’incombenza di seguirli negli studi.


Troppo spesso i genitori mi portano i loro figli emotivamente avviliti, psicologicamente affranti, demotivati e senza più la minima autostima di se stessi.


Arrivano da me dicendomi che il loro bambino o la loro bambina ha difficoltà nello studio; che piange perché non vuole studiare; che non vuole andare a scuola.


Me li portano dicendomi che l’insegnante gli ha detto che sicuramente ha qualche problema cognitivo, e quando arrivano da me hanno già fatto percorsi con il logopedista e il più delle volte, il medico, gli ha certificato un ritardo nell’apprendimento.


Ma sapete una cosa?


Nel 99% dei casi, il bambino o la bambina non ha niente, recuperando nel giro di un anno scolastico tutte le carenze!


Mi sono chiesta più volte se voi vi foste mai domandati come reagiscono i vostri figli a tutte queste chiacchiere non vere sulla loro capacità di apprendimento.


Vi siete mai chiesti cosa provano?


Come stanno?


Cosa pensano di tutte quelle ricerche mediche e quelle esercitazioni alienanti, ai quali vengono sottoposti anche solo perché hanno una pessima scrittura?


Vi siete mai chiesti guardando la calligrafia di un medico se anche lui fosse disgrafico?


Ve lo dico io cosa pensano i nostri figli!




Pensano di essere inferiori, di essere diversi, stupidi, non capaci come i loro compagni di classe.

E la loro psiche lentamente cambia e diventa brutta.

Perdono la loro autostima, diventano tristi, paurosi e a scuola non rendono più, non si sentono capaci e si convincono di non riuscire negli studi; dentro di loro si domandano perché devono continuare a studiare; perché devono andare a scuola, a cosa serve… perché la scuola non brucia!

Io sono molto indignata!

Con insegnanti impreparati nella didattica che si sentono in diritto di diagnosticare senza averne la competenza.

Sono molto indignata!

Con la connivenza dei medici psichiatri che devono trovare necessariamente un’anomalia in un bambino che ha solo bisogno di essere rispettato nei suoi tempi di apprendimento, mentre la loro diagnosi è basata su statistiche (vi ricordo che Albert Einstein ha mostrato la sua genialità solo all’università, risultando terribilmente carente in tutti i precedenti corsi di studi, soprattutto in matematica; e nonostante oggi si dica che fosse dislessico, niente e nessuno allora, fortunatamente, gli ha impedito di credere in se stesso e di diventare ciò che tutti noi conosciamo).

Vogliamo parlare dei logopedisti?

Che uccidono il pensiero del bambino tediandolo con tanti esercizietti che allontanano sempre più il piccolo dalla scuola?

E tutto questo pur di non ammettere che quel paziente non ha bisogno del loro aiuto, ma solo di una efficace didattica che loro ignorano completamente.

Ma è tutto un sistema di scarica barile: l’insegnante ai genitori, i genitori al medico, il medico al logopedista e il logopedista sul problema diagnosticato dal medico che purtroppo si può migliorare, ma non curare.

E non c’è la cura semplicemente perché non c’è la malattia!

Ma sono indignata anche con voi genitori!

Che non avete la pazienza di ascoltarli i vostri figli; che li imboccate come se fossero sempre piccoli, senza svezzarli nel rapporto e nella loro continua e costante crescita di competenze.

E questo è un errore grave, molto grave, perché non permettete loro di crescere, di sviluppare indipendenza, di conquistarsi quel pezzettino di mondo a scuola, che solo a loro appartiene.

Non avete voglia di seguire e capire i cambiamenti che la scuola li costringe a sviluppare, non avete la voglia di capire che il vero problema potrebbe essere nel rapporto con voi, con la maestra o con i compagni di classe.

Perché è così: quasi sempre il problema scolastico ha le sue profonde radici nel rapporto umano.

Allora non distruggiamo la mente e la vitalità dei nostri figli, abbiate il coraggio e l’umiltà di valutare il vostro rapporto, di considerare quello che la maestra ha con vostro figlio o vostra figlia, prima ancora di intraprendere un percorso diagnostico, che in quanto tale, nella mente del bambino, riporta sempre e comunque a una malattia e quindi a una diversità dai compagni di scuola. Ricordandovi inoltre che oggi, quella che viene comunemente definita dislessia, il più delle volte è un abuso di terminologia e medicalizzazione su bambini sanissimi per questione di business.

Non confondiamo le difficoltà didattiche e di rapporto con la scusa della malattia, una malattia che nessuno ha organicamente riscontrato e che si basa solo su statistiche.

Eviteremo così di crescere bambini insicuri, ribelli, aggressivi, svogliati, tristi, spaventati e senza autostima.

——–

*Tiziana Cristofari, nata nel 1972 è laureata alla Facoltà di Scienze della Formazione con indirizzo in Scienze dell’Educazione.

Consulente esperta nel campo educativo, formativo extrascolastico e nell’insegnamento: esperta con conoscenza degli ambiti disciplinari delle scienze umane, nelle attività di orientamento scolastico e professionale.

Consulente pedagogico (professione disciplinata dalla Legge n. 4/2013).

Mediatore culturale e familiare.

Consulente in ambito giuridico.

Docente competente per bambini con DSA, ADHD o altro.

Docente con i requisiti per l’insegnamento della Storia, della Filosofia, della Pedagogia, Sociologia e della Psicologia nelle scuole secondarie di II grado.

Docente in lingua italiana per stranieri. Scrittrice.


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10/08/2017 16:16
 
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Che cosa succede davvero nella preadolescenza?







     






In un rapido giro di anni i nostri bambini affrontano importanti trasformazioni, ma attenzione a non considerarli "casi da manuale"


La preadolescenza è una fase di transizione particolare, che si svolge lungo un breve periodo di tre o quattro: va dai 10/11 ai 14 anni, da metà della quinta elementare alla fine della terza media. E’ caratterizzato da rapide e profonde trasformazioni, fisiche, psichiche e sociali, che incidono irreversibilmente e in modo globale sullo sviluppo della personalità.


Il preadolescente non è più un bambino, tuttavia non è ancora adolescente.


Si può affermare che è l’età delle “grandi trasformazioni”:


 dà addio al corpo del bambino che era, con lo sviluppo fisico e puberale;


– porta a maturazione lo sviluppo logico/formale;


– vive l’apertura o chiusura di fronte al mondo dei coetanei;


– avvia il ridimensionamento della propria identificazione e va alla ricerca della propria identità;


– ricerca una propria ricollocazione all’interno della famiglia;


– inizia a rimettere in discussione la religione dei genitori e della chiesa, con l’avvio ad una religiosità personalizzata o con il rifiuto e l’abbandono di essa.


Lo sviluppo della sua personalità avviene come un processo in cui interagiscono fattori differenti.


Vi è il rischio di cogliere il percorso della sua maturazione come una cosa sua e solo sua, senza l’implicazione dei quei fattori che sono profondamente coinvolti.


Egli cresce e matura in ambienti ben definiti e identificabili: la famiglia, la scuola e l’ambiente sociale (gruppi, amici, ecc.). Cercare di capire il suo sviluppo, il suo comportamento, le sue reazioni di fronte alla sua crescita, ai genitori, ai fratelli e sorelle, ai professori, ai compagni, senza inserire tali comportamenti e reazioni nei “suoi” ambienti, significa capire ben poco di ciò che avviene in lui.


Ogni ragazzo passa attraverso le stesse tappe e gradienti, ma ognuno le vive in modo particolare e reagisce con le proprie caratteristiche agli stimoli dei vari ambienti (famiglia, scuola, coetanei).


Vi sono processi che caratterizzano l’età preadolescenziale, ma occorre avere molta attenzione nell’usare categorie interpretative standard per ogni singolo ragazzo/a. Significa attribuirgli delle realtà oggettive, questo è vero, perché sono state studiate e approfondite e fanno parte delle conoscenze scientifiche di questa età, tuttavia i genitori e gli educatori sono in relazione con una persona concreta, non con delle categorie astratte. Voglio dire che sono di fronte a un ragazzo che reagisce con le proprie modalità e quindi con specifici comportamenti e vissuti.


Il preadolescente vive in una famiglia che ha una sua storia e che ha fatto un tragitto nelle fasi evolutive proprie del nucleo familiare.


