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Vita di Mosè (di Gregorio Nisseno)

Ultimo Aggiornamento: 07/04/2014 19:15
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07/04/2014 19:08
 
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LE TENEBRE


Vediamo ora che cosa ci suggerisce l’entrata di Mosè nella nube tenebrosa, dove ebbe la visione di Dio. Pare che qui la Scrittura si contraddica con ciò che ha riferito circa la prima teofania53. Allora, infatti, Dio apparve nella luce, ora nelle tenebre.

Invisibilità dell’essenza divina

Non si pensi che questi particolari del racconto mal si accordino con la nostra spirituale contem­plazione. Per mezzo loro la Scrittura ci insegna che la co­noscenza (gnosi) del mistero di Dio è luce per colo­ro che le si avvicinano. Tenebra invece è l’empietà, ma la tenebra si dissipa quando si entrai nella luce.
La mente che penetra con più intensa e perfetta attenzione nella intelligenza delle realtà, quanto più avanza nella contemplazione tanto più s’accorge che la natura divina è invisibile.
Solo se lasciamo da parte le conoscenze sen­sibili e ciò che di vero ha soltanto apparenza, p0­tremo, con il travaglio della riflessione, penetrare in profondità fino a raggiungere l’Essere invisibile e inconoscibile: là allora vedremo Dio.
Ma potremo dire di vederlo veramente quando ci accorgeremo che l’oggetto della nostra ricerca sta nascosto, come in una nube caliginosa, al di fuo­ri del nostro campo visivo.
Il mistico Giovanni che si trovò in questa lumi­nosa caligine afferma che «nessuno mai vide Dio» (Gv 1, 18). Con questa costatazione negativa, egli stabilisce che la conoscenza dell’essenza divina è irraggiungi­bile non solo dagli uomini, ma da qualsiasi crea­tura intellettuale54.
Mosè asserisce di vedere Dio nella caligine, pro­prio quando ne ha raggiunto una conoscenza più perfetta. Egli intende affermare che Dio è per natu­ra superiore a ogni capacità di conoscenza e di com­prensione delle creature. La Scrittura dichiara infatti che Mosè avanzò in mezzo alla caligine, ove era Dio. Quale Dio? Colui che pose nelle tenebre il suo nascondiglio (Sal 17, 12).
Così dice anche Davide, iniziato a misteri ineffa­bili in questo medesimo santuario segreto55. Mosè, giunto nel mezzo della caligine, viene istruito da Dio a viva voce, affinché possa trasmette­re anche a noi la dottrina appresa, con una concre­tezza maggiore. Le parole divine insegnano che nessuna umana conoscenza può darci un’idea adeguata della divi­nità.
Se mai concetto o immagine pretenda offrirci la conoscenza o l’intuizione della natura divina, biso­gna ammettere che essi esprimono soltanto un fan­tasma di Dio, non già la sua reale essenza56.

I doveri morali

La virtù cristiana è costituita da due parti: la prima ci conduce a Dio, l’altra mira alla correzione dei costumi, poiché la purezza della vita è parte in­tegrante della religione.
Dopo aver appreso la giusta nozione di Dio, che cioè le conoscenze umane nulla ci possono far sa­pere di lui, bisogna apprendere quell’aspetto della virtù che consiste nell’adempimento dei doveri, atti a rendere perfetta la nostra vita morale57.

Conoscenza naturale e conoscenza soprannaturale di Dio

Mosè entrò poi nel tabernacolo celeste non fatto da mano d’uomo. Ma chi lo potrà seguire nelle ascen­sioni della sua mente? Prima di iniziare la salita dai piedi del monte egli si sbarazza di tutto ciò che po­trebbe essergli di impaccio. Giunto in cima, lo colpisce il suono delle trom­be e penetra poi nel recondito invisibile santuario della conoscenza di Dio. Tuttavia non vi si ferma, poiché passa nel Tabernacolo non costruito da ma­no d’uomo.
Allora veramente tocca il termine del suo viag­gio, dopo essere giunto a tanta altezza per strade così varie. Nonostante la diversa interpretazione da­ta da altri, mi pare che le trombe celesti vogliano trasmettere a chi le ascolta un insegnamento circa l’accesso alle realtà increate.
Tutto il meraviglioso apparato dei cieli è una voce che grida la visibile sapienza di Dio e ne pro­clama la grande gloria a chiunque l’ascolti. «I cieli narrano la gloria di Dio» (Sal 18, 2).
È questa la tromba che, con suono potente e prolungato, diffonde il suo insegnamento. Così in­fatti dice il Profeta: «Il cielo risuonò dall’alto» (Eccl. 46, 17). Chi ha ascoltato quel suono con purità di cuore e attenzione di mente, chi cioè ha potuto conosce­re la divina potenza attraverso la contemplazione delle realtà create, viene spinto a entrare con la mente fin là dove è Dio. Questo luogo è chiamato dalla Scrittura nube caliginosa che simboleggia, co­me fu detto, le realtà sconosciute e invisibili.
Là entrato, Mosè poté vedere e ammirare il ce­leste Tabernacolo di cui dovrà presentare l’immagi­ne al popolo rimasto ai piedi del monte, attraverso una costruzione materiale: vera riproduzione del modello mostratogli sul monte.



IL TABERNACOLO CELESTE


Il Tabernacolo non fatto da mano d’uomo è il misterioso archetipo che desta l’ammirazione di Mo­sè e che Dio gli ordina di riprodurre in un edificio materiale innalzato dagli uomini. «Ecco gli dice il Signore tu farai tutto secon­do il modello che ti fu mostrato sul monte» (Es 25, 9).

