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Vita di Mosè (di Gregorio Nisseno)

Ultimo Aggiornamento: 07/04/2014 19:15
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07/04/2014 18:53
 
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Il Decalogo (Es 20,1 17)

Mosè giuntovi, ricevette i divini comandamenti, che sono un ammaestramento alla virtù. Il primo di essi riguarda la virtù della religione e ci impone di avere esatte cognizioni intorno alla natura di­vina. Dobbiamo pensare che essa supera ogni no­stra cognizione derivata dai sensi o dall’intelligen­za, così che risulta impossibile qualsiasi paragone tra le nostre cognizioni e la natura divina. Non dobbiamo dunque definire Dio secondo concetti umani, perché la sua natura è superiore a tutte le cose dell’universo e non ha alcuna somiglianza con quanto noi conosciamo. Dobbiamo soltanto crede­re che essa esiste, senza darci pensiero di cerca­re la sua qualità e quantità, l’origine e le modalità della sua esistenza: tutto questo sarebbe infatti ir­raggiungibile dal pensiero umano.
I comandamenti divini, così come erano formu­lati, contenevano anche ammaestramenti atti alla correzione dei costumi. Essi si possono distinguere in leggi generali e leggi particolari.
La legge generale che comandava l’amore al pros­simo, era atta a togliere alla radice ogni ingiustizia. Da essa deriva il dovere di non far del male agli altri. Alle leggi particolari apparteneva l’obbligo del rispetto verso i genitori. Era poi elencata e condan­nata tutta una serie di altre mancanze.

Il Tabernacolo celeste (Es 24, 15 18)

Purificato da queste leggi, Mosè venne introdot­to a più alti misteri, quando Dio gli presentò. la complessa costruzione del Tabernacolo. Era un tempio la cui bellezza e varietà non possono essere facilmente descritte. Comprendeva un ingresso a colonne, tendaggi, lampadari, tavole, un altare dei sacrifici e un altare degli olocausti e nell’interno un santuario inaccessibile. Dio ordinò a Mosè di edificare quell’edificio di armoniosa bellezza, affin­ché i posteri ne conservassero il ricordo e ancor più ne ammirassero la meraviglia. Perciò Mosè non do­veva limitarsi a descrivere il Tabernacolo da lui vi­sto in cielo, ma doveva riprodurlo in una costruzio­ne visibile qui in terra, usando i più preziosi e più splendidi materiali che potesse trovare.

Il Tabernacolo terrestre e la sua tenda (Es 26,1 14; 36,8 19)

I fusti delle colonne furono rivestiti d’oro, i lo­ro capitelli d’argento, mentre le basi erano di bron­zo. Questa varietà di colori aveva, a mio parere, lo scopo di dare maggior risalto ed estensione al ba­gliore dell’oro. Le parti in bronzo stavano immedia­tamente sopra e sotto quelle in argento.
Anche i tessuti dei tendaggi, delle coperture e dei drappi che correvano attorno al Tabernacolo ed erano stesi sopra le colonne, furono fatti di ma­teriali finissimi, dalle tinte più varie: l’azzurro e la porpora, il rosso fuoco o il bianco naturale e viva­ce del lino. Infatti, alcuni tessuti destinati a usi par­ticolari, erano di lino, altri invece di crine. I drap­pi in rosso contribuivano da parte loro a rendere più attraente tutto il complesso. Appena sceso dal monte, Mosè incominciò la co­struzione del Tabernacolo, servendosi di aiutanti per l’esecuzione.

Le vesti sacerdotali (Es 28,1 43; 39,1 31)

Già in antecedenza, quando ancora stava nel Ta­bernacolo celeste, Mosè ricevette da Dio istruzioni circa i paramenti che avrebbe dovuto indossare il Sommo Sacerdote, entrando nel sacrario. C’erano vesti esterne e vesti interne e Dio gliele fece cono­scere in tutti i particolari, incominciando da quelle esterne.
Comprendevano anzitutto gli omerali, il cui co­lore corrispondeva a quello delle tende del Taberna­colo ma recavano anche ricami in oro. Ai due lati erano trattenuti da fibbie cerchiate d’oro e splen­denti di smeraldi. Da queste bellissime pietre irra­diavano bagliori verdognoli. Erano oggetto di am­mirazione anche i ceselli che le ornavano, presen­tandosi però in forma diversa da quella dei culti idolatrici. Invece di idoli vi erano incisi i nomi dei Patriarchi, sei nomi per ciascuna pietra: davvero una meraviglia!
Attaccati alle fibbie, sul davanti, c’erano piccoli scudi, da cui pendevano, a modo di rete, cordicelle intrecciate, di bellissimo effetto, perché ricevevano risalto dalle parti sottostanti.
Anche sul petto, il Sommo Sacerdote portava una stoffa lavorata in oro; vi apparivano, disposte su quattro file, pietre preziose di diverso tipo, tan­te quanti sono i Patriarchi. Ogni fila comprendeva tre pietre e ogni pietra portava incisi i nomi dei ca­postipiti delle tribù.
Sotto gli omerali scendeva fino ai piedi una tu­nica, intorno alla quale correva una bella frangia, decorata di vari ricami e alla quale erano sospesi campanelli dorati e piccole melograne, che la divi­devano simmetricamente. Sul capo il Sommo Sacerdote portava una fascia di colore violaceo e in fronte una lamina d’oro, su cui erano incise parole arcane.
Le pieghe troppo larghe della tunica erano stret­te da una fascia, e un apposito indumento copriva le parti del corpo che vanno coperte. Ogni singola veste e ogni suo ornamento erano simbolo e richiamo di corrispondenti virtù richie­ste nel Sommo Sacerdote.