Il suo percorso di crescita si inserisce profondamente nel tessuto relazionale di tale storia. Non è stato catapultato improvvisamente in una realtà familiare, ma ne fa parte integrante sin dal primo momento in cui i suoi genitori si sono trovati ad attenderlo. Dal quel momento ne ha costituito il tessuto relazionale ed affettivo ed è diventato un fattore agente e reagente della dinamica familiare.


Ciò è valido sia per i preadolescenti, che hanno ancora la famiglia unita, sia per quelli il cui nucleo familiare si è interrotto con la separazione e il divorzio, e sia per quelli i cui genitori hanno costituito un altro nucleo familiare. Ognuno di questi preadolescenti, pur attraversando la stessa fase di sviluppo e gli stessi processi di trasformazione, caratteristici dell’età, ha dei vissuti personali e differenti. Se non si tiene conto di questa realtà, vi è il rischio di relazionarsi con categorie astratte e di non capire ciò che avviene all’interno del preadolescente e di non attivare una modalità relazionale consona, di predeterminare comportamenti e progetti educativi estranei o persino contrari alla situazione.


Già il preadolescente, con le sue modificazioni e con i suoi comportamenti ha un grande “pregio”, quello di interrogare gli adulti sul loro comportamento, sulla loro coerenza, sulla relazione che i due genitori hanno tra di loro, sul processo educativo. Ciò si accentuerà con l’adolescenza; nel frattempo, però, egli sembra avere questa caratteristica, che non sempre viene letta attentamente e con serenità dagli adulti. Di fronte ad un suo disadattamento scolastico, familiare e sociale, è più facile, più assolutorio per gli adulti, attribuire tale comportamento alla struttura della sua personalità o trovare somiglianze con parenti che nel passato sono stati tali, disadattati o accusare la società nel suo complesso o le strutture educative, nel particolare la scuola, cercando in esse, negli insegnanti, la causa del comportamento disadattato.


E’ un modo che gli adulti hanno per estraniarsi, non colpevolizzarsi, non rimettere in discussione i loro modi di relazionarsi, di comunicare, di voler bene, di comprendere, di rivedere le cose che contano.


E’ un tentativo di espellere fuori dalla famiglia ciò che crea ansia, tensione ed eventuali sensi di colpa.


L’interrogazione che il preadolescente fa agli adulti è quello di rimettere in discussione la relazione coniugale, i processi educativi, il valore attribuito alle cose e ai principi, la considerazione che si ha delle persone nella loro identità, il coinvolgimento affettivo, il senso di appartenenza al nucleo familiare.


Il preadolescente vive in un contesto familiare, che fin da quando è nato, lo permea e coinvolge con il suo clima psicoaffettivo, fatto di emozioni, affetti, comportamenti, atteggiamenti, che ogni membro del nucleo familiare ha nei suoi confronti, ma che anche la famiglia, come gruppo. Egli a sua volta ha un suo particolare modo di reagire, di relazionarsi e di atteggiarsi sia ai singoli e sia al gruppo.


Quando arriva alla preadolescenza è stato percorso un buon tragitto di vita, durante la quale la famiglia è passata attraverso fatti e avvenimenti, che hanno inciso sulla vita dei singoli e del gruppo, come nascite di altri figli (fratello/sorella), un fratello/sorella maggiore usciti di casa (allontanamento per l’università, matrimonio, ecc.), cambiamenti di residenza, di scuola; malattie di qualche membro; morte di parenti stretti, a cui il bambino era molto legato; cambio del lavoro del padre o della madre; eventuali licenziamenti; conflitti genitoriali, più o meno risolti, ecc.


Come membro del nucleo familiare egli è stato uno degli agenti che ha contribuito a creare con il suo modo di agire e di reagire il clima relazionale.


Il passaggio dall’infanzia a alla preadolescenza lo vive portandosi dentro e dietro di sé il bagaglio psicologico ed affettivo, che ha assimilato durante gli anni precedenti. Ha imparato a reagire, a suo modo, ai comportamenti e agli atteggiamenti degli altri membri, a riconoscere gli stati umorali degli altri, a percepire il clima familiare, positivo o negativo, sereno o elettrico.


Si è fatto l’idea, perché l’ha vissuto, circa la sua collocazione dentro il gruppo; il ruolo che gli è stato attribuito: il buono, il tranquillo, il disadattato, il disobbediente, l’impegnato, il fannullone, il figlio “cocco di mamma, di papà”. In questo suo ruolo è stato confermato più e più volte sia con le parole sia con la gestualità.


Ha imparato a trovare una sua collocazione nel contesto familiare, un suo spazio, che con la preadolescenza cercherà di modificare, reagendo con atteggiamenti che non sempre sono compresi e accettati dagli altri membri. Anzi, vi possono essere delle reazioni che creano ulteriori difficoltà a questa sua ricerca di ricollocazione nello spazio emotivo della famiglia e di ri- modificazione del suo ruolo.



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24/01/2018 22:09
 
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Giudicate le persone che avete appena conosciuto? In base a come agite potreste perdervi grandi opportunità

La conoscenza umana si attiva a partire dai sensi (vista, udito, olfatto…), che inviano le informazioni al cervello, che le processa grazie all’intelligenza. È così che emettiamo i giudizi, più o meno elaborati: “L’uomo che ho alla mia destra sull’autobus è stanco”, “La donna con cui sto salendo in ascensore è antipatica perché non mi saluta mai, neanche oggi”…

Quando vediamo qualcuno per la prima volta, cogliamo informazioni in base a come si presenta, alle sue parole, all’azione che sta svolgendo in quel momento, e ci facciamo una “prima idea”. A questi pochi dati di cui disponiamo aggiungiamo un contenuto che mettiamo in relazione con loro.

La marca di un capo di vestiario ci dice quanto denaro ha speso e a quale classe sociale appartiene chi lo porta. Se è una persona molto curata siamo spinti ad avvicinarmici, mentre la trascuratezza e la mancanza di igiene possono spingere a rifiutarla (anche se non si può sapere perché una persona vada in giro in quel modo).

Quando i dati sono scarsi, il nostro cervello si incarica di “tappare” i buchi a livello di informazioni o di ampliare le informazioni reali, per darci un’idea più accurata di quello che conosciamo. È così che si possono formare i pregiudizi su qualcuno.

Un’opinione preconcetta e quasi sempre negativa

Il pregiudizio è un’opinione preconcetta, in genere negativa, nei confronti di qualcosa o qualcuno. È un giudizio che non si deduce dalla realtà, ma è stato elaborato nella nostra mente partendo da dati reali uniti – in modo corretto o meno – ad altri.

Cosa succede se ci lasciamo trascinare dai pregiudizi? Finiamo per giudicare una persona in modo sbagliato. Non lasciamo che sia lei a esprimersi, mentre diamo per valida la nostra opinione su di lei. La guardiamo di traverso e mettiamo in moto l’immaginazione perché crediamo di sapere già quali saranno i suoi prossimi passi.

E allora chi ha un giubbotto nero e un bracciale con le borchie è un delinquente, chi si è tagliato i capelli allo stile punk è un violento, la donna che ha il capo coperto è una fondamentalista…

Pixabay

Una professoressa ha spiegato che un giorno un’alunna dall’aspetto punk è arrivata in classe con una catena piena di oggetti appuntiti al collo. Con quell’aspetto richiamava l’attenzione, e alcuni compagni si erano allontanati da lei. La docente le ha chiesto perché la portava e lei ha risposto: “Perché non voglio che mi guardino, sono timida”.

La professoressa ha capito che l’ultima cosa che voleva fare quella ragazza era danneggiare qualcuno, come poteva far pensare il suo aspetto.

Se ci lasciamo trasportare dai pregiudizi possiamo perdere grandi opportunità: di conoscere persone diverse da noi, di creare nuove amicizie, di approfondire la conoscenza di qualcuno…

L’ignoranza volontaria è nemica della cultura e della fraternità tra le persone e i popoli.

Giudicate le persone che avete appena conosciuto? In base a come agite potreste perdervi grandi opportunità

Deia 63 / Instagram

Due atteggiamenti necessari

Per combattere questa deformazione dell’intelligenza che ci porta a pre-giudicare prima di verficare come sia davvero una persona, è bene seguire due consigli:

  1. Non lasciarsi influenzare dalla prima impressione. Bisogna sempre cercare di conoscere meglio la persona in questione.
  2. Lasciare che le persone possano spiegare il motivo del loro comportamento prima di giudicarle.

