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Vita ed opere di s.Leone Magno

Ultimo Aggiornamento: 14/10/2014 14:54
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14/10/2014 14:48
 
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3. Fonti del pensiero di Leone Magno
Cassiano, come è dato di vedere, è una delle fonti del pensiero teologico di san Leone; ma ve ne sono molte altre che non sempre sarà agevole identificare, perché è come ricercare il corso sotterraneo del Timavo: c’è, anche se non si vede.
Ma la Chiesa di Roma, custode e garante della retta fede (cf. Mt. 16, 13-20; Lc. 22, 32) 28 , se – forse – non ha dato teologi di grande rilevanza (tuttavia essi non mancano nemmeno a Roma: cf. Ippolito) 29 , ha però l’inestimabile merito d’essere stata crocevia cui le Chiese – con maggiore o minore autonomia – ebbero sempre a riferirsi. Lo si vedrà anche nel caso di papa Leone Magno, e così in cento altri casi. Roma ebbe modo di attingere da Alessandria, da Antiochia, dalle Chiese d’Africa (l’apologetica, in particolare Tertulliano, Cipriano...), dai cappàdoci – magari mediati attraverso sant’Ambrogio –, dalla Gallia (fin, forse, da sant’Ireneo, con matrici perciò giovannee e quartodecimane), da sant’Ilario (per il De Trinitate). Certamente non è assente anche la Chiesa di Aquileia, in modo particolare il vescovo più prestigioso della sede aquileiese, san Cromazio, che precede Leone di poche generazioni (gli anni di Cromazio sono 345 ca.-407/8; vescovo dal 388). Dall’opera di Leone Magno risulta più d’una volta presente qualche testo cromaziano sia nell’omiletica, sia nelle lettere, e proprio anche in ragione del mistero dell’incarnazione, perché Cromazio presenta una cristologia orientata alla soteriologia, e una cristologia essenziale e precisa 30 . Quanto poi a voler appurare quanto san Leone Magno debba all’uno o all’altro pastore/maestro, oltre che inconcludente e inutile, è fatica impossibile. Ciò che importa non è tanto conoscere quanto Leone debba all’uno o all’altro, ma piuttosto con quali moduli stilistici, con quale terminologia egli si collochi nell’alveo della più pura ortodossia. Dato che risulterà discorso nuovo, per parte mia, ravviso sia entro la lettera 28 a di san Leone a Flaviano in particolare, che nella formulazione calcedonese delle espressioni assai vicine a quelle che Cromazio ha usato ad esprimere il mistero dell’incarnazione, il mistero soteriologico e redentivo (il mistero pasquale). Occorrerà comparare i testi dell’uno come dell’altro, magari in forma sinottica. Qualcosa si potrà rilevare via via che si offriranno i testi tradotti. Ma un caposaldo deve restare inconcusso e indiscutibile e assodato: il mistero cristiano è come un diamante dalle numerosissime sfaccettature; gli autori cristiani, i pastori, i catecheti, gli oratori, ecc., evidenziano or l’una or l’altra facciata, secondo esigenze teologiche, pastorali, catechetiche, polemiche, apologetiche, ma sempre rimanendo uno e indivisibile il depositum fidei. Così è pure di Leone Magno, qualsiasi sia la fonte o l’ispirazione cui attinge. Il maestro della fede non è certamente un «originale» estroso: è un custode e un
garante della fede; tanto più se si tratta del vescovo di Roma (cf. Mt. 16, 13ss. e Lc. 22, 32). Il tempo in cui Leone Magno fu chiamato a vivere vide accesi dibattiti sulla persona del Verbo incarnato, sul Cristo, sull’unicità o duplicità della sua natura: divina e umana? in quale relazione? con quali conseguenze?
Altri elementi utili alla comprensione del pensiero teologico e dell’opera di Leone I troveranno collocazione più puntuale nei testi che si danno in traduzione, per il loro rilievo appunto teologico.

