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CREDENTI DA IMITARE (Eb.13,7)

Ultimo Aggiornamento: 18/05/2019 13:12
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22/10/2017 14:11
 
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San Valerio di Langres Diacono e martire

22 ottobre




Martirologio Romano: Nel territorio di Besançon, ora in Francia, san Valerio, diacono della Chiesa di Langres, ucciso dai pagani.













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23/10/2017 08:12
 
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San Severino Manlio Boezio Filosofo e martire

23 ottobre


Sec. VI



Anicio Manlio Torquato Severino Boezio per tutti rappresenta spesso solo un paragrafo del manuale di storia della filosofia. Dagli studiosi è visto come il filosofo che sintetizzò il pensiero classico e la cultura cristiana, lasciando l'unica eredità filosofica di rilievo della seconda metà del primo millennio. Boezio nasce a Roma, attorno al 475 da un patrizio della gens Anicia che fu console sotto Odoacre. È senatore a 25 anni e console unico nel 510. Sposa Rusticiana divenendo genero dell'imperatore Simmaco e cognato delle sante Proba e Galla; ebbe due figli che diventeranno consoli nel 522. Collaborò con Teodorico contribuendo a diffondere fra i Goti il pensiero romano e la fede cristiana. La sua integrità lo oppose però a Teodorico stesso che lo condannò ingiustamente. Esiliato a Pavia, fu chiuso da Eusebio, prefetto di quella città, nel battistero della vecchia cattedrale in Agro Calventiano e lì ucciso nel 524. L'opera più famosa di Boezio è quella da lui scritta in carcere nel 523-524: il «De consolatione philosophiae», scritto ben conosciuto, oltre che da Dante, anche dai letterati e dagli umanisti rinascimentali. (Avvenire)

Etimologia: Manlio significa “Mattino” dal latino Mànius e veniva imposto a quei bambini che


Emblema: Palma


Martirologio Romano: A Pavia, commemorazione di san Severino Boezio, martire, che, illustre per la sua cultura e i suoi scritti, mentre era rinchiuso in carcere scrisse un trattato sulla consolazione della filosofia e servì con integrità Dio fino alla morte inflittagli dal re Teodorico.








È cosa ovvia affermare che "tutti gli uomini desiderano sapere" (Aristotele) e che l'oggetto di questa incessante ricerca è la verità: sul mondo (Cosmologia), su Dio (Teologia) su se stessi (Antropologia). Se ogni uomo può essere considerato cercatore della verità, alcuni personaggi della storia assurgono anche a martiri per la verità. Tra questi ricordiamo Severino Boezio. Dante lo chiamava "anima santa" e lo considerava la cerniera tra la cultura romana e la nascente Scolastica. Fu un filosofo dallo straordinario influsso per molti secoli.

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24/10/2017 07:30
 
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Santi Felice, Adautto e Gennaro Martiri venerati a Venosa

24 ottobre


m. 303








Le passiones oggi possedute, dipendenti da una passio di un contemporaneo, sono state interpolate con ogni probabilità da autori dell'Italia meridionale, giacché il luogo del martirio del vescovo africano Felice è trasferito da Cartagine a Venosa nella Puglia od a Nola nella Campania. Queste passiones sono state poi riassunte in vari Martirologi con altre deformazioni od aggiunte. Il Delehaye ha cercato di togliere gli elementi leggendari presentando la probabile redazione primitiva.
Il magistrato di una località non molto distante da Cartagine, Thibiuca, oggi Zoustina (il nome è però trascritto in documenti antichi e recenti in vari modi: Tibiura, Tubioca, Tubzack, ecc.), eseguendo gli ordini imperiali, nel giugno del 303, chiamò in tribunale il prete Afro ed i lettori Cirillo (Giro) e Vitale. Alla richiesta di consegnare i libri sacri, Afro rispose che erano in possesso del vescovo Felice, in quel giorno assente dalla città. Il giorno seguente fu la volta del vescovo, il quale anche lui, alla richiesta del magistrato di consegnare i libri sacri, oppose un netto rifiuto. Furono concessi tre giorni di tempo per riflettere, passati i quali Felice venne inviato a Cartagine al proconsole Anulino. Dopo quindici giorni di permanenza in carcere fu sottoposto ad interrogatorio: gli furono nuovamente richiesti i libri sacri che il vescovo non volle consegnare, e per conseguenza fu condannato alla decapitazione. Aveva allora cinquantasei anni. La sentenza fu eseguita il 15 luglio; fu sepolto nella basilica di Fausto, celebre per i molti corpi di martiri ivi sepolti (cf. Mansi, VIII, col. 808). In alcuni martirologi è menzionato il 30 agosto (forse perché ci fu confusione con i martiri romani Felice ed Adautto commemorati nella stessa giornata). In altri Martirologi la festa è al 24 ottobre.
Meritano segnalazione le aggiunte leggendarie, perché denotano l'estensione del culto di Felice nell'Italia meridionale. Nella prima parte queste passiones riferiscono l'interrogatorio e gli episodi sopraddetti, differendo specialmente nella parte finale. Infatti il proconsole Anulino non avrebbe impartito l'ordine di decapitazione bensì quello di inviare Felice in Italia. La descrizione del viaggio presenta notevoli differenze da testo a testo; secondo una narrazione Felice transitò per Agrigento, Taormina, Catania, Messina ed infine giunse a Venosa ove il prefetto lo fece decapitare (30 agosto). Mentre un'altra versione riferisce che Felice fu inviato a Roma e quivi condannato a seguire gli imperatori, per cui giunse a Nola ove venne ucciso il 29 luglio (in altro testo c'è la data del 15 gennaio). Le reliquie furono poi trasferite a Cartagine. Secondo il primo racconto a Venosa furono martirizzati i compagni di Felice il prete Gennaro ed i lettori Fortunanzio e Settimio. Il Martirologio Romano, copiando da quelli di Usuardo ed Adone, nomina invece, come compagno di Felice, Adautto. L'aggiunta di questo nome è facilmente spiegabile: a Roma erano venerati il 30 agosto Felice ed Adautto, per cui i compilatori confusero il Felice romano con il Felice cartaginese.
Resta la questione di Felice venerato nell'Italia meridionale ed in particoiar modo a Venosa. Si tratta indubbiamente del santo di Thibiuca: lo affermano le stesse passiones leggendarie. Il fatto del culto, assai antico, può essere dipeso dalla presenza di reliquie del martire africano. Agli agiografi italiani non fu poi difficile spiegare la venerazione descrivendo il martirio come avvenuto a Venosa od a Nola. Nella leggenda di Venosa sono menzionati i martiri compagni di Felice, Gennaro, Fortunaziano, Settimino. Si tratta probabilmente di santi africani (cf. Lanzoni, pp. 286-87) facenti parte di una complessa leggendaria vicenda riguardante altre città dell'Italia meridionale. Con ogni probabilità il compilatore italiano ha sostituito ad Afro e compagni, menzionati negli Atti autentici, altri martiri venerati a Venosa ed in altre località della zona.



Autore: Gian Domenico Gordini

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25/10/2017 10:15
 
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Santi Martirio e Marciano Martiri

25 ottobre




Martirologio Romano: A Costantinopoli, santi Martirio, suddiacono, e Marciano, cantore, uccisi dagli ariani sotto l’imperatore Costanzo.

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26/10/2017 08:18
 
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Santi Luciano e Marciano Martiri

26 ottobre




Martirologio Romano: A Nicomedia in Bitinia, nell’odierna Turchia, santi Luciano e Marciano, martiri, che si tramanda siano stati messi al rogo sotto l’imperatore Decio, per ordine del proconsole Sabino.

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27/10/2017 09:11
 
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one B > Santa Balsamia Condividi su Facebook Twitter




Santa Balsamia

27 ottobre


Sec. VI

In Francia, nella diocesi di Reims, Balsamia viene onorata come nutrice di San Remigio, vescovo di quella città. Un dato che la rende particolarmente importante per l'Oltralpe. San Remigio, infatti, convertì nel V secolo la regina Clotilde e il marito Clodoveo. E con la conversione del re franco iniziò la storia cristiana della Francia. La figura di Balsamia si accosta a quella della madre di Remigio, Celina, anch'essa santa. Il nome della balia, però, appare tardivamente, nel X secolo quando oltre che nutrice viene identificata anche come madre di santi: san Celsino sarebbe stato, infatti, uno dei suoi figli. La leggenda dice che, benché venerata in Francia, Balsamia sarebbe stata di origine italiana. Da Roma sarebbe giunta a Reims proprio in tempo per svolgere la sua delicata mansione di nutrice. una lettura della storia che stabilisce un legame forte tra Roma e la Francia: il latte, come un «balsamo», che ha nutrito il «padre della Chiesa francese», sarebbe venuto da Roma. (Avvenire)







La qualifica che Santa Balsamia si è portata con sé nel Calendario è quella di balia, o nutrice.
L'usanza dei baliatico è oggi sempre meno diffusa nei nostri paesi, soggetta, giustamente, a ineccepibili critiche di carattere medico, igienico e anche psicologico. Ma un tempo costituiva un'istituzione di notevole importanza anche dal punto di vista sociale, mentre su un piano di vita familiare era l'inevitabile risposta alle abitudini prolifiche delle spose dei giorni andati. Si adottava, insomma, il principio della divisione dei compiti: alla madre occupata a mettere al mondo numerosa prole, si affiancava la nutrice che provvedeva al loro immediato sostentamento!
Questo, oltre alla delicatezza delle funzioni di una nutrice, che era pur sempre qualcosa di più che non una macchina per allattare, spiega la diffusione del culto per le Sante nutrici e soprattutto la popolarità di Santa Balsamia, vivissima nei secoli dei Medioevo.
La figura di questa Santa è molto pittoresca, ma anche assai nebulosa. In Francia, nella diocesi di Reims, ella viene onorata come nutrice di San Remigio, Vescovo di quella città. Si riflette perciò su di lei la gloria di un figlio di latte di eccezionale importanza, perché San Remigio fu colui che indusse alla conversione prima la Regina Clotilde, poi suo marito Clodoveo, con tutti i suoi Cavalieri franchi.
Con la conversione di Clodoveo, da parte di San Remigio, si iniziò quindi la storia cristiana della Francia, " figlia primogenita della Chiesa ", e in questa storia, in quella figliolanza, anche il latte di Santa Balsamia sembrò avere un certo peso.
Abbiamo già detto che San Remigio venne considerato dai Francesi quasi un secondo Giovanni Battista, precursore e profeta del Verbo cristiano in terra di Francia. Si disse addirittura che anch'egli fosse stato benedetto nel grembo della madre, Santa Celina, che corrisponderebbe quindi a Santa Elisabetta, madre del Battista.
Ma con la santa di oggi, Balsamia, San Remigio avrebbe avuto qualcosa di più dello stesso San Giovanni. Avrebbe avuto santa anche la balia, il cui nome però appare tardivamente, nel X secolo e che, oltre che nutrice, vien detta madre di Santi, perché San Celsino sarebbe stato uno dei suoi figli.
Un tempo, in Francia, ella veniva chiamata Santa Nutrice, poi prevalse il nome di Balsamia, come se il latte da lei dispensato all'eccezionale figlioccio fosse stato un profumato balsamo di santità.
Un ultimo particolare le leggende aggiungono sul suo conto. Benché venerata in Francia, ella sarebbe stata di origine italiana, anzi romana, e da Roma, divinamente ispirata, sarebbe giunta a Reims proprio in tempo per svolgervi la sua delicata mansione di nutrice.
Il significato di questo particolare è trasparente: il latte - o balsamo - trasmesso dalla nutrice a San Remigio, e da questi trasmesso a tutta la Francia, " figlia primogenita della Chiesa ", proveniva direttamente e indubbiamente da Roma: non corrotto, non adulterato, non sofisticato, era il latte puro della dottrina cattolica, apostolica e romana!



