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Vita di Mosè (di Gregorio Nisseno)

Ultimo Aggiornamento: 07/04/2014 19:15
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07/04/2014 19:12
 
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LA VISIONE DI DIO


Un caso in cui l’interpretazione letterale del testo scritturistico è insufficiente

Seguendo per ordine a una a una le particolari­tà accennate dal testo, noi abbiamo interpretato tutto questo passo in senso allegorico.
Dobbiamo ora proseguire la nostra indagine sui testi che seguono. La Scrittura, descrivendoci le numerose teofanie avute da Mosè, parla di un incontro «faccia a fac­cia», come quello di un amico che parla all’amico.
Con tali espressioni essa ci assicura che Mosè vedeva Dio chiaramente, ma poi, e qui sta la diffi­coltà la stessa Scrittura ci presenta Mosè nell’at­teggiamento di uno che, non avendo ottenuto ciò che sperava, prega perché gli si mostri quel Dio che ancora non ha visto.
Dio viene incontro benevolo alla preghiera di Mosè, non ricusandogli la grazia richiesta.
Quando però gli dice che egli ha chiesto un bene immensamente superiore alle facoltà dell’uomo, to­glie a lui quasi ogni speranza. Allora Dio gli indica una roccia vicina e nella roccia un’apertura dove Mosè entrerà.
Dio metterà la sua mano sulla bocca dell’apertu­ra e passando davanti chiamerà Mosè che, a quel richiamo, dovrà uscire e potrà allora vedere il dor­so di colui che l’ha chiamato.
Gli sembrerà così di aver visto l’Essere che ave­va chiesto di vedere e la promessa di Dio non gli apparirà vana. Un’interpretazione soltanto letterale di questi fatti potrà dar luogo a molta confusione, dando a chi vi riflette un’idea superficiale di Dio. Infatti, solo le cose che hanno una figura possie­dono una parte anteriore e una posteriore.
Ora la figura si trova sempre legata a un corpo. Ma ogni corpo è un composto e il composto è for­mato dalla fusione di elementi eterogenei. Perciò il composto è divisibile e una sostanza di­visibile è soggetta a distruzione. Separando gli elementi del composto se ne pro­voca infatti la distruzione.
Se dunque l’espressione «il dorso di Dio» fosse presa alla lettera, se ne dovrebbero dedurre conse­guenze assurde, perché ogni figura ha immancabil­mente una parte anteriore e una posteriore e ogni figura è corpo. Un corpo è per natura decomponibi­le, essendo una sostanza composta. Chi dunque fos­se troppo ligio al senso letterale, dovrebbe logica­mente giungere ad ammettere in Dio una possibili­tà di decomposizione. Ma Dio è incorruttibile e senza corpo.

Difesa del senso spirituale

Qual è dunque il concetto che possiamo intra­vedere sotto le parole del testo, al di là del loro si­gnificato letterale?
Se questo passo ci obbliga a trovare una interpretazione diversa da quella propria del testo, con­viene ammettere che tutto l’intero episodio in que­stione esige questa interpretazione diversa. Non esiste un tutto se le parti che lo compongo­no non sono complete. Dovremo perciò applicare il criterio del senso spirituale a tutti gli altri particolari citati dal testo: il luogo che è presso Dio, la roccia situata in quel luogo, il ricettacolo che vi si trova, l’entrata di Mo­sè nel rifugio, l’estensione della mano di Dio, il ri­chiamo e l’uscita di Mosè, la visione del dorso.

