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Vita di Mosè (di Gregorio Nisseno)

Ultimo Aggiornamento: 07/04/2014 19:15
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07/04/2014 19:14
 
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SEGUIRE DIO


Mosè, giunto nella cavità della roccia, viene ri­coperto dalla mano di Dio, come afferma la Scrit­tura.
Mano di Dio è la Potenza che ha creato il mon­do, l’Unigenito Figlio di Dio, per mezzo del quale ogni cosa fu fatta (Gv 1, 2). Egli è il luogo per co­loro che corrono, la pista ove si svolge la corsa, co­me lui stesso ebbe a dire (Gv 14, 16).
Ma è diventato anche la roccia per quelli che si mantengono costanti nel bene e la casa per coloro che abbisognano di riposo.
Mosè sente la voce di chi lo chiama e si mette al suo seguito; si muove dietro al Signore, come co­manda la legge. Anche il grande Davide udì e com­prese queste cose.
Parlando a colui che gode l’aiuto dell’Altissimo dice: «Egli ti coprirà con l’ombra delle sue ali» (Sal 90, 4). Lo stesso Davide in un altro passo va gridando a se stesso: «La mia anima è legata dietro di te e la tua destra mi sorregge». Queste parole del salmo hanno il medesimo significato di quelle udite da Mosè. Vedere il dorso del Signore significa ap­punto seguirlo.
Nel racconto si afferma che la mano del Signo­re viene a posarsi su Mosè, in attesa nella cavità della pietra che lo si chiami e gli si chieda di se­guirlo.
Anche il salmo citato dice che la destra di Dio sorregge colui che vi si attacca. Né il Signore, rivelatosi Mosè, osservante della legge, si esprime diversamente coi suoi discepoli, dando a essi la spiegazione delle cose che erano sta­te dette in figura: «Se uno vuoi venire dietro di me...» (Lc 9, 23). Egli non dice: davanti a me.
Egli propose il medesimo invito a quei tale che lo interrogò intorno ai modo di possedere la vita eterna. Gli dice infatti: «Vieni, seguimi» (Lc 18, 22). Ora colui che segue va dietro le spalle.
Mosè dunque, ansioso di vedere Dio, viene a sa­pere che ciò gli sarà possibile a condizione di an­dare dietro a Dio ovunque voglia condurlo e que­sto è vedere Dio.
Il passaggio di Dio va inteso nel senso che Dio fa da guida a chi lo segue. Chi non conosce una stra­da, non può percorrerla con sicurezza, senza segui­re una guida. Ogni guida, mettendosi davanti, mostra la stra­da a chi le vien dietro e questi, stando al seguito della guida, non sbaglierà direzione.
Ma se uno guarda a sinistra o a destra o in fac­cia alla guida, percorrerà un cammino sbagliato. Perciò Dio dice a Mosè: tu non vedrai la mia faccia. Non guardare in faccia chi ti guida, perché al­trimenti camminerai in direzione contraria.
Il bene non si mette in opposizione con sé stes­so, ma si fa compagno di un altro bene. È il vizio che corre in direzione contraria alla virtù, ma la virtù non si oppone mai a sé stessa. Per questo motivo Mosè non guarda Dio in fac­cia, ma sul dorso. La Scrittura attesta infatti: «Nes­suno vedrà la faccia del Signore e vivrà».
Se consideri che Mosè è fatto degno della grazia di questo invito verso il termine della vita, quando era asceso tanto in alto e aveva avuto teofanie glo­riose e terribili, capirai quanto sia importante an­dare dietro a Dio. Mosè seguendo il Signore, non incontra più da­vanti a sé nessun ostacolo di peccato.