Le tavole della legge (Es 24,12 18; 31,18)

Dio dopo aver impartito a Mosè questi arcani insegnamenti, gli comandò di uscire dalla nube ca­liginosa e scendere, interiormente rinnovato, là do­ve si era accampato il popolo, per far conoscere a tutti ciò che gli era stato mostrato nella teofania: le leggi, il tabernacolo, il sacerdozio, tutto secondo gli esemplari visti sul monte. Egli portava in mano le sacre tavole consegnategli da Dio; esse non era­no dovute al lavoro dell’uomo ma tutto, sia il mate­riale di cui eran fatte, sia le lettere che vi si vede­vano incise, era opera di Dio.

Il vitello d’oro e le tavole spezzate (Es 32,1 24)

Ma il popolo, prima che il Legislatore scendesse dal monte, si era dato all’idolatria, rendendo così inutile il dono della legge che figurava scritta sulle tavole. Infatti, durante i quaranta giorni e le qua­ranta notti del lungo colloquio di Mosè con Dio nel­la nube caliginosa, quando egli veniva iniziato ai misteri divini e faceva esperienza di una vita non più terrena, ma soprannaturale (il suo corpo per tutto quel periodo non ebbe bisogno di cibo), il po­polo si lasciò andare ad azioni disordinate, come fa­rebbe un fanciullino, quando non si sente più sor­vegliato dal pedagogo. Tutti, infatti, si recarono da Aronne e lo costrinsero a farsi promotore di un cul­to idolatrico. Costruirono un idolo d’oro in forma di vitello e stavano già raccogliendosi intorno al­l’empio simulacro, quando sopraggiunse Mosè, che infranse contro di esso le tavole consegnategli da Dio. Questo fece per castigare il loro peccato e per significare che avevano perduto la grazia del Signore.

La punizione dei colpevoli (Es 32,25 35)

I trasgressori lavarono con il loro sangue la mac­chia di tanto delitto e la loro punizione, che riuscì a placare il Signore, fu affidata ai Leviti.

Le seconde tavole di pietra (Es 34,1 4)

Mosè fece distruggere anche l’idolo, poi, passati altri quaranta giorni, tornò con altre tavole. Questa volta aveva dovuto lui stesso procurarsi le pietre, mentre la Potenza divina provvide solo a incidervi le lettere. Anche in quell’occasione, prima del ritor­no con le nuove tavole, era vissuto quaranta giorni in maniera straordinaria e soprannaturale, senza sentire alcun bisogno di cibo.

Altre opere per il Tabernacolo (Es 27, 30)

Innalzato il Tabernacolo per il servizio religioso e date le leggi, stabilì il sacerdozio, conforme alle indicazioni ricevute dal Signore. Furono eseguite anche molte altre opere inerenti al Tabernacolo: la sistemazione dell’ingresso e quella dell’interno, l’al­tare dell’incenso e l’altare degli olocausti, il cande­labro, i drappi, il santuario interno, destinato alla preghiera, le vesti sacerdotali, i profumi, le cerimo­nie sacre, le purificazioni, le orazioni di ringrazia­mento, quelle per scongiurare i malanni e di propi­ziazione per i peccatori, tutto fu ordinato in confor­mità alle istruzioni ricevute.

L’invidia dei familiari (Nm 12)

Ma l’invidia, male congenito della natura uma­na, si insinuò nell’animo dei suoi stessi familiari, di Aronne suo fratello, che pure aveva l’onore del som­mo sacerdozio e di Maria, sua sorella, che fu presa da una gelosia tutta femminile per gli onori che Mosè aveva ricevuto da Dio. Costoro osarono muo­vere gravi critiche contro Mosè, tanto che il Signo­re non poté lasciare impunita tale colpa.
In quella circostanza si rivelò l’ammirevole man­suetudine di Mosè perché, volendo Dio punire la cat­tiveria della sorella egli, superando il risentimento, supplicò il Signore in suo favore.