Vi siete mai sbagliati pre-giudicando qualcuno? E gli altri si sono sbagliati pre-giudicando voi? Per il modo in cui vi vestite, per il vostro aspetto, per il vostro Paese d’origine, per la lingua che parlate, per una frase estrapolata dal contesto? Anche la propria esperienza può aiutare a far sì che la testa non formuli rapidamente opinioni e giudizi.

È molto meglio dare un’opportunità alla realtà.




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10/03/2018 12:41
 
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Mettetevi all'opera per combattere il prima possibile uno stato d'animo che impedisce di godervi la vita


Conviene distinguere bene la depressione clinica (patologica) e i diversi disturbi dei momenti particolari di scoraggiamento e depressione superficiale.


Di fronte alle situazioni gravi e disfunzionali, la cosa più conveniente è ricorrere a un professionista del settore per intervenire il prima possibile.


Dall’altro lato, il rimedio migliore per mantenere un sano equilibrio emotivo e di attività nella vita è applicare una sana prevenzione.


La vita è nelle nostre mani perché l’abbiamo ricevuta con il dono della libertà. Sta a noi viverla nel modo più positivo possibile, cercando sempre di perseguire i nostri obiettivi e ideali.


Shutterstock

Cos’è la depressione?


Sentirsi tristi, malinconici, infelici, abbattuti o a terra per certi periodi di breve durata o in circostanze specifiche è una cosa del tutto normale.


Quando parliamo di depressione clinica, ci riferiamo a un disturbo dello stato animico in cui i sentimenti di tristezza, perdita, ira o frustrazione interferiscono con la vita quotidiana per alcune settimane o dei mesi.


Bisogna considerare che la depressione può comparire a tutte le età, sia negli adulti che nei giovani e negli adolescenti, presentando in ogni tappa della vita sintomi diversi, come nel caso dei bambini (rendimento scolastico, ecc.).






I sintomi:



  • Stato d’animo irritabile o negativo la maggior parte delle volte.

  • Difficoltà a conciliare il sonno o eccesso di sonno.

  • Grandi cambiamenti nell’appetito, spesso con aumento o perdita di peso.

  • Stanchezza e mancanza di energia.

  • Senso di inutilità, odio nei confronti di se stessi e colpa.

  • Difficoltà a concentrarsi.

  • Movimenti lenti o rapidi.

  • Inattività e ritrarsi dalle solite attività.

  • Senso di disperazione e abbandono.

  • Pensieri ripetitivi di morte o suicidio.

  • Perdita di piacere e interesse nei confronti delle attività che in genere rendevano felici.

  • Disinteresse per la vita intima e sessuale di coppia.


Hikrcn / Shutterstock

Tipi di depressione



  • Depressione grave: Si verifica quando i sentimenti di tristezza, perdita, ira o frustrazione interferiscono con la vita quotidiana per settimane o periodi più lunghi di tempo.

  • Disturbo depressivo persistente: Si tratta di uno stato d’animo depressivo che dura 2 anni. In questo periodo di tempo possono esserci momenti di depressione grave accanto a momenti in cui i sintomi sono meno intensi.

  • Depressione post partum: Molte donne si sentono un po’ depresse dopo aver avuto un bambino, ma la vera depressione post partum è più intensa e include i sintomi della depressione grave.

  • Disturbo disforico premestruale: Sintomi depressivi che si verificano una settimana prima delle mestruazioni e scompaiono dopo il ciclo mestruale.

  • Disturbo affettivo stagionale: Si verifica più frequentemente in autunno e in inverno, e scompare in primavera e in estate. Molto probabilmente è dovuto alla mancanza di luce solare.

  • Depressione grave con caratteristiche psicotiche: Si verifica quando una persona soffre di depressione con mancanza di contatto con la realtà (psicosi).





Mettersi all’opera


Quando non ci sono problemi biologici nella depressione, il rimedio migliore è la prevenzione, che passa per la ricerca di un sano equilibrio nella vita.


Bisogna quindi mettersi in azione, perché quando manteniamo un certo livello di attività ci sentiamo utili e abbiamo una sensazione di controllo sulla nostra vita.


Per questo è di fondamentale importanza che tutti, indipendentemente dalle circostanze della vita, riserviamo un certo spazio ogni giorno per fare le cose che ci piacciono, con cui possiamo staccare dalla routine e stare un po’ in pace con noi stessi.


Un problema che in genere compare nelle persone depresse è la perdita della capacità di godersi le cose che prima le appassionavano, per cui non sanno rispondere quando si chiede loro quali attività amino.


Qualche consiglio perché i momenti di tristezza non tendano a trasformarsi in depressione:


Trovate degli hobby e praticateli ogni volta che potete.
Ponetevi degli obiettivi e lottate per raggiungerli, perché vi farà sentire vivi.
Qualunque cosa accada, non dimenticare di riservare dei momenti per voi stessi e per fare quello che vi piace.
Non permettete che il vostro stato d’animo determini il vostro livello di attività.


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19/04/2018 21:37
 
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7 abitudini che impoveriscono la nostra vita


THINKING





I nostri costumi influenzano il nostro stato fisico ed emotivo


I nostri costumi influenzano il nostro stato fisico ed emotivo, oltre a programmare il modo in cui il nostro comportamento definirà chi siamo. Se è così, è importante porre fine ad alcune abitudini, tra cui:


1. L’autocompassione esagerata


Le radici della povertà iniziano a crescere quando l’autocompassione esagerata porta a lamentele su quanto sia miserabile la nostra vita. Si inizia a pensare che non si dispone dello stipendio desiderato, che l’educazione ricevuta non è quella di cui si aveva bisogno, che la propria casa non è come quella delle riviste, che il clima di oggi non è buono, il negoziante non ci ha ascoltati come avrebbe dovuto e tutto, assolutamente tutto, può essere un motivo per provare compassione per se stessi e dare la colpa al fato.


Le persone che hanno l’abitudine dell’autocompassione esagerata perdono il rispetto nei confronti di chi le circonda. È chiaro che nessuno sopporta molto a lungo una persona del genere, che ha sempre cattive notizie. Ad esempio, nessuno di aspetta nulla da un ipocondriaco cronico, ed è ben poco comune che sia invitato o considerato per qualche occasione. Per una persona del genere è molto difficile mantenere rapporti personali, che


2. Economizzare in tutto


Se cercate sempre le offerte, se pensate che lo stipendio dei vostri colleghi sia sempre più alto del vostro anche se lavorano meno, se non prestate mai niente a nessuno o non lasciate la mancia ai camerieri, significa che il costume della povertà ha già fatto il nido intorno a voi.


Gli esperti dicono che economizzare su tutto in modo compulsivo è ben lungi dall’essere un segno di attenzione. Al contrario, è un sintomo che riflette l’incapacità di compensare guadagni e perdite.


3. Misurare tutti in termini monetari


Pensare che l’unico modo di essere felici sia uno stipendio pieno di zeri è un segno di povertà di spirito. Sbaglia chi crede che la felicità consista in abiti cari, una casa propria o una macchina nuova. I sociologi affermano che se la risposta alla domanda “Di cosa hai bisogno per essere felice?” inizia con una lista di beni materiali c’è povertà di spirito.


Le persone con un punto di vista più equilibrato menzionano sempre l’amore e l’amicizia come prima cosa. L’aspetto interessante è che quest’ultimo tipo di persone non parla quasi mai di conti bancari perché pensa che la ricchezza si misuri in base alla capacità di generare valore. Una persona realmente di successo non dipende dal contenuto del suo portafogli.


4. Entrare nel panico quando finisce il denaro


Se si diventa ansiosi quando si pensa di poter essere il prossimo nella lista dei licenziati dall’impresa, può essere sintomo di una mente programmata per la povertà. La verità è che il denaro è una risorsa che va e viene.


sono invece importanti per la carriera professionale (il networking) e per ottenere un lavoro nuovo e interessante. L’autocompassione esagerata è il modo migliore per ottenere uno stipendio mediocre e avere una vita senza grandi gioie.


5. Spendere più di quanto si guadagna


Se fate due lavori e anche così non riuscite a pagare i conti, forse è arrivato il momento di cambiare qualcosa nella vita. Se una persona non riesce a capire la sua situazione finanziaria, forse non potrà mai conoscere la stabilità economica.


