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L'ARCHEOLOGIA CONFERMA LA BIBBIA (testi)

Ultimo Aggiornamento: 25/06/2023 22:59
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03/09/2019 17:42
 
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LA STORICITÀ DI GESÙ NEI DOCUMENTI ARCHEOLOGICI


di Pier Luigi Guiducci, docente di storia della Chiesa presso la Pontificia Università Lateranense di Roma. 1 novembre 2015

Sono numerose le tracce e i ritrovamenti che conducono, in modo diretto o indiretto, alla persona di Gesù di Nazareth. Focalizzarne meglio i riferimenti storici espliciti diventa, allora, una conseguenza logica.

Per un lungo periodo di tempo la storicità di Cristo è stata oggetto di un ampio dibattito. Sul piano ufficiale, il tema del confronto ha sempre avuto al centro Gesù di Nazareth. Però, dietro a molti rilievi inerenti la sua reale presenza nella Palestina del I secolo, sono emerse anche delle spinte legate a dottrine di pensiero diverse, influsso di correnti gnostiche, posizioni di religioni non cristiane, orientamenti politici avversi all’autorità ecclesiastica cattolica (nelle sue diverse espressioni), risentimenti legati a conflitti di potere, personalismi sottesi a dure polemiche. Sono poi da aggiungere le molte distruzioni del patrimonio cristiano (edifici di culto, monasteri, biblioteche, opere iconografiche) in diversi Paesi, già dal I secolo.
Questo contesto storico, qui solo accennato, non ha facilitato la comprensione delle reciproche ragioni, e non ha permesso di effettuare ricerche in zone di elevato interesse archeologico, e in determinati luoghi di conservazione di reperti di notevole valore storico. Con il mutare di molti contesti internazionali, e con lo sviluppo di indagini moderne impostate con metodo interdisciplinare (con valorizzazione della stessa archeologia), è stato possibile recuperare molto tempo perduto, e far conoscere alla comunità internazionale i risultati di faticose ricerche.[1] Il presente studio, senza alcuna presunzione di esaustività, cerca di focalizzare l’attuale stato della ricerca, e rivolge una particolare attenzione ad alcune fonti non cristiane e ai contributi offerti da specialisti anche non cattolici.

Ritrovamenti archeologici: 1857

 
Il graffito rinvenuto sul Palatino

Nel 1857 venne trovata sul colle Palatino (Roma) un’insolita rappresentazione figurativa. Si trattava di un graffito con la caricatura di un uomo crocifisso con testa d’asino. Ai suoi piedi, un altro uomo in atto di adorazione. Sul reperto si legge la scritta: “Alexamenoj sebete theon” (“Alessameno venera [il suo] dio”).[2] La raffigurazione proviene dal Paedagogium, un edificio che ospitava coloro che dovevano svolgere compiti di assistenza all’imperatore. Tali persone provenivano, verosimilmente, da classi sociali medio-alte. La struttura venne eretta negli anni di Domiziano (Tito Flavio; 81-96 d.C.), ma il graffito è ritenuto di età severiana (200 d.C. circa).[3] Il fatto di rappresentare Cristo Crocifisso con una “testa d’asino” conduce a ritenere di essere in presenza di un’espressione ingiuriosa, abituale in quel periodo. Configurandosi una bestemmia, diversi autori non utilizzarono questo reperto tra le fonti non cristiane che si riferiscono a Gesù.[4]