Forza d’attrazione del Sommo Bene

Quale è dunque il loro significato? Mi pare questo: l’anima alleggerita dal peso del­le passioni, sale con volo leggero e rapido verso le cime più alte, con effetto contrario a quello per cui i corpi pesanti, messi in moto su un piano inclinato, corrono giù lungo il pendio senza bisogno di spinte, trascinati dalla loro stessa forma, purché non incon­trino qualche impedimento che li arresti70.
L’anima sale così ad altezze sempre maggiori71, purché nulla intervenga a interrompere la sua cor­sa, in forza dell’attrattiva che il bene esercita su co­loro che lo seguono72.
Sospinta dal desiderio del cielo essa si protende in avanti, come afferma l’Apostolo (Fil 3,13), solle­vandosi a volo verso regioni sempre più eccelse. Preoccupata di non perdere quota, essa molti­plica lo slancio verso le altezze, attingendo nuove energie dai risultati raggiunti. Soltanto gli sforzi spesi per vivere virtuosamen­te non danno stanchezza, ma vigore e non diminui­scono, ma accrescono le forze di operare ulterior­mente.
Riconosciamo perciò che il grande Mosè, miglio­randosi sempre più, mai ha cessato di salire e nep­pure ha fissato un termine alla sua ascensione lun­go la scala «sulla quale stava il Signore» (Gn 28, 13). Egli sale di gradino in gradino senza sostare, poi­ché trova sempre un altro gradino dopo quello che ha lasciato dietro di sé.

Insaziabilità del desiderio di perfezione

Mosè rifiuta il falso legame di figliolanza con la Regina d’Egitto, prende le difese del suo compatrio­ta, fissa dimora nel deserto ove non lo disturba il tumulto della vita degli uomini, pascola nella sua anima il gregge di muti animali, vede lampeggiare la luce, rende più spedita la salita togliendosi i cal­zari, conduce a libertà il suo popolo e i suoi fami­liari, gode la protezione della nube, vede i nemici sommersi nelle acque, soddisfa la sete per mezzo della roccia, raccoglie il pane disceso dal cielo, com­batte contro una popolazione straniera tenendo le­vate le mani, sostiene il suono della tromba, entra nella nube caliginosa, giunge nei penetrali del taber­nacolo increato, è iniziato ai misteri del divino sa­cerdozio, distrugge l’idolo, placa il Signore, chiede di nuovo la legge spezzata dalla malvagità dei Giu­dei, risplende di gloria.
Dopo aver raggiunto così alte cime, la sua brama ancora non è sazia e mira a ottenere di più. Egli avverte di aver ancora sete dopo aver be­vuto a sazietà e prega come se non avesse ottenuto e supplica Dio di rivelarglisi non già in modo pro­porzionato alle proprie capacità, ma così come egli è.
Mi pare che questo si ripeta esattamente anche nell’anima che tende per sua natura alla vera bel­lezza. Essa, sorretta dalla speranza di passare da una bellezza inferiore precedentemente ammirata a una superiore ancora nascosta, accende di continuo il suo desiderio. Per questa sua struttura l’anima tende a spingersi irresistibilmente verso la bellezza, nella speranza di giungere a cogliere pienamente la figu­ra stessa dell’Archetipo. Qui sta l’oggetto dell’ardi­ta preghiera di Mosè, che supera i confini stessi del desiderio.
Egli vuole godere della bellezza, ma non riflessa in uno specchio, bensì faccia a faccia. La risposta di Dio, nelle brevi parole con cui respinge simile pre­ghiera, apre davanti a noi un abisso immenso di pensiero.
Dio gli concesse il dono di soddisfare il suo de­siderio, ma non gli diede la cessazione e la sazietà di esso. Se Mosè, contemplando la visione di Dio, avesse estinto in sé la brama che ne aveva, Dio non gli si sarebbe mostrato. Comprendiamo allora che vedere Dio consiste realmente nel non mai saziarsi del desiderio di lui73.
Dice infatti il Signore: «Non potrà un uomo ve­dere il mio volto e poi vivere». La Scrittura ci mo­stra invece che il vedere Dio non può causare la morte perché non è possibile che il volto dell’Essere che è la vita per eccellenza, procuri morte a chi lo contempla.