6. Fare cose che non piacciono


Se non lo faccio io chi lo farà? Gli psicologi affermano che le persone il cui impiego non le soddisfa sono potenzialmente programmate per la povertà e per quella che si può chiamare “sfortuna”. Il motivo sono i sentimenti che vengono risvegliati nella persona dovendo trattare temi che non le piacciono. Per uscire da questo ciclo bisogna fare non quello di cui qualcun altro ha bisogno, ma quello che suscita più soddisfazione. Solo così si possono vedere risultati “miracolosi”.


7. Non aver un buon rapporto con i familiari


Anche se può non sembrare tanto grave, avere un brutto rapporto con la famiglia può suscitare una specie di tabù mentale e un malessere che si può trasformare in odio. L’odio a sua volta si trasforma in amarezza, e l’amarezza in povertà mentale, che non permette il cambiamento né il perdono.






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20/04/2018 16:14
 
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Negare le passioni e reprimere le pulsioni non porta a Dio




Fabrice CATERINI-INEDIZ I CIRIC



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Smettiamo di associare la santità allo spirito e il peccato alla carne. “Questo mondo è un luogo sacro e non lo sapevamo”


Spirito e carne si uniscono in Gesù. Il mio corpo nel suo corpo. Resusciterò con il mio corpo mortale, che sarà glorioso. Vincerò la morte che porto sulla terra. Tornerò alla vita eterna con le mie ferite incise, con l’eco della mia storia personale.


Nel film Paolo di Tarso si mostra quando Paolo arriva in cielo e incontra quelli che in un momento della sua vita, quando non aveva ancora conosciuto Gesù, ha perseguitato e ucciso. È un’immagine commovente.


Durante la sua vita terrena quella ferita della sua vita passata gli avrà fatto male nel profondo. Quante persone aveva fatto uccidere? Quei volti, quel sangue versato, lo avrebbero perseguitato durante molte notti insonni.


Quando arriva in cielo, però, gli si avvicinano e lo abbracciano. Lo perdonano. In cielo sarà così.


A volte soffro tanto per i miei errori passati. Ci ritorno su nelle notti di insonnia. Forse penso che siano gli altri a non perdonarmi, ma non è vero. Sono io che non mi perdono.


A volte penso che essere fedeli significhi fare tutto bene. Dire le parole opportune. Custodire il silenzio corretto. Avere i gesti adeguati. Mostrare il sorriso che consola. Dare l’abbraccio che placa le ansie.


E poi io stesso nella mia goffaggine ferisco e danneggio. E uccido credendo perfino che sia Dio a chiedermelo, come Paolo di Tarso.


Sbaglio e custodisco nel cuore le ferite dei miei atti sfortunati. Nella vita eterna mi aspetta un amore che mi ama per sempre. Un amore che mi perdona e mi dice che non succede nulla.


E allora vedrò i volti che ho disprezzato. Che ho perseguitato. Che ho ferito. Mi staranno ad aspettare per abbracciarmi. Le mie ferite piene di luce. I miei errori pieni d’amore.


È vero, non consiste nel fare tutto bene, ma nel sentire che devo chiedere perdono di continuo. E inginocchiarmi supplicando misericordia. Mi piace implorare la misericordia. Così potrò essere misericordia per altri.


Gesù mangia con i suoi discepoli. Mangia, ha fame, è umano. Gesù è totalmente presente. Nel suo spirito e nella sua carne. È presente tra i suoi. È lì al loro fianco nel momento presente.


A volte credo che la pienezza della mia vita spirituale arriverà quando riuscirò a prescindere dal mio corpo e a uccidere ogni sentimento umano. Così, in atteggiamento contemplativo, non sentire, non pensare, non soffrire.


Ma Gesù mangia. Ha fame. È risorto e ha un corpo.


A volte credo che prescindere dal mio corpo e dalle mie necessità sia la vita per essere più vicino a Dio. Separo. Divido. Rompo. Voglio allontanare da me l’aspetto più umano.


Gesù ha assunto la mia carne. Si è fatto carne. Non è stato un fantasma. Non era solo spirito. Questo mi commuove. Ha bisogno di mangiare. Si lascia toccare e tocca. Abbraccia. Ha restituito alla mia carne una dignità perduta.


Non so perché associo incosciamente la santità allo spirito e il peccato alla carne. Come due poli opposti tra i quali si dibatte la mia lotta per fare il volere di Dio. Poli irriconciliabili. Mi sbaglio.


“La separazione tra natura e grazia, corpo e spirito, ragione e sentimenti, è sempre una forma di abiurare dall’incarnazione” [1].


Non posso lasciare indietro la mia carne. Dio mi salva dalla mia umanità, dalla mia vita, anche se a volte mi pesa e penso che nello spirito sarò più leggero, più etereo.


Cerco di negare le mie passioni, di nascondere i miei istinti, di mettere a tacere le mie pulsioni. Come volendo rinunciare al corpo in quanto carcere che mi impedisce di essere santo.


E Gesù viene a chiedermi di mangiare. Viene a dirmi che nulla di ciò che è umano gli è estraneo. Che mi ama integralmente e mi chiama ad essere felice dalla mia carne mortale che sogna di essere eterna.


Diceva San Cirillo: “Perché come il ferro unito al fuoco produce gli effetti del fuoco, così la carne, una volta unita al Verbo che dà vita a tutte le cose, diventa vivificatrice ed espelle la morte”.


Il fuoco dello Spirito è chiamato a vivificare la mia carne. Dio vuole abbracciarmi e portarmi a vivere accanto a lui. Ma con i piedi per terra e il cuore ancorato al più profondo di Dio.


Teilhard de Chardin ha cercato di riconciliare la fede nel cielo e l’amore appassionato per la terra: “Il mondo, questo mondo tangibile che trattiamo con l’indifferenza e la mancanza di rispetto con cui tratteremmo un luogo profano, questo mondo è un luogo sacro, e non lo sapevamo” [2].


Non voglio vivere disincarnato. Fuggendo dalla mia terra. Temendo il mondo e la mia carne. Gesù mi ama nella mia contingenza umana. Nella mia fragilità. Nella mia necessità. Nei miei limiti e nelle mie passioni. Nelle mie cadute e nei miei atti sublimi.


Viene da me. Non per salvarmi senza corpo, ma per abbracciarmi nella mia carne e nella mia fragilità umana.


[1] Giovanni Cucci SJ, La forza della debolezza
[2] Christian Feldmann, Ribelle di Dio


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11/07/2018 10:37
 
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I rimpianti più comuni sul letto di morte



NAJCZĘŚCIEJ WYPOWIADANE ZDANIA W CHWILI ŚMIERCI
 




Sono rari quelli che sul letto di morte rimpiangono di non aver passato più tempo al lavoro, ma sono tanti di più quelli che rimpiangono quanto hanno fatto o, soprattutto, quanto non hanno fatto.


Nessuno dice, sul letto di morte: «Se solo avessi passato più tempo al lavoro!». In realtà i rimpianti vertono solitamente su “quel che ho fatto e quel che ho mancato di fare”. Un domenicano colombiano, frate Nelson Medina, ha fatto la lista dei rimpianti che più sovente ha ascoltato durante il ministero di accompagnamento alla morte.


Questi pensieri vi saranno indubbiamente familiari. Allora perché non fare un esame di coscienza un poco diverso traendone ispirazione? Vi basterà poi pregare domandando la grazia che la vostra vita sia tale che non abbiate a ripetere questa lista di rimorsi nell’ora estrema.


Per scoprire i rimorsi più comuni sul letto di morte, cliccate sulla prima foto della galleria cliccando il link sotto:
GALLERIA


[Modificato da Credente 11/07/2018 10:40]
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11/10/2018 09:36
 
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Il cervello degli adolescenti è un campo di battaglia,
non lasciamoli soli

 

Recenti studi hanno messo in luce l’importanza del neurotrasmettitore dopamina
nei comportamenti tipici dei giovanissimi,
a muoverli è la ricerca impulsiva di una ricompensa immediata.

di Piero Bianucci

Daniel J. Siegel insegna psichiatria clinica all’Università della California a Los Angeles, dove dirige il Mindsight Institute. È diventato famoso a livello internazionale per le sue ricerche sullo sviluppo del cervello negli adolescenti. Che il cervello non sia soltanto un insieme di neuroni (90 miliardi!) determinato alla nascita o tutt’al più nei primi anni di vita, è una scoperta relativamente recente.

Quanti neuroni!