Ritrovamenti archeologici: 1941-1990

Nel 1941, nella valle del Cedron (Gerusalemme), il professor Eleazar Lipa Sukenik (1889- 1953)[5] ritrovò un ossario del I secolo d.C.[6] Conteneva le spoglie di una famiglia originaria di Cirene. Fu individuato, in particolare, il nome di “Alessandro di Cirene, figlio di Simone”. Tenuto conto del fatto che Cirene è una località molto distante da Gerusalemme, e che Alessandro era un nome relativamente poco diffuso nella comunità ebraica del tempo, gli studiosi ritennero plausibile l’ipotesi che l’ossario racchiudeva i resti della famiglia di Simone il Cireneo, che il Vangelo di Marco identifica appunto come il “padre di Alessandro e Rufo”.[7]
Trascorsero una quindicina di anni. Nel periodo intercorrente tra il 1955 e il 1962, un francescano, il padre Bellarmino Bagatti (1905-1990), scoprì a Nazareth tre diversi graffiti dove si leggono chiaramente invocazioni in greco alla Vergine Maria, la madre di Gesù.[8]
Nel 1961 venne ritrovata una lapide (82×65 cm) con un’iscrizione che menziona Ponzio Pilato[9], Praefectus Iudaeae, colui che condannò a morte Cristo.[10] Il reperto era collocato su un edificio dedicato all’imperatore Tiberio.[11] Una missione archeologica dell’Istituto Lombardo di Scienze e Lettere di Milano, guidata da Antonio Frova (1914-2007), scoprì l’iscrizione ribaltando il gradino di una scala, in un’ala aggiunta tardivamente all’anfiteatro di Cesarea Marittima.[12] La lapide è datata 31 d.C. L’iscrizione è attualmente conservata nel Museo di Israele (Gerusalemme).[13]
Nel dicembre del 1990, nella Peace Forest, vicino North Talpiyyot (quartiere di Gerusalemme), durante la costruzione di un parco fu scoperta una grotta funeraria del periodo del Secondo Tempio. In tale luogo fu rinvenuta una tomba di famiglia al cui interno si trovava un’urna sepolcrale con l’iscrizione “Yehosef bar Kayafa” (“Giuseppe figlio di Caifa”). Nell’ossario, come sostenuto dall’archeologo ed epigrafista Ronny Reich (nato nel 1947), erano racchiuse le ossa di Caifa. Si ricorda, al riguardo, che Giuseppe figlio di Caifa (noto come Caifa), fu sommo sacerdote e capo del sinedrio ebraico dal 18 al 36. Ricoprì tale carica ai tempi di Gesù che fece arrestare, e di cui sollecitò in modo energico la morte (cfr. Lc e Gv).
Dalla fine del 1991 fino a tutto il 1992, due studiosi, gli archeologi ed architetti greci George Lavas e Saki Mitropoulos, lavorarono nell’area del Golgota (basilica del Santo Sepolcro, Gerusalemme).

Le ricerche presso la roccia del Golgota

 
La nave con l’incisioneDomine ivimus

Presso la roccia del Golgota hanno lavorato, nel tempo, più specialisti.[14]Come è noto agli storici, la parte centrale del sito fu parzialmente asportata da Adriano (imperatore dal 76 al 138)[15], e ricoperta da un tempio. Ma l’area del Golgota è comunque vasta. Si pensi che alcune sue parti si trovano, ad esempio, sotto la chiesa evangelica del Redentore (quartiere Muristan). In tale contesto, in uno dei versanti posti all’interno dell’area del Santo Sepolcro (nella cosiddetta cappella di san Vartan), degli archeologi armeni hanno scoperto l’epigrafe in latino di un pellegrino cristiano.
Inciso nella pietra c’è il disegno di una nave con l’albero rovesciato e la scritta sottostante: “Domine ivimus” (Signore, siamo arrivati).[16] Qui, dunque, erano giunti dei pellegrini. Questi ultimi non poterono raggiungere la parte centrale della roccia, poiché su di essa c’era il tempio di Adriano. Così realizzarono un disegno e un’iscrizione un poco distante, restando comunque nell’area della roccia del Golgota. Ciò può essere avvenuto tra il 135 ed il 326, negli anni in cui il vero luogo della crocifissione era inaccessibile. Ed anche questo ritrovamento conferma a sua volta quanto la tradizione del luogo sia stata conservata con tenacia e precisione nei secoli.
Ma la scoperta più recente è legata al lavoro dei già citati Lavas e Mitropoulos. Furono loro a occuparsi del dissotterramento dell’intera parte superiore della roccia nella cappella greco-ortodossa del Golgota. Essi constatarono che, sotto le lastre di marmo del luogo di culto, si trovava uno strato di malta di calce rotondo, dello spessore di 50 cm, rimasto intatto da secoli. Fu asportato con cautela. Si scoprì, nel mezzo, una cavità rotonda, ove si trovava un anello di pietra di quasi 11 cm di diametro. Non c’era alcun dubbio che l’anello serviva al fissaggio di una croce. Si infilava la croce nell’incavo, attraverso l’anello, fino ad incastrarvela, per poterla poi innalzare. Era questo l’anello della croce di Cristo?

L’anello della croce di Cristo?