AL DI LÀ DELLE PASSIONI

I danni dell’invidia

Dopo questi fatti, i suoi fratelli ebbero invidia di lui. L’invidia è una passione violenta, fonte di mor­te, prima apparizione del peccato, radice del ma­le, generatrice di dolore, madre di ogni disgrazia, causa di disobbedienza, inizio di vergogna.
Fu l’invidia che ci scacciò dal paradiso, trasfor­mandosi in serpente ai danni di Eva. Essa ci allon­tanò dall’albero della vita e, dopo averci spogliati delle sacre vesti, ci ridusse alla vergogna delle fo­glie di fico75.
L’invidia, violentando la natura, armò la mano di Caino. Fu essa a suggerire di uccidere sette per­sone per vendicare la morte di una sola. L’invidia fece Giuseppe schiavo. Essa è pungolo mortale, arma nascosta, malat­tia della natura, dardo avvelenato, distruzione vo­lontaria, dolorosa ferita, chiodo dell’anima76, fuo­co interiore, fiamma che arde nelle viscere. Per es­sa costituisce disgrazia non il proprio male, ma il bene altrui, costituisce successo non il proprio be­ne, ma il male degli altri.
È invidia rattristarci delle prosperità altrui e macchinare contro la loro fortuna. Dicono che gli avvoltoi siano uccisi dal lezzo dei cadaveri di cui si cibano e si trovino a loro agio nel marciume. Anche chi è posseduto da questa ma­lattia si sente nauseato del benessere dei suoi vici­ni come per un cattivo odore e quando s’accorge che, per qualche disgrazia, essi sono nella sofferen­za, si precipita a volo sopra di essa, per frugare col becco fin nel suo fondo
Molti, anche prima di Mosè, furono vittime del­l’invidia, ma quando essa volle gettarsi contro que­sto grande, si infranse come vaso di terracotta sca­gliato contro una pietra.
In lui soprattutto si riconobbe quanto è grande il vantaggio di chi sta dietro al Signore, conduce la corsa nel luogo divino eppure sta fermo sulla roc­cia, trovandosi così difeso e protetto dalla mano di Dio.
Mosè, venendo dietro ai passi della sua guida, ne vede il dorso non la faccia. Se il dardo dell’invidia non riesce a raggiunger­lo77, ciò significa che egli ha raggiunto la felicità, andando dietro al Signore.
Anche se l’invidia lancia contro di lui le sue frec­ce, egli si trova troppo in alto perché esse possa­no colpirlo. La malignità altrui fu come la corda di un arco, ma troppo sottile e debole per giungere a conta­minare anche lui della medesima malattia.
Aronne e Maria subirono invece le ferite dell’in­vidia e si misero a scagliare contro di lui parole ostili, ma egli rimase tanto immune da quella ma­lattia che poté curarne le vittime. Poiché non si la­sciò impressionare dall’animosità dei suoi avversa­ri, ma supplicò il Signore in loro favore, egli ci mo­stra che l’uomo difeso dallo scudo della virtù, non può più essere ferito da colpi di lance.
La punta della lancia finisce per piegarsi quan­do viene a incontrare questo scudo resistente, che è Dio stesso. Di esso si riveste il combattente della virtù e da esso è difeso contro i colpi delle lance.
Dice la Scrittura: «Rivestitevi del Signore Ge­sù Cristo» (Rm 13, 14), ossia di quella forte arma­tura di cui si cinse Mosè per rendere impotente l’ar­ciere malvagio. Quelli che volevano farlo soffrire con gli assalti dell’invidia neppure riuscirono a sfiorano.
Ma egli non fu dimentico dei doveri di giustizia impostigli dai legami di natura e supplicò Dio in favore dei suoi fratelli, che già erano stati giusta­mente condannati.
Ciò non avrebbe potuto fare, se non si fosse messo dietro a Dio, che gli mostrava il suo dorso per guidano con sicurezza nella via della virtù.


IL SERPENTE DI BRONZO


La penitenza

Nella marcia attraverso il deserto, il popolo si trova nuovamente angustiato dalla sete e dispera di poter raggiungere i beni promessi. Ma ancora una volta Mosè procura l’acqua, fa­cendola scaturire da una roccia del deserto.
Questo passo, interpretato in senso spirituale, può darci utili insegnamenti intorno al sacramento della penitenza78.
Coloro che hanno gustato la roccia una prima volta, ma si sono poi rivolti al ventre, alla carne e ai piaceri d’Egitto, castigano se stessi, privandosi di questi beni. Pentendosi, essi possono ancora ritrovare la Roccia da cui si sono allontanati e accorrere alla vena d’acqua scaturita a sollievo di coloro che han­no creduto più corrispondente al vero la relazione di Giosuè e non quella degli altri. Essi, fissando gli sguardi sul grappolo appeso al legno da cui gronda il sangue della nostra salvezza, hanno ottenuto che l’acqua ritornasse a zampillare dalla roccia, colpita dal legno79.