Ogni anno si pubblicano migliaia di articoli sulla “plasticità cerebrale”,cioè sulla modificabilità del cervello, e ormai è diffusa la convinzione che, sia pure in misura ridotta, la plasticità si mantenga fino all’età più avanzata, un po’ per la presenza di cellule staminali che, sia pure in modo molto parziale, vanno a sostituire neuroni danneggiati, ma soprattutto perché la dotazione di neuroni che ci è data alla nascita modifica continuamente la propria rete in funzione delle esperienze e dei rapporti sociali.

Contano i neuroni, certo, ma conta ancora di più il modo con cui sono collegati tra loro – il cosiddetto connettoma – e sui collegamentiinfluiscono pesantemente le circostanze della vita: ambiente, cibo, giochi, conoscenze. Il “cablaggio” del cervello umano è lungo circa 100 mila chilometriil National institutes of health degli Stati Uniti lo sta mappando.

pixabay

Daniel Siegel ha concentrato la sua attenzione sugli anni dell’adolescenza, dai 12 ai 24 – da poco sappiamo che fino a 24 il cervello non è completamente formato – e ha scoperto che in questo periodo, sotto l’azione della dopamina, avvengono nel cervello dei giovanicambiamenti cruciali, confermati da tutti gli studi più recenti.

Tutto sulla dopamina

Come governarli? Non è un caso che, tra tutti i neurotrasmettitori che agiscono nel nostro sistema nervoso, la dopamina sia il più studiatonegli ultimi vent’anni, anche perché la dopamina è la molecola chiave nel Parkinson, una malattia neurodegenerativa sempre più diffusa. La dopamina viene prodotta in diverse zone del cervello (nella “substantia nigra”, nell’area tegmentale ventrale, nell’ipotalamo) e si accumula nel telencefalo, nell’amigdala – sede di reazioni primarie come la paura – e nella corteccia, la parte più evoluta del cervello umano. Svolge molte funzioni: come ormone inibisce il rilascio di prolattina, nel sistema gastrointestinale blocca le contrazioni del vomito, nel sistema cardiocircolatorio aumenta la frequenza dei battiti del cuore e la pressione del sangue; nel cervello agisce sul sonno, l’umore, l’attenzione, la memoria di lavoro (quella che trattiene i dati solo per il tempo necessario al loro uso immediato), l’apprendimento, la gratificazione sessuale.

 

Più in generale, la dopamina è la molecola del piacere che interviene nel meccanismo degli stimoli che producono motivazione e ricompensa: non soltanto l’attività sessuale, quindi, ma anche l’esercizio sportivo, i cibi appetitosi, le bevande dolci o alcoliche, le sostanze stupefacenti. Ed è proprio il meccanismo della ricompensa ad assumere un ruolo fondamentale nella “costruzione” del cervello degli adolescenti.

CHILD,EATING,DONUT
 

Bisogno di gratificazione

«Durante l’adolescenza», spiega Siegel, «si intensifica l’attività dei circuiti cerebrali che utilizzano la dopamina innescando la spinta a cercare gratificazioni. A partire dall’inizio dell’adolescenza, e con un picco a metà della fase adolescenziale, l’aumento nel rilascio di dopamina porta i giovani a essere attratti da esperienze elettrizzanti capaci di dare sensazioni di euforia».

Ma qui c’è un paradosso di cui occorre tenere conto: gli studi scientifici hanno accertato che durante l’adolescenza il livello di base della dopamina è inferiore rispetto a quello tipico di altre fasi della vita, mentre il suo rilascio come reazione alle esperienze compiute è maggiore.

«Questo ci fa capire il motivo per cui ragazzi e ragazze si sentono subito “annoiati’” se non si dedicano continuamente ad attività stimolanti e sempre nuove. L’aumento spontaneo nel rilascio di dopamina che si verifica nel partecipare a queste attività comunica agli adolescenti una potente spinta vitale ma può anche indurli a concentrarsi esclusivamente sulle gratificazioni positive che considerano certe, prestando minore attenzione e dando meno importanza a potenziali rischi delle esperienze che stanno facendo». È importante conoscere il meccanismo della gratificazione da dopamina perché da esso dipendono le tre principali caratteristiche dell’età adolescenziale: l’impulsività, la maggiore predisposizione alle dipendenze e la cosiddetta “iper-razionalità” (che ha come conseguenza un particolare tipo di comportamento irrazionale).

Impulsività e dipendenze

L’impulsività è promossa dalla ricerca istintiva di stimoli sempre diversi: rinunciare all’impulso è frustrante, cedergli è gratificante. La dopamina fa quindi pendere la bilancia dalla parte dell’impulsività. È per questo che, specialmente i maschi, durante l’adolescenza si lanciano in esperienze pericolose (guidare ad alta velocità, fare bungee jumping, praticare sport estremi) e le statistiche collocano in quella fascia di età il maggior numero di incidenti, talvolta mortali, e anche di suicidi.

SPORT
 

Per superare questa fase dell’adolescenza è bene favorire un processo di maturazione che, se non si eccede nell’incentivare il meccanismo della dopamina, avviene spontaneamente: «L’impulsività può essere tenuta a freno dall’intervento di particolari fibre nervose in grado di creare uno spazio mentale tra impulso e azione, ed è proprio durante l’adolescenza che queste fibre regolative incominciano a svilupparsi per controbilanciare il sistema di ricompensa legato al rilascio di dopamina. Nasce così il controllo cognitivo, cioè la capacità di inserire una pausa di riflessione tra l’impulso e l’azione». È una questione molto delicata di equilibrio tra libertà e inibizione.

L’impulsività porta all’esplorazione dell’ignoto, e la tendenza all’esplorazione propria dei giovani è essenziale per dare spazio alla loro creatività, che costituisce un vero e proprio patrimonio collettivo: in campo artistico, scientifico, sociale, le innovazioni e quindi il progresso vengono soprattutto dalle generazioni più giovani. Ma tra i rischi dell’impulso all’esplorazione c’è anche quello di accostarsi alle droghe. Poiché le sostanze capaci di creare dipendenza comportano il rilascio di dopamina, il meccanismo si autoalimenta: l’aumento di dopamina induce a esplorazioni rischiose e l’esplorazione può portare a sostanze stupefacenti che fanno crescere il livello di dopamina. Questo circolo vizioso fa capire perché sia così difficile uscire dalla prigione della dipendenza – e così facile entrarci.

Tra le sostanze che innescano il sistema dopaminergico ci sono anche gli alimenti che comportano un rapido aumento degli zuccheri nel sangue (indice glicemico). Dolci, succhi di frutta, bevande zuccherate, ma anche pane, pasta, patate, oltre a far impennare l’indice glicemico, incrementano il livello di dopamina accendendo i circuiti cerebrali della gratificazione. È da ricercare in questa dinamica l’origine profonda di alcune forme di bulimia e dell’epidemia di obesità: secondo l’Organizzazione mondiale della sanità il numero delle persone obese dal 1980 è raddoppiato: oggi sono 1,9 miliardi gli adulti in sovrappeso e di questi 600 milioni sono gli obesi. E l’obesità è un grave fattore di rischio.

Iper-razionalità

Più sottile è il terzo effetto riconducibile alla spinta a cercare gratificazioni tipica del cervello adolescenziale e a trovarle nel sistema della dopamina: l’iper-razionalità. Questo atteggiamento consiste nell’analizzare le situazioni della vita “alla lettera”, senza allargare lo sguardo al contesto. Ma così si mettono in evidenza solo gli aspetti attraenti mentre rimangono in ombra i rischi. «Il pensiero iper-razionale», precisa Siegel, «non comporta una mancanza di riflessione, come nel caso dell’impulsività, né una forma di dipendenza come nel caso del cibo o della droga. È piuttosto un processo cognitivo dall’orizzonte limitato. La tendenza a tenere conto soprattutto degli aspetti positivi è più forte quando i teenager stanno in mezzo ai coetanei. Negli adolescenti l’influenza e l’imitazione dei compagni sono particolarmente potenti. Solo con la maturità si approda al pensiero globale: grazie a esso superiamo l’iper-razionalità, incominciamo a considerare il contesto complessivo e a perseguire valori positivi in cui crediamo, invece di concentrarci solo sulla ricerca della gratificazione immediata indotta dalla dopamina».