4. Il Conciliabolo di Efeso (449) e il Concilio di Calcedonia (451)
Non se ne rifarà, qui, la storia, amara e dolorosa, dagli esiti imprevedibili 31 . La condanna di Nestorio ad Efeso – che era stata poi soprattutto una vittoria di Cirillo d’Alessandria – aveva ridato fiato al «partito» alessandrino. Capofila dei settatori di Cirillo – a Costantinopoli, questa volta, – era il monaco archimandrita Eutiche, discepolo d’un certo Massimo, non meglio precisabile. Difendendo egli – contro Nestorio – l’unicità della persona di Cristo, finiva però anche per sostenerne l’unicità della natura, quella divina, dopo l’incarnazione del Verbo. Si è esattamente agli antipodi di Nestorio. Tutta la difficoltà stava nel concepire due nature, quella divina e quella umana, nell’unica persona del Verbo incarnato. La difficoltà nasceva anche dall’uso dei termini (ipostasi, natura, persona,...) 32 adoperati non univocamente. Del resto ritornava, in senso rigorosamente monofisita, la formula che era stata di Apollinare di Laodicea e di Cirillo di Alessandria 33 . San Cirillo era morto nel 444; i suoi seguaci irrigidirono e semplificarono le sue posizioni teologiche. La formula apollinaristica, riassuntiva della cristologia di Cirillo prima, di Eutiche (e Dioscoro di Alessandria, successo come vescovo allo zio Cirillo) dopo, aveva immesso su di una via pericolosa. La natura umana del Cristo (per Eutiche) finiva per essere assorbita dalla natura divina nell’unica persona del Verbo fatto carne (un’unica natura, fuvsi¦, in una persona; phusis, di qui il termine monofisismo). La scuola di Antiochia, ossia coloro che si ispiravano alla teologia che veniva di là, non stettero a guardare. C’era stato – nel 433, all’indomani di Efeso – un patto di unione tra le due correnti teologiche, quasi segno di riconciliazione tra Cirillo e gli antiocheni 34 ; ma durò poco; verso il 447 i contrasti tra le due correnti si riaccesero, capeggiata la lotta (di lotta si tratta appunto) da Eutiche. Si pensò, da parte di Alessandria (Dioscoro) e di Eutiche, di mettere definitivamente una pietra sul nestorianesimo; si indisse e si tenne un concilio 35 , che avrebbe dovuto – data la sede scelta – essere, in qualche modo, la continuazione del precedente di Efeso; e ad Efeso appunto fu indetto nel 449. A posteriori papa Leone lo definì un latrocinio (o un brigantaggio, o un conciliabolo). Di fatto fu una cosa penosa e indegna, tanto più per dei cristiani. Andò come andò. Lo diresse il patriarca di Alessandria, il solito rozzo e cattivo Dioscoro, nipote – come s’è visto – e successore di Cirillo. Leone aveva inviato suoi rappresentanti, data l’impossibilità di muoversi lui da Roma; ed anche perché vigeva la consuetudine contraria: il papa non era solito dirigere personalmente le assise sinodali in Oriente. Ma l’assise fu perfidamente manipolata da Dioscoro, l’amico di Eutiche (sul quale, del resto, pesava una condanna per la sua eterodossia, già pronunciata a Costantinopoli) 36 , e dagli altri loro seguaci. Gli altri, la parte avversa ad Eutiche e soci, o non furono ammessi, o non si lasciò loro prendere la parola. Addirittura Flaviano (per il quale i delegati di papa Leone erano latori della celebre lettera 28 a ), vescovo di Costantinopoli, ed Eusebio di Dorilea furono deposti, in quanto considerati contrari ai sacri canoni di Nicea. I legati del papa 37 furono tacitati; a stento qualcuno riuscì a ritornare sui propri passi per riferire a Leone il bel risultato di quell’incontro 38 .
Ai delegati papali era stata affidata la celeberrima lettera 28 a di papa Leone a Flaviano. I ppresentanti del papa furono impediti di leggerla ad apertura del con-cili( abol)o, che subito si mise male. La lettera costituirà invece il riferimento obbligato e il caposaldo del concilio di Calcedonia, di cui si dirà (anno 451). V’era, in nuce, la formula cristologica del concilio, dato che la lettera acquistò presso i padri del sinodo calcedonese e nella Chiesa «un’autorità così universale, da essere quasi considerata come una parte del simbolo di Calcedonia» 39 . Tra i risultati del conciliabolo del 449 vi fu l’ostracismo comminato ad Eusebio di Dorilea e a Flaviano, il quale poco dopo morì o in conseguenza dei maltrattamenti subìti o dei contraccolpi di quel nefando convegno 40 . Dei delegati di Leone si sa di sicuro che Ilario (o Ilaro) diacono riuscì a tornare, per vie rocambolesche, a Roma. Egli era latore di un appello di Flaviano al papa, cui si aggiunsero – poco dopo – quelli di Eusebio di Dorilea e di Teodoreto di Ciro.