La croce rimedio contro le passioni

Il popolo, ancora non avendo appreso a stare al passo con la grandezza di Mosè, si lascia di nuovo trascinare dai desideri del tempo della schiavitù e attirare dalla nostalgia dei piaceri d’Egitto.
Pare che qui il racconto voglia insegnarci la for­te propensione dell’umana natura verso la passione. Essa è una malattia che può colpirci in moltissi­me forme. Mosè riesce a impedire che essa, pren­dendo piede sempre più, diventi malattia mortale. Egli fa come il medico quando s’accorge che il ma­le si è aggravato.
Allorché i serpenti incominciarono a mordere molti del popolo, iniettando mortali veleni a castigo dei loro desideri smoderati, il grande Legislatore riuscì a neutralizzare i funesti effetti causati dai ret­tili, servendosi della figura del serpente.
È bene spiegare con chiarezza il simbolismo di questa figura. L’unica forza capace di, distaccarci da passioni simili a quelle che agitarono gli Ebrei, è il mistero della religione da cui proviene la purifica­zione delle nostre anime.
È di fondamentale importanza, nel mistero del­la fede, guardare alla Passione di Colui che per noi ha accettato di soffrire. La Passione è la Croce nella quale chi fissa gli sguardi, non prova su di sé gli effetti dannosi del ve­leno, simbolo dei desideri passionali: così appunto ci ammaestra la Scrittura.
Guardare alla Croce significa condurre una vita morta al mondo, non prona al peccato così che la nostra carne, come dice il Profeta, sia immobilizza­ta dai chiodi del timore di Dio (Gal 6, 14; Sal 118, 120).
È la penitenza il chiodo che tiene ferma la car­ne. La legge, consapevole che i desideri smoderati fanno uscire dalla terra serpenti mortiferi (ogni ef­fetto derivante da un desiderio cattivo è come un serpente), ci comanda di volgere gli sguardi a Colui che si mostra sul legno. È lui la figura del serpente, secondo le parole del grande Paolo: «A somiglianza della carne di peccato» (Rm 8, 3).
Il vero serpente è il peccato e chiunque si dà al peccato assume la natura di serpente. Ma l’uomo viene liberato dal peccato per merito di Colui che ne ha assunto l’immagine. Egli si è fatto simile a noi, che ci siamo rivolti all’immagine del serpente.
È lui che arresta la morte prodotta dai morsi velenosi ma lascia in vita i rettili che l’hanno causa­ta. Essi rappresentano i desideri delle passioni.
Chi guarda alla Croce non è più soggetto alla morte e tuttavia i desideri della carne contrari a quelli dello spirito non vengono totalmente elimi­nati in lui (Gal 5, 17). Tali desideri continuano a mordere i fedeli. Ognuno però, se guarda a colui che è stato innalzato sopra il legno, può tener lon­tana la passione e rendere innocuo il veleno, attra­verso il timore del precetto che opera al pari di un farmaco. Le parole dei Signore insegnano chiara­mente che il serpente innalzato nel deserto è simbo­lo del mistero della Croce: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così occorre che sia innalzato il Figlio dell’uomo» (Gv 3, 14).



L’ORGOGLIO

Il peccato, seguendo la logica del male, si molti­plica in un concatenamento ininterrotto di cause ed effetti e obbliga il legislatore a fare come il medico che adatta la cura alla violenza della malattia.
Il nemico, ricco di inventiva quando si tratta di procurare la nostra rovina, visti neutralizzati i mor­si dei serpenti in coloro che innalzavano gli sguar­di verso l’immagine del serpente (già ne abbiamo spiegato il simbolismo), viene escogitando un altro metodo per trascinare al peccato.
Il fatto si ripete oggigiorno nei riguardi di mol­ti. Ci sono persone che, per il fatto di condurre una vita morigerata e mortificata riguardo ai desideri delle passioni, prendono l’iniziativa di entrare nel sacerdozio, usando intrighi e maneggi che dimostra­no un orgoglio contrario ai piani salvifici di Dio.
Colui che la Scrittura definisce autore delle di­sgrazie degli uomini, è anche autore di questo gene­re di peccati. Quegli uomini prima ribelli, quando videro che la terra aveva cessato di produrre ser­penti per merito della fede in colui che fu innalza­to sopra il legno, credettero di essere diventati in­vulnerabili ai morsi velenosi.
Invece, scomparsa la passione della concupiscen­za, comparve in loro il malanno della superbia80.
Quelli che non furono inghiottiti dalla terra, vennero inceneriti dai fulmini. Qui la Scrittura ci insegna che, se sappiamo scendere sotto terra, la superbia non crescerà den­tro di noi.
Basandoci su questi fatti potremmo, non senza ragione, definire la superbia una salita verso il basso. Non meravigliarti se ti senti portato ad averne l’idea che ne hanno molti, i quali ritengono che il termine superbia indichi superiorità sugli altri. I fatti della vita di Mosè sembrano invece con­fermare la definizione data da noi.
Quelli che si erano innalzati al di sopra degli al­tri, finirono sotto terra, dentro la spaccatura che si era aperta per inghiottirli. Non va dunque rigettata la definizione della su­perbia come di una caduta in profondità. Attraverso questi fatti, Mosè ci insegna a essere umili, a non vantarci di ciò che facciamo ma vivere in buone disposizioni di spirito l’attimo presente.
Chi si è liberato dalla sensualità, può correre il rischio di cadere in un altro genere di passioni. Ogni passione in quanto tale è una caduta e se varie sono le passioni, identica è la caduta.
C’è chi cade, lasciandosi andare sulla china del piacere e c’è chi viene buttato a terra dalla su­perbia. Non è saggio scegliere tra l’una o l’altra caduta, poiché tutte in quanto tali vanno fuggite.
Se perciò vedessi qualcuno che si crede superio­re agli altri perché si è liberato dalle cadute nella sensualità e perciò accede al sacerdozio, riconosci pure in lui uno che, per la sua superbia, va a finire sotto terra.