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30/10/2017 08:30
 
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Santi Zenobio e Zenobia Martiri

30 ottobre


m. 285-290 circa



Zenobio e Zenobia, la cui festa ricorre il 30 ottobre, sono due fratelli martiri morti tra il 285 e il 290. Zenobio era medico e fu nominato vescovo ad Aega (ora Alessandretta) sulla costa dell’Asia Minore. Alcuni pensano sia identico allo Zenobio di Antiochia, la cui ricorrenza è al 29 ottobre. I due fratelli però furono martirizzati sotto Massimiano, mentre l’altro Zenobio, lo fu precedentemente sotto Diocleziano. Zenobia è citata solo come sorella di Zenobio.








Santi ZENOBIO, vescovo di EGEA (Cilicia), e ZENOBIA, sua sorella, martiri.

Esiste in almeno due recensioni greche una passio di questi martiri (BUG, II, p. 320, nn. 1884-85) di cui la seconda è soltanto una metafrasi della prima. Esiste anche una versione georgiana della seconda. Questa rientra nel genere delle passioni epiche e, in mancanza di altre documentazioni, sarebbe temerario accettarne senza discernimento tutti i particolari come veramente storici. Nato da una famiglia cristiana (i suoi genitori portavano il nome di Zenodoto e Tecla) di Egea in Cilicia, Zenobio divenne vescovo della propria città a causa della santità della sua vita e della sua scienza teologica. A somiglianza dei medici egli guariva tutte le malattie, ma col solo nome di Cristo.
Al momento della persecuzione di Diocleziano, venne arrestato e tradotto dinanzi al governatore Lisia. Dopo essere stato condannato a diversi supplizi che ogni volta lo lasciavano indenne, egli fu alla fine decapitato. Sua sorella Zenobia si consegnò spontaneamente ai persecutori e fu compagna al fratello nelle torture e nel supplizio finale.
I Sinassari bizantini commemorano Zenobio e Zenobia al 30 ottobre e la notizia loro dedicata è soltanto un sunto della passio. Il culto dei due fratelli si diffuse fino a Costantinopoli. Sebbene Baronio, giustificando l'introduzione dei due martiri allo stesso 30 ottobre nella revisione del Martirologio Romano, abbia affermato che Zenobio vescovo di Egea era ben diverso dall'omonimo sacerdote e medico di Sidone, martire di Antiochia , gli agiografi moderni sarebbero indotti invece a identificarli. Per H. Delehaye il culto del marire di Antiochia in Cilicia avrebbe dato luogo a quello del vescovo « guaritore » omonimo di Egea. Inoltre, la coppia Zenobio e Zenobia potrebbe essere, per lo studioso bollandista, una creazione sul tipo del due martiri Cosma e Damiano.

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31/10/2017 08:11
 
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San Quintino di Vermand


Quintino = il quinto figlio nato, dal latinoPalmaNella cittadina in seguito insignita del suo nome nel territorio dell'odierna Francia, san Quintino, martire, che, senatore, subì la passione per Cristo sotto l'imperatore Massimiano.
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01/11/2017 07:03
 
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San Cesario (Cesareo) di Terracina Martire

1 novembre






Nel giorno in cui la Chiesa commemora Tutti i Santi, ecco la vicenda di Cesario, legata al romano colle Palatino. Quando la sede dell'Impero venne trasferita da Roma, il Palatino, prima abitato dall'imperatore e dalla sua famiglia, restò vacante. Col tempo il luogo divenne un importante centro religioso cristiano. Vi furono costruite almeno due chiese: una di esse anziché essere dedicata a un martire romano, fu intitolata a Cesario, martire a Terracina, il quale godeva nei secoli del Basso Impero e del primo Medioevo di una certa celebrità. La scelta forse si deve al nome: Cesario, infatti, deriva da Cesare, e Cesare era l'appellativo degli Imperatori romani. Il Palatino ospitava il palazzo dei Cesari, e nella tradizione pagana, i Cesari venivano deificati, diventando oggetto di pubblico culto. Ma il cristianesimo rivoluzionò tutto: Cesario, non Cesare; santo cristiano, non imperatore divinizzato, ma testimone di Cristo; non uomo diventato idolo, ma martire per la sua fede. (Avvenire)

Emblema: Palma


Martirologio Romano: A Terracina sulla costa del Lazio, san Cesario, martire.








Cesario di Terracina è come personaggio storico fuori discussione: abbiamo la certezza che morì durante l’era delle persecuzioni. Se la storicità del martire è sicura, la sua biografia è affidata invece a una Passio pervenutaci secondo quattro redazioni: “minima, parva, maior, maxima”, elaborate nei secoli compresi entro il primo millennio.
Cesario nacque nell’Africa settentrionale, precisamente a Cartagine, verso l’85 d. C.. Era figlio di un mercenario e di una nobildonna che, secondo la tradizione, discendevano dalla “Gens Julia”, la rinomata famiglia Giulia. I genitori decisero di chiamarlo Cesario per dimostrare la loro devozione ed appartenenza all'imperatore, denominato anche Cesare. I suoi avi si stanziarono a Cartagine durante la riorganizzazione dei territori africani da parte di Giulio Cesare, il quale proprio in quella città fondò una colonia romana in cui si erano trasferiti dei cittadini romani alleati con la madrepatria e quindi sotto il controllo di Roma. La sua famiglia si convertì al cristianesimo per la fervente predicazione degli apostoli di Gesù nella zona.
Il giovane Cesario, dopo aver compreso i contenuti della dottrina cristiana, rimase molto affascinato dalla figura di Gesù e dal suo messaggio di salvezza. Volendo diventare tutt'uno con Cristo, prese il voto del diaconato. Sorretto da questa fede, con grande meraviglia dei suoi genitori, rinunziò al suo patrimonio e si dedicò all'evangelizzazione. Superata la fase dell’adolescenza, Cesario decise di partire, con i suoi compagni, alla volta di Roma, dove il Cristianesimo era una religione illecita punibile con le massime pene. La nave tuttavia naufragò - a causa di una furiosa tempesta - sulle coste di Terracina, città situata nell'agro pontino, distante un centinaio di chilometri da Roma. Cesario decise di fermarsi in questa città in quanto era rimasto fortemente impressionato dal divario tra ricchi e poveri: i malati, gli oppressi e i moribondi erano lasciati ai margini della città, mentre al suo interno la nobiltà viveva nel lusso più sfrenato. Cesario rimase nascosto in città, nella casa di un cristiano, il monaco Eusebio, servo di Dio: fu accolto nella comunità cristiana formata da Epafrodito, uno schiavo di origine greca, primo vescovo di Terracina nella metà del I sec. d. C..
Cesario ed il suo maestro spirituale, il presbitero Giuliano, iniziarono la loro opera di evangelizzazione a Terracina: imperniarono la loro missione sulla predicazione, sulla conversione e sulla formazione di comunità cristiane. L’imperatore romano Marco Ulpio Nerva Traiano, regnante dal 98 al 117 d.C., operò una persecuzione contro i cristiani: ordinò di punire chiunque si fosse rifiutato di sacrificare agli idoli.
Secondo la tradizione, in quell'epoca a Terracina vi era un pontefice di nome Firmino, sacerdote dei falsi dei. Egli approfittò dello stato di ignoranza in cui erano immersi i suoi cittadini circa il vero Dio per convincere molti giovani a diventare famosi con un’azione coraggiosa e sanguinaria: il primo gennaio era consuetudine celebrare una festa in onore di Apollo, durante la quale un giovane, il più bello e nobile della città, doveva sacrificarsi per ottenere la salvezza dello Stato e degli imperatori. L’antica usanza prevedeva di prendersi cura del giovane per sei o otto mesi, nutrendolo con cibi prelibati ed esaudendo tutti i suoi desideri, ma alla fine di quel tempo - dopo essere stato ornato con magnifiche armi e fatto montare su un cavallo riccamente bardato – doveva salire fino alla sommità del monte sovrastante la città e precipitarsi nel mare per assicurare al suo nome fama e gloria immortale. Successivamente il suo corpo era bruciato e le sue ceneri venivano conservate con grande onore nel tempio di Apollo. Quell'anno il giovane destinato al sacrificio umano si chiamava Luciano.
Quando Cesario vide per la prima volta Luciano, chiese ai suoi concittadini cosa significasse tutto questo splendore di cui questi era circondato, e riuscito a sapere la storia di questa antica tradizione, si indignò per questa barbarie. Arrivato il 1° gennaio, le autorità, i sacerdoti pagani ed i fedeli si riunirono nel tempio di Apollo per dare inizio ai riti: Luciano sacrificò una scrofa per la salvezza della città e dei suoi abitanti. Successivamente iniziava la processione che si snodava, con lenta solennità, verso il monte. Nonostante i vari tentativi di Cesario per interrompere questo crimine, i riti barbari vennero eseguiti: Luciano, cavalcando, salì fino alla cima della collina; si gettò nel vuoto con il recalcitrante cavallo e, schiantandosi contro le rocce, perì tra le onde insieme alla sua cavalcatura. Dopo questa sconvolgente visione, Cesario gridò: “Sventura allo Stato e ai principi che si rallegrano delle sofferenze e si pascono di sangue! Perché dovete perdere le vostre anime per le vostre imposture ed essere sedotti dagli artifici del demonio?” Il falso pontefice Firmino - udite queste parole del diacono - gli ordinò di tacere, lo fece arrestare dalle guardie di Terracina e portare nella pubblica prigione presso il Foro Emiliano. Otto giorni dopo l’arresto di Cesario, Lussurio, primo cittadino di Terracina, ed il pontefice Firmino fecero venire il console Leonzio (Consularis Campaniae), che allora si trovava nella città di Fondi, per iniziare il processo e giudicare il giovane. Quando il console arrivò, le guardie portarono nel Foro Emiliano il diacono Cesario; il magistrato si limitò semplicemente a constatare lo status di cristiano e il rifiuto di adorare gli dei. Leonzio decise di portare Cesario davanti al tempio di Apollo per ordinargli di sacrificare agli dei: se avesse rinnegato la sua fede cristiana e reso evidente ciò, offrendo preghiere ed incenso alle divinità pagane, sarebbe stato perdonato sulla base del suo pentimento e lasciato in libertà. Cesario fu legato al cocchio di Leonzio e, appena si avvicinarono al tempio, il diacono, circondato da soldati, esclamò una preghiera, terminata la quale il tempio crollò improvvisamente e sotto le sue rovine morì il pontefice Firmino.
Quando Lussurio ebbe appreso quest' evento soprannaturale, si recò immediatamente a Terracina per consultarsi sul tipo di punizione da infliggere al giovane diacono. Tutto il popolo fu convocato nel tempio di apollo e Cesario cercò di spiegare ai presenti la falsità della loro religione che procurava la salvezza della loro patria attraverso l’effusione di sangue umano. Tutte le persone gridavano: “E’ un uomo virtuoso, e ciò che ci propone è giusto” ed allora Lussurio lo fece riportare nella prigione, dove fu lasciato un anno e un giorno. Trascorso un anno, il console decise di far condurre di nuovo l’accusato in Forum civitatis Terracinae: Cesario uscì dalla prigione emaciato dalla sofferenza della fame e spogliato dei suoi vestiti, ma coperto dai suoi lunghi capelli. Quando fu portato al centro del foro, chiese alla guardie di allentare le sue catene ed immediatamente si gettò a terra, adorò il Signore implorandolo di mostrare la Sua misericordia. In quel momento una luce celeste apparve e rischiarava tutto il corpo del giovane diacono. Vedendo ciò, il console Leonzio gridò a gran voce:“Il Dio che predica Cesario è veramente il Signore Onnipotente”. Si gettò ai piedi del diacono, si tolse la clamide, vestì Cesario e lo pregò, davanti a tutto il popolo, di battezzarlo. Cesario prese l’acqua e battezzò Leonzio nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, mentre il presbitero Giuliano - che si trovava lì presente - gli amministrò il Corpo e il Sangue del Signore Gesù Cristo. Dopo aver ricevuto questi sacramenti, Giuliano recitò una preghiera sulla sua testa, terminata la quale, Leonzio spirò. Il corpo di Leonzio fu salvato dalla moglie e dai figli, che gli diedero sepoltura in“Agro Varano”, nelle vicinanze della città, il 30 ottobre.
Lo stesso giorno della sepoltura di Leonzio, Lussurio fece arrestare il presbitero Giuliano e pronunciò la sentenza di morte: ordinò che Cesario e Giuliano fossero chiusi in un sacco e gettati nel mare. Tre giorni più tardi - poco prima di essere condannato - Cesario disse a Lussurio: “L’acqua, nella quale sono stato rigenerato, mi riceverà come suo figlio che ha trovato in essa una seconda nascita: oggi mi renderà martire con Giuliano, mio Padre, che una volta mi fece cristiano. Quanto a te, Lussurio, oggi stesso morirai con un morso di un serpente, affinché tutti i paesi sappiano che Dio vendicherà il sangue dei suoi servi, e delle vergini che facesti perire tra le fiamme”. Era il 1° novembre dell’anno 107 d.C.: i condannati furono chiusi in un sacco e precipitati, secondo la tradizione, dall’alto della guglia del “Pisco Montano” nel mare, dove morirono per soffocamento. Lo stesso giorno del martirio, le onde riportarono i corpi di Cesario e Giuliano sulla riva, dove furono trovati accanto a quello di Lussurio; si avverò quindi la profezia del diacono. Dopo l’esecuzione della sentenza dei nostri martiri, il primo cittadino si stava infatti recando presso la sua casa di campagna, dove voleva cenare, e per far prima aveva preso la strada che costeggiava la riva; mentre passava sotto un albero, un serpente cadde sulla sua schiena e scivolò tra il collo e la sua tunica, gli lacerò i fianchi con dei morsi crudeli e, attraverso il petto, gli penetrò fino al cuore iniettando il veleno nel suo corpo. Lo sfortunato cadde e il suo corpo si gonfiò orribilmente, ma prima di morire vide gli angeli del cielo che accoglievano le anime di Cesario e Giuliano. Parte delle spoglie di S. Cesario diacono sono conservate, dal XIII secolo, nell'urna di basalto dell'altare maggiore della basilica romana di Santa Croce in Gerusalemme.
Nel 2009 Mons. Michelangelo Giannotti, Vicario Generale dell'Arcidiocesi di Lucca, ritrova 6 ossa del Santo nella Basilica di S. Frediano di Lucca.

