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07/04/2014 19:08 | |
LE TENEBRE
Vediamo ora che cosa ci suggerisce l’entrata di Mosè nella nube tenebrosa, dove ebbe la visione di Dio. Pare che qui la Scrittura si contraddica con ciò che ha riferito circa la prima teofania53. Allora, infatti, Dio apparve nella luce, ora nelle tenebre.
Invisibilità dell’essenza divina
Non si pensi che questi particolari del racconto mal si accordino con la nostra spirituale contemplazione. Per mezzo loro la Scrittura ci insegna che la conoscenza (gnosi) del mistero di Dio è luce per coloro che le si avvicinano. Tenebra invece è l’empietà, ma la tenebra si dissipa quando si entrai nella luce.
La mente che penetra con più intensa e perfetta attenzione nella intelligenza delle realtà, quanto più avanza nella contemplazione tanto più s’accorge che la natura divina è invisibile.
Solo se lasciamo da parte le conoscenze sensibili e ciò che di vero ha soltanto apparenza, p0tremo, con il travaglio della riflessione, penetrare in profondità fino a raggiungere l’Essere invisibile e inconoscibile: là allora vedremo Dio.
Ma potremo dire di vederlo veramente quando ci accorgeremo che l’oggetto della nostra ricerca sta nascosto, come in una nube caliginosa, al di fuori del nostro campo visivo.
Il mistico Giovanni che si trovò in questa luminosa caligine afferma che «nessuno mai vide Dio» (Gv 1, 18). Con questa costatazione negativa, egli stabilisce che la conoscenza dell’essenza divina è irraggiungibile non solo dagli uomini, ma da qualsiasi creatura intellettuale54.
Mosè asserisce di vedere Dio nella caligine, proprio quando ne ha raggiunto una conoscenza più perfetta. Egli intende affermare che Dio è per natura superiore a ogni capacità di conoscenza e di comprensione delle creature. La Scrittura dichiara infatti che Mosè avanzò in mezzo alla caligine, ove era Dio. Quale Dio? Colui che pose nelle tenebre il suo nascondiglio (Sal 17, 12).
Così dice anche Davide, iniziato a misteri ineffabili in questo medesimo santuario segreto55. Mosè, giunto nel mezzo della caligine, viene istruito da Dio a viva voce, affinché possa trasmettere anche a noi la dottrina appresa, con una concretezza maggiore. Le parole divine insegnano che nessuna umana conoscenza può darci un’idea adeguata della divinità.
Se mai concetto o immagine pretenda offrirci la conoscenza o l’intuizione della natura divina, bisogna ammettere che essi esprimono soltanto un fantasma di Dio, non già la sua reale essenza56.
I doveri morali
La virtù cristiana è costituita da due parti: la prima ci conduce a Dio, l’altra mira alla correzione dei costumi, poiché la purezza della vita è parte integrante della religione.
Dopo aver appreso la giusta nozione di Dio, che cioè le conoscenze umane nulla ci possono far sapere di lui, bisogna apprendere quell’aspetto della virtù che consiste nell’adempimento dei doveri, atti a rendere perfetta la nostra vita morale57.
Conoscenza naturale e conoscenza soprannaturale di Dio
Mosè entrò poi nel tabernacolo celeste non fatto da mano d’uomo. Ma chi lo potrà seguire nelle ascensioni della sua mente? Prima di iniziare la salita dai piedi del monte egli si sbarazza di tutto ciò che potrebbe essergli di impaccio. Giunto in cima, lo colpisce il suono delle trombe e penetra poi nel recondito invisibile santuario della conoscenza di Dio. Tuttavia non vi si ferma, poiché passa nel Tabernacolo non costruito da mano d’uomo.
Allora veramente tocca il termine del suo viaggio, dopo essere giunto a tanta altezza per strade così varie. Nonostante la diversa interpretazione data da altri, mi pare che le trombe celesti vogliano trasmettere a chi le ascolta un insegnamento circa l’accesso alle realtà increate.
Tutto il meraviglioso apparato dei cieli è una voce che grida la visibile sapienza di Dio e ne proclama la grande gloria a chiunque l’ascolti. «I cieli narrano la gloria di Dio» (Sal 18, 2).
È questa la tromba che, con suono potente e prolungato, diffonde il suo insegnamento. Così infatti dice il Profeta: «Il cielo risuonò dall’alto» (Eccl. 46, 17). Chi ha ascoltato quel suono con purità di cuore e attenzione di mente, chi cioè ha potuto conoscere la divina potenza attraverso la contemplazione delle realtà create, viene spinto a entrare con la mente fin là dove è Dio. Questo luogo è chiamato dalla Scrittura nube caliginosa che simboleggia, come fu detto, le realtà sconosciute e invisibili.
Là entrato, Mosè poté vedere e ammirare il celeste Tabernacolo di cui dovrà presentare l’immagine al popolo rimasto ai piedi del monte, attraverso una costruzione materiale: vera riproduzione del modello mostratogli sul monte.
IL TABERNACOLO CELESTE
Il Tabernacolo non fatto da mano d’uomo è il misterioso archetipo che desta l’ammirazione di Mosè e che Dio gli ordina di riprodurre in un edificio materiale innalzato dagli uomini. «Ecco gli dice il Signore tu farai tutto secondo il modello che ti fu mostrato sul monte» (Es 25, 9).
