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CREDENTI DA IMITARE (Eb.13,7)

Ultimo Aggiornamento: 18/05/2019 13:12
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04/04/2017 10:23
 
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Santi Agatopodo e Teodulo Martiri

4 aprile


† Tessalonica, 302 circa

Martirologio Romano: A Salonicco, in Macedonia, ora in Grecia, santi martiri Agatopódo, diacono, e Teodúlo, lettore, che, sotto l’imperatore Massimiano, su ordine del governatore Faustino, per aver confessato la fede cristiana furono gettati in mare con un masso legato al collo.







I santi Agatopodo e Teodulo subirono il martirio presso Tessalonica al tempo dell’imperatore Massimiano, probabilmente dopo il 302, quando un editto ordinò di bruciare i testi cristiani e di costringere i cristiani a sacrificare agli dei pagani. Dal messale Vaticano Greco del 1660 apprendiamo che Agatopodo, anziano diacono, e Teodulo, giovane lettore, vivevano santamente in preghiera. Catturati e condotti al cospetto del governatore Faustino, confessarono coraggiosamente la loro fede. Condotti in carcere, trascorsero la notte in preghiera lodando Dio, ed il giorno seguente Faustino fece persino avvicinare al collo di Teodulo la spada del carnefice nella speranza che dermodesse, ma né minacce né lusinghe sortirono effetto su di lui e con il suo compagno fu allora nuovamente incarcerato. Il menologio di Basilio Porfirogenito afferma che, durante la notte, i due fecero un sogno che preannunciava loro l’ormai prossimo martirio. Il mattino, dopo un terzo infruttuoso interrogatorio, furono entrambi gettati in mare con legata al collo una grossa pietra.


Autore: Fabio Arduino

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05/04/2017 08:59
 
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Santi Martiri di Persia

5 aprile


m. 344

Martirologio Romano: Nello stesso luogo, commemorazione di centoundici uomini e nove donne, martiri, che, radunati da varie parti nelle città regie di Persia, essendosi rifiutati con fermezza di rinnegare Cristo e adorare il fuoco, per ordine dello stesso re furono dati al rogo.

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06/04/2017 08:46
 
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San Paolo Le Bao Tinh Sacerdote e martire

6 aprile


>>> Visualizza la Scheda del Gruppo cui appartiene

Trịnh Hà, Vietnam, 1793 circa - Bay Mau, Vietnam, 6 aprile 1857

Martirologio Romano: Nella città di Vĩn Trị nel Tonchino, ora Viet Nam, san Paolo Lê Bảo Tịnh, sacerdote e martire, che, ancora chierico, fu tenuto a lungo in prigione per la sua fede e, diventato sacerdote, fu rettore del Seminario; scrisse un libro di omelie e un compendio di dottrina cristiana e, portato infine di nuovo in giudizio, fu condannato a morte sotto l’imperatore Tự Đức.







Paolo Le-Bao-Tinh nacque verso il 1793 presso Trinh Hà, nella provincia vietnamita di Thanh Hoá, ed appena quindicenne entrò nel seminario di Vinh-tri, ove si ritrovò in un clima di fervido misticismo ed intraprese i suoi studi con ottimo profitto. Si ritirò poi volontariamente ed all’insaputa di tutti in una località solitaria solitaria per darsi alla vita eremitica. Dopo qualche tempo dovette tuttavia tornare in seminario per completare gli studi teologici e ricevere la tonsura.
Nel 1837 il vescovo Mons. Havard inviò Paolo Le-Bao-Tinh a svolgere attività missionaria nell’inesplorata regione del Laos, ancora popolata da tribù selvagge, ma scoppiò nel frattempo la persecuzione anticristiana ed egli venne arrestato nel 1841, mentre era di ritorno da Macao, ove aveva accompagnato il nuovo missionario Taillandier. Rinchiuso nelle prigioni di Hanoi, fu sottoposto a ripetuti ed estenuanti interrogatori, torturato crudelmente ed infine condannato allo strangolamento. L’esecuzione venne tuttavia sempre procastinata e dopo parecchi anni di carcere la pena di morte gli venne commutata nell’esilio, in seguito al regio decreto di Thien-tri, che scontò nella provincia di Binh-dinh sino al 1848, quando il nuovo sovrano Tu-duc in occasione della sua ascesa al trono concesse l’amnistia generale.
Rientrato dall’esilio, Paolo Le-Bao-Tinh fu accolto dalla comunità di Vinh-try in festa ed il vescovo Pietro Andrea Retord gli conferì l’ordinazione presbiterale e lo nominò rettore del seminario locale, ove fu anche insegnante di latino. In questo periodo compose anche un libro di “Omelie” ad uso del clero locale, un “Compendio della dottrina cristiana” per i catechisti, nonché altri scritti religiosi. Nel 1857 ricevette varie denunce e fu allora nuovamente arrestato, processato a condannato alla decapitazione. L’esecuzione avvenne il 6 aprile 1857 presso Bay Mau.
Il pontefice San Pio X beatificò il martire Paolo Le-Bao-Tinh il 2 maggio 1909 ed infine Giovanni Paolo II lo canonizzò il 6 maggio 1984.


Autore: Fabio Arduino

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07/04/2017 08:18
 
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San Pelusio Sacerdote e martire

7 aprile




Martirologio Romano: Ad Alessandria d’Egitto, san Pelusio, sacerdote e martire.

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08/04/2017 07:58
 
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Santi Erodione, Asincrito e Flegone Discepoli di San Paolo

8 aprile


I secolo

I santi Erodione, Asìncrito e Flegone sono menzionati dall’apostolo Paolo nella lettera ai Romani, meritandosi così la venerazione quali santi da parte delle Chiese d’Oriente e d’Occidente nonostante la scarsità di notizie sul loro operato. Solo relativamente ad Erodione è disponibile l’iconografia del singolo, mentre gli altri sono identificabili in un’icona raffigurante più personaggi.

Martirologio Romano: Commemorazione dei santi Erodione, Asíncrito e Flégone, che san Paolo Apostolo saluta nella Lettera ai Romani.