IL VERO SACERDOZIO

Nei fatti successivi la legge ci insegna che il sa­cerdozio è cosa divina, non umana. Mosè fa mette­re delle verghe davanti all’altare e incide su ciascu­na il nome delle rispettive tribù.
Una delle verghe, per intervento miracoloso, di­mostrò che era stato Dio a scegliere il Sommo Sa­cerdote. Le altre infatti rimasero quali erano ma quella del Sommo Sacerdote miracolosamente mise da sé radici e sbocciò in rami e frutti, non già per effetto di rugiada scesa dall’alto ma per una forza divina, che portò il frutto a maturazione. Messi da­vanti a questo portento, i sudditi appresero a vive­re in buon ordine.
Il frutto prodotto dalla verga di Aronne ci fa pensare ai caratteri che deve avere la vita del sacer­dote. Essa deve apparire austera, dura e scabra all’e­sterno ma possedere internamente, nel segreto e nell’oscurità, un cibo saporoso. Questo cibo viene portato alla luce quando ha raggiunto, col tempo, la maturazione e allora si rompe l’involucro legno­so che lo racchiude.
Se tu venissi a sapere di qualche sacerdote che conduce una vita agiata, usa profumi, ha una car­nagione rosea, come quella delle persone che vesto­no di lino e di porpora, ingrassa in continui ban­chetti, beve vino di qualità, si unge con unguenti fi­nissimi e si circonda di tutte le comodità care ai gaudenti, a buon diritto potrai ripetere nei suoi ri­guardi le parole del Vangelo: «Se guardo il frutto, non riconosco l’albero sacerdotale». Il frutto del sacerdozio è l’austerità, non la spensieratezza e il frutto dell’austerità non giunge a maturazione in virtù dell’umidità naturale del terreno. Le soddisfa­zioni del sacerdote dalla vita spensierata scorrono in lui come ruscelli, che un giorno tingeranno di ros­so il raccolto della sua vita.



LA STRADA REGALE


I sudditi di Mosè, liberi ormai dalla, superbia, passano in mezzo a popolazioni che vivono in ma­niera estranea alla loro. La legge li precede sulla via regale81, senza far­li deviare né a destra né a sinistra.
Non è infatti infrequente che il viandante im­bocchi strade sbagliate. Come chi, percorrendo un sentiero che passi in mezzo a due precipizi sabbiosi, si trova nel perico­lo di uscire fuori dal mezzo e precipitare nel bara­tro se devia verso destra o verso sinistra, così la legge esige che si vada dietro a lei e non ci si spo­sti o a destra o a sinistra per non abbandonare la strada veramente stretta e angusta, di cui parla il Signore (Mt 4, 25).
Il comando della legge indica che la virtù deve es­sere concepita come un bene situato nel mezzo, per­ché il male deriva appunto o da un difetto o da un eccesso di virtù.
Così la timidità è mancanza di coraggio, mentre la tracotanza è un coraggio eccessivo82. Nel mez­zo tra questi due difetti opposti sta la virtù. Lo stesso vale di tutte quelle altre virtù per mez­zo delle quali si attua il bene: esse stanno in mezzo tra due mali opposti.
La sapienza sta fra la scaltrezza e la semplicità. Se non è da lodare l’astuzia del serpente, neppure lo è la semplicità della colomba, quando queste qualità siano prese separatamente ma se le uniamo insieme, esse formano una forte virtù.
Chi è intemperante manca di saggezza ma chi e­sagera nella temperanza ha una coscienza malata, come dice l’Apostolo (1 Tm 4, 2). L’uno si abbando­na senza ritegno ai piaceri, l’altro disprezza il ma­trimonio quasi fosse un adulterio. La fusione di que­sti due estremi costituisce la saggezza. Tutto ciò che si oppone alla virtù è male e non interessa quelli che seguono la legge poiché, come dice il Signore, que­sto mondo è tutto posto nel maligno (1 Gv 5, 19).
Chi in questa vita percorre la strada della virtù, riuscirà sicuramente a portare a termine il suo viag­gio, se saprà mantenersi sulla strada regale che è la strada pulita della virtù e non devierà verso le strade informi del male, che s’aprono su ambedue i suoi lati.