Autore: G. Guida





Santi CESARIO e GIULIANO, martiri di TERRACINA.

Sono commemorati il 10 novembre, con un elogio tratto dalla passio favolosa, nel Martirologio Romano e nel Geronimiano. In quest'ultimo, poi, il solo Cesario è ricordato il 21 aprile, ma si tratta probabilmente, secondo l'opinione del Duchesne, dell'anniversario della dedicazione di un oratorio in onore del martire, costruito a Roma sul Palatino, la cui esistenza è già attestata al tempo di s. Gregorio Magno. Il vero dies natalis, però, è il 1° novembre, poiché in questo giorno la festa di Cesario è ricordata anche dai Sacramentari Gregoriano e Gelasiano di S. Gallo. Presso i greci, invece, i due santi sono commemorati il 7 ottobre.
La loro passio ci è pervenuta in quattro redazioni, la più antica delle quali può risalire al sec. V o al VI, ma che appartiene al genere delle leggende epiche, senza alcun valore storico, e nella quale sono raggruppati alcuni santi che niente altro hanno in comune se non la vicinanza cronologica della commemorazione nel martirologi.
Infatti, l'unico autentico martire di Terracina è il solo Cesario, poiché sia Giuliano, sia gli altri personaggi ivi ricordati appartengono ad altre Chiese e sono sconosciuti alle più antiche fonti agiografiche locali. Cesario peri certamente durante il periodo delle persecuzioni, ma di lui niente si conosce di sicuro. Il suo culto era, però, molto diffuso e fiorente nell'antichità infatti fu venerato a Roma fin dal sec. V proprio nel luogo più importante della città, il Palatino, come attesta il Liber Pontificalis e in seguito gli furono dedicate anche altre chiese e monasteri. Sul suo sepolcro, poi, posto lungo la via Appia, fu eretta una basilica alla quale il papa Leone IV (847-55 offrì dei doni.
Secondo la passio, Cesario era diacono e africano. Venendo a Terracina, al tempo dell'imperatore Claudio, si imbatte in un giovane di nome Luciano, destinato a essere sacrificato agli dei per la festa del primo gennaio. Cesario protesta per questa barbarie presso il sacerdote pagano Firmino, incaricato del sacrificio umano, che per tutta risposta lo fa arrestare. Condotto al tribunale del consolare Leonzio, Cesario è obbligato a sacrificare ad Apollo, ma, mentre viene condotto al tempio, questo crolla travolgendo Firmino. Cesario è allora rinchiuso in carcere e dopo un mese è condotto al Foro per essere giudicato; improvvisamente il consolare Leonzio si converte e dopo aver ricevuto i Sacramenti dal presbitero Giuliano, muore. Subentra allora un certo Lussurio, primo cittadino del luogo, che condanna Cesario e Giuliano a essere gettati in mare dentro un sacco. I corpi dei due martiri ritornano sulla spiaggia e sono sepolti dal monaco Eusebio. Questi poi rimane a pregare presso la loro tomba, dove accorrono molti che si convertono e sono battezzati dal presbitero Felice. Ma Eusebio e Felice sono arrestati da Leonzio, figlio del consolare convertito, che li fa decapitare e gettare in un fiume. I loro corpi sono raccolti e sepolti presso la tomba di Cesario dal presbitero Quarto da Capua che casualmente passava di là.
Oltre che come protagonista di questa passio, Cesario appare anche in quella dei ss. Nereo e Achilleo, poiché avrebbe curato la sepoltura delle vergini Teodora ed Eufrosina, amiche di Domitilla, morte a Terracina.


Autore: Agostino Amore

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03/11/2017 09:47
 
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San Libertino di Agrigento Vescovo e martire

3 novembre




Martirologio Romano: Ad Agrigento, san Libertino, vescovo e martire.