Il Cardinal Baronio, nel redigere il Martirologium Romanum, identificò i santi Erodione, Asìncrito e Flegone con i cristiani salutati da San Paolo nella Lettera ai Romani (Rom 16, 11, 14). Erodione sarebbe stato originario di Tarso e parente dell’Apostolo delle genti, che avrebbe accompagnato a Roma nella seconda prigionia. Ordinato presbitero, fu quindi inviato quale vescovo a Patrasso in Grecia: qui operò numerose conversioni, scatenando l’ira dei giudei che lo vollero uccidere. Talvolta Erodione è invece citato quale vescovo di Tarso.
Nulla sappiamo invece di Asìncrito e Flegone, relativamente ai quali la tradizione cristiana ha sempre taciuto. La Chiesa greca pone questi tre santi tra i 72 dispepoli di Gesù e dedicalo loro un Ufficio proprio all’8 aprile insieme anche a Rufo ed Agabo.


Autore: Fabio Arduino

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10/04/2017 09:27
 
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San Macario d'Armenia Pellegrino

10 aprile


m. Gent, Belgio, 10 aprile 1012

Martirologio Romano: A Gand nelle Fiandre, nel territorio dell’odierno Belgio, san Macario, pellegrino, che, accolto benevolmente tra i monaci di san Bavone, un anno dopo vi morì consumato dalla peste.

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11/04/2017 08:31
 
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Santa Gemma Galgani Vergine

11 aprile


Lucca, 12 marzo 1878 - 11 aprile 1903

Nasce il 12 marzo 1878 a Bogonuovo di Camigliano (Lucca). La mamma Aurelia muore nel settembre del 1886. Nel 1895 Gemma riceve l'ispirazione a seguire impegno e decisione la via della Croce. Gemma ha alcune visioni del suo angelo custode. L'11 novembre 1897 muore anche il padre di Gemma, Enrico. Ammalata, Gemma, legge la biografia del venerabile passionista Gabriele dell'Addolorata (ora santo), che le appare e la conforta. Gemma nel frattempo matura una decisione e la sera dell'8 dicembre, festa dell'Immacolata, fa voto di verginità. Nonostante le terapie mediche, la malattia di Gemma, osteite delle vertebre lombari con ascesso agli inguini, si aggrava fino alla paralisi delle gambe, dalla quale però viene guarita miracolosamente. Le visioni di Gemma continuano e le viene data la grazia di condividere le sofferenza di Cristo. Nel maggio del 1902 Gemma si ammala nuovamente, si riprende, ma ha una ricaduta in ottobre. Muore l'11 aprile 1903. (Avvenire)



Etimologia: Gemma = dal nome generico delle pietre preziose


Emblema: Giglio


Martirologio Romano: A Lucca, santa Gemma Galgani, vergine, che, insigne nella contemplazione della Passione del Signore e nella paziente sopportazione dei dolori, a venticinque anni nel Sabato Santo concluse la sua angelica esistenza.



Ascolta da RadioVaticana:
Ascolta da RadioMaria:





Gemma Galgani nasce il 12 marzo 1878 a Bogonuovo di Camigliano (Lucca), riceve il battesimo il 13 marzo. Il 26 maggio 1885, nella chiesa di San Michele in Foro, l’arcivescovo di Lucca somministra a Gemma la Cresima. La mamma Aurelia muore nel settembre del 1886. Un altro grande dolore per Gemma fu la morte del fratello Gino, seminarista, avvenuta nel 1894, ad appena 18 anni. Nel 1895 Gemma riceve l'ispirazione a seguire impegno e decisione la via della croce, quale itinerario cristiano. Gemma ha alcune visioni del suo angelo custode che le ricorda che i gioielli di una sposa del crocifisso sono la croce e le spine.

L'11 novembre 1897 muore anche il padre di Gemma, Enrico, e le misere condizioni della famiglia, la obblifano a lasciare la casa di via S. Giorgio per quella di via del Biscione, 13 (oggi via S. Gemma 23). Gemma trascorre un periodo a Camaiore, presso la zia che l’aveva voluta con sé dopo la morte del babbo, ma nell’autunno 1899 si ammala gravemente e ritorna in famiglia. I mesi invernali segnano grandi sofferenze per tutti e le ristrettezze economiche si fanno sentire penosamente sulla numerosa famiglia, oltre alle due zie Elisa ed Elena, vi sono i fratelli di Gemma, Guido, Ettore e Tonino, e le sorelle Angelina e Giulietta. Guido, il fratello maggiore, studia a Pisa e, dopo la laurea in farmacia, cerca di aiutare la famiglia lavorando presso l’ospedale di Lucca. Anche Tonino studia a Pisa con sacrificio di tutti. Nel periodo della malattia Gemma, legge la biografia del venerabile passionista Gabriele dell’Addolorata (ora santo). Gemma ha un'apparizione del venerabile che ha per lei parole di conforto.

Gemma nel frattempo matura una decisione e la sera dell’8 dicembre, festa dell’Immacolata, fa voto di verginità. Nella notte seguente il venerabile Gabriele le appare nuovamente chiamandola "sorella mia" e porgendole a baciare il segno dei passionistiche gli posa sul petto. Nel mese di gennaio nonstante le terapie mediche, la malattia di Gemma, osteite delle vertebre lombari con ascesso agli inguini, si aggrava fino alla paralisi delle gambe. Ad aggravare la situazione, il 28 gennaio si manifesta anche un’otite purulenta con partecipazione della mastoide. Proprio in quei giorni, il fratello Guido si trasferisce a Bagni di San Giuliano dove ha ottenuto una farmacia. Gemma è confortata dalle visioni del venerabile Gabriele e del suo angelo custode, ma è tentata dal demonio, che riesce a vincere con l'aiuto del venerabile Gabriele, ormai sua guida spirituale. Il 2 febbraio i medici la danno per spacciata, secondo loro non supererà la notte, ma Gemma trascorre le giornate in preghiera, tra indicibili sofferenze.