Realtà virtuale

Questo discorso vale anche per le relazioni virtuali. I giovani oggi vivono chattando, si scambiano continuamente messaggi e fotografie, “abitano” Facebook confondendo amicizie reali e amicizie fatte solo di clic. Secondo l’Osservatorio nazionale adolescenza il 94% dei ragazzi e delle ragazze utilizza Internet per tenersi in contatto in tempo reale con i coetanei. Molti giovani riaccendono il cellulare di notte all’insaputa dei genitori e per non lasciare tracce ricorrono ad app anonime comeSarahah Kit Messenger o che, come Confide, distruggono automaticamente messaggi, immagini e clip appena trasmessi.

SMARTPHONES SOCILA MEDIA

È facile constatare come l’immersione nei social crei negli adolescenti dipendenza: esaurire i gigabyte disponibili o avere il cellulare scarico causa vere e proprie crisi da astinenza perché interrompe il ciclo di gratificazione della dopamina, alimentato a ogni scambio di immagini e messaggi. Le giovanissime e milionarie star della Rete come Favij, Sof a Viscardi, Iris Ferrari, e tanti blogger e youtuber hanno milioni di follower con tutti i sintomi della dipendenza. Ma l’aspetto più grave messo in luce dalle ultime ricerche è che negli adolescenti la modificazione a senso unico delle connessioni cerebrali sotto l’effetto dopaminergico puòbloccare lo sviluppo cerebrale verso l’età matura. Si rimane così come eterni ragazzi: un rischio che famiglie e insegnanti devono assolutamente prevenire.

 

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11/10/2018 09:43
 
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Guarda in Alto e smettila di piangerti addosso:
il piacere lo puoi trovare in molte cose, ma la felicità te la dà solo Dio!

Ho sentito tante volte dire che la felicità è una scelta, ma poi ho scoperto che non è gratis, anzi! Costa moltissimo! Costa rinunciare al lamentarsi, all’essere ripiegati su se stessi; costa avere ilcoraggio di fidarsi mettendo in discussione le proprie certezze; costa avere come obiettivo il massimo e non accontentarsi mai del mediocre. È un cammino quotidiano e costante, per temerari e coraggiosi.

Ci sono dei giorni in cui fuori piove come oggi e l’ultima cosa che vorrei fare è sentire la sveglia delle 6.25 (a cui poi segue quella delle 6.30, a cui segue un bacio al maritino e un “dai amore alzati prima tu se no i bambini fanno tardi a scuola”). Preferirei che qualcuno intervenisse con un altoparlante tipo quello degli aeroporti dicendo: “Gentile mamma e gentile papà (basta anche solo mamma!) la giornata che stava per iniziare è stata annullata. Rimanete a letto con le cinture allacciate e tenete strette le coperte”. Ci sono giorni depressive in cui devo portare per l’ennesima volta la macchina dal meccanico (tipo oggi!), ho litigato con Francesco perché la lavastoviglie non funziona bene da mesi (ha venticinque anni, almeno!), la lavatrice non strizza più bene, la muffa in casa sta mietendo allergie respiratorie e soprattutto non riusciamo a capire dove cappero dobbiamo vivere (Germania o Italia, ma dove esattamente?).

In tutto questo dovrei

trovare un motivo per essere felice perché la felicità non dipende da quello che ti succede ma è una scelta…

Quante volte hai sentito questa frase? Mi pare di averla detta proprio io al corso L’amore chiama, l’amore è urgente a Torino e poi sicuramente ti hanno fatto na capoccia così ad Ingannevole come l’amore e ad Assisi. Ecco, in giorni come oggi mi viene da mandare tutti a quel paese ad iniziare da me, i frati d’Assisi e Mimmo e Cinzia di Ingannevole. Ma da voi, cari amici frati e cari amici pugliesi, piove per nove giorni di fila senza sosta? A voi vi capitano i giorni in cui dalla macchina vecchia, alla lavatrice sfonnatanon ve ne bene una? (…mi sa che la prima che ho detto no, non vi capita, ma la seconda si purtroppo…).

 
 

Lo so, non mi è successo niente di grave, stiamo tutti bene (tranne il mio piccolo Samy con un strana malattia tipo varicella sulla bocca e le mani), Chiara è addirittura partita due giorni in montagna con la scuola e Maria non vede l’ora di avere mamma tutta per sè per una sanissima serata würstel e patatine davanti a Jasmine della Disney proiettata in soggiorno.

Non so voi, ma certi giorni è difficile essere felici. E quando penso che la felicità è una scelta mi arrabbio ancora di più, però in fondo al cuore sento che c’è Verità in questo, che questa frase è vera, che davvero se po fa!

Stamattina, mentre perdevo tempo a pensare ai problemi cosmici di casa Rao, ho letto un articolo di Costanza Miriano sul suo blog e, guarda caso, parlava di una cosa simile a quella che stavo pensando e cioè cheprovare a vivere il vangelo non è solo bellezza ma anche fatica e fango (..leggetelo per intero perché merita! e poi perché io e Costanza, nonostante ci siamo viste mezza volta siamo amiche per la pelle perché qualche anno fa, quando ero incinta di Samy, ci siamo scambiate messaggi tipo “quando partorisci il cocomero che hai ingoiato ritorni secca secca”). Capperi! Pure Costanza Miriano! Allora tutti tutti siamo nella stessa barca, anche Mimmo e Cinzia che, nonostante alla sera penso abbiamo male ai muscoli della faccia per quanto siano sempre sempre sempre sorridenti, ci raccontano le difficoltà e il cammino quotidiano fatto di scelte spesso faticose e contro corrente.

La cosa che davvero mi fa soffrire, la croce che pesa sulle spalle per noi è questa instabilità di dove vivere che ormai ci portiamo dietro da anni, troppi anni e nun se ne può più. Ognuno ha la sua, la nostra è questa e so anche che ai più è difficile da capire. Forse dovremmo tornare in Italia visto che tutto quello che facciamo lo facciamo lì, si, ma dove?, l’Italia è grande e non stiamo trovando niente che ci vada bene (siamo le persone più difficili del pianeta!). Dentro tutti questi incastri e casini però ho deciso di fermarmi, di affidarmi e di iniziare dai desideri. Allora ho iniziato a pensare che mi piacerebbe vivere in un posto caldo, non troppo al nord, ma non troppo al sud con una casa con una cucina che è un ambiente unico, con il soggiorno pieno di vetrate strafighe, un giardino da paura con un grande albero sotto il quale fare i picnic dell’ultimo minuto tutti insieme e… sono andata avanti per ore e ore perdendomi in mille film dei quali solo noi donne siamo capaci, scavando e scavando sempre di più nei miei desideri più profondi. Dalla casa sono passata a gesti d’amore che potrei fare con spazi ampi. Dai gesti sono arrivata all’apertura di questa casa agli altri e poi e poi ancora… fino ad arrivare a desideri grandi, grandissimi, di maternità, di pienezza fino a dire che:

“Tutto questo è bello e lo desidero con tutto il cuore (casa, lavatrice con centrifuga decente, lavastoviglie che si avvia con la forza del pensiero, ecc.), ma la pace e la felicità la posso trovare solo nel cuore di Dio, solo se ascolto e rispondo a quella voce di Verità che si sente nella brezza leggera e in quelle intuizioni di Spirito Santo”.

Insomma la felicità è davvero una scelta! Ma non è gratis!

Non c’è cosa che mi impedisca di stare nel cuore di Dio e gustare di tanto Amore. Certo però non è gratis, perché bisogna pagare il prezzo diguardare in alto e smettere di piangersi addosso e questo costa caro. In fondo, soprattutto a noi donne, ci piace e ci strapiace quel mugugno interiore di lagna costante e malinconia interiore in sottofondo mentre ci immoliamo per qualsiasi persona incontriamo durante il giorno, quel “non sai quanto soffro e nessuno mi può capire”.

La felicità è il frutto del costante guardare in alto e non accontentarsi dello schemino di vita da quattro soldi che ci viene propinato quotidianamente.La felicità per me è un continuo fare memoria e esperienza di essere figlia del Re (roba seria!) e che da figlia di Re non può accontentarsi del mediocre, del banale ma cerca e aspira sempre ad un Amore più grande per sé e per chi gli sta intorno. La felicità è roba seria, roba buona e non è scontata, non è superficiale, anzi. La felicità è la quotidiana risposta a quell’Amore che non sta nel mio schemino. La felicità è la costante lotta contro il mio accontentarmi, la mia superficialità, la scelta di avere comportamenti infantili che cercano di fuggire dalle responsabilità.