La tradizione, raccolta dagli storici e scrittori, specie agrigentini, sino al secolo XVIII, riteneva che S. Libertino fosse stato mandato da S. Pietro ad Agrigento per predicarvi il Vangelo. Nella Cattedrale della città si conserva un quadro di Francesco Narbone che rappresenta S. Pietro mentre consegna a S. Libertino la pergamena che lo istituisce vescovo di Agrigento.
Nel 1779 il can. Raimondo Gaglio, utilizzando anche i lavori del suo defunto fratello Vincenzo, sollecitato dagli accademici della Biblioteca Comunale di Palermo, inviava loro la "Serie cronologica dei Vescovi di Girgenti dai primordi al cadere del sec. XVIII" che poi venne pubblicata, dal 1901, dal Boglino nella sua Sicilia Sacra.
Il Gaglio sottopose ad una giusta critica le notizie del Gaetano, del Pirro e degli altri scrittori che lo avevano preceduto e seguito e, fondandosi sull'anonimo panegirista di S. Marciano, primo vescovo di Siracusa, scrisse: 'Non avendo altro di meglio contentiamoci dell'autorità di uno scrittore antichissimo il quale visse prima che fosse stata Siracusa, sua patria, presa da quei barbari (Saraceni), cioè a dire, nell'ottavo secolo di Cristo, tempo in cui pei monumenti che allora forse esistevano, potea probabilmente sapere se S. Libertino fu o no il primo vescovo di Girgenti. Io non voglio rendermi mallevadore presso gli eruditi della genuinità del suo codice. Altro non farò se non che rapportare le parole di questo anonimo le quali leggonsi nella sua orazione panegirica scritta in greco nel secolo suddetto in lode di S. Marciano, tradotta prima dal Gaetano in latino e pubblicata poi in autentica dai PP. Bollandisti, lasciando agli eruditi la libertà di seguire colla di lui scorta le sue riflessioni o di pensare altrirnenti".
Le parole citate in nota dal Gaglio sono queste:
"(Peregrinus) inter coeteros Dei praecones Marciani doctrina imbutus, testis perfectus Dei effectus est, sacrificium acceptabile ac voluntarium factus atque holocaustum in odorem sua vitatis in monte quod cacumen Crotaleos adpellatur, parem inortis triumphum retulit cum martyre et Agrigentinorum episcopo Libertino".
Continua poi il Gaglio:
"Asserisce egli dunque nel cennato panegirico che S. Libertino fu martirizzato insieme con S. Pellegrino sul monte Crotaleo della stessa città.
S. Pellegrino, come dicesi, fu contemporaneo di S. Marciano, primo vescovo di Siracusa, onde se S. Libertino, a dir dell'anonimo, visse a suo tempo, fu anch'egli contemporaneo di S. Marciano. Ora se vogliam passare per buona moneta la rimessa di costui dal principe degli Apostoli in Sicilia a predicarvi la fede, di cui non avevano alcun lume quegli abitanti e se S. Libertino, portossi, mentre ci vivea, in Girgenti, dir dobbiamo che, siccome colui, quando andò a Siracusa trovò i di lei cittadini sepolti fra le tenebre del paganesimo, così del pari questi rinvenne il suo gregge immerso nella credenza dei falsi numi e fu, in conseguenza, il primo vescovo della suddetta città, giacché in tempo di S. Marciano trovavasi la Sicilia tutta in seno all'idolatria. Queste, come dissi, mi sembrano congetture probabili appoggiate a qualche non inverosimile fondamento su cui possono sostenersi''. Che poi S. Libertino sia stato inviato da S. Pietro in Agrigento il Gaglio esclude, non possedendosi nessun documento né coevo né prossimo al Santo e nemmeno antico; e se, come qualcuno asserisce, per lungo tempo si venero in Agrigento il diploma di nomina di S. Libertino non citato mai da nessuno dovette essere certamente un falso. E conclude: "Ciò che potrebbe dirsi con qualche apparenza di sicurezza si è che S. Libertino fu il primo vescovo di Girgenti, che egli visse nei primi secoli di Cristo, che vi portò, prima di tutti, la luce del Vangelo, che vi sofferse il martirio, rimanendo ancora ignoto l'anno in cui portossi a Girgenti e la maniera onde fu eletto vescovo". Il Lancia di Brolo, nella sua storia, rifacendosi anche lui al panegirista di S. Marciano, cita un passo dell'orazione che egli lesse nell'unico manoscritto esistente, Vaticano greco 366 in cui viene riportata la descrizione della persecuzione di Valeriano (254 259) in Sicilia, che l'anonimo attribuisce allo stesso martire S. Pellegrino, e perciò argomenta:
"Se questo scritto è veramente di S. Pellegrino egli dunque non ha potuto morire nella persecuzione di Valeriano, ma in altra appresso; poiché il suddetto encomiasta siracusano ci dice che S. Pellegrino, ammaestrato dalla dottrina di S. Marciano, divenne perfetto testimone di Dio e nel monte che si addimanda cacume delle Crotali pari morte e uguale trionfo riportò insiem col martire S. Libertino, vescovo di Girgenti.
Quale oggi sia questo monte non si conosce ed è impossibile rintracciarlo, dal fatto che S. Pellegrino è venerato qual patrono in Caltabellotta, succeduta all'antica Triocala, credo possa congetturarsi che per una trasposizione di sillabe solita ne' molti dialetti e nel volgare siculo questo monte sia appunto quello di Triocala". Se il brano citato dall'anonimo è di S. Pellegrino questi non può essere discepolo diretto di S. Marciano e perciò il "Marciani doctrina imbutus", deve intendersi come un insegnamento morale, un discepolato ideale, altrimenti dovrebbe negarsi che S. Marciano sia vissuto nel primo secolo e sia stato mandato da S. Pietro in Siracusa.
L'altra persecuzione potrebbe essere quella di Decio, o di Diocleziano?
Il brano dell'encomio è così tradotto dal p. Agostino Amore:
"Come insegna la testimonianza scritta del vittorioso Pellegrino di cui si parlava in principio, anche lui, infatti, ripieno della dottrina di questo predicatore di Dio, Marciano, si rese perfetto testimone di Dio, fatto sacrificio accetto nella tribolazione e olocausto in odore di soavità sulla montagna della Crotala, subendo una morte simile a quella del Santo vescovo e martire Libertino della Chiesa di Agrigento. Il p. Amore, nel suo studio archeologico agiografico su S. Marciano di Siracusa, ritiene che l'encomio greco (codice Vaticano 366) "deve porsi con sicurezza tra la fine del secolo VII e la prima metà dello VIII, ma forse più in questo che in quello".
"Questo encomio non è un panegirico recitato per la sua festa, come afferma il Lancia di Brolo, ma una delle solite leggende agiografiche destinata alla lettura. La stessa intrinseca struttura lo confessa: esso è un centone di brani presi qua e là e malamente cuciti insieme". Nel testo dell'encomio si dice che S. Pellegrino subì un "omoion thànaton", (una morte simile) a quella di S. Libertino che perciò dovrebbe essere cronologicamente alquanto anteriore.

La passione dei SS. Libertino e Pellegrino

In una passione anonima pubblicata dai Bollandisti (G. van Hoof) in Acta Sanctorum Novembris si parla dei santi Libertino e Pellegrino.
Essa, secondo il p. Amore, per tanti indizi, dovrebbe datarsi tra il VI e il VII secolo. Secondo G. van Hoof essa non è del tutto indegna di fede perché il suo autore si è servito di scritti più antichi e quindi più vicini al martirio di S. Pellegrino il cui sepolcro era stato "per molti secoli illustre per miracoli
Il suo autore, pensa il p. Amore, dovrebbe essere un monaco del monastero dei "Triginta" in cui sarebbe vissuto S. Pellegrino, il quale "voleva col suo scritto non solo risvegliare e consolidare il culto di Pellegrino, ma anche dar fama al suo monastero, attribuendogli la gloria di avere ospitato il martire". Il passo riguardante S. Pellegrino è il seguente: Gli imperatori Valeriano e Gallieno (254 259) avevano scritto a Quinziano, consolare di Sicilia, di costringere i cristiani a sacrificare agli dei. Quinziano mandò in Agrigento Silvano il quale "Agrigentum ingressus Libertinum episcopum corripi jubet. Non doli, non ininae, nihil omissum quo revocaretur a Christo, simulacra veneraretur. At Libertinus in aede S. Stephani protomartyris per aras Deum laudans, oransque, spiritum coelo reddidit, nec sine luctu in foro Agrigentinorum sepultus" (Acta Sanctorum, pag. 612 n. 3: Entrato in Agrigento comandò che il vescovo Libertino fosse arrestato. Niente fu omesso, di inganni e minacce, per distoglierlo da Cristo e fargli venerare gli dei. Ma Libertino nella chiesa di S. Stefano protomartire, lodando Dio davanti gli altari, restituì la sua anima al cielo e con gran lutto fu seppellito nel foro degli Agrigentini.) Su questo passo il p. Amore che ritiene la "Passio" scritta da un agrigentino e l'encomio da un siracusano presenta alcune considerazioni:
"Sembra che la notizia della morte di Libertino non faccia parte integrante del racconto, ma che sia stata ricordata come per inciso. Oltre il modo incerto con cui è riferita, sorprende il leggere come Silvano, pur avendo usato inganni e minacce per fare apostatare Libertino, il che fa supporre che non siano mancati giudizio, carcere e forse anche tormenti, l'abbia poi lasciato tranquillamente nella chiesa di S. Stefano orans per aras spiritum coelo reddidit".
Evidentemente quando lo scrittore scriveva il corpo di Libertino era venerato in quella chiesa, e non sapendo altro di lui, scrisse che era morto lì. D'altra parte se Libertino fu veramente coevo di Peregrino e l'uno e l'altro sarebbero periti nella persecuzione di Valeriano, come possiamo ammettere che quello fosse stato "in foro agrigentino sepultus" quando le leggi romane vietavano di seppellire in città?
E ancora: come mai l'autore parla così a lungo di Peregrino, mentre a Libertino riserva appena un cenno in una frase generica? E dire che questi era un vescovo, mentre l'altro un semplice monaco. Infine se realmente Libertino mori mentre pregava in chiesa, sotto qual titolo si può chiamare martire? Mi sembra quindi legittimo pensare che l'autore della Passio niente sapeva di lui perché vissuto molto tempo dopo e che l'abbia voluto ricordare soltanto per dare maggior credito al suo scritto"
Questa ultima osservazione mi sembra interessante per la cronologia di S. Libertino: se la Passio è databile tra il VI e il VII secolo, questo "molto tempo dopo" deve abbracciare almeno qualche secolo e quindi siamo rimandati al III secolo, alla persecuzione di Valeriano e Gallieno, citata anche nella Passio.
Il Mercurelli ritarda l'epoca della composizione della Passio addirittura al tempo dei Normanni, ma gli argomenti del p. Amore mi sembrano molto più validi e probativi.
Comunque, quando, alla conclusione del suo studio sui primi vescovi di Agrigento, ne riporta un elenco, il Mercurelli pone come protovescovo S. Libertino aggiungendo: età incerta tra il primo e terzo secolo, secondo le fonti.

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04/11/2017 07:42
 
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Santi Vitale e Agricola Protomartiri bolognesi

4 novembre






Alle radici della Chiesa bolognese c'è la figura di due martiri, distinti per classe sociale ma uniti dalla palma della morte a causa della fede. Vitale e Agricola, servo e padrone, lanciarono con la loro testimonianza un messaggio di uguaglianza e di solidarietà che avrà pubblico riconoscimento al sorgere del libero Comune con il decreto di liberazione dei servi della gleba (Liber Paradisus). La più antica memoria dei due protomartiri risale a sant'Ambrogio e a san Paolino da Nola, che ne attestano la «colleganza e il consorzio nel martirio». I loro corpi, riscoperti nel cimitero ebraico dal vescovo Eustasio, furono traslati da Ambrogio nel 393 alla Santa Gerusalemme stefaniana. Il loro culto era già diffuso nel V e VI secolo. Le loro reliquie sono venerate nella Chiesa madre di Bologna. (Avvenire)

Emblema: Palma


Martirologio Romano: A Bologna, santi Vitale e Agricola, martiri, dei quali, secondo quanto racconta sant’Ambrogio, il primo fu dapprima schiavo dell’altro, poi compagno di martirio: Vitale, infatti, patì tali tormenti da non esserci più parte del suo corpo senza ferita; Agricola, per nulla atterrito dal supplizio del suo schiavo, lo imitò nel martirio subendo la crocifissione.








Santi VITALE e AGRICOLA, protomartiri bolognesi.