Il 3 marzo è il primo venerdì del mese e la giovane ha terminato una novena in onore della beata Margherita Maria Alacoque (ora santa) e si accostò all'eucarestia, quando avvenne la guarigione miracolosa. Il 23 dello stesso mese, tornata a casa dopo l’Eucaristia, Gemma ha una visione del venerabile Gabriele, che le indica il Calvario come meta finale. Il 30 marzo, Giovedì Santo, Gemma è in preghiera, compie l’«Ora Santa» in unione a Gesù nell’Orto degli Ulivi, e Gesù a un tratto le appare ferito e insanguionato. Nell’aprile seguente, preoccupata di non sapere amare Gesù, Gemma si trova nuovamente davanti al Crocifisso e ne ascolta parole di amore: Gesù ci ha amati fino alla morte in Croce, è la sofferenza che insegna ad amare. L'8 giugno, dopo essersi accostata all'Eucarestia, Gesù le appare annunciandole una grazia grandissima. Gemma, sente il peso dei peccati, ma ha una visione di Maria, dell'angelo custode e di Gesù, Maria nel nome di suo Figlio li rimette i peccati e la chiama alla sua missione Dalle ferite di Gesù non usciva più sangue, ma fiamme che vnnero a toccare le mani, i piedi e il cuore di Gemma. Gemma si sentiva come morire, stava per cadere in terra, ma Maria la sorreggeva e quindi la baciò in fronte. Gemma si trovò in ginocchio a terra con un forte dolore alle mani, ai piedi e al cuore, dove usciva del sangue. Quei dolori però anziché affliggerla gli davano una pace perfetta. La mattina successiva si recò all'Eucarestia, coprendo le mani con un paio di guanti. I dolori le durarono fino alle ore 15 del venerdì, festa solenne del Sacro Cuore di Gesù». Da quella sera, ogni settimana Gesù chiamò Gemma ad essergli collaboratrice nell’opera della salvezza, unendola a tutte le Sue sofferenze fisiche e spirituali. questa grazia grandissima fu motivo per Gemma di ineffabili gioie e di profondi dolori. In casa vi fu perplessità e incredulità per quanto avveniva, Gemma era spesso rimproverata dalle zie e dai fratelli, talvolta veniva derisa e canzonata dalle sorelle, ma Gemma taceva e attendeva. Nei mesi estivi conosce i Passionisti impegnati nella Missione popolare in Cattedrale e da uno di essi viene introdotta in casa Giannini. Gemma conosceva già la signora Cecilia, ma frequentandola nella casa di via del Seminario, inizia una vera e profonda amicizia con quella che le sarà come una seconda madre.

Nel gennaio del 1900, Gemma comincerà a scrivere a padre Germano, il sacerdote passionista che avrebbe riconosciuto in lei l’opera di Dio e nel settembre successivo lo incontrerà personalmente. Sempre in settembre, Gemma lascia definitivamente la sua famiglia per andare ad abitare in casa Giannini, tornerà alla sua casa solo in rare occasioni per consolare la sorella Giulietta quando sofferente. Nel maggio del 1902 Gemma si ammala nuovamente, si riprende, ma ha una ricaduta in ottobre. Nel frattempo muiono la sorella Giulia (19 agosto) e il fratello Tonino (21 ottobre). Il 24 gennaio 1903, per ordine dei medici, la famiglia Giannini deve trasferire Gemma in un appartamento affittato dalla zia Elisa, Gemma vive così l’esperienza dell’abbandono di Gesù in croce e del silenzio di Dio. E’ fortemente tentata dal demonio, ma non smarrisce mai la fede, non perde mai la pazienza ed è sempre piena di amore e di riconoscenza verso chi l'assiste nella malattia. Al mezzogiorno dell’11 aprile 1903, Sabato Santo, come si usava allora, le campane aveano annunziato la risurrezione del Signore e alle 13.45, Gemma si addormenta nel Signore, assistita amorevolmente dai Giannini. Il 14 maggio 1933 papa Pio XI annovera Gemma Galgani fra i Beati della Chiesa. Il 2 maggio 1940 papa Pio XII, riconoscendo la pratica eroica delle sue virtù cristiane, innalza Gemma Galgani alla gloria dei Santi e la addita a modello della Chiesa universale.

La data di culto per la Chiesa universale è l'11 aprile, mentre la Famiglia Passionista e la diocesi di Lucca la celebrano il 16 maggio.


Autore: Maurizio Misinato

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12/04/2017 09:34
 
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San Giuseppe Moscati Laico

12 aprile (16 novembre)


Benevento, 25 luglio 1880 - Napoli, 12 aprile 1927



Originario di Serino di Avellino, nacque a Benevento nel 1880, ma visse quasi sempre a Napoli, la «bella Partenope», come amava ripetere da appassionato di lettere classiche. Si iscrisse a medicina «unicamente per poter lenire il dolore dei sofferenti». Da medico seguì la duplice carriera sopra delineata. In particolare salvò alcuni malati durante l'eruzione del Vesuvio del 1906; prestò servizio negli ospedali riuniti in occasione dell'epidemia di colera del 1911; fu direttore del reparto militare durante la grande guerra. Negli ultimi dieci anni di vita prevalse l'impegno scientifico: fu assistente ordinario nell'istituto di chimica fisiologica; aiuto ordinario negli Ospedali riuniti; libero docente di chimica fisiologica e di chimica medica. Alla fine gli venne offerto di diventare ordinario, ma rifiutò per non dover abbandonare del tutto la prassi medica. «Il mio posto è accanto all'ammalato!». In questo servizio integrale all'uomo Moscati morì il 12 aprile del 1927. Straordinaria figura di laico cristiano, fu proclamato santo da Giovanni Paolo II nel 1987 al termine del sinodo dei vescovi «sulla Vocazione e Missione dei laici nella Chiesa».