Io, da povera pagana che non sono altro, pensavo che per risolvere questa giornata uggiosa avrei dovuto esaminare attentamente ogni singolo problema e trovare il modo di risolverlo al meglio, invece prima di fare tutto questo (che chiaramente mi tocca!) sento il bisogno di ricentrarmi, stare nel cuore di Dio perché come mi dice sempre padre Giovanni:

Il piacere lo trovi in ogni dove, ma la felicità te la dà solo Dio!

… e non sono chiacchiere mi sa. Alla fine di questo articolo mi sento pronta per prendere la mia vita in mano, metterla nelle mani di Dio e di provare, con la Sua grazia, a riscattarmi dalla mia superficialità costante e dall’accontentarmi, per trovare Lui e in Lui la gioia piena, felicità eterna.

 

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13/10/2018 12:20
 
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Perché secolarizzazione fa rima con depressione?



All’aumentare della secolarizzazione degli ultimi due secoli, è aumentato anche il disagio dell’uomo. E’ un dato di fatto ormai: cresce l’uso di alcool, di antidepressivi e di droghe, cresce l’autolesionismo sopratutto nei giovani, aumentano le malattie mentali, più di un terzo degli europei soffre di disturbi psicologici, aumentano le vittime della depressione, aumentano le forme di dipendenza in particolare quelle sessuali e terribili forme di perversione come la zoorostia, cresce l’analfabetismo. ecc.. Il Censis in un suo recente rapporto ha letto così la società italiana e moderna: «sempre meno valori e ideali comuni a cui appartenere. I legami e le relazioni sociali sono sempre più fragili e inconsistenti».


Il filosofo Pietro Barcellona, docente presso l’Università di Catania, ex membro del Consiglio Superiore della Magistratura e già deputato PCI, laico anche se avvicinatosi al cattolicesimo negli ultimi tempi, è intervenuto sulla questione affermando«L’aumento allarmante delle manifestazioni di tipo depressivo dovrebbe indurci tutti insieme a domandarci perché nella nostra epoca gli uomini sperimentano una condizione di solitudine angosciante che non ha precedenti in altre epoche caratterizzate da disastri ambientali, pestilenze ed epidemie. Questo non significa affatto dire che si stava meglio quando si stava peggio perché nessuno vuole contestare gli effetti benefici della scoperta della penicillina o della chemioterapia, ma soltanto riaffermare che la dimensione propriamente umana della malattia e della sofferenza non ha niente a che vedere con la sua spiegazione scientifica». Il filosofo risponde ad un articolo di Gilberto Corbellini e promuove allo stesso tempo il libro appena uscito “Elogio della depressione” (Einaudi 2011).


Inutile voler ridurre la sofferenza dell’uomo a motivazioni misurabili, «il dolore umano è il più grande mistero della nostra condizione perché lega indissolubilmente la storia di ciascuno al senso dello stare al mondo e della destinazione di tutti gli esseri umani di fronte alla inevitabile percezione della caducità e della mortalità di tutto ciò che noi siamo e di tutto ciò che ci sta di fronte. La condizione umana per questa specifica comprensione del dolore trascende il pragmatismo empirico del rimedio della cura e rimanda inevitabilmente alle questioni ultime a cui la filosofia e la religionehanno cercato di rispondere nel corso della storia. La domanda sulle cose ultime è intimamente connessa all’esperienza del dolore e al senso della vita rispetto all’angoscia di morte, e perciò pone l’uomo sempre di fronte ad un problema della comprensione di sé e degli altri che non si lascia ridurre a puri meccanismi meccanici e fisiologici di causa ed effetto»Il problema appare dunque esistenziale, ed è sicuramente determinato dal tentativo violento di eclissare Dio da parte della cultura laicista. Ma da questo non deriva alcun risultato positivo per l’uomo, anzi egli appare essere«più esposto alla paura di non sapersi dare una ragione per vivere, e che spesso a causa di questa esperienza di sofferenza è colpito da malattie che riguardano anche il suo funzionamento fisiologico, è un problema che ha a che vedere anche con il modo di essere della nostra società». La crisi non è solo economica, «ma direttamente riferibile alla fragilità del nostro statuto antropologico. Il chi siamo e il dove andiamo non è un problema al quale le scienze positive potranno dare risposte». Da questo riconoscimento, compreso quello che gli esseri umani non sono soltanto biologia e non sono neppure soltanto società, dalla «consapevolezza dell’assenza di risposte» è possibile che fiorisca «l’apertura dell’essere umano verso un senso della vita che va ricercato e che, tuttavia, sempre sfugge ad ogni possesso immediato», conclude Barcellona.


Il filosofo  Fabrice Hadjadj, scrittore e docente all’Università di Tolone, centrava il punto qualche mese fa: «Nel suo umani­smo più rivoluzionario l’Europa ha diffuso una speranza mondana, sostituto della speranza cristiana. Ora che tale speranza è morta, il nostro Continente non conosce al­tro che la disperazione, che cerca di fuggire gettandosi a peso morto nel divertimento dello spettacolo e nei sogni della tecnologia».



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17/01/2019 11:47
 
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Non valgo nulla, faccio schifo”.
Da chi vengono e come scacciare i pensieri neri?

SAD WOMAN
 

In un libro che raccoglie alcune catechesi di padre Maurizio Botta
troviamo utili risposte per fronteggiare il dialogo cattivo che sentiamo dentro

“Non valgo nulla”, “La mia vita non ha senso”, “Faccio schifo”, “Meglio morire che vivere così”, “Sono inutile”, “Va tutto male”, “Niente cambierà”…

A tutti, chi più chi meno, è capitato in alcuni momenti di essere invasi dentro al cuore e nella mente da parole brutte su sé stessi e sugli altri, pensieri neri che come calamite potentissime ne attraggono mille altri, uno dietro l’altro in un vortice pazzesco che toglie energie, appesantisce l’animo e – aspetto più inquietante – fa rimanere concentrati solo su se stessi. Il mondo non esiste, le persone che hai intorno perdono importanza, esisti tu e il tuo malessere, tu e le cose che non funzionano come dovrebbero, tu e il tuo batticuore, tu e la tua ansia, tu e la tua infelicità.

Ricordo che il primo anno di nozze mi capitava, dopo aver discusso con mio marito, di essere assalita da pensieri tremendi che mi immobilizzavano sul divano a rimuginare e piangere. Pensieri scollegati e incontrollabili che arrivavano a mettere in dubbio tutto e a gettare fango sul matrimonio, il mio sposo, me stessa, la mia vita. Qualcosa dentro di me assolutizzava e drammatizzava quella incomprensione, appiccando fuoco ad ogni cosa.

LACRIMA, OCCHIO, TRISTEZZA
 

Ma quei pensieri negativi, da dove venivano fuori? Chi è che parlava dentro di me?

Un giorno confidai a mia madre questa mia tristezza e lei, consolandomi, mi suggerì di non prestare ascolto a quelle “voci” che di certo non venivano da Dio: “fatti il segno della croce, bevi tre sorsi (Padre, Figlio e Spirito Santo) di acqua benedetta e prega, recita l’Ave Maria”. Io obbedii e mi accorsi di stare subito meglio, il saggio consiglio di mia mamma, teologa senza laurea, funzionava. Se non le avessi dato retta però non lo avrei mai saputo. Perché se non chiediamo aiuto a Dio, se non gli domandiamo lo Spirito Santo, come possiamo riceverlo?Mia madre mi suggeriva spesso in quei momenti di stare in compagnia e tenermi impegnata in attività manuali: piegare i panni, preparare la cena. Anche questo mi fu molto utile. Riuscii ad “imparare” in breve tempo un modo per fronteggiare la tristezza e il flusso negativo interno che di tanto in tanto occupava il mio cuore.

Recentemente ho letto il bel libro: “Sto benissimo soffro molto”, di padre Maurizio Botta per i tipi Edizioni studio domenicano che raccoglie alcune delle sue catechesi tenute all’interno del ciclo di incontri “Cinque passi al mistero”, di cui avevamo già parlato qui.

Nel quinto capitolo dal titolo “Senso di colpa che uccide. Quando paura e ansia ti tolgono la gioia”, l’autore spiega molto bene questo incessante catapultarsi nella mente di parole, frasi, pensieri, immagini negative e offre dei consigli, partendo dalla sua esperienza personale e dai passi del Vangelo, per contrastarle.