Mormorazioni per il cibo (Nm 11)

In seguito ci fu una ribellione tra il popolo, cau­sata dai piaceri smoderati del ventre. Infatti, non erano contenti di vivere bene, senza malattie, con il cibo che scendeva dal cielo, ma desideravano avere la carne, disprezzando così i beni che avevano a di­sposizione e rimpiangendo i tempi della schiavitù sotto gli Egiziani.
Mosè parlò al Signore per queste lamentele e il Signore, pur manifestando il suo disappunto, fece in modo che avessero quanto desideravano, man­dando sull’accampamento una moltitudine di uccel­li, che volavano raso terra.
Questo facilitò la loro cattura e la gente ebbe la carne tanto bramata. Ma avendo a disposizione molta varietà di cibi, ne usarono per preparare in­tingoli dannosi alla salute, causa di malattie e per­fino di morte. Viste tali conseguenze rovinose, si ri­dussero a migliori consigli, cosa che dovrebbe ripe­tersi a beneficio di chiunque si soffermi a meditare su tali fatti.

Gli Esploratori (Nm 13)

Il paese che per assegnazione divina, avrebbero dovuto abitare, fu perlustrato da osservatori invia­ti da Mosè. Ma, in seguito alle false notizie riferite da alcuni di loro, il popolo di nuovo si adirò contro di lui.

Nuova sedizione (Nm 20, 1 4)

Dio, vedendo tanta diffidenza nel suo aiuto, im­pedì loro per castigo che potessero giungere a vede­re la terra promessa. Continuava frattanto la mar­cia attraverso il deserto e di nuovo venne a manca­re l’acqua. Si era ormai dileguato dalla loro memo­ria il ricordo del miracolo con cui precedentemente il Signore aveva fatto scaturire l’acqua dalla roccia.
Essi perciò non avevano fiducia di ottenere da Dio ciò di cui abbisognavano. Giunsero perfino, nella loro disperazione, a lanciare oltraggi contro Dio e contro Mosè e sembrò che anche questi stesse per cadere nell’incredulità. Avrebbe Dio mutato ancora la dura roccia in acqua, con un nuovo miracolo?

Il serpente di bronzo (Nm 21, 4 9)

In preda ancora una volta alle basse brame del­la gola, essi rimpiangevano i pasti abbondanti del­l’Egitto, sebbene non mancasse loro il necessario. I promotori della ribellione, tutti giovani, furono pu­niti da serpenti, che li assalirono e li morsero, iniet­tando in loro un veleno mortale. Molti infatti mo­rirono e Mosè allora, per suggerimento del Signore, fece innalzare su un’altura, al cospetto dell’intero accampamento, un serpente di bronzo.
Il danno arrecato dai serpenti in mezzo al po­polo fu fermato e tutti si sentirono liberati dall’e­strema rovina. Bastava volgere gli sguardi all’im­magine bronzea del serpente, per essere immuniz­zati dai morsi dei veri serpenti, come se il loro mor­so, per una misteriosa operazione, iniettasse un ve­leno dolce.

La sedizione per il sacerdozio (Nm 16,1 35; 17,1 15)

Avvenne una nuova rivolta del popolo contro i capi, perché costoro volevano assumere con la for­za la dignità sacerdotale. Mosè si presentò ancora al Signore, supplicandolo in favore dei rivoltosi, ma questa volta le decisioni della divina Giustizia ebbe­ro il sopravvento sui suoi sentimenti compassione­voli. Il Signore provocò nel terreno l’apertura di una voragine che, rinchiudendosi, divorò tutti quel­li che si erano sollevati contro l’autorità di Mosè. Coloro che avevano voluto usurpare il sacerdozio con la violenza, circa duecentocinquanta persone, furono bruciati vivi e questa punizione fece diven­tare più saggi gli altri.

La verga di Aronne (Nm 17, 16 26)

Per persuaderli che la grazia del sacerdozio vie­ne dal Signore, Mosè consegnò una verga ai capi di ciascuna tribù, facendovi incidere il loro nome. Tra le verghe c’era anche quella del Sommo Sacerdote Aronne.
Collocate davanti all’altare, le verghe indicarono senza equivoci chi il Signore aveva scelto alla digni­tà sacerdotale. Infatti, sola fra tutte, la verga di Aronne germogliò dal suo fusto (era legno di noce), produsse e maturò un frutto. La cosa fu giudicata miracolosa perfino dai più scettici, visto che si trat­tava di un legno secco, legato in fascio con gli al­tri, senza radice, eppure produsse un frutto, come si fosse trattato di una pianta viva. La Potenza di­vina aveva dunque operato in quel legno ciò che normalmente e insieme operano il terreno, l’umidi­tà, la corteccia e la radice.

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