Etimologia: Giuseppe = aggiunto (in famiglia), dall'ebraico


Martirologio Romano: A Napoli, san Giuseppe Moscati, che, medico, mai venne meno al suo servizio di quotidiana e infaticabile opera di assistenza ai malati, per la quale non chiedeva alcun compenso ai più poveri, e nel prendersi cura dei corpi accudiva al tempo stesso con grande amore anche le anime.



Ascolta da RadioVaticana:





Giuseppe Moscati fu uno dei medici più conosciuti della Napoli d’inizio Novecento. Per la sua capacità di coniugare scienza e fede, è riconosciuto come Santo dalla Chiesa cattolica a partire dal 1987. Ancora oggi riceve visite da persone di ogni parte del mondo, non solo per le infermità fisiche, ma anche per i mali che colpiscono l’animo degli uomini del nostro tempo.
Contrariamente a quanto si possa credere, non nacque a Napoli, ma a Benevento, il 25 luglio 1890, da Francesco Moscati, magistrato, e Rosa de Luca; fu il settimo dei loro nove figli. Si trasferì nel capoluogo campano quando aveva quattro anni, dopo una breva permanenza ad Ancona, per via del lavoro del padre.
L’8 dicembre 1888 ricevette la Prima Comunione da monsignor Enrico Marano nella chiesa delle Ancelle del Sacro Cuore, fondate da santa Caterina Volpicelli. Studiò presso il liceo «Vittorio Emanuele»; dopo il conseguimento del diploma di maturità classica, nel 1897, iniziò gli studi universitari presso la facoltà di Medicina. Il motivo di quella scelta, di rottura rispetto alla tradizione familiare (oltre al padre, anche suo nonno paterno e due fratelli avevano studiato Giurisprudenza), è forse dovuto al fatto che, dalla finestra della nuova abitazione, poteva osservare l’Ospedale degli Incurabili, che suo padre gl’indicava suggerendogli sentimenti di pietà per i pazienti ricoverati.
Il primo ammalato con cui ebbe a che fare suo fratello Alberto, il quale, caduto da cavallo, subì un trauma cranico, che gli produsse una forma di epilessia. Quest’evento persuase il giovane da una parte della brevità della vita umana, dall’altra di doversi dedicare interamente alla professione medica. Nel frattempo, il 2 marzo 1898, fu cresimato da monsignor Pasquale de Siena, vescovo ausiliare del cardinal Sanfelice, arcivescovo di Napoli.
All’epoca la facoltà di Medicina, insieme a quella di Filosofia, era quella più influenzata dalle dottrine del materialismo. Tuttavia Giuseppe se ne tenne a distanza, concentrandosi sulla preparazione degli esami. Concluse gli studi il 4 agosto 1903 con una tesi sull’urogenesi epatica, laureandosi col massimo dei voti.
Nemmeno tre anni dopo, iniziò a emergere la sua capacità di agire tempestivamente: dopo aver assistito alle prime fasi dell’eruzione del Vesuvio dell’8 aprile 1906, si precipitò a Torre del Greco, dove gli Ospedali Riuniti di Napoli avevano una sede distaccata, e trasmise l’ordine di sgombero, caricando personalmente i pazienti, molti dei quali paralitici, sugli automezzi che li avrebbero condotti in salvo. Appena l’ultimo paziente fu sistemato, il tetto dell’ospedale crollò. Per sé il giovane medico non volle encomi, ringraziando invece il resto del personale, a suo dire più meritevole. Nell’epidemia di colera del 1911 fu invece incaricato di effettuare ricerche sull’origine dell’epidemia: i suoi consigli su come contenerla contribuirono a limitarne i danni.
Tra gli elogi che arrivavano da parte del mondo accademico, gli giunse anche la vittoria in un importante concorso, che lo inserì a pieno titolo nell’attività dell’Ospedale degli Incurabili. Portava avanti in parallelo l’esercizio della professione e la libera docenza universitaria. Furono numerose anche le sue pubblicazioni su riviste di settore e le partecipazioni a congressi medici internazionali.
Un insegnamento di rilievo gli veniva dalle autopsie, nelle quali era tanto abile che, nel 1925, accettò di dirigere l’Istituto di anatomia patologica. Un giorno convocò i suoi assistenti nella sala delle autopsie per mostrare loro non un caso clinico, ma la vittoria della vita sulla morte: «Ero mors tua, o mors», come diceva un cartello sovrastato da un crocifisso, fatto sistemare da lui su una delle pareti. In altri casi, mentre esaminava i cadaveri, fu udito affermare che la morte aveva qualcosa d’istruttivo.
Non che fosse un personaggio cupo, tutt’altro. I suoi parenti e colleghi testimoniarono che dalla sua persona promanava un fascino distinto, che lo rendeva di buona compagnia. Era anche molto attento alla natura, all’arte e alla storia antica, come si evince dal racconto di un viaggio in Sicilia. Non si concedeva altri svaghi come andare a teatro o al cinema e non aveva neppure un’automobile sua, preferendo spostarsi a piedi o coi mezzi pubblici, anche sulla lunga distanza.
Erano tutti modi con cui si esercitava a conservarsi sobrio e povero, come gli ammalati che prediligeva visitare. Numerosi sono i racconti di pazienti che si videro recapitare indietro la somma con cui l’avevano pagato, anche se ne aveva diritto essendo venuto da lontano. I poveri, per lui, erano «le figure di Gesù Cristo, anime immortali, divine, per le quali urge il precetto evangelico di amarle come noi stessi». Viene quasi alla mente l’espressione che papa Francesco ha più volte pronunciato, definendoli “carne di Cristo”, quindi scendendo nel concreto della corporeità e del dolore. Il dottor Moscati insegnava a trattare questa manifestazione «non come un guizzo o una contrazione muscolare, ma come il grido di un’anima, a cui un altro fratello, il medico, accorre con l’ardenza dell’amore, la carità».
E proprio la carità era, secondo lui, la vera forza capace di cambiare il mondo, come scrisse nel 1922 al dottor Antonio Guerricchio, un tempo suo assistente: «Non la scienza, ma la carità ha trasformato il mondo, in alcuni periodi; e solo pochissimi uomini son passati alla storia per la scienza; ma tutti potranno rimanere imperituri, simbolo dell'eternità della vita, in cui la morte non è che una tappa, una metamorfosi per un più alto ascenso, se si dedicheranno al bene».
Nel dottor Moscati la scienza era compenetrata da un’acuta capacità diagnostica, tanto più sorprendente se si pensa che, alla sua epoca, erano sicuramente noti i raggi X, ma non le tecniche con le quali oggi s’indaga l’interno degli organi, come la TAC o altre. I sintomi che altri riconducevano a malattie di un certo tipo erano da lui riferiti a cause di natura diversa, per le quali disponeva terapie il più delle volte benefiche. Oltre ai suoi prediletti, ebbe due pazienti celebri: il tenore Enrico Caruso, a cui rivelò – dopo essere stato tardivamente consultato – la vera natura del male che lo condusse alla morte, e il fondatore del santuario della Madonna del Rosario di Pompei, il Beato Bartolo Longo.
Tutte queste doti traevano la propria sorgente dall’Eucaristia, che riceveva quotidianamente, in particolare nella chiesa del Gesù Nuovo, non molto lontana dalla sua abitazione, in via Cisterna dell’Olio 10, dove viveva con la sorella Anna, detta Nina. Grande era anche la sua devozione alla Vergine Maria, sul cui esempio decise, nel pieno della maturità, di rimanere celibe, ma senza farsi religioso come san Riccardo Pampuri né diventare sacerdote, scelta che invece compì, a quarantacinque anni, il Servo di Dio Eustachio Montemurro. Qualcuno ha sospettato che fosse, per usare un eufemismo, incapace alla riproduzione o che avesse qualche tratto di misoginia. In realtà non si riteneva incline al matrimonio, che invece esortava ad abbracciare ai suoi giovani allievi: inoltre, se avesse preso moglie, non sarebbe più stato libero di visitare i suoi poveri.
La morte lo colse per infarto al culmine di una giornata come tante, verso le 15 del 12 aprile 1927. La poltrona dove si sedette, poco dopo aver applicato a se stesso la capacità diagnostica che aveva salvato tanti, è conservata ancora oggi, come tanti altri suoi oggetti, nella chiesa del Gesù Nuovo, grazie all’intervento della sorella Nina.
I padri Gesuiti, a cui è tuttora affidato il Gesù Nuovo, non raccolsero solo la sua eredità materiale, ma si fecero custodi del suo ricordo e seguirono l’aumento della sua fama di santità. La sua causa di beatificazione si è quindi svolta nella diocesi di Napoli a partire dal 1931. Dichiarato Venerabile il 10 maggio 1973, è stato beatificato a Roma dal Beato Paolo VI il 16 novembre 1975.
A seguito del riconoscimento di un ulteriore miracolo per sua intercessione, dopo i due necessari per farlo Beato secondo la legislazione dell’epoca, è stato canonizzato da san Giovanni Paolo II il 25 ottobre 1987. In quel periodo si stava svolgendo la VII Assemblea generale del Sinodo dei Vescovi su «Vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo a vent’anni dal Concilio Vaticano II»: non poteva esserci occasione migliore per indicarlo alla venerazione dei cattolici di tutto il mondo.
Il 16 novembre del 1930 i suoi resti vennero trasferiti dalla cappella dei Pellegrini nel cimitero di Poggioreale alla chiesa del Gesù Nuovo e collocati nel lato destro della cappella di san Francesco Saverio. Sempre il 16 novembre, ma del 1977, quindi due anni dopo la beatificazione, vennero posti sotto l’altare della cappella della Visitazione, a seguito della ricognizione canonica.