Scrive padre Maurizio:

(…) Sai qual è il termine per indicare queste cose cattive? (…) dialogo cattivo. Hai dentro un “dialogo cattivo” che ti spinge da dentro… E non sto facendo un discorso ideologico, basta essere onesti con se stessi: chi di noi non conosce questo dialogo continuo dentro di sé, il perenne rincorrersi di voci, impressioni, flash, paure? La vera domanda è: da dove vengono?

 

Andare dallo psicologo aiuta, ma non basta!

E procede sottolineando la stima personale che nutre nei confronti della psicologia e delle scienze umane, necessarie in primis a lui stesso per comprendere tanti meccanismi della mente e a chi ne ha bisogno per motivi importanti, specialmente quando questo dialogo cattivo diventa una vera e propria malattia. Ma c’è un problema a suo avviso quando le scienze umane si idolatrano e si pongono come spiegazione e soluzione di tutto, perché in realtà non possono bastare, continua Botta. Andare da uno psicologo, conoscere che ci sono dinamismi mentali specifici, che esiste il Super-Io, che “hai nella testa dei modelli di perfezione folli, irragionevoli e stai soffrendo solo per questo” serve, è un bene, ma non toglie la paura”, afferma l’autore.

Certamente ne trarrai benefici, ma questo servirà a zittire una volta per tutte i “dialoghi negativi”? Non lo penso. Qualcuno mi dirà: “Non è per tutti così”. È vero. Sono d’accordo. C’è chi soffre di più, chi meno. Io personalmente sento la drammaticità di questo incontro per un motivo preciso… Sono fondamentalmente tre i grandi miracoli che mi hanno spinto a diventare sacerdote: sperimentare che era possibile (io che pensavo che non lo fosse assolutamente) vivere la purezza con la preghiera, gioiosamente; guarire dall’amore possessivo; guarire dal dilaniamento continuo di frasi e immagini inesistenti, dai “dialoghi cattivi”.

 

Come distinguere quando dentro di noi è Dio a parlare?

La catechesi procede toccando un punto fondamentale: se Dio esiste e ci parla, come capire se è Lui a parlare dentro di noi? Quando ci viene una parola, una frase, un pensiero, come facciamo a comprendere se viene da Lui o no?

Lui parla di se stesso come di chi è nella pienezza della gioia divina e ce la vuole donare. Questo ti fa capire quando la voce che ti parla dentro viene da Lui: la voce di Dio dentro è pace e gioia. È una voce esteticamente bella. Il Signore è un signore, è nobile nel parlare. Quando Lui parla è pace e gioia perché è Signore della pace, non un trombone. Questo significa che il 99% delle voci che sentiamo dentro non sono di Dio, perché quando è Lui a parlarti, non hai proprio dubbi. (…) Le altre voci o sono umane oppure vengono da più in basso, perché così dice il Vangelo. Prova a pensare a tutto ciò che ti frulla nella testa: i pensieri un pochetto belli, quelli cinici, duri, tristi, quelli pessimisti, depressi, quelli incacchiati. Non è Dio che parla! È un rumore che può avere cause psicologiche. Tutte quelle voci che deridono le parole del Vangelo, il credere l’esistenza di Dio, la bontà di Dio, continuamente…

Pexels

Cosa fare per cacciare le voci orrende che ci insidiano i pensieri?

1) Dobbiamo tenere a mente una cosa che non ci viene più detta: la battaglia spirituale è una battaglia, afferma padre Maurizio Botta.

(…) La vita dei credenti è una battaglia non contro i nemici là fuori, ma contro le “bestie” dentro. (…) perché ti stupisci che la tua fede sia tentata se quando reciti il Padre nostro dici “non farci soccombere alla tentazione, liberaci dal malvagio”? Perché il testo parla di “malvagio”, non di male generico o neutro, ma “il malvagio”, con l’articolo determinativo.

2) Quando abbiamo questi pensieri cattivi è importante dire la verità al Signore, senza nascondergli nulla, e dare quelle bruttezze in elemosina:

(…) Per liberarmi dai pensieri cattivi, dalla gelosia, il primo passo, per me, è stato dire a me stesso e al Signore la verità. “Io ti racconto, Signore, tutta la mia miseria. Io sono geloso, possessivo, cattivo. Io sono ingiusto, sono bugiardo, sono ladro”. Non nasconderti o autogiustificarti davanti a Dio, ma presentati così come sei, dai in elemosina le tue intenzioni negativi e i tuoi pensieri cattivi.

3) Altro aspetto fondamentale è quello di non dargli troppo ascolto:

 

Un altro consiglio frutto della mia esperienza è di non prestarci troppo ascolto. Quando è chiaro che non è Dio che ti sta parlando, lascia chiacchierare, non curartene. Come quando lo psicologo dice: “Guardala quella cosa!”. Ecco, stai proprio fermo, seduto, tranquillo, e di’: “Venite pure tutte addosso”. Ti agiti, soffri, sei stanco, ma poi ti accorgi che non muori mica! Parola d’onore!

4) E poi c’è l’arma più potente: la corona del rosario!

(…) E in tasca sempre il rosario! Io ho questo più piccolo che non si vede, poi questo qua, e ancora questo chiuso e molto prezioso che mi ha regalato una santa monaca di clausura. Non sono sprovvisto di questi attrezzi, perché la mamma mi diceva: “Mi raccomando, sii sempre pulito perché se ti succede qualcosa, poi vai all’ospedale!”. Che quando mi svuotano le tasche all’ospedale, dicono; “Questo è matto!”. Ma, se è battaglia, è battaglia!

5) Infine, ma sempre per prima, la preghiera incessante:

(…) “Gesù Cristo, abbi pietà di me peccatore”, come nel libro Racconti di un Pellegrino Russo. Non so se lo conoscete. Il protagonista è per l’appunto un pellegrino che attraversa l’Ucraina e la Russia portando con sé solo pane secco e la Bibbia. Dopo aver partecipato a una Messa, molto colpito dall’esortazione di San Paolo a pregare incessantemente (1 Tessalonicesi 5,17), si mette alla ricerca di chi gli insegni a vivere la vita di ogni giorno e contemporaneamente a tenere la propria mente continuamente rivolta a Dio in preghiera. Incontra, infine, un santo monaco che gli insegna la preghiera di Gesù o preghiera del cuore, che consiste nella ripetizione incessante, secondo il ritmo del respiro, della formula «Signore Gesù Cristo, Figlio Di Dio, abbi pietà di me peccatore», una frase adattata dal Vangelo (Luca 18,13). (…) Vi confesso che le prime migliaia di volte c’era quel “sono un peccatore” che mi lasciava un po’ perplesso… “Ma perché devo dire che sono un peccatore?”, c’era proprio una resistenza, ma più andavo avanti e più capivo che mi faceva bene…

Perché non siamo nella pace e nella gioia?

Scrive padre Maurizio che non abbiamo la gioia piena che vuole donarci Cristo  – e che il nostro cuore desidera – perché non viviamo il comandamento che Lui ci ha dato, “Che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amato” e non chiediamo al Signore di farci amare così chi abbiamo accanto e noi stessi. Cominciamo subito a farlo!

(…) penso ai ragazzi e alle ragazze a cui la voce dice: “Sei uno sfigato! Non ti si piglia nessuno! Sarai un infelice!”. Io voglio solo dire loro che è una bugia perché è contraria alla parola di Gesù nel Vangelo. Per il Padre sono contati anche i capelli del vostro capo, Lui si preoccupa per voi: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace perché la mia gioia sia in voi”, vi dice. La soluzione? Il Signore ce l’ha consegnata facendo la sintesi della sintesi. Un solo comandamento: “Amatevi come io vi ho amato, divinamente. Vi do lo Spirito Santo, a chi lo chiede verrà dato”. Stop! (…) dico di ascoltare e prendere sul serio e fino in fondo il comandamento di Cristo: “Ama, ama come ama Lui”. Chiediglielo in ginocchio quando vai a piedi, in bicicletta, al lavoro, con la preghiera, con le giaculatorie.

Voglio amare, Signore, come ami tu!

Così sia.




fonte: https://it.aleteia.org/2019/01/09/come-scacciare-pensieri-negativi/?utm_campaign=NL_it&utm_source=weekly_newsletter&utm_medium=mail&utm_content=NL_it


[Modificato da Credente 17/01/2019 11:51]
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