Sul finire del VI secolo, San Gregorio di Tours in una sua opera lamentò l’inisistenza di una “passio” circa i Santi Vitale ed Agricola. Ciò però non era propriamente esatto, in quanto le notizie sui due protomartiri bolognesi si fondano su un’autentica affermazione del vescovo milanese Sant’Ambrogio nel 392, nonché una di San Paolino di Nola del 403. Negli Acta Sanctorum sono inoltre stati inclusi due racconti fittizi arbitrariamente attribuiti anch’essi allo stesso Ambrogio.
In realtà assolutamente sconosciuti erano stati Vitale ed Agricola sino al 392, anno in cui il vescovo bolognese Eusebio annunciò il ritrovamento dei loro resti in un cimitero ebreo dell’odierno capoluogo emiliano. Egli diede loro nuova sepoltura con rito cristiano, evento al quale presenziò anche Sant’Ambrogio, rivolgendosi ai martiri nell’omelia ed invitando la popolazione a venerarne le reliquie.
Il culto dei due santi martiri si diffuse in Occidente grazie all’impulso dato da Ambrogio che, oltre a scrivere di loro, volle traslare a Milano parte delle reliquie e ne donò poi parte a Firenze. Numerosi vescovi si sentirono così spinti a richiederne per le loro cattedrali. Il culto mantenne comunque il suo epicentro a Bologna, ove una basilica fu edificata appositamente per custodire le loro spoglie, in seguito trasferite nell’adiacente cappella.
Poco sappiamo dunque circa la vita dei due santi. Pare che Agricola fosse un cittadino cristiano di Bologna e Vitale il suo servitore. Questi aveva seguito il padrone anche nella sua religione e fu il primo a coronare la sua vita con il martirio: condotti infatti entrambi nell’arena, Vitale fu torturato in tutto il corpo sino alla morte. Gli aguzzini pensavano che alla vista delle sue sofferenze, Agricola avrebbe perso la sua determinazione nel dichiararsi cristiano, ma invece tutto ciò ebbe l’effetto inverso di quanto sperato. Agricola fu infatti fortificato ed incoraggiato dalla morte del suo fedele servo ed affronto con grande coraggio la crocifissione, testimoniando sino alla fine la sua fede cristiana. Il suo corpo fu anche trafitto con chiodi.

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05/11/2017 08:42
 
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San Donnino Martire a Cesarea di Palestina

5 novembre


Sec. IV

Martirologio Romano: A Cesarea in Palestina, san Donnino, martire, che, giovane medico, agli inizi della persecuzione dell’imperatore Diocleziano, condannato alle miniere, fu relegato a Mismiya, dove patì atroci sofferenze, e, al quinto anno di persecuzione, fu dato al rogo su ordine del prefetto Urbano per aver conservato fermamente la sua fede.



Ascolta da RadioVaticana:
Ascolta da RadioRai:




Donnino, martire a Cesarea di Palestina sotto l'imperatore Massimiano (secondo altri Diocleziano, ndr) (IV sec) insieme a Teotimo, Filoteo e Silvano. E' nominato da Eusebio di Cesarea come uno dei più celebri martiri della regione. Secondo questa fonte Donnino era un giovane cristiano di grande scienza, probabilmente medico.

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06/11/2017 16:05
 
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Santi Callinico e compagni Martiri

6 novembre




Martirologio Romano: A Gerusalemme, santi Calliníco, Imerio, Teodoro, Stefano, Pietro, Paolo, un altro Teodoro, Giovanni, un altro Giovanni e un altro ancora di cui resta sconosciuto il nome, martiri, che, soldati, durante l’occupazione di Gaza da parte dei Saraceni, furono arrestati dai nemici, ma incitati dal vescovo san Sofronio, confessarono la propria fede in Cristo e subirono per questo il martirio per decapitazione.

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07/11/2017 09:18
 
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San Giacinto Castaneda Sacerdote domenicano, martire

7 novembre


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Xàtiva, Spagna, 13 gennaio 1743 - Ket Chợ, Viet Nam, 7 novembre 1773



Jacinto nacque a Xàtiva in Spagna il 13 gennaio 1743 da José Castañeda, scriba reale, e da Josefa Maria Puchasons, coppia profondamente cristiana. Fu battezzato con i nomi di Felice, Tommaso, Gioacchino e Taddeo. Entrato nell’Ordine Domenicano, nel collegio di Orihuela compì gli studi filosofici e teologici. Prese il nome di Giacinto onorando così il santo omonimo polacco. Nel 1761 giunse la richiesta da parte della Provincia del Rosario delle Filippine di giovani valorosi con vocazione missionaria e disposti a spendere la loro vita per il Vangelo dall’altra parte del mondo. Anche fra’ Jacinto accettò l’invito. Nella capitale filippina portò a termine i suoi studi e fu ordinato sacerdote il 2 giugno 1765. Destinato alle missioni in Cina, a Macao studiò l’idioma mandarino, per poi iniziare la sua opera di evangelizzazione soccorrendo i poveri e gli infermi di quel paese ostile e persecutore verso i cristiani. Il 17 luglio 1769 padre Jacinto amministrò i sacramenti ad un cristiano molto malato, poi rientrando a terra il mattino dopo un viaggio in barca si imbatte in un gruppo di mandarini armati che lo attendeva in seguito alle denunce di un apostata. Con il suo accompagnatore padre Lavilla fu incarcerato. Il viceré li condannò, però, all’esilio perpetuo ed il 3 ottobre lasciarono il carcere. All’inizio di dicembre giunsero a Macao ed il 9 febbraio 1770 si imbarcarono per il Vietnam. Sbarcarono il 22 marzo. Dopo tre anni di attività missionaria Castañeda si ammalò gravemente, ma nonostante ciò non interruppe il suo instancabile lavoro al servizio della comunità. L’11 luglio 1773, nonostante l’aggravarsi della sua salute, volle portare l’olio santo a degli infermi, ma lui ed i suoi accompagnatori ebbero l’impressione di essere inseguiti da un gruppo di soldati. Con il confratello padre Vincenzo Le Quang Liem fu catturato ed i due vennero rinchiusi in una gabbia per quasi tre mesi. Infine il 7 novembre vennero decapitati a Ket Cho nel Tonchino. Padre Jacinto aveva appena trent’anni. Papa Giovanni Paolo II il 19 giugno 1988 lo ha canonizzato.

Martirologio Romano: Nella città di Ket Chợ nel Tonchino, ora Viet Nam, santi Giacinto Castañeda e Vincenzo Lê Quang Liêm, sacerdoti dell’Ordine dei Predicatori e martiri, che coronarono con l’effusione del sangue le loro fatiche per il Vangelo sotto il regime.








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08/11/2017 08:41
 
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Santi Quattro Coronati Martiri

8 novembre


Sec. IV

Martirologio Romano: Commemorazione dei santi Simproniano, Claudio, Nicostrato, Castorio e Simplicio, martiri, che, come si tramanda, erano scalpellini a Srijem in Pannonia, nell’odierna Croazia; essendosi rifiutati, in nome di Gesù Cristo, di scolpire una statua del dio Esculapio, furono precipitati nel fiume per ordine dell’imperatore Diocleziano e coronati da Dio con la grazia del martirio. Il loro culto fiorì a Roma fin dall’antichità nella basilica sul monte Celio chiamata con il titolo dei Quattro Coronati.







La loro memoria, chiaramente leggendaria, non è più nel Calendario della Chiesa: ma perdura il loro ricordo, non tanto e non soltanto nella devozione, ma nell'arte, perché i Quattro Santi Coronati sono considerati, per remota tradizione, protettori degli scultori.
Secondo la leggenda, erano scalpellini che lavoravano nelle grandi cave di marmo e di porfido dell'attuale Jugoslavia, a nord di Sirmium. Si chiamavano Claudio, Nicostrato, Simproniano e Castorio. Erano qualcosa di più di semplici operai, anche se qualcosa di meno di scultori, nel senso oggi attribuito di solito a questa parola.
Una cosa era certa: i quattro tagliapietre cristiani erano i migliori artigiani tra i molti che lavoravano nelle cave della Pannonia. Tanto bravi, che i compagni, nella loro ignoranza, li credevano aiutati dalla magia. Formule magiche sarebbero stati i segni di croce che essi tracciavano prima di intraprendere il lavoro; formule magiche le preghiere e i cantici ripetuti insieme durante l'opera.
L'imperatore Diocleziano, che nella vecchiaia si era stabilito a Spalato, in Dalmazia, e si era dedicato a grandi opere di architettura e decorazione, visitava spesso le cave della Pannonia. Sceglieva i blocchi di materiali e commetteva volta per volta il lavoro desiderato.
Egli conosceva i quattro bravissimi scultori e ammirava l'opera loro. Anche per questo, nessuno, tra i compagni di lavoro e tra i superiori, osava denunziare come cristiani gli ottimi tagliapietre.
Tutto andò per il meglio, finché l'imperatore fece scolpire agli artisti cristiani colonne di porfido in un sol blocco, capitelli a foglie, vasche ricavate da un solo blocco di pietra, e perfino un grande carro del sole trainato da cavalli. Gli scultori cristiani lo eseguirono alla perfezione, perché opera puramente decorativa.
Ma un giorno, l'imperatore ordinò loro di scolpire genietti e vittorie, amorini e figure mitologiche. Tra queste, un simulacro di Esculapio, dio della salute. Per il giorno fissato, genietti e amorini furono pronti, ma non la statua di Esculapio. Diocleziano pazientò, ordinando ancora aquile e leoni, che furono presto fatti. Non fu fatto, però, il simulacro di Esculapio.
Diocleziano interrogò personalmente gli scultori cristiani, mostrandosi assai generoso verso quegli artefici da lui così ammirati. Ma i compagni invidiosi e i superiori gelosi facevano pressione.
Venne imbastito il processo, e la macchina della legge, messa in moto quasi contro la volontà imperiale, travolse gli artefici cristiani, che vennero gettati nel Danubio, chiusi entro botti di piombo.
Poco dopo, le loro reliquie furono portate a Roma, e ai Quattro Santi Coronati s'intitolò, sul Celio, una delle più antiche chiese romane, diventata poi titolo cardinalizio. Ma a Roma, quasi per gelosia di tanti onori dedicati a quattro Martiri stranieri, ai Coronati autentici, patroni degli scultori, vennero sovrapposti quattro leggendari Martiri di Roma, con i nomi di Severo, Severino, Carpoforo e Vittorino.
A Firenze i Quattro Santi Coronati furono scelti come protettori dei Maestri di pietra e di legname, i quali, per il loro tabernacolo in Orsanmichele, ordinarono le statue a Nanni di Banco. Egli scolpì una per una le quattro figure, ma quando si trattò di farle entrare nella nicchia del tabernacolo, dovette ricorrere al suo maestro Donatello, il quale le " scantucciò " in modo da farle sembrare abbracciate. E per compenso non chiese a Nanni di Banco che una cena, per sé e per i suoi lavoranti, una cena a base d'insalata!

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09/11/2017 08:41
 
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San Vitone di Verdun Vescovo

9 novembre


† 529

Martirologio Romano: A Verdun nella Gallia belgica, ora in Francia, san Vito, vescovo.