Autore: Emilia Flocchini

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17/04/2017 08:48
 
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Sant’ Acacio di Militene Vescovo

17 aprile


† 435 circa

Etimologia: Acacio = Acazio, Achazia "il Signore tiene", dall'ebraico


Martirologio Romano: A Melitene nell’antica Armenia, sant’Acacio, vescovo, che, per aver difeso la retta fede nel Concilio di Efeso contro Nestorio, fu ingiustamente deposto dalla sua sede.







L’anacoreta Sant’Eutimio narra che Acacio era lettore presso la chiesa di Melitene in Armenia. Nato da una ricca famiglia ed educato da insigni maestri e letterati, il vescovo Otrea lo nominò precettore dello stesso Eutimio, poi autore della “passio” del santo. Prima del Concilio di Efeso (431), al quale prese parte militando fra gli antinestoriani, Acacio fu elevato all’episcopato. Il santo vescovo era legato da amicizia a Nestorio, ma era però evidente come le posizioni di Cirillo d’Alessandria fossero dettate da piena aderenza all’ortodossia piuttosto che dall’antica rivalità fra la sede di Alessandria e quelle di Costantinopoli ed Antiochia. Acacio ebbe comunque anche da ridire circa le ambigue posizioni tenute da Giovanni di Antiochia.
Acacio fu prescelto insieme ad altri sette per essere legato presso l’imperatore Teodosio II e riferirgli circa le mene degli antiocheni, che a loro volta non esitarono a respingere e rivolgere le medesime accuse allo stesso Acacio. In realtà questi mantenne sempre una chiara opposizione alle teorie nestoriane e, per aver partecipato alla consacrazione del successore di Nestorio alla sede costantinopolitana, Giovanni di Antiochia lo fece deporre da Melitene. Quest’ultimo si riconciliò infine con Cirillo d’Alessandria, ma Acacio mantenette una posizione di aperta intransigenza.
Verso il 435, l’ex-vescovo di Melitene continuava a lamentare la velenosa sopravvivenza dell’eresia nestoriana, ufficialmente tramontata e decise di combattere Teodoro di Mopsuestia, appoggiato da Rabbula di Edessa, inviando lettere ai vescovi d’Armenia circa la condotta da tenere. Pare che comunque il santo non partecipò alle controversie monofisite. Secondo Filartete, vescovo di Cernicov, Acacio sarebbe morto nel 435, ma probabilmente anche più tardi, ma in ogni caso prima del 449, quando salì sulla cattedra episcopale di Melitene il suo successore Costantino. Nel 449 al concilio di Melitene Sant’Acacio fu commemorato quale “nostro padre e nostro dottore”.