LA MAGIA DELLE PASSIONI


La strategia del demonio

Già s’è detto che l’ascesa alla virtù è molestata dagli attacchi del nemico il quale escogita di volta in volta i mezzi più adatti a spingere i singoli al male.
Vedendo egli il popolo d’Israele molto avanti sulla strada che porta a Dio, imita i migliori strate­ghi e porta l’attacco su un altro fronte. Gli strate­ghi infatti, quando giudicano impossibile travolge­re con un attacco frontale lo schieramento compat­to dei nemici, fanno ricorso all’assalto di piccole pattuglie e alle imboscate.
Il grande stratega del male si comporta allo stes­so modo, non attaccando direttamente coloro che la virtù e la legge hanno resi forti ma assalendoli dì nascosto con imboscate.

Le arti magiche

Egli si serve della magia per combattere i suoi oppositori. Un certo augure e indovino aveva il potere, se­condo il racconto, di procurare la rovina ai nemici mediante l’aiuto del demonio. Costui fu pagato dal re dei Madianiti per lanciare maledizioni contro quelli che Dio proteggeva ma cambiò le maledizio­ni in benedizioni.
Già sappiamo dall’esposizione storica fatta al­l’inizio, che la magia nulla può contro chi pratica la virtù, poiché l’aiuto divino ci rende sicuri contro ogni assalto.
Il racconto ci assicura che il menzionato indovi­no esercitava la divinazione. Dice infatti che maneg­giava i responsi e prendeva consiglio dal volo degli uccelli. In precedenza ci aveva informato che la voce del suo asino gli fece sapere ciò che aveva interesse di sapere.
La Scrittura ci attesta che in quella circostanza la voce dell’asino si espresse in suoni articolati, men­tre normalmente l’indovino prendeva i suoi oracoli dal verso degli animali, in forza di un intervento de­moniaco.
La Scrittura ci mostra anche come le persone soggiogate da questo inganno del demonio, giunga­no ad accogliere come insegnamento della ragione la voce delle bestie.
L’indovino, disposto ad accettare un insegna­mento del genere, venne a sapere per mezzo delle stesse pratiche ingannatrici di cui era vittima, che il popolo d’Israele non avrebbe potuto essere vinto, nonostante i denari che egli aveva ricevuto per ma­ledirlo.
Sappiamo dal Vangelo che un’intera massa di demoni si oppone alla potenza di Cristo. Essa infatti è chiamata legione.
Dicono i demoni: «Sappiamo che tu sei il Santo di Dio, venuto anzitempo a castigarci» (Mt 5, 9). Ciò avvenne anche quando il demonio, operando per mezzo di Balaam, gli fece sapere che il popolo ebreo era imbattibile e inattaccabile.
Da parte nostra, applicando a questi fatti il me­todo di interpretazione fin qui seguito, affermiamo che nessuna maledizione, pronunciata contro le per­sone virtuose, può recare a loro danno o sofferen­za. L’insulto o l’oltraggio non hanno la forza di tur­bare i seguaci della virtù.
Così l’accusa di cupidità, non può essere un in­sulto per chi non possiede nulla. Non è possibile rimproverare di dissolutezza chi vive da anacoreta. Il mite non può essere accusato di irascibilità né l’umile di superbia.
Coloro che sono conosciuti come persone contra­rie a ogni azione biasimevole, potranno mai essere accusati di cose biasimevoli?
Essi mirano a non offrire motivo di biasimo nel­la loro vita affinché, come dice l’Apostolo, «siano confusi i nostri avversari, non avendo da dire di noi nessun male».
Perciò l’indovino che era stato assoldato per ma­ledire, risponde: «Come maledirò colui che Dio non maledisse? Come insulterò chi non dà motivo a insulti e, guardando a Dio, ha reso la sua vita in­vulnerabile al peccato?».