Nuova descrizione del santuario
Le sue colonne dorate posavano su basi d’argento e portavano capitelli anch’essi d’argento. Altre colonne invece avevano basi e capitelli di bronzo e d’argento il fusto.
Il pavimento su cui poggiavano le colonne era di legno pregiato, non soggetto a putrefazione. Tutti questi materiali preziosi spandevano attorno un meraviglioso splendore.
C’era anche un candelabro con un unico piedistallo che in alto si divideva in sette braccia, ciascuno dei quali portava una fiamma. Esso era di oro massiccio non già di legno dorato. C’erano l’altare, il propiziatorio, i cosiddetti cherubini che con le loro ali ombreggiavano l’arca.
Tutti questi oggetti non erano semplicemente rivestiti d’oro per ingannare l’occhio, ma erano fatti di oro massiccio. Tende di diverse stoffe artisticamente intessute abbellivano il santuario con la varietà dei loro colori. Esse dividevano il luogo del santuario ove potevano entrare i sacri ministri, da quello più interno e inaccessibile.
La parte anteriore del tabernacolo era denominata il Santo, quella più recondita il Santo dei Santi. C’erano anche dei catini per le abluzioni e dei bracieri. Una tenda copriva i cortili. C’erano tende di crine e pelli di color rosso e altri oggetti che il testo descrive con precisione.
Ci domandiamo se questi oggetti sono la riproduzione di realtà increate e quale utile insegnamento essi possono darci.
Interpretazioni sottoposte al giudizio dei lettori
Mi pare opportuno lasciare la, spiegazione di queste realtà a chi sia in grado di parlare dei divini misteri sotto l’ispirazione dello Spirito, come afferma l’Apostolo (1 Cor 14, 2). Essi infatti hanno ricevuto dallo Spirito la capacità di scandagliare le profondità di Dio (1 Cor 2, 10).
Quanto a noi, daremo di queste realtà interpretazioni congetturali e approssimative, che l’illuminato giudizio dei lettori potrà accettare o no, in piena libertà. Fondandoci su alcune indicazioni dell’apostolo Paolo, quando ci svela in parte il mistero di queste realtà, siamo del parere che esse rappresentano dei simboli, attraverso i quali Mosè fu istruito circa il mistero del Tabernacolo che contiene il tutto.
L’Incarnazione e il suo fine
Esso sarebbe il Cristo, Potenza e Sapienza di Dio. Egli, increato per natura, accetta di venire creato allorché si rende necessaria in mezzo a noi la costruzione del Tabernacolo.
Perciò Cristo è nello stesso tempo increato e creato: increato a motivo della sua preesistenza, creato dal momento in cui gli viene data un’esistenza materiale58.
Queste nostre parole non risulteranno oscure a coloro che sono istruiti nei misteri della fede. Uno solo è l’Essere che esisteva prima del tempo e nacque al termine di un lungo volger di secoli.
Questo Essere, che non aveva bisogno di nascere alla vita temporale. (Egli è prima del tempo e prima di tutti i secoli), accetta di nascere tra noi, per ricondurci a quell’Essere da cui eravamo venuti e dal quale ci eravamo staccati per volontaria colpa.
Egli è il Dio Unigenito, che comprendendo in sé stesso il tutto, ha eretto in mezzo a noi su solide basi il suo Tabernacolo59.
Il fedele non si turbi se applichiamo a Cristo il nome di Tabernacolo. Cristo è un essere immenso, ma questo termine di tabernacolo a lui applicato non intende rimpicciolire la grandezza della sua natura. Non esiste in realtà un termine capace di esprimere la natura divina, mancando tutti di un contenuto preciso e completo. Questo vale sia per i termini chiaramente inadeguati sia per quelli che contengono un’idea di grandezza.
Cristo viene qui opportunamente indicato col termine di tabernacolo; esso corrisponde a quei termini che usiamo per significare un particolare aspetto della Potenza divina, quelli a esempio di: medico, pastore, protettore, pane, vite, strada, porta, dimora, acqua, pietra, fonte e altri che applichiamo al medesimo essere60.
La Potenza che contiene l’universo e nella quale abita la pienezza della Divinità (Col 2, 9) può benissimo essere chiamata col nome di Tabernacolo, perché è come una corazza che protegge il tutto e lo stringe dentro di sé61.
La nostra contemplazione deve adattarsi al significato simbolico del tabernacolo, perché ciascuna delle cose che vi si trovano può aiutarci ad avere un’idea meno difettosa della divinità.
Il grande Apostolo afferma che il velo del tabernacolo celeste simboleggia la carne (Eb 10, 20), mi sembra perché era composto di quattro stoffe diverse. Lo stesso Apostolo, quando giunse nelle più alte regioni dei cieli e vide il Tabernacolo celeste, fu istruito dallo Spirito intorno alle misteriose realtà del paradiso (2 Cor 12, 4).
Fondandoci su queste interpretazioni parziali, crediamo opportuno dare una interpretazione generale di tutto il Tabernacolo. Le parole dell’Apostolo potrebbero appunto darci la chiave per spiegarne i vari significati. In una delle sue lettere (Col 1, 16), egli parla del Primogenito che abbiamo visto raffigurato nel Tabernacolo.
«In lui tutto fu creato, le cose visibili e le invisibili, sia i Troni, sia le Potestà, sia i Principati, sia le Dominazioni, sia le Virtù»62.
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