Autore: Fabio Arduino

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18/04/2017 09:50
 
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San Lasreano o Molasso Abate

18 aprile


m. 638

Martirologio Romano: A Leighlin in Irlanda, san Láisren o Molaise, abate, che diffuse pacificamente nell’isola il rito romano della celebrazione pasquale.

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19/04/2017 22:55
 
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Santa Marta di Persia Vergine e martire

19 aprile


m. 341

Martirologio Romano: In Persia, santa Marta, vergine e martire, che il giorno dopo l’uccisione di suo padre Pusicio, quello della Risurrezione del Signore, sotto il re Sabor II subì il martirio.

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20/04/2017 09:09
 
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San Donnino di Digne Vescovo

20 aprile




Emblema: Bastone pastorale








Ci è noto dalla Vita di s. Marcellino di Embrun. Venuto dall'Africa con Marcellino e Vincenzo, Donnino sbarcò a Nizza ed evangelizzò le Alpi Marittime. Marcellino divenne vescovo di Embrun verso il 362 ed inviò Donnino a predicare a Digne, di cui, sembra, lo consacrò vescovo dopo il 364. Alcuni ne pongono l'episcopato dal 313 al 340: il che è difficilmente ammissibile, non conciliandosi con la storia di s. Marcellino. Donnino fu dunque il primo vescovo di Digne ed edificò in questa città una chiesa alla Vergine. E' menzionato nel Martirologio Romano il 20 aprile. La sua festa si celebra a Digne il 13 febbraio, data in cui nel passato era commemorato anche ad Embrun.


Autore: Gilbert Bataille

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21/04/2017 10:14
 
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Sant' Aristo Sacerdote e martire

21 aprile




Martirologio Romano: Ad Alessandria d’Egitto, sant’Aristo, sacerdote e martire.

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22/04/2017 09:18
 
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San Leonida Martire, padre di Origene

22 aprile




Etimologia: Leonida = simile al leone, forte, dal greco


Emblema: Palma


Martirologio Romano: Ad Alessandria d’Egitto, commemorazione di san Leonida, martire, che sotto l’imperatore Settimio Severo fu trafitto con la spada per la fede in Cristo, lasciando Origene, suo figlio, ancora bambino.







L'editto di Settimio Severo, come dice Clemente Alessandrino, riempí l'Egitto di martiri: tra questi Eusebio nomina Leonida che ebbe il capo troncato nel 204, lasciando orfani sette figli, il maggiore dei quali, appunto Origene, aveva appena diciassette anni.
Nel narrare la vita di quest'ultimo poi, il medesimo storico si sofferma lungamente a descrivere le cure con le quali Leonida educò il figlio allo studio della S. Scrittura prima che a quello delle lettere, come ringraziasse Iddio di aver avuto un figlio cosí precocemente entusiasta di quegli studi, come riconoscesse la mano di Dio nel fanciullo, e di notte, quando questi dormiva, si soffermasse a baciargli il petto quasi fosse un sacrario dello Spirito Santo. Lo stesso Eusebio ci ha conservato un frammento della lettera che il figlio diciassettenne gli inviò in prigione per esortarlo al martirio.
Nella letteratura agiografica greca, il nome di Leonida, padre di Origene, appare in mezzo ad un gruppo di dieci martiri celebrati il 5 giugno: ma le cose che si raccontano di essi sono frutto piú di immaginazione che di indagine storica. Chi forgiò quelle tradizioni non immaginò che quel Leonida fosse appunto il padre di Origene di cui parlava già Eusebio. Il Martirologio Romano, invece, celebra Leonida al 22 aprile, giacché il Baronio credette di ravvisare il nome del nostro nel Geronimiano a questa data, dove invece è celebrato l'omonimo martire di Corinto.


Autore: Giovanni Lucchesi

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23/04/2017 09:23
 
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San Giorgio Martire di Lydda

23 aprile - Memoria Facoltativa


>>> Visualizza la Scheda Completa

Cappadocia sec. III - † Lydda (Palestina), 303 ca.



Giorgio, il cui sepolcro è a Lidda (Lod) presso Tel Aviv in Israele, venne onorato, almeno dal IV secolo, come martire di Cristo in ogni parte della Chiesa. La tradizione popolare lo raffigura come il cavaliere che affronta il drago, simbolo della fede intrepida che trionfa sulla forza del maligno. La sua memoria è celebrata in questo giorno anche nei riti siro e bizantino. (Mess. Rom.)

Patronato: Arcieri, Cavalieri, Soldati, Scout, Esploratori/Guide AGESCI


Etimologia: Giorgio = che lavora la terra, dal greco


Emblema: Drago, Palma, Stendardo


Martirologio Romano: San Giorgio, martire, la cui gloriosa lotta a Diospoli o Lidda in Palestina è celebrata da tutte le Chiese da Oriente a Occidente fin dall’antichità.



Ascolta da RadioVaticana:
Ascolta da RadioRai:
Ascolta da RadioMaria:





Per avere un’idea del diffusissimo culto che il santo cavaliere e martire Giorgio, godé in tutta la cristianità, si danno alcuni dati. Nella sola Italia vi sono ben 21 Comuni che portano il suo nome; Georgia è il nome di uno Stato americano degli U.S.A. e di una Repubblica caucasica; sei re di Gran Bretagna e Irlanda, due re di Grecia e altri dell’Est europeo, portarono il suo nome.
È patrono dell’Inghilterra, di intere Regioni spagnole, del Portogallo, della Lituania; di città come Genova, Campobasso, Ferrara, Reggio Calabria e di centinaia di altre città e paesi. Forse nessun santo sin dall’antichità ha riscosso tanta venerazione popolare, sia in Occidente che in Oriente; chiese dedicate a s. Giorgio esistevano a Gerusalemme, Gerico, Zorava, Beiruth, Egitto, Etiopia, Georgia da dove si riteneva fosse oriundo; a Magonza e Bamberga vi erano delle basiliche; a Roma vi è la chiesa di S. Giorgio al Velabro che custodisce la reliquia del cranio del martire palestinese; a Napoli vi è la basilica di S. Giorgio Maggiore; a Venezia c’è l’isola di S. Giorgio.
Vari Ordini cavallereschi portano il suo nome e i suoi simboli, fra i più conosciuti: l’Ordine di S. Giorgio, detto “della Giarrettiera”; l’Ordine Teutonico, l’Ordine militare di Calatrava d’Aragona; il Sacro Ordine Costantiniano di S. Giorgio, ecc.
È considerato il patrono dei cavalieri, degli armaioli, dei soldati, degli scouts, degli schermitori, della Cavalleria, degli arcieri, dei sellai; inoltre è invocato contro la peste, la lebbra e la sifilide, i serpenti velenosi, le malattie della testa, e particolarmente nei paesi alle pendici del Vesuvio, contro le eruzioni del vulcano.
Il suo nome deriva dal greco ‘gheorgós’ cioè ‘agricoltore’ e lo troviamo già nelle ‘Georgiche’ di Virgilio e fu portato nei secoli da persone celebri in tutti i campi, oltre a re e principi, come Washington, Orwell, Sand, Hegel, Gagarin, De Chirico, Morandi, il Giorgione, Danton, Vasari, Byron, Simenon, Bernanos, Bizet, Haendel, ecc.
In Italia è diffuso anche il femminile Giorgia, Giorgina; in Francia è Georges; in Inghilterra e Stati Uniti, George; Jörg e Jürgens in Germania; Jorge in Spagna e Portogallo; Gheorghe in Romania; Yorick in Danimarca; Yuri in Russia. La Chiesa Orientale lo chiama il “Megalomartire” (il grande martire).
Detto tutto questo, si può capire come il suo culto così diffuso in tutti i secoli, abbia di fatto superato le perplessità sorte in seno alla Chiesa, che in mancanza di notizie certe e comprovate sulla sua vita, nel 1969 lo declassò nella liturgia ad una memoria facoltativa; i fedeli di ogni luogo dove è venerato, hanno continuato comunque a tributargli la loro devozione millenaria.
La sua figura è avvolta nel mistero, da secoli infatti gli studiosi cercano di stabilire chi veramente egli fosse, quando e dove sia vissuto; le poche notizie pervenute sono nella “Passio Georgii” che il ‘Decretum Gelasianum’ del 496, classifica tra le opere apocrife (supposte, non autentiche, contraffatte); inoltre in opere letterarie successive, come “De situ terrae sanctae” di Teodoro Perigeta del 530 ca., il quale attesta che a Lydda (Diospoli) in Palestina, oggi Lod presso Tel Aviv in Israele, vi era una basilica costantiniana, sorta sulla tomba di san Giorgio e compagni, martirizzati verosimilmente nel 303, durante la persecuzione di Diocleziano (detta basilica era già meta di pellegrini prima delle Crociate, fino a quando il sultano Saladino (1138-1193) la fece abbattere).
La notizia viene confermata anche da Antonino da Piacenza (570 ca.) e da Adamnano (670 ca) e da un’epigrafe greca, rinvenuta ad Eraclea di Betania datata al 368, che parla della “casa o chiesa dei santi e trionfanti martiri Giorgio e compagni”.
I documenti successivi, che sono nuove elaborazioni della ‘passio’ leggendaria sopra citata, offrono notizie sul culto, ma sotto l’aspetto agiografico non fanno altro che complicare maggiormente la leggenda, che solo tardivamente si integra dell’episodio del drago e della fanciulla salvata da s. Giorgio.
La ‘passio’ dal greco, venne tradotta in latino, copto, armeno, etiopico, arabo, ad uso delle liturgie riservate ai santi; da essa apprendiamo come già detto senza certezze, che Giorgio era nato in Cappadocia ed era figlio di Geronzio persiano e Policronia cappadoce, che lo educarono cristianamente; da adulto divenne tribuno dell’armata dell’imperatore di Persia Daciano, ma per alcune recensioni si tratta dell’armata di Diocleziano (243-313) imperatore dei romani, il quale con l’editto del 303, prese a perseguitare i cristiani in tutto l’impero.
Il tribuno Giorgio di Cappadocia allora distribuì i suoi beni ai poveri e dopo essere stato arrestato per aver strappato l’editto, confessò davanti al tribunale dei persecutori, la sua fede in Cristo; fu invitato ad abiurare e al suo rifiuto, come da prassi in quei tempi, fu sottoposto a spettacolari supplizi e poi buttato in carcere. Qui ha la visione del Signore che gli predice sette anni di tormenti, tre volte la morte e tre volte la resurrezione.
E qui la fantasia dei suoi agiografi, spazia in episodi strabilianti, difficilmente credibili: vince il mago Atanasio che si converte e martirizzato; viene tagliato in due con una ruota piena di chiodi e spade; risuscita operando la conversione del ‘magister militum’ Anatolio con tutti i suoi soldati che vengono uccisi a fil di spada; entra in un tempio pagano e con un soffio abbatte gli idoli di pietra; converte l’imperatrice Alessandra che viene martirizzata; l’imperatore lo condanna alla decapitazione, ma Giorgio prima ottiene che l’imperatore ed i suoi settantadue dignitari vengono inceneriti; promette protezione a chi onorerà le sue reliquie ed infine si lascia decapitare.
Il culto per il martire iniziò quasi subito, come dimostrano i resti archeologici della basilica eretta qualche anno dopo la morte (303?) sulla sua tomba nel luogo del martirio (Lydda); la leggenda del drago comparve molti secoli dopo nel Medioevo, quando il trovatore Wace (1170 ca.) e soprattutto Jacopo da Varagine († 1293) nella sua “Leggenda Aurea”, fissano la sua figura come cavaliere eroico, che tanto influenzerà l’ispirazione figurativa degli artisti successivi e la fantasia popolare.
Essa narra che nella città di Silene in Libia, vi era un grande stagno, tale da nascondere un drago, il quale si avvicinava alla città, e uccideva con il fiato quante persone incontrava. I poveri abitanti gli offrivano per placarlo, due pecore al giorno e quando queste cominciarono a scarseggiare, offrirono una pecora e un giovane tirato a sorte.
Un giorno fu estratta la giovane figlia del re, il quale terrorizzato offrì il suo patrimonio e metà del regno, ma il popolo si ribellò, avendo visto morire tanti suoi figli, dopo otto giorni di tentativi, il re alla fine dovette cedere e la giovane fanciulla piangente si avviò verso il grande stagno.
Passò proprio in quel frangente il giovane cavaliere Giorgio, il quale saputo dell’imminente sacrificio, tranquillizzò la principessina, promettendole il suo intervento per salvarla e quando il drago uscì dalle acque, sprizzando fuoco e fumo pestifero dalle narici, Giorgio non si spaventò, salì a cavallo e affrontandolo lo trafisse con la sua lancia, ferendolo e facendolo cadere a terra.
Poi disse alla fanciulla di non avere paura e di avvolgere la sua cintura al collo del drago; una volta fatto ciò, il drago prese a seguirla docilmente come un cagnolino, verso la città. Gli abitanti erano atterriti nel vedere il drago avvicinarsi, ma Giorgio li rassicurò dicendo: ”Non abbiate timore, Iddio mi ha mandato a voi per liberarvi dal drago: Abbracciate la fede in Cristo, ricevete il battesimo e ucciderò il mostro”.
Allora il re e la popolazione si convertirono e il prode cavaliere uccise il drago facendolo portare fuori dalla città, trascinato da quattro paia di buoi. La leggenda era sorta al tempo delle Crociate, influenzata da una falsa interpretazione di un’immagine dell’imperatore cristiano Costantino, trovata a Costantinopoli, dove il sovrano schiacciava col piede un drago, simbolo del “nemico del genere umano”.
La fantasia popolare e i miti greci di Perseo che uccide il mostro liberando la bella Andromeda, elevarono l’eroico martire della Cappadocia a simbolo di Cristo, che sconfigge il male (demonio) rappresentato dal drago. I crociati accelerarono questa trasformazione del martire in un santo guerriero, volendo simboleggiare l’uccisione del drago come la sconfitta dell’Islam; e con Riccardo Cuor di Leone (1157-1199) san Giorgio venne invocato come protettore da tutti i combattenti.
Con i Normanni il culto del santo orientale si radicò in modo straordinario in Inghilterra e qualche secolo dopo nel 1348, re Edoardo III istituì il celebre grido di battaglia “Saint George for England”, istituendo l’Ordine dei Cavalieri di San Giorgio o della Giarrettiera.
In tutto il Medioevo la figura di s. Giorgio, il cui nome aveva tutt’altro significato, cioè ‘agricoltore’, divenne oggetto di una letteratura epica che gareggiava con i cicli bretone e carolingio. Nei Paesi slavi assunse la funzione addirittura ‘pagana’ di sconfiggere le tenebre dell’inverno, simboleggiate dal drago e quindi di favorire la crescita della vegetazione in primavera; una delle tante metamorfosi leggendarie di quest’umile martire, che volle testimoniare in piena libertà, la sua fede in Cristo, soffrendo e donando infine la sua giovane vita, come fecero in quei tempi di sofferenza e sangue, tanti altri martiri di ogni età, condizione sociale e in ogni angolo del vasto impero romano.
San Giorgio è onorato anche dai musulmani, che gli diedero l’appellativo di ‘profeta’. Enrico Pepe sacerdote, nel suo volume ‘Martiri e Santi del Calendario Romano’, conclude al 23 aprile giorno della celebrazione liturgica di s. Giorgio, con questa riflessione: “Forse la funzione storica di questi santi avvolti nella leggenda è di ricordare al mondo una sola idea, molto semplice ma fondamentale, il bene a lungo andare vince sempre il male e la persona saggia, nelle scelte fondamentali della vita, non si lascia mai ingannare dalle apparenze”.