San Vitone (Vito o Vanni - in francese Vanne) vescovo di Verdun, nella cronotassi della diocesi di Verdun occupa l’ottavo posto, dopo San Firmino e prima di San Desiderato.
E’ stato nominato vescovo della diocesi di Verdun, nel 498 per volere del re dei Franchi, Clodoveo. La sua azione pastorale è sempre stata impostata nella piena accondiscendenza al re Clodoveo.
Nei pochi documenti storici e in tutta la tradizione, San Vitone viene ricordato come un buon vescovo.
Morì intorno al 529 e fu canonizzato nel IX secolo dal vescovo Attone.
E’ venerato come patrono della città francese dal VII secolo.
Per custodire la sua tomba, nel 951 il vescovo Berengario fondò un'abbazia (San Vito o Vanne) da cui ebbe origine nel 1598 la Congregazione benedettina dei Santi Vitone ed Idulfo, introdotta da Didier de la Cour per i monasteri omonimi.
La sua Memoria liturgica cade il 9 novembre.
Dal 1976, la sua festa in diocesi è stata spostata al 12 ottobre, giorno in cui viene ricordato anche il protovescovo Santino.


Autore: Mauro Bonato

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10/11/2017 08:31
 
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San Narsete e Giuseppe Martiri in Persia

10 novembre




Decapitati, in Persia, per essersi rifiutati di adorare il Sole.

Martirologio Romano: In Persia, santi martiri Narsete, vescovo, di veneranda età, e Giuseppe, suo discepolo, giovane, che furono decapitati con la spada per essersi rifiutati di obbedire all’ordine del re Sabor II di adorare il sole

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11/11/2017 09:18
 
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San Verano di Vence Vescovo

11 novembre


Sec. V

Emblema: Bastone pastorale


Martirologio Romano: A Vence in Provenza, commemorazione di san Verano, vescovo, che, figlio di sant’Eucherio vescovo di Lione, fu educato nel monastero di Lérins e scrisse una lettera al papa san Leone Magno, ringraziandolo per la fede nel Verbo incarnato da lui difesa nella lettera a Flaviano.







Nome insolito, quello del Santo di oggi: pochissimo diffuso, eppure suggestivo, se è vero che deriva dalla parola latina ver, cioè dal nome della primavera.
A Roma esiste il " Campo Verano ", il campo cioè della primavera. Oggi vi si distende, accanto alla gloriosa basilica di San Lorenzo, il cimitero più caro al cuore dei Romani: e il nome primaverile di Verano non suona né fuor di luogo né irriverente, perché proprio i morti sono, per i credenti, i trepidi germogli dell'immortalità, i fiori dell'eterna promessa. San Verano fu Vescovo in Francia, un secolo dopo l'altro grande Vescovo francese che oggi occupa il posto d'onore nel calendario, cioè San Martino di Tours. Fu Vescovo di una ridente cittadina della Provenza, oggi prediletta dagli artisti e dai poeti, chiamata Vence e ormai entrata a buon diritto nella storia dell'arte contemporanea, soprattutto per una celebre cappella ideata e decorata da Henri Matisse qualche decennio fa.
Di Vence San Verano fu il secondo Vescovo, alla fine del V secolo. Egli era figlio di Sant'Eucherio, Vescovo di Lione, e aveva un fratello di nome Solonio.
Quando Eucherio ebbe una certa età, si associò i due figli, come aiutanti nelle cure dello Episcopato.
La vicenda, fino a questo punto, ci lascia un po' perplessi, non tanto perché ci troviamo di nuovo di fronte a un vescovo con famiglia, cosa assai frequente, come abbiamo altre volte detto, in un tempo in cui il celibato ecclesiastico non era stato ancora codificato, ma perché ci sembra un po' troppo paternalistica e umanamente ovvia la scelta dei propri figli come collaboratori alla cattedra vescovile!
Fatto sta, però, che l'iniziativa del Vescovo di Lione si rivelò presto saggia e provvidenziale. Occorre dire, intanto, che i due ragazzi erano stati educati nel monastero della celebre Isola di Lérins e che, desiderosi di imitare il padre, gareggiarono con lui in tutte le più alte virtù. E tutti e due divennero Vescovi, come il padre: uno a Vence, l'altro a Ginevra.
San Verano, Vescovo della piccola diocesi provenzale, si fece notare e apprezzare dai Papi Leone I e Ilario, come saldo e sereno sostenitore della dottrina ortodossa contro gli eretici francesi.
Questi atti ufficiali nella storia della Chiesa sono press'a poco l'unica testimonianza superstite dell'attività saggia e santa del Vescovo Verano, i cui tratti personali sono quasi del tutto cancellati dalla foschia dei secoli. Neanche le sue reliquie sono restate a nutrirne la devozione, perché non si sa con precisione dove si trovino, se a Vence oppure a Lione.
Sono restate però anche alcune sue parole, in una lettera diretta al Papa Ilario. E queste testimoniano assai bene il rispetto, l'obbedienza e l'umiltà dell'antico Vescovo francese. " Io, Verano - egli scrive infatti al Papa - che riverisco il Vostro apostolato, saluto la Vostra Beatitudine e vi chiedo di pregare per me ".

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12/11/2017 11:00
 
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Sant' Esichio I di Vienne Vescovo

12 novembre


fine V sec.



Fu elevato dalla dignità di senatore a quella di vescovo di Vienne, Francia. È padre di Sant'Avito e di Sant'Apollinare.

Martirologio Romano: A Vienne in Burgundia, ora in Francia, sant’Esichio, vescovo, che fu elevato dalla dignità senatoria a quella episcopale; i suoi figli, che aveva generato in precedenza, furono i santi Apollinare, vescovo di Valence, e Avíto, che gli succedette nella sede di Vienne.








Sant’Esichio I è un vescovo che successe nella cattedra di Vienne a San Mamerto.
In alcuni elenchi dei vescovi della diocesi figura al sedicesimo posto, mentre in altri, compreso quello di Gallia Christiana, al diciannovesimo.
Fa parte di quella schiera di oltre quaranta vescovi santi di Vienne.
Nel testo del Vescovo Leodegario, “Liber Episcopalis Viennensis Ecclesiae”, veniamo informati che Esichio I apparteneva ad una famiglia episcopale della Gallia.
Prima di essere sacerdote e poi vescovo era stato sposato. Dal matrimonio ebbe due figli, entrambi considerati santi. Il primo è Sant’Avito, suo immediato successore nel governo della diocesi di Vienne e di Sant’Apollinare vescovo della diocesi di Valencia.
Siamo certi che governò la diocesi, alla fine del V secolo, tra gli anni 480 e 490.
Sempre secondo il vescovo Lodegario la sua festa era celebrata il 21 marzo, mentre secondo Adone il 16 marzo.
Secondo il martirologio romano la sua festa si celebra il 12 novembre.

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13/11/2017 08:25
 
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San Florido (Fiorenzo) di Città di Castello e Amanzio Vescovo

13 novembre


Città di Castello, 520 - Pieve de' Saddi, 13 novembre 599

Emblema: Bastone pastorale


Martirologio Romano: A Città di Castello in Umbria, commemorazione dei santi Fiorenzo, vescovo, del quale il papa san Gregorio Magno attesta la retta dottrina e santità di vita, e Amanzio, suo sacerdote, pieno di carità per gli ammalati e di ogni virtù.







San Florido nacque a Città di Castello nel 520 (allora denominato Tiferno Tiberino).
I suoi genitori morirono quando lui era ancora in giovane età, studiò lettere e teologia.
Verso l'anno 542 il vescovo lo nominò diacono.
Qualche tempo dopo Florido insieme ai suoi compagni Amanzio e Donnino, fuggirono a Perugia, poiché Città di Castello era stata assediata dalle truppe di Totila. Qui il vescovo Ercolano dopo averlo conosciuto e apprezzato le sue doti lo ordinò sacerdote. Nel 544 a Pantalla, un villaggio nelle vicinanze di Todi, con la preghiera S. Florido guarì un energumeno indemoniato, fu questo il suo primo miracolo.
Dopo sette anni di assedio Perugia, cedette per la fame, il vescovo Ercolano fu ucciso e dopo un po’ di tempo si vide qualche spiraglio di pace.
Florido fece ritornò a Città di Castello che trovò distrutta. Insieme ai concittadini superstiti edificò, una fortezza sopra le rovine della città. Furono ricostruite le case e le chiese; la città iniziò una nuova vita. Nel frattempo era morto anche il vescovo, il Papa Pelagio accolse la preghiera dei cittadini e Florido fu eletto vescovo. Fu impegnato sempre nel predicare la Parola di Dio. Amministrò con giustizia e carità. Tra i suoi amici si annovera S. Gregorio Magno.Morì a Pieve de' Saddi il 13 novembre 599 fu assistito da tre vescovi, uno dei quali Lorenzo, vescovo di Arezzo.


Autore: Carmelo Randello

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15/11/2017 08:38
 
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San Rocco Gonzalez de Santa Cruz Martire

15 novembre


Paraguay, 1576 - Caaro, Brasile, 1628

Emblema: Palma


Martirologio Romano: In località Caaró in Paraguay, santi Rocco González e Alfonso Rodríguez, sacerdoti della Compagnia di Gesù e martiri, che avvicinarono a Cristo le diseredate popolazioni indigene fondando i villaggi chiamati reducciones, nei quali il lavoro e la vita sociale si coniugavano liberamente con i valori del cristianesimo, e furono per questo uccisi in un agguato dal sicario di uno stregone.







