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07/04/2014 18:50 | |
STORIA DI MOSÈ
Nascita e salvezza di Mosè (Es 2,1-10)
All’epoca in cui nacque Mosè, una legge dispotica, ricordata dalla Scrittura, imponeva che i nati maschi fossero soppressi. Ma i suoi genitori non vollero sottostare a quella legge, perché nel volto del bambino già allora splendeva la bellezza che tutti in seguito avrebbero ammirato.
Costretti, tuttavia, a cedere alle minacce del tiranno, affidarono il bambino alle acque del fiume, preoccupandosi che non venisse subito sommerso.
Lo misero in un canestro spalmato di pece e lo abbandonarono così alla corrente. (Questi particolari ci sono riferiti con esattezza dagli storici della sua vita).
Il canestro, come guidato dalla mano di Dio, entrò in uno dei canali laterali del fiume e finì per essere sbalzato dalla corrente sui bordi del canale stesso.
La figlia del re che passava lungo i prati proprio là dove il canestro si era fermato, lo scoprì sentendo uscirne dei vagiti. Piena di stupore per la bellezza del bambino, decise di portarlo con sé, di curano e tenerlo come un figlio.
Ma il bambino, per istinto di natura, non si lasciava allattare da estranee per cui, alcune persone avvedute, appartenenti alla sua stessa razza, riuscirono a farlo allattare da sua madre.
Uscito di fanciullezza, dopo che era stato educato nelle discipline di quel popolo straniero, egli ricusò gli onori che avrebbe potuto ottenere presso di loro; si staccò dalla madre fittizia che l’aveva tenuto come figlio e tornò tra i compatrioti presso la propria madre.
Fuga nel deserto di Madian (Es 2, 11 12)
Un giorno, imbattutosi in un ebreo e in un egiziano che litigavano, volle prender le difese del compatriota ed uccise l’egiziano. In altra occasione si adoperò per pacificare due ebrei che rissavano furiosamente. Inutilmente ricordò a essi che erano fratelli e avrebbero dovuto risolvere la controversia non già con l’ira ma nello spirito della reciproca comunanza di stirpe: quello dei due che aveva torto lo costrinse ad andarsene ed egli approfittò dell’offesa per acquistarsi una saggezza più alta1.
Portatosi lontano, fuori dai rumori del mondo, in luoghi solitari, si mise al servizio di una persona straniera molto saggia e sperimentata nel giudicare i costumi e la condotta degli uomini2. Fu sufficiente l’episodio dell’assalto dei pastori perché quest’uomo comprendesse il valore del giovane Mosè.
Costui infatti si rese conto che Mosè non si era scagliato contro i pastori a scopo di lucro o di difesa essi non l’avevano provocato ma perché, giudicando un onore potersi battere per la giustizia, aveva voluto punire appunto il loro ingiusto comportamento.
Fu questo atto che gli meritò l’ammirazione del suo padrone straniero, il quale finì per dargli in moglie la figlia, tenendo in gran conto il coraggio del giovane e non badando invece alla sua povertà. Lo lasciò libero di condurre il genere di vita che più gli gradisse.
Così Mosè, divenuto pastore di pecore, continuò a restare nel deserto, lontano dalla confusione della folla, pienamente soddisfatto di quella vita.
La vocazione (Es 3, 2 22)
Fu nel tempo in cui si trovava nel deserto che, secondo la testimonianza della storia, Dio gli si manifestò in modo miracoloso.
Un giorno, in pieno meriggio, fu colpito da una luce così intensa che superava quella del sole e quasi lo accecò. L’insolito fenomeno, pur avendolo sbalordito, non gli impedì di levare gli occhi verso la cima del monte, dove vide un chiarore di fuoco attorno a un cespuglio, i cui rami però continuavano a restare verdi anche in mezzo alle fiamme, come se fossero coperti di rugiada.
A quella vista Mosè esclamò: «Andrò a vedere questa grande visione» (Es 3, 3) e mentre pronunziava queste parole avvertì che il chiarore del fuoco raggiungeva contemporaneamente e incredibilmente tanto i suoi occhi come il suo udito.
Da quelle fiamme avvampanti vennero infatti a lui come due grazie diverse: l’una attraverso la luce dava vigore agli occhi, l’altra faceva risuonare alle orecchie ordini santi.
La voce proveniente dal chiarore ingiunse a Mosè di levare i calzari e di salire a piedi nudi verso il luogo in cui splendeva la luce divina.
Poiché ritengo superfluo, per l’intento che mi sono proposto, dilungarmi su tutte le singole vicende esteriori della vita di Mosè, mi basta far notare che l’apparizione divina gli donò tanta forza che fu in grado di accettare l’ordine di liberare il popolo dalla schiavitù degli Egiziani.