Quando in Occidente si venne a sapere l’andamento e l’esito del misfatto, l’impressione fu enorme. Leone intervenne subito energicamente scrivendo più volte all’imperatore Teodosio II (lettere 43 bis-44), all’imperatrice Pulcheria (lettera 45) 41 , ad Anastasio, vescovo di Tessalonica (lett. 47), a Giuliano vescovo di Cos (lett. 48) e anche a Flaviano (lett. 49), di cui però Leone ignorava la morte. Per la stessa ragione non mancò di scrivere anche ai fedeli di Costantinopoli (lett. 50), a Fausto archimandrita della stessa città (lett. 51). Li esortava caldamente a rimanere fedeli ai sacri canoni del concilio di Nicea e di Efeso e a non allontanarsi dalla retta fede dei Padri.
Per cancellare l’infamia del conciliabolo si richiedeva un’urgente riparazione. Papa Leone pensò ad un sinodo che si celebrasse nell’ovest, in Italia, mentre l’imperatore Teodosio II (401-450) l’avrebbe meglio visto tenuto nell’est. Leone cercò pure l’appoggio di Pulcheria sorella dell’imperatore. Tuttavia – nonostante autorevolissimi interventi di personaggi influenti della corte, come Valentiniano III (419-455), imperatore nell’Occidente, su Galla Placidia madre di Teodosio II e come Licinia Eudossia, la moglie di Valentiniano III e figlia di Teodosio II – non se ne fece nulla. Per buona fortuna 42 – dopo altri infelici tentativi – l’imperatore Teodosio II morì (450). Pulcheria si associò subito, a certe condizioni, come consorte, Marciano (390 ca.-457); così fu possibile dare il via alla convocazione di un sinodo generale, previsto – inizialmente – a Nicea (ove convennero, nel tempo fissato, 520 vescovi) ma poi – per ragioni attinenti all’imperatore – fu spostato a Calcedonia, più accessibile a Marciano. Chi volesse conoscere più distesamente quanto vi si riferisce (la bibliografia è immensa) lo può vedere in trattazioni più ampie che non sia consentito qui riassumere 43 .
Il dibattito teologico fu lungo e molto animato (il concilio vero e proprio andò dall’8 al 25 ottobre, con un’appendice – del 31 ottobre – perché si trattò di taluni privilegi; tra l’altro, ne sortì il famigerato canone 28, che poneva – nell’ordine dei privilegi – Costantinopoli subito dopo Roma, in quanto sarebbe divenuta la «nuova» Roma; e ciò con danno della precedenza che competeva – nell’ordine – prima a Roma, poi ad Alessandria (2° posto), quindi ad Antiochia (3° posto) 44 . Interessa osservare che la lettera di Leone a Flaviano, scritta per la convocazione di quello che, poi, si rivelò per il «latrocinio» di Efeso, costituì la base della formulazione cristologica del concilio di Calcedonia. La sintesi cristologica del concilio fu l’affermazione – nell’unica persona di Cristo – delle due nature, la umana e la divina, complete e distinte, senza confusione e senza alterazione 45 . Efeso aveva condannato l’errore di Nestorio, Calcedonia condannò quello di Eutiche. Il rilievo di Calcedonia è enorme (se ne vedano le fonti) 46 . Papa Leone, subito dopo la celebrazione del concilio provvide pure – mediante numerose lettere – a far sì che esso entrasse nella coscienza delle Chiese.
Era così restituita ancora una volta la pace alla Chiesa universale, pace però non priva di problemi d’altro genere sia all’est (Costantinopoli) che all’ovest (nella penisola italica).
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Lu 12,42 Il Signore rispose: «Qual è dunque l'amministratore fedele e saggio, che il Signore porrà A CAPO della sua servitù, per distribuire a tempo debito la razione di cibo?
 
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