Anche se figlio di coloni spagnoli, si può considerare il primo santo del Paraguay, perché nato e vissuto nello Stato sudamericano. Nacque nel 1576 ad Asunción, capitale del Paraguay e già a 14 anni convinse alcuni compagni a ritirarsi in luoghi solitari per fare penitenza.
Intraprese la via del sacerdozio cattolico, venendo ordinato il 25 marzo 1599 e i suoi primi atti furono rivolti agli Indios, dispersi lungo il fiume Paraguay, di cui si sforzava di apprendere la strana lingua: il guarani.
Fu destinato come curato della cattedrale ad Asunción, operò in questo compito per dieci anni; a 32 anni fatto eccezionale, fu nominato vicario generale dell’ampia diocesi; ma padre Rocco González, per la sua grande umiltà, rifiutò la carica ed entrò nella Compagnia di Gesù nel 1609.
Fu subito inviato presso la forte tribù dei Guaycurúes, che indusse a lasciare il nomadismo e insegnando loro l’agricoltura, egli stesso lavorò con l’aratro. In tutta la vasta zona del Rio de La Plata, era in atto l’istituzione delle “riduzioni”, ossia villaggi indigeni nei quali i Gesuiti riunirono gli Indios che vivevano sparsi, per insegnare loro a lavorare stabilmente, convertirli al cristianesimo, avviarli alla vita civile; la prima “riduzione” fu quella di S. Ignazio Guassù (S. Ignazio il Grande).
Nel 1611 padre Rocco González prese a dirigere e perfezionare le “riduzioni” iniziate dal gesuita M. di Lorenzana. Dal 1614 spinse le sue missioni apostoliche attraverso le regioni selvagge del Paranà e dell’Uruguay ancora inesplorate; continuando a fondare altre “riduzioni” dedicandosi ‘tutto a tutti’; di lui si diceva che era presente in tutti i compiti, non pensava altro che alla sua chiesa, faceva il carpentiere, aggiogava i buoi all’aratro, faceva il falegname, l’architetto e muratore delle costruzioni.
Prese a difendere gli Indios contro l’avidità dei ‘commendatori’, che requisivano le loro terre; istruiva nella fede e battezzava grandi e piccoli, amministrava i sacramenti. Ma gli stregoni delle tribù, ovviamente non gradivano la presenza dei missionari e uno di questi di nome Niezú, fingendo di accondiscendere alle ragioni del missionario, preparò invece una congiura per sterminare le “riduzioni” che per lui erano come fumo negli occhi.
Padre Rocco González de Santa Cruz, aveva progettato una nuova “riduzione” nel Caaró, allora all’estremo confine dell’Uruguay oggi nel Brasile, e il mattino del 15 novembre 1628 celebrò la Messa su un altare improvvisato, dopo aver fatto il ringraziamento, si mise a dirigere i lavori in atto; mentre stava chinato ad attaccare il batacchio alla campana dell'erigenda chiesa, uno dei congiurati lo colpì sulla testa con una mazza facendolo stramazzare a terra morto; insieme a lui morì anche il confratello padre Alonso Rodriguez.
I gesuiti Rocco González, Alonso Rodriguez e Juan del Castillo, ucciso due giorni dopo il 17 novembre 1628, furono beatificati da papa Pio XI il 28 gennaio 1934 e a seguito del riconoscimento di miracoli avvenuti per loro intercessione, sono stati canonizzati da papa Giovanni Paolo II ad Asunción in Paraguay, il 16 maggio 1988. Degni figli di s. Ignazio, impegnati con animo veramente missionario, non solo per il bene delle anime di questi popoli, ma anche per il loro sollievo economico e per il loro inserimento nella vita sociale; le “riduzioni” e gli sforzi dei gesuiti, furono magistralmente rappresentati nel famoso film ‘Mission’.

Autore: Antonio Borrelli

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16/11/2017 08:14
 
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Santi Agostino e Felicita Martiri

16 novembre




Martirologio Romano: A Capua in Campania, santi Agostino e Felicita, martiri, che si tramanda abbiano subito il martirio sotto l’imperatore Decio.








Sebbene non si conoscano notizie dettagliate e sicure sul loro martirio, tuttavia la storicità di esso è attestata e garantita da numerose fonti. Parecchi codici del Martirologio Geronimiano li ricordano il 16 o il 17 novembre; i loro ritratti comparivano nella serie musiva di santi che adornava anticamente la chiesa di San Prisco a Capua; un cimitero cristiano (forse del sec. IV) lungo la via Appia nei pressi di Capua, era denominato da Agostino. Il tempo del loro martirio, se è attendibile la notizia della Cronachetta del 395, sarebbe da porsi verso la metà del sec. III, poiché in tale testo si dice che san Cipriano avrebbe loro scritto una lettera e che i due martiri sarebbero periti al tempo di Decio, anche se poi vi si specifica l'anno 260, nel quale già regnava Gallieno. In documenti dei secc. VIII-IX (Sacramentari e Calendari) si dice che Agostino sarebbe stato vescovo della città e Felicita sua madre, e si aggiunge che i loro corpi furono trasferiti a Benevento. Nelle fonti antiche però non è specificata la dignità di Agostino, né la sua parentela con Felicita. In conclusione si può con certezza ritenere che Agostino e Felicita sono due martiri autentici di Capua, anche se poco conosciuti.


Autore: Jaroslav Polc

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17/11/2017 09:23
 
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San Lazzaro Monaco a Costantinopoli

17 novembre




Etimologia: Lazzaro = Dio è il mio soccorso, dall'ebraico


Martirologio Romano: A Costantinopoli, san Lazzaro, monaco, che, nato in Armenia, fu insigne pittore di sacre icone; essendosi rifiutato di distruggere le sue opere, per ordine dell’imperatore iconoclasta Teofilo fu sottoposto ad atroci torture e, ricomposta poi la controversia sul retto culto delle imagini, fu mandato a Roma dall’imperatore Michele III per consolidare la concordia e l’unità di tutta la Chiesa.







La sua Vita ci è nota soprattutto grazie ad un continuatore del cronista Teofane riportato da Cedreno; questo testo è servito per la notizia dei sinassari bizantini.
Nato in Armenia verso la fine del sec. VIII, Lazzaro giunse ancor giovane a Costantinopoli ove si fece monaco. Apprese la pittura e divenne abilissimo in tale arte; ma la sua fama fu causa della persecuzione che ben presto lo raggiunse. L'imperatore Teofilo (829-843) pubblicò, poco dopo il suo avvento al trono, un editto in cui si comminava la pena di morte a quei pittori che avessero rifiutato di distruggere i quadri di santi. Lazzaro fu citato innanzi all'imperatore che invano cercò di convincerlo a sottomettersi al decreto. Gettato in una cloaca, dove fu sul punto di morire asfissiato, Lazzaro riprese le forze e ritornò a dipingere le icone; allora Teofilo ordinò di applicargli sulla palma delle mani delle sbarre di ferro arroventato che arsero la carne fino all'osso.
L'imperatrice Teodora riuscí a farlo uscire dalla prigione, lo fece curare e lo mandò nel monastero di S. Giovanni Battista del Phoberon sulla costa asiatica del Bosforo. In riconoscenza, Lazzaro dipinse un quadro del santo Precursore che divenne strumento di miracoli e dopo la morte di Teofilo, dipinse anche la grande immagine del Cristo che si trovava sopra la porta della Calcide al palazzo imperiale.
Dopo di che egli si dedicò interamente ai suoi doveri religiosi e ricevette gli Ordini. L'imperatrice Teodora gli raccomandò l'anima del suo defunto marito pregandolo di perdonarlo, ma Lazzaro avrebbe risposto che non era piú tempo di piegare la giustizia divina.
Nell'856 l'imperatore Michele III mandò Lazzaro a Roma per portare doni al papa Benedetto III, eletto di recente, cosí egli ebbe occasione di intrattenersi con il pontefice sui mezzi per ristabilire la pace nella Chiesa. Si pretende che Lazzaro sia stato inviato una seconda volta a Roma e che sia morto a metà del viaggio (verso l'867), ma il fatto non sembra provato. Secondo i sinassari fu sepolto nel monastero di Evandro (Galata). Nellà Chiesa bizantina e nel Martirologio Romano la sua festa è celebrata al 17 novembre.


Autore: Raymond Janin

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18/11/2017 09:48
 
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San Patroclo di Colombier Eremita

18 novembre


Sec. VI

Martirologio Romano: A Colombier nel territorio di Bourges, in Francia, san Patroclo, sacerdote, che fu eremita e missionario.







Chi non ricorda, al nome di Patroclo, l'omerica Iliade, e colui sul cui corpo anche i cavalli di Achille fecero pianto? Patroclo, amico fedele di Achille, chiese allo sdegnato eroe di poter indossare le sue armi, per rintuzzare la baldanza dei Troiani. Venne affrontato da Ettore, che lo credette Achille, e da lui colpito a morte.
Per vendicare la sua morte, Achille torna a impugnare le armi, cerca un avversario, e questa volta sarà Ettore a cadere.
Patroclo ed Ettore, così sono i due eroi omerici che più suscitano ammirazione e compianto. Più che da ira e da violenza, sono infatti mossi da generosità e amicizia, e par quasi cogliere in loro un certo spirito di sacrificio; un'ombra, forse, di martirio.
Non sorprende, perciò, il nome di Patroclo portato da un Santo cristiano, e da un Santo tutt'altro che guerriero. Fu un eremita del VI secolo, questo San Patroclo, e venne lodato, non da un poeta epico, ma da uno storico della religione, San Gregorio di Tours.
Questi traccia di San Patroclo un ritratto vivacissimo: prima lo descrive pastore di pecore; poi studente; finalmente monaco. Un monaco non ribelle alla Regola, ma disadatto alla vita della comunità.
Gregorio di Tours narra, per esempio, come il monaco Patroclo, immerso nella lettura dei libri sacri, non udisse la campanella del refettorio, apparendo quindi indisciplinato e disobbediente.
Il maestro lo riprese più di una volta, finché, umilmente, il monaco più astratto che distratto, chiese di fare vita eremitica. Ma non restò a lungo in solitudine: il suo oratorio divenne presto una specie di parrocchia, alla quale accorrevano tutti coloro - ed erano molti - che desideravano i suoi consigli e i suoi ammaestramenti.
Per questo, il monaco fu tentato di abbandonare il suo eremo e di tornare nel mondo, difeso ormai da quella specie di armatura formata intorno alla sua anima dalla solitudine e dalla preghiera.
C'era pericolo però, che anch'egli - come il Patroclo dell’Iliade - venisse travolto dall'Ettore delle mondane seduzioni e delle umane ambizioni Perciò, un Angiolo gli mostrò una colonna altissima e gli disse: " Se vuoi vedere il mondo, sali e guardati attorno ".
Di lassù, Patroclo vide tutto ciò che avveniva in basso, nel mondo delle passioni e delle ambizioni. Levò allora a Dio questa preghiera: " Non permettere ch'io torni nel mondo, e insegnami a vivere secondo la tua volontà ".
Regolò gli ultimi anni di vita sulla croce; costruì un monastero, vi accolse altri confratelli. E a loro, giunto il tempo, annunziò la propria morte.
Non volle però che la sua morte fosse pianta, come lo era stata ~ anche dai cavalli - quella del Patroclo omerico. Del resto era la morte, non di un vinto, ma di un vincitore: di un eroe di nuovo tipo, alieno dalla violenza, e ispirato, non da animosità, ma da amore.

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19/11/2017 00:25
 
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Sant' Anastasio II Papa

19 novembre


m. 19 novembre 498



(Papa dal 24/11/496 al 19/11/498)
Romano di origine, combatté l'Arianesimo e ottenne la conversione di Clodoveo, re dei Franchi, che venne battezzato la notte di Natale del 498 o 499.