LE FIGLIE DI MOAB

La malattia della sensualità

L’inventore del male, visto fallire questo piano, non desistette di molestare quelli che voleva assa­lire. Portò allora le sue macchinazioni su un terreno che gli è proprio e di nuovo trascinò gli uomini al peccato, servendosi del piacere sensuale.
Il piacere è veramente la pastura di ogni vizio. Esso, presentandosi sotto un aspetto attraente, tra­scina le anime più sensuali all’amo della morte. La natura corre verso questo male in maniera davvero irrefrenabile, ed è ciò che avvenne anche al tempo di Mosè.
Il piacere giunse, servendosi delle donne, a feri­re con i suoi strali coloro che si erano dimostrati tanto validi nelle armi da ridurre all’impotenza ne­mici armati di ferro. Essi li volsero in fuga ma, co­me furono forti con gli uomini, altrettanto divenne­ro deboli con le donne. Colpiti non dalle loro armi ma dalla loro avve­nenza, le presero con sé e, dimentichi del valore e della forza che avevano acquistato, tutto dissiparo­no nel piacere. Quelle unioni illegittime con donne straniere provocarono il giusto risentimento degli altri. Mettendosi a contatto con il male quelle per­sone avevano perso l’appoggio del bene. Così Dio si adirò contro di loro ma Finees, acceso di zelo, non attese che il Signore decidesse come togliere di mezzo quel peccato. Di sua iniziativa divenne insie­me giudice ed esecutore.
Egli, nell’ira contro gli impudichi travolti dalla fiamma della passione, esegui l’opera sacerdotale di purificazione del peccato non con il sangue di ani­mali, cui non si poteva addossare la colpa di incon­tinenza, ma con il sangue di coloro che avevano fat­to il male, unendosi a donne straniere.
La lancia che trafisse i loro corpi, trovati avvin­ti l’uno all’altro, fu lo strumento d’attuazione della giustizia di Dio; esso procurò loro la morte, nel mo­mento stesso in cui si abbandonavano al piacere.
Mi pare che il racconto offra qui un utile inse­gnamento a tutti, ammonendoci che tra le molte passioni ostili allo spirito, nessuna ha maggior for­za di quella che provoca in noi la malattia del pia­cere.
Questo fatto per cui gli Israeliti sono resi schia­vi da donne straniere (essi che pure avevano avuto il sopravvento sulla cavalleria egiziana, avevano vinto gli Amaleciti, erano apparsi terribili ai popoli vicini, avevano sbaragliato l’esercito dei Madianiti), non dimostra forse la difficoltà di combattere tale passione, che si presenta come il nostro nemico più difficile da domare?
Il piacere, divenuto padrone di uomini che le ar­mi non erano riuscite a sottomettere, va agitando davanti a loro il trofeo del disonore e porta a cono­scenza di tutti la loro infamia.

Insolenza del vizio

Esso riduce gli uomini come bruti, dominando­li con l’istinto animalesco e irrazionale dell’inconti­nenza e facendo loro dimenticare di essere uomini. Senza preoccuparsi di tener nascoste le loro sacrile­ghe profanazioni, essi giungono a vantarsi di azioni disonorevoli, avvoltolandosi come porci nel fango dell’impurità apertamente, sotto gli occhi gli uni de­gli altri.
Tanta è la forza che ha la malattia del piacere di trascinarci al male, che dobbiamo stare attenti affinché non entri in noi da nessuna parte.
Il piacere è come un fuoco che comunica le sue fiamme devastatrici a quanto gli è vicino. Ce lo insegna Salomone nella Sapienza quando ci avverte di non mettere il piede nudo vicino a un carbone acceso e di non porre fuoco nel seno.
Se resteremo lontani da quanto fa divampare il fuoco, potremo godere perfetta quiete (Pro 6, 27). Se invece ci avvicineremo a questo calore avvam­pante fino a toccano, allora si accenderà in noi il fuoco del desiderio, che comunicherà al piede e al seno le sue fiamme scottanti.
Il Signore nel Vangelo, per tenerci lontani da questo male, volle che stroncassimo alla radice il desiderio passionale, avvertendoci che la malattia della sensualità penetra in noi attraverso gli sguar­di colpevoli (Mt 5, 19).
Le impressioni cattive infatti, una volta che ab­biano preso possesso dei punti chiave del nostro essere, sono come una peste che soltanto la morte può far cessare.