Ineffabilità di Dio

Dio è per natura principio di vita e la sua essen­za non può essere racchiusa in concetti umani. Con­cepire Dio partendo dalle nostre conoscenze signi­fica non possedere la vita.
Così facendo distogliamo gli sguardi dal vero Es­sere e li volgiamo a ciò che le conoscenze sensibili ci fanno cogliere erroneamente come essere. Il vero Essere è inaccessibile alla nostra cono­scenza. Se quella Sostanza ch’è principio di ogni vita eccede le capacità della conoscenza, ne deriva che i nostri concetti non contengono affatto la vita.
Ma ciò che non è vita neppure ha il potere di co­municare la vita. La richiesta tanto ardentemente espressa da Mo­sè viene ascoltata quando Dio dichiara che è cosa impossibile soddisfare quel desiderio.
Ci viene così insegnato che Dio è infinito per na­tura e non circoscritto da limite alcuno. Se si potesse racchiudere Dio in un concetto, sa­rebbe necessario considerare tutto ciò che non è compreso in quel concetto.
Un’entità circoscritta è necessariamente delimi­tata dall’entità che la circoscrive, come avviene per gli uccelli e per i pesci che hanno l’aria o l’acqua come loro confine. Se Dio fosse concepito limitato, dovrebbe essere contenuto in una entità diversa da lui, proprio come il pesce è ovunque circoscritto dall’acqua e l’uccello dall’aria.
Logicamente bisogna ammettere che l’elemento destinato a contenere è più grande della cosa con­tenuta. Tutti riconoscono che Dio è la Bellezza per es­senza ed è quindi ben diverso dagli esseri che non possiedono la bellezza per natura.
Ora ciò che non appartiene al bello, si trova nel­l’ambito del male. Se il contenente, come si è detto, è più grande del contenuto, chi pensa a Dio come a una sostanza circoscritta da limiti, lo mette tra le realtà dominate dal male. Ma questo è assurdo. Dio, non può quindi essere racchiuso in una nozione in­tellettuale.
L’Essere la cui natura è senza limiti sfugge a ogni presa dell’intelligenza. Ogni desiderio rivolto verso questa Bellezza infi­nita ci spinge a salire continuamente verso la sua ricerca.

Non può esistere un termine al desiderio di conoscere Dio

Vedere Dio realmente significa non trovare mai nessun appagamento al desiderio che abbiamo di lui. Il desiderio, prendendo le mosse da ciò che di Dio possiamo conoscere, viene a crescere sempre più.
Si scoprirà allora che non esiste un termine al­la nostra ascesa verso Dio, perché la Bellezza per essenza non possiede limiti e il desiderio di essa non giungerà mai a sazietà.