Etimologia: Anastasio = risorto, dal greco









Non si conoscono le origini della famiglia, probabilmente greca (nda: anastasìs significa resurrezione in greco) stabilitasi a Roma. Anastasio II fu consacrato papa il 24 novembre del 496.
Così come non risultano molte altre notizie sul suo pontificato, del resto di breve durata se non quelle nefaste per aver tentato una sorta di riconciliazione con gli eretici monofistici con la riammissione alle sue funzioni il diacono di Tessalonico Fotino, fervido seguace dell'idea monofisita.
La tradizione volle che questo papa fosse così impopolare, diversamente dal suo predecessore che fosse stato colpito dalla "maledizione divina" "nutu divinu percussus est"
Lo stesso Dante Alighieri, molti secoli dopo, finì per collocarlo nel canto XI, 6-9 dell' Inferno della Divina Commedia:
" ci racostammo, in dietro, ad un coperchio
d'un grand'avello, ov'io vidi una scritta
che dice: "Anastasio papa guardo,
lo qual trasse Fotin della via dritta".

Sempre secondo la tradizione la sua morte sarebbe stata simile a quella di Ario il quale, mentre era intento alle sue funzioni corporali e fisiologiche perse tutte le viscere che si sparsero sul terreno.
Questo sarebbe accaduto il 19 novembre del 498. Le sue spoglie furono sepolte sul sagrato di San Pietro ma il suo nome non comparì mai nè sul martirologio nè sul calendario universale.

Il titolo di "santo" gli viene attribuito in alcune liste di Romani Pontefici e da qualche scrittore; tuttavia, come osservano i Bollandisti, il suo nome non si trova in alcun Martirologio antico, nè esiste alcuna traccia di culto su di lui.


Autore: Franco Gonzato

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20/11/2017 09:13
 
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Sant' Avventore Martire

20 novembre


† Torino, fine III secolo



«A Torino si festeggiano i santi martiri Ottavio, Solutore e Avventore, soldati della legione Tebana, i quali, sotto l'imperatore Massimiano, combattendo valorosamente, furono coronati dal martirio». Così il Martirologio romano racconta la storia di questi tre martiri della fine del II secolo. Il riferimento al «valoroso combattimento» si riferisce evidentemente alla loro determinazione nel dichiararsi cristiani nonostante la persecuzione instaurata da Massimiano. Dei tre santi una «Passione» del V secolo narra che essi fuggirono al massacro generale di Agaunum. Inseguiti, furono presi nei pressi di Torino: Avventore e Ottavio, raggiunti, vennero trucidati sul posto. Solutore, invece, riuscì a proseguire nella fuga fino alle rive della Dora Riparia, dove, scoperto, fu decapitato. Nel luogo della sepoltura dei tre nel V secolo sorse una basilica. Nel 1575 fu innalzata la «Chiesa dei martiri», che ne ospita ancor oggi le reliquie.

Emblema: Palma


Martirologio Romano: A Torino, santi Ottavio, Solutore e Avventore, martiri.

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21/11/2017 08:30
 
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Virgo Fidelis

21 novembre




Patronato: Carabinieri









Nell’Arma dei Carabinieri il culto alla Virgo Fidelis iniziò subito dopo l’ultimo conflitto mondiale per iniziativa di S.Ecc. Mons. Carlo Alberto Ferrero di Cavallerleone, Ordinario Militare d’Italia e di Padre Appoloni SJ, Cappellano Militare Capo. Lo stesso Comandante Generale prese a cuore l’iniziativa e bandì un concorso artistico per un’opera che raffigurasse la Vergine, patrona dei Carabinieri. Lo scultore architetto Giuliano Leonardi rappresentò la Vergine in atteggiamento raccolto mentre, alla luce di una lampada, legge in un libro le parole profetiche dell’Apocalisse “Sii fedele sino alla morte” (Ap 2,10).

La scelta della Virgo Fidelis quale celeste patrona dell’Arma è indubbiamente ispirata alla fedeltà che, propria di ogni soldato che serve la Patria, è caratteristica dell’Arma dei Carabinieri che ha per motto “Nei secoli fedele”. L’8 dicembre 1949 Sua Santità Pio XII, accogliendo l’istanza dell’Ordinario Militare, proclamava ufficialmente la Virgo Fidelis patrona dell’Arma, fissandone la celebrazione al 21 novembre, in concomitanza con la Presentazione di Maria Vergine al Tempio e nell’anniversario della battaglia di Culqualber.

Congiuntmente alla Virgo Fidelis l’Arma celebra anche la Giornata dell’Orfano, istituita nel 1996, che rappresenta per i Carabinieri e per l’Opera Nazionale di Assistenza per gli Orfani dei Militari dell’Arma dei Carabinieri, occasione di concreta vicinanza alle famiglie dei colleghi caduti.


Autore: Don Fabio Arduino

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22/11/2017 09:32
 
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Santi Valeriano e LXXX compagni Martiri a Forlì

22 novembre










Gli Atti che trattano di questi martiri sono poco attendibili. Infatti solo nel sec. XI o ai primi del XII fu redatta una passio cheparla di un Valeriano martire di Forlì. Questa è l'unica fonte che tratta del presunto martire romagnolo e possiamo ritenere che l'autore della passio sia caduto in errore e che il s. Valeriano venerato a Forlì non sia altri che quello di Roma.
Intorno alla metà del sec. XV infatti la festa di s. Valeriano si celebrava a Forlì il 22 novembre: «Dies feriata propter festum S. Sicilie (Cecilia sposa di lui secondo la passio) et Valeriani patroni dictae civitatis et martyris».
Nell'Archivio Notarile di Forlì, fra gli Atti di Filippo d'Asti sono riportati dei Calendari giudiziari, cioè fatti per indicare i giorni festivi e quelli di seduta giudiziaria. In uno di questi calendari si ricordano insieme s. Cecilia e s. Valeriano patrono di Forlì, negli altri si ricorda solo s. Valeriano, ma la data è sempre quella del 22 novembre e mai del 4 maggio. I Bollandisti sulla base della passio ne trattano il 4 maggio.


Autore: Adamo Pasini

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23/11/2017 07:59
 
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Santa Lucrezia di Merida Martire

23 novembre


Sec. IV

Etimologia: Lucrezia = dalla gens Lucretia, famiglia romana


Emblema: Palma


Martirologio Romano: A Mérida in Spagna, santa Lucrezia, martire.








Molti nomi frequenti nell'antichità greca o romana sono altrettanto frequenti nella civiltà cristiana di ieri e di oggi, e di conseguenza nel calendario dei santi. Nomi quali Alessandro, Filippo, Marco, Massimo, Felice, Fabio. A questi si può aggiungere il nome appartenente ad una delle più antiche e quindi più nobili famiglie romane, il nome cioè di Lucrezio, che risale addirittura al tempo dei Sette Re di Roma.

Si chiamò Lucrezio anche il maggior poeta in lingua latina prima di Virgilio: Tito Lucrezio Caro, l'autore del poema De rerum natura. Ancor più celebre fu il nome di Lucrezia, portato dalla virtuosa moglie di Collatino, disonorata da Sesto Tarquinio, indegno figlio dell'ultimo Re di Roma, l'etrusco Tarquinio il Superbo. Nella storia romana Lucrezia ha quasi i tratti di un'eroina romantica. Piuttosto che sopravvivere al disonore, ella infatti preferì la morte. La sua drammatica fine eccitò lo sdegno dei Romani, affrettando la cacciata dei Tarquini e la fine della monarchia.

Il nome di Lucrezia è riportato nel Martirologio Romano una sola, il 23 novembre. Originaria della Spagna, di una Spagna evidentemente romanizzata quale era la penisola iberica nei secoli dell'Impero, Santa Lucrezia è tradizionalmente considerata martire, caduta al tempo della persecuzione di Diocleziano e sotto il prefetto Daciano. Sua patria e luogo della sua morte sarebbe stata la città di Mérida, città anche della più celebre martire fanciulla Santa Eulalia, festeggiata il 10 dicembre. Forse proprio la gloria di questa concittadina ha contribuito ad oscurare il ricordo di Santa Lucrezia. Sul suo conto infatti non si conosce nulla e solamente si sa che il suo culto è molto antico e radicato.

Basta comunque il martirio di Santa Lucrezia per attribuire al suo nome, già reso nobile dalla virtuosa matrona romana, una risonanza ancor più alta. Se infatti il sacrificio della moglie di Collatino rappresenta un forte attaccamento alla virtù, il martirio accettato dalla martire di Mérida esprime un’incommensurabile amore per la Verità.

24/11/2017 09:34
 
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Sant’ Enfleda Regina di Bernicia, badessa

24 novembre


† 704 circa







Santa Enfleda era una principessa della Northumbria, figlia del re martire Sant’Edwin e di sua moglie Etelburga. Battezzata da San Paolino, protovescovo di York, nella domenica di Pentecoste del 626, alla morte del padre nella battaglia di Hatfield Chase nel 633 si trasferì nel Kent, terra d’origine della madre, con quest’ultima ed il vescovo Paolino.
Nel 642 fece poi ritorno in Northumbria e convolò a nozze con il re Oswiu di Vernicia, nel speranzoso intento di riunificate i due rami della monarchia di tale regione, attribuendosi il ruolo di protettrice della cristianità. Nel 651 suo marito assassinò il cugino Sant’Oswin e ad Enfleda non restò che persuaderlo a fondare il monastero Gilling, in espiazione alla sua colpa. Sebbene educata secondo la tradizione celtica, appoggiò San Vilfrido nel calcolo della Pasqua secondo il metodo romano.
L’iniziale appoggio di Oswin alla fazione celtica, comportante la doppia celebrazione della Pasqua alla corte reale, portò infine ad un decisiva crisi della Chiesa indigena e sfociò nella convocazione del sinodo di Whitby. Riconoscente per il suo sostegno alla data latina della Pasqua, il pontefice Vitaliano donò ad Enfleda una croce d’oro, probabilmente ricavata da alcune catene di San Pietro. Rimasta vedova nel 670, entrò nell’abbazia di Whitby, quale discepola della badessa Santa Ilda, subentrando poi a lei nella carica. Più tardi toccò poi anche a sua figlia Santa Elfleda succederle. Sotto la guida di Enfleda il monasterò si avvicinò sempre più alle posizioni della Chiesa di Roma.
Proprio in tale monastero fu seppellito Oswiu e la moglie vi fece traslare anche le spoglie di suo padre. Enfleda morì verso l’anno 704 e fu sepolta accanto al marito, ma sfortunatamente i danesi cancellarono ogni tracca del primitivo culto tributatole. Le reliquie della santa, secondo Guglielmo di Malmesbury, furono comunque tratte in salvo e trasportate a Glastorbury con quelle di altri santi della Northumbria.

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POTRESTE AVERE DIECIMILA MAESTRI IN CRISTO, MA NON CERTO MOLTI PADRI, PERCHE' SONO IO CHE VI HO GENERATO IN CRISTO GESU', MEDIANTE IL VANGELO. (1Cor. 4,15 .
 
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