Gli archeologi si astennero da conclusioni affrettate. Mitropoulos fornì solo due possibili interpretazioni del ritrovamento.
1) Poteva trattarsi di un anello sistemato nel 326. In quell’anno, la madre dell’imperatore Costantino (Elena, 248 circa-329), volle preservare il luogo della crocifissione di Cristo, e quello della sua sepoltura. Per tale motivo suo figlio autorizzò l’edificazione – sopra quell’area – della basilica del Santo Sepolcro.
Si tratterebbe, allora, di un anello costruito in memoria della crocifissione. Se anche fosse “solo” questo, “quell’anello” fornirebbe notevoli indicazioni. Perché? Perché la pratica del fissaggio della croce attraverso un anello (allora sconosciuta agli archeologi), doveva basarsi su precise conoscenze, su salde informazioni tramandate. Chi, altrimenti, si sarebbe inventato un anello di 11 cm di diametro?
Quest’ultimo è un dato-chiave. “Quel” diametro significa che la croce non poteva essere più alta di 2,40 metri. E questa modesta altezza contraddice le aspettative di vari autori. Non conferma neanche quanto si è voluto rappresentare fino ad oggi – ad esempio nelle arti figurative – al di sotto del corpo del Signore crocifisso.
Sull’altezza della croce anche gli evangelisti non forniscono dati. Emerge, così, una situazione ove l’archeologia non è sostenuta da altre scienze.
2) Esiste, poi, un’altra possibilità. L’effettiva appartenenza di “questo” anello alla croce di Gesù.
Di fronte a tale ipotesi, qualcuno potrebbe obiettare che Adriano fece distruggere Gerusalemme nel 135 (fu una seconda distruzione) ed edificare sopra i luoghi del Golgota e del Sepolcro vuoto dei templi. In tal modo si impediva l’accesso ai cristiani (molti erano pellegrini).
Però, proprio questa disposizione dell’imperatore potrebbe aver contribuito alla conservazione della cavità e dell’anello. Adriano, infatti, fece asportare ampie parti della roccia e lasciò stare solo la parte centrale, che spianò. E infatti è stata ritrovata solo una cavità e non anche le due degli altri che furono crocifissi con Gesù. Inoltre, per il compimento di tale azione non serviva distruggere l’interno della cavità di centro. Bastava riempirla e spianarla in modo da potervi costruire sopra. Proprio questo accadde, come indicano con chiarezza i reperti archeologici.
Cavità e anello possono, dunque, essere autentici. Nel frattempo, a Salonicco, sono stati analizzati l’anello e la malta di calce per arrivare a una datazione.
Nel corso dei lavori dei due archeologi greci si è pure arrivati a un’ulteriore conferma dell’autenticità della roccia del Golgota. Sotto la malta di calce (ora rimossa), è emersa per tutta la roccia (fin sotto alla cappella di Adamo) una frattura.
Gli scettici, sulla base della parte inferiore della roccia (l’unica prima visibile), avevano ritenuto – fino a quel momento – che si trattasse di un difetto naturale della roccia. Ora, invece, è sicuro che la frattura è stata causata da un evento naturale di particolare impatto. Per Lavas e Mitropoulos si tratta della conseguenza del terremoto menzionato dall’evangelista Matteo: “La terra tremò, le rocce si spezzarono”.[17]

Ritrovamenti archeologici: 2004-2011

Nel 2004, a Bet Gemal[18], il padre Émile Puech (nato nel 1941), un esperto di epigrafia antica presso l’École Biblique et Archéologique di Gerusalemme, decifrò su una tabula ansata su un architrave, la scritta scolpita nella pietra: “Diakonikon” (cioè un luogo per conservare reliquie) Stephanou Protomartyros”. Era la prova definitiva che in questa località (l’antica Kfargamla) il primo martire cristiano Stefano ebbe la sua prima sepoltura.
Tre anni dopo, il professor Ehud Netzer (1934-2010), dell’Università Ebraica di Gerusalemme, ritrovò la tomba di Erode il Grande, re della Giudea durante il protettorato romano.[19] L’evangelista Matteo lo indica come colui che tentò di far uccidere Gesù.[20] Altri scavi hanno confermato i dati dell’evangelista Giovanni con riferimento alla piscina di Siloe.[21] Secondo Ronny Reich (nato nel 1947), dell’Università di Haifa, la presenza di Gesù nei pressi della piscina potrebbe essere legata alle abluzioni rituali che precedevano l’entrata nel tempio di Gerusalemme.
Il 21 dicembre del 2009, sul sito dell’Israel Ministry of Foreign Affairs apparve questo titolo: “Residential building from the time of Jesus exposed in Nazareth”. In pratica, l’archeologa israeliana Yardenna Alexandre, dell’Israel Antiquieties Authority, aveva scoperto a Nazareth una casa dei tempi di Gesù (I secolo) nei pressi della “casa di Maria”.[22]
Si può, ancora, ricordare il ritrovamento (estate 2011), effettuato nel sito di Hierapolis (oggi Pamukkale, Turchia) della tomba dell’Apostolo Filippo. In questo caso, a dirigere i lavori, è stato l’archeologo Francesco D’Andria, direttore dell’Istituto per i Beni Archeologici e Monumentali (IBAM), presso il CNR di Lecce.[23]
Ma è utile una sosta. Per un motivo. Tutti i dati segnano delle tracce orientate – in modo diretto o indiretto – alla persona di Gesù di Nazareth. Focalizzarne meglio i riferimenti storici espliciti diventa, allora, una conseguenza logica.

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