LA PERFEZIONE È NEL PROGRESSO


Credo che non occorra prolungare il nostro di­scorso, ora che abbiamo esposto al lettore tutta la vita di Mosè come esempio di virtù.
Ciò che abbiamo detto costituirà un aiuto non indifferente per chi aspira alla vera saggezza in una vita spirituale. Ma chi per pigrizia si arresta davan­ti alle fatiche della virtù, non troverà giovamento nelle molte cose di cui abbiamo discorso e tanto meno in quelle che potremmo aggiungere.
Ma perché non ci si dimentichi che nessun limi­te circoscrive la vita perfetta e ne può arrestare il progresso (questo concetto fu ribadito con forza nella prefazione), sarà utile, al termine del nostro discorso sulla vita di Mosè, mostrare che la defini­zione della virtù da noi data, ha un fondamento si­curo.
Quando nacque Mosè, il fatto di avere genitori ebrei era considerato un delitto. Sottratto alle imposizioni di un decreto tiran­nico che lo condannava a morte, egli fu salvato pri­ma dai suoi genitori, poi dagli autori stessi di quel decreto.
Costoro, che pure avevano voluto la sua morte, si preoccuparono di allevarlo e dargli un’educazio­ne raffinata, facendolo istruire in ogni ramo del sa­pere. Cresciuto che fu, non tenne in alcun conto gli onori umani e la stessa dignità regale, perché sape­va che custodire la virtù significa possedere una forza e una dignità più valida e più degna di qual­siasi guardia del corpo e di qualsiasi pompa regale. Qualche tempo dopo, egli salvò un suo compa­triota, assalendo l’egiziano con un colpo mortale.
Noi, che facciamo un’esegesi spirituale, abbia­mo visto simboleggiato nell’egiziano il nemico della nostra anima. Mosè invece, è il simbolo di chi ci è amico.
Prima che la luce sfavillante dal cespuglio giun­ga a riempire lo spirito di Mosè, egli apprenderà altissimi insegnamenti nel silenzio del deserto. Poi si darà pensiero di far conoscere ai suoi compatrioti le cose meravigliose che Dio aveva ope­rato in suo favore. In quell’epoca della sua vita per due volte diede prova di poteri straordinari, dap­prima combattendo i nemici attraverso molteplici castighi, poi beneficiando i compatrioti.
Non avendo a disposizione per la traversata del mare una flotta di navi, fece in modo che il popo­lo lo attraversasse a piedi, sostituendo alle navi la fede che aveva saputo infondere in loro.
Rese allora asciutto il fondo del mare, perché gli Ebrei potessero attraversarlo. Fu lui che fece ri­tornare le acque del mare come erano prima, per annegarvi gli Egiziani e allora intonò l’inno di vit­toria. Poi lo guidò una colonna di nube e lo illuminò un fuoco celeste. Provvide ai suoi un cibo disceso dal cielo, fece scaturire dalla pietra acqua abbon­dante, vinse gli Amaleciti col semplice gesto di sten­dere le mani. Salito il monte, si spinse dentro la nu­be e udì il suono delle trombe.
Si accostò a Dio, penetrò nel tabernacolo cele­ste, corresse con la legge i costumi del popolo, vin­se le più dure battaglie, come si è detto. Quando le sue imprese volgevano alla fine, fece castigare l’in­continenza per mezzo del sacerdozio; questo ap­punto significa la vendetta di Finees contro gli in­continenti.
Dopo tutto ciò, salì al monte del suo ultimo ri­poso. Egli non metterà piede nella terra promessa, che si stendeva davanti ai suoi sguardi e a quelli di tutto il popolo. Avendo avuto come alimento il cibo del cielo, non toccò più cibo terreno e, giunto in cima al mon­te, non volle mettere una corona alla statua della propria vita83, intorno alla quale si era affaticato come abile scultore. Di lui dice la Scrittura: «Mo­sè, servo di Dio, morì per volere di Dio». Nessuno conobbe il suo sepolcro, i suoi occhi non si offusca­rono né il suo volto si deturpò.