Egli fece esperienza della forza ricevuta, attraverso prove che Dio gli comandò di eseguire lì sul momento. Fatta cadere per terra una verga che teneva in mano, essa si trasformò in serpente, ma non appena l’ebbe raccolta da terra, ritornò come prima. Fu poi la volta di una mano che, appena estratta dal seno, mutò il colore della pelle, divenendo bianca come neve, ma rimessa al posto di prima riacquistò il colore naturale.
Ritorno in Egitto (Es 4, 18 27)
Decise allora di ritornare in Egitto conducendo con sé la moglie e il figlio. Nel viaggio, come dice la storia, gli andò incontro un angelo, che gli minacciò la morte, ma la donna riuscì a placarlo con il sangue della circoncisione del figlio.
Anche Aronne, suo fratello, venne a incontrarlo e a parlargli secondo l’ordine che aveva ricevuto da Dio.
Per la liberazione del popolo (Es 4, 28 31; 5, 1 19)
Il popolo che viveva disperso in mezzo agli Egiziani e oppresso sotto i lavori forzati, fu da loro convocato in assemblea, dove essi promisero a tutti la liberazione dalla schiavitù. Il proposito fu manifestato al sovrano da Mosè stesso, ma quello si mise a opprimere ancor più gli Israeliti, mostrandosi più esigente con i sovrintendenti ai lavori. Ordini più severi imposero la raccolta di una quantità maggiore di argilla, di paglia e di stoppa.
Gli indovini egiziani e i serpenti (Es 7, 8 13)
Quando il Faraone, tale era il nome del tiranno degli egiziani, fu informato dei portenti che Mosè aveva compiuto in mezzo al suo popolo, escogitò dei raggiri servendosi degli indovini. Era convinto che le arti magiche di costoro avrebbero potuto riprodurre lo stesso portento delle verghe trasformate da Mosè in serpente al cospetto di tutti gli Egiziani.
In realtà, anche le verghe degli indovini divennero serpenti, ma il serpente uscito dalla verga di Mosè si lanciò su di loro e li divorò.
Questo bastò a smascherare l’errore e mostrare che la magia aveva saputo procurare alle verghe soltanto una vita effimera, capace di destare l’ammirazione di persone facili a lasciarsi ingannare.
Le piaghe d’Egitto (Es 7, 14 11, 36)
Quando Mosè s’accorse che anche il popolo egiziano appoggiava pienamente il despota autore di quei raggiri, procurò di colpirli tutti indistintamente, con dei castighi.
Gli stessi elementi del mondo materiale, quasi un esercito agli ordini di Mosè, si schierarono contro gli Egiziani: la terra, l’acqua, l’aria, il fuoco mutarono le loro qualità naturali, ma soltanto quando si trattava di castigare gli Egiziani maldisposti verso gli Ebrei. Quando qualcuno di questi elementi causava la punizione dei primi, contemporaneamente e nel medesimo luogo lasciava immuni gli altri, perché innocenti.
Le acque mutate in sangue (Es 7, 14 25)
Così le acque d’Egitto si mutarono in sangue coagulato che, formando una massa compatta, fece morire i pesci. Ma per gli Ebrei l’acqua restò quella che era, anche se, per il suo apparente colore, poteva essere scambiata per sangue.
Gli indovini presero a pretesto l’apparenza di sangue che aveva l’acqua usata dagli Ebrei, per ordire nuovi inganni.
Le rane (Es 7, 26; 8, 11)
Una moltitudine di rane riempì in seguito tutto l’Egitto. Esse non venivano da una eccezionale proliferazione della natura, ma le fece accorrere in numero straordinario un ordine di Mosè. Penetrarono così in tutte le case degli Egiziani, causando gravi danni, ma non toccarono quelle degli Ebrei.
Le tenebre (Es 10, 21 23)
Il nuovo castigo degli Egiziani fu di non riuscire più a distinguere il giorno dalla notte. Restarono avvolti in una oscurità continua, mentre gli Ebrei non trovarono mutato il consueto alternarsi di luce e tenebre.
Altre calamità (Es 8,12 10, 20)
Molte altre calamità vennero suscitate da Mosè contro gli Egiziani: la grandine, il fuoco, le mosche, le pustole, i topi, gli sciami di cavallette. Tutte queste cose procurarono danni di maggiore o minore entità in conformità con la loro specifica natura. Come sempre, gli Ebrei non subirono danno alcuno, ma ne venivano a conoscenza dalle grida e dalle informazioni dei loro vicini Egiziani.
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