La stabilità nel bene è una corsa verso Dio

Che cosa intende la Scrittura quando parla di un luogo che c’è presso Dio? Cos’è quella roccia e la sua cavità? che significa la mano di Dio stesa sopra l’apertura della roccia?
Che vuol dire il passaggio di Dio? Cos’è il dorso di cui Dio parla a Mosè, quando questi chiede di mo­strargli il suo volto?
Questa teofania è da Mosè, grande servitore di Dio, giudicata più importante di quelle che ebbe in precedenza. Perciò dobbiamo ritenere importanti anche tut­te queste precisazioni, che contengono un dono de­gno della munificenza divina.
Cos’è allora questa cima di cui ci parla il testo sacro e sulla quale Mosè, dopo molto cammino, de­sidera salire? Colui che tutto fa cooperare al bene di chi lo ama (Rm 8, 28) sarà guida di Mosè verso la vetta. Ecco gli dice un luogo presso di me. L’interpretazione che daremo di questo passo non sarà in contrasto con ciò che abbiamo spiega­to prima.
Parlando di un luogo, Dio non intende assegna­re limiti a ciò che formerà l’oggetto della visione (l’Essere privo di quantità è infatti immensurabile), ma vuole soltanto proporre a colui che l’ascolta un’analogia presa dagli esseri che hanno una fi­gura, per presentargli l’Essere infinito e illimitato.
Questo appunto sembra dire a Mosè il testo sa­cro: «O Mosè, visto che il tuo desiderio cresce sem­pre più e tu non conosci soste nella corsa e, pur non giungendo mai a toccare i confini del bene, mi­ri sempre al meglio, eccoti presso di me un luogo, correndo nel quale non potrai arrestarti».
Questa corsa, sotto altro aspetto, equivale a sta­bilità. Dice infatti il Signore: «Ti stabilirò sulla roccia». Pare incredibile che l’identica realtà sia in­sieme stabilità e movimento, poiché chi sale non rimane fermo, e chi sta fermo non sale. Qui invece il salire si attua restando fermi, e c’è una ragione: più uno rimane fermo e immobile nel bene, più cor­re verso la virtù. Non potrà mai correre alle cime della virtù colui che scivola facilmente, è poco sta­bile di mente, indeciso nel bene, va fluttuando e va­gando, come dice l’Apostolo (Ef 4, 14), si lascia do­minare dal dubbio e passa da un’opinione all’al­tra riguardo a questo o quel problema.
Egli assomiglia a chi nel camminare su un pen­dio sabbioso, si sforza di moltiplicare i passi, ma scivola di continuo e pur mettendo ogni impegno, non realizza il benché minimo progresso.
Ma quando uno, come dice il salmo (Sal 39, 13) ritrae i piedi dal fondo dell’abisso e li pone sulla roccia, che è il Cristo, virtù perfettissima (1 Cor 10, 5), allora quanto più egli sta fermo e immutabile nel bene, conforme al consiglio di Paolo (1 Cor 15, 58) tanto più accelera la corsa, come se nella stabi­lità nel bene, egli sia fornito di ali che sollevano a volo il suo cuore verso gli spazi celesti74.

La ricompensa celeste

Dio, dopo aver mostrato a Mosè il luogo, lo in­coraggia alla corsa e, comandandogli di fermarsi sulla roccia, gli rivela in che modo si svolgerà que­sta corsa divina.
Il grande Apostolo ha opportunamente spiega­to che cosa rappresenta il rifugio nella roccia, chia­mata dal sacro testo apertura, quando dice che una dimora, non fatta da mano d’uomo, è riservata nei cieli a coloro che, sorretti dalla speranza, hanno la­sciato il tabernacolo terreno (2 Cor 5, 1).
Chi, secondo le espressioni dell’Apostolo, ha por­tato a termine la corsa (2 Tm 4, 7) nello stadio am­pio e spazioso che la voce divina chiama luogo, e ha tenuto saldi i suoi piedi sulla roccia, cioè, secon­do il senso spirituale di questo passo, ha conserva­to la fede, sarà ricompensato con la corona di giu­stizia (2 Tm 4, 7), per mano di chi presiede la corsa.
Questo premio è dalla Scrittura chiamato con diversi termini. Il rifugio della pietra, qui nomina­to, viene indicato in altri passi con le espressioni: paradiso di delizie, tabernacolo eterno, dimora presso il Padre, seno dei patriarchi, dimora dei viven­ti, acqua di letizia, Gerusalemme celeste, Regno dei cieli, premio della vocazione e corona di grazia, di letizia, di bellezza, torre fortificata, luogo glorioso e tabernacolo segreto.
Diciamo dunque che l’entrata di Mosè nella roc­cia ha il medesimo significato di queste espressioni. Poiché Cristo è la roccia, secondo le parole di Paolo, noi crediamo che in lui è la speranza di ogni bene (1 Cor 10, 5) e in lui sono tutti i tesori di bontà.
Chi dunque giunge a possedere qualche bene, in­dubbiamente si trova nel Cristo, il quale possiede ogni bene (1 Cor 3, 3).
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