Nuova descrizione del santuario

Le sue colonne dorate posavano su basi d’argen­to e portavano capitelli anch’essi d’argento. Altre colonne invece avevano basi e capitelli di bronzo e d’argento il fusto.
Il pavimento su cui poggiavano le colonne era di legno pregiato, non soggetto a putrefazione. Tutti questi materiali preziosi spandevano attor­no un meraviglioso splendore.
C’era anche un candelabro con un unico piedi­stallo che in alto si divideva in sette braccia, ciascu­no dei quali portava una fiamma. Esso era di oro massiccio non già di legno dorato. C’erano l’altare, il propiziatorio, i cosiddet­ti cherubini che con le loro ali ombreggiavano l’arca.
Tutti questi oggetti non erano semplicemente ri­vestiti d’oro per ingannare l’occhio, ma erano fatti di oro massiccio. Tende di diverse stoffe artisticamente intessute abbellivano il santuario con la varietà dei loro co­lori. Esse dividevano il luogo del santuario ove po­tevano entrare i sacri ministri, da quello più inter­no e inaccessibile.
La parte anteriore del tabernacolo era denomi­nata il Santo, quella più recondita il Santo dei Santi. C’erano anche dei catini per le abluzioni e dei bracieri. Una tenda copriva i cortili. C’erano tende di crine e pelli di color rosso e al­tri oggetti che il testo descrive con precisione.
Ci domandiamo se questi oggetti sono la ripro­duzione di realtà increate e quale utile insegnamen­to essi possono darci.

Interpretazioni sottoposte al giudizio dei lettori

Mi pare opportuno lasciare la, spiegazione di que­ste realtà a chi sia in grado di parlare dei divini mi­steri sotto l’ispirazione dello Spirito, come afferma l’Apostolo (1 Cor 14, 2). Essi infatti hanno ricevuto dallo Spirito la capacità di scandagliare le profon­dità di Dio (1 Cor 2, 10).
Quanto a noi, daremo di queste realtà interpre­tazioni congetturali e approssimative, che l’illumi­nato giudizio dei lettori potrà accettare o no, in pie­na libertà. Fondandoci su alcune indicazioni dell’a­postolo Paolo, quando ci svela in parte il mistero di queste realtà, siamo del parere che esse rappre­sentano dei simboli, attraverso i quali Mosè fu istrui­to circa il mistero del Tabernacolo che contiene il tutto.

L’Incarnazione e il suo fine

Esso sarebbe il Cristo, Potenza e Sapienza di Dio. Egli, increato per natura, accetta di venire crea­to allorché si rende necessaria in mezzo a noi la co­struzione del Tabernacolo.
Perciò Cristo è nello stesso tempo increato e creato: increato a motivo della sua preesistenza, creato dal momento in cui gli viene data un’esisten­za materiale58.
Queste nostre parole non risulteranno oscure a coloro che sono istruiti nei misteri della fede. Uno solo è l’Essere che esisteva prima del tempo e nacque al termine di un lungo volger di secoli.
Questo Essere, che non aveva bisogno di nasce­re alla vita temporale. (Egli è prima del tempo e pri­ma di tutti i secoli), accetta di nascere tra noi, per ricondurci a quell’Essere da cui eravamo venuti e dal quale ci eravamo staccati per volontaria colpa.
Egli è il Dio Unigenito, che comprendendo in sé stesso il tutto, ha eretto in mezzo a noi su solide ba­si il suo Tabernacolo59.
Il fedele non si turbi se applichiamo a Cristo il nome di Tabernacolo. Cristo è un essere immenso, ma questo termine di tabernacolo a lui applicato non intende rimpic­ciolire la grandezza della sua natura. Non esiste in realtà un termine capace di espri­mere la natura divina, mancando tutti di un conte­nuto preciso e completo. Questo vale sia per i termini chiaramente inade­guati sia per quelli che contengono un’idea di gran­dezza.
Cristo viene qui opportunamente indicato col termine di tabernacolo; esso corrisponde a quei ter­mini che usiamo per significare un particolare a­spetto della Potenza divina, quelli a esempio di: medico, pastore, protettore, pane, vite, strada, por­ta, dimora, acqua, pietra, fonte e altri che appli­chiamo al medesimo essere60.
La Potenza che contiene l’universo e nella quale abita la pienezza della Divinità (Col 2, 9) può benis­simo essere chiamata col nome di Tabernacolo, per­ché è come una corazza che protegge il tutto e lo stringe dentro di sé61.
La nostra contemplazione deve adattarsi al si­gnificato simbolico del tabernacolo, perché ciascu­na delle cose che vi si trovano può aiutarci ad ave­re un’idea meno difettosa della divinità.
Il grande Apostolo afferma che il velo del taber­nacolo celeste simboleggia la carne (Eb 10, 20), mi sembra perché era composto di quattro stoffe di­verse. Lo stesso Apostolo, quando giunse nelle più alte regioni dei cieli e vide il Tabernacolo celeste, fu istruito dallo Spirito intorno alle misteriose realtà del paradiso (2 Cor 12, 4).
Fondandoci su queste interpretazioni parziali, crediamo opportuno dare una interpretazione ge­nerale di tutto il Tabernacolo. Le parole dell’Apostolo potrebbero appunto dar­ci la chiave per spiegarne i vari significati. In una delle sue lettere (Col 1, 16), egli parla del Primogenito che abbiamo visto raffigurato nel Ta­bernacolo.
«In lui tutto fu creato, le cose visibili e le invi­sibili, sia i Troni, sia le Potestà, sia i Principati, sia le Dominazioni, sia le Virtù»62.
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