IL SERVO DI DIO

Così sappiamo che egli fu ritenuto degno, per le sue azioni, di essere chiamato servo di Dio, tito­lo di grandissimo onore che dimostra come si sia innalzato al di sopra di tutto ciò che è nel mondo.
Nessuno infatti potrebbe servire Dio, se non si innalza al di sopra di tutto ciò che è nel mondo. Il termine della sua vita, fissato da Dio, è chia­mato dalla Scrittura col nome di morte, ma si trat­tò di una morte vivente perché a essa non seguì se­poltura, per essa non si innalzò un monumento fu­nebre, essa non assomigliò a quella che fa chiude­re gli occhi per sempre e deturpa il volto. Da ciò dobbiamo apprendere a considerare co­me unico fine della vita quello di meritare, attra­verso le nostre opere, il titolo di servi di Dio.
Quando tu, sgominati tutti i nemici: l’egiziano, l’amalecita, l’idumeo, il madianita, avrai attraversa­to il mare e sarai stato illuminato dalla nube e ad­dolcito dal legno; quando, bevuta l’acqua sgorgan­te dalla pietra, avrai gustato il cibo che scende dal­l’alto e con purità e innocenza ti sarai apprestato a salire il monte e là giunto avrai sentito suonare le trombe del divino mistero e, dopo esserti avvici­nato a Dio nella densa caligine della fede, ti saran­no stati rivelati i misteri del tabernacolo e la digni­tà del sacerdozio, quando avrai preparato il tuo cuore come fa il tagliapietre così che Dio vi possa incidere le sue parole, quando avrai distrutto l’ido­lo d’oro, eliminando dalla tua vita la passione del­l’avarizia84 e ti sarai portato tanto in alto che la magia di Balaam non potrà raggiungerti (sentendo parlare di magia devi intendere i diversi inganni di questa vita per effetto dei quali gli uomini, co­me ammaliati dal filtro di Circe, perdono i carat­teri della loro natura e assumono la figura di ani­mali); quando avrai provato tutto ciò e in te sarà fiorita la verga del sacerdozio (quella che non assor­be nessun umore dalla terra onde giungere a fiori­tura ma produce da sé stessa il frutto di nocciolo, amaro e aspro all’esterno, dolce e buono di dentro); quando, eliminato tutto ciò che si oppone alla tua dignità, lo seppellirai come fu di Datan o lo distrug­gerai con il fuoco come avvenne di Kore, allora sa­rai vicino al termine.
Parlando di termine, io intendo quella realtà in vista della quale uno agisce. Termine del lavoro dei campi è in tal senso la raccolta dei frutti, termine della costruzione della casa è l’abitarvi, termine del commercio è la ricchezza, termine degli sforzi atle­tici è la corona. Parimenti il termine della vita spi­rituale è giungere a essere chiamati servi1ori di Dio.
La Scrittura non dice che Mosè fu messo in una tomba e questo indica la rimozione dalla nostra vi­ta di ogni impedimento del male. La Scrittura accenna anche a un’altra caratteri­stica propria di chi ha servito Dio, cioè che l’occhio di Mosè non diminuì la propria forza visiva e il suo volto non subì deturpazioni. Come è possibile infat­ti che le tenebre avvolgano un occhio sempre im­merso nella luce e perciò ignaro di tenebre?
Colui che in tutta la sua vita ha cercato le cose che non periscono, non può subire nessuna detur­pazione. Chi è realmente divenuto simile a Dio e mai si è scordato di lui, non solo porta sopra di sé i tratti della fisionomia di Dio, ma raggiunge una perfetta somiglianza col suo modello, ottenendo che la sua anima resti immune da corruzione, da mutamenti e dal dominio del male.


CONCLUSIONE

O Cesareo, a te, uomo di Dio, abbiamo sottopo­sto in un breve discorso ciò che riguarda la perfe­zione della virtù, presentandoti Mosè come model­lo di una vita così bella affinché, imitandone le azio­ni, ciascuno riproduca in sé stesso le linee caratte­ristiche di questa bellezza, che abbiamo contem­plato.
Che Mosè abbia raggiunto il più alto grado pos­sibile di perfezione, stanno a dimostrano inequivo­cabilmente le parole da Dio a lui rivolte: «Io ti co­nobbi prima di tutti gli altri».
Dio stesso lo ha chiamato amico. Anch’egli a­vrebbe dovuto morire insieme con gli altri peccatori, se Dio nella sua benevolenza non si fosse placato; ma fu lui a placare l’ira del Signore contro gli Israe­liti. Dio cambiò proposito, per non causare dolore a Mosè che gli era amico.
Tutte queste cose e altre consimili testimonia­no chiaramente che Mosè ha raggiunto nella sua vi­ta la vetta dell’altissimo monte della perfezione.
Con ciò crediamo di aver attuato il nostro pro­posito, che mirava a cercare in che cosa consiste la perfezione della vita secondo virtù.
Procura, o uomo generoso, di meditare questi insegnamenti, ricavati dai fatti attraverso un’inter­pretazione eminentemente spirituale e applicali al­la tua vita personale, perché anche tu possa esse­re conosciuto da Dio e diventare suo amico.
Questa appunto è la vera perfezione: staccarsi dal male non per la servile paura del castigo e com­piere il bene non per la speranza del premio, qua­si usando nel campo della virtù di una mentalità commerciale e affaristica.
Ogni attesa di ricompensa promessa o sperata deve passare in secondo ordine, così che soltanto la perdita dell’amicizia di Dio, resti l’unico vero mo­tivo di paura e il divenire amici suoi sia giudicata la cosa più onorevole e desiderabile.
Se si troveranno in te queste disposizioni di spi­rito ora che ti sei innalzato a pensieri più spiritua­li e divini, (ben so che esse ci saranno in misura so­vrabbondante), comune sarà il vantaggio che ne ver­rà, in Cristo Gesù, al quale gloria e potere nei se­coli. Amen!
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