Autore: Antonio Borrelli

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24/04/2017 09:17
 
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Santi 3 Martiri Mercedari di Parigi

24 aprile


† Parigi, XVI secolo

A Parigi, tre Santi mercedari che difendevano la fede cattolica con la predicazione e la santità della loro vita, vennero crudelmente uccisi dagli eretici Ugonotti e vittoriosi raggiunsero la grande schiera dei martiri nel regno celeste.
L’Ordine li festeggia il 24 aprile.

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25/04/2017 08:57
 
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San Pasicrate e Valenzio Martiri

25 aprile




Martirologio Romano: A Silistra in Mesia, nell’odierna Bulgaria, santi Pasícrate e Valenzione, martiri, che, per aver professato Cristo come unico Dio, porsero coraggiosamente il collo alla spada.

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26/04/2017 10:09
 
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Santo Stefano di Perm Vescovo

26 aprile


Velikiy Ustyug, Russia, 1340/1345 - Mosca, Russia, 26 aprile 1396

Nel monastero della Trasfigurazione di Mosca, in Russia, ricorre oggi l’anniversario della morte di Santo Stefano, vescovo di Perm. Evangelizzò gli indigeni, si industriò nel cercare nuove forme per i caratteri dell’alfabeto, celebrò la liturgia in lingua volgare, distrusse i falsi idoli, costruì chiese e confermò soprattutto la verità della fede. Fu canonizzato dalla Chiesa Ortodossa Russa e, riconosciuto ciò da parte cattolica, è commemorato anche dal Martyrologium Romanum.

Martirologio Romano: Nel monastero della Trasfigurazione a Mosca in Russia, deposizione di santo Stefano, vescovo di Perm, che per evangelizzare gli indigeni Zyrjani ideò per loro un alfabeto, celebrò la liturgia nella loro lingua nativa, abbattè gli idoli, costruì chiese e soprattutto confermò le verità di fede.







Contemporaneo e amico del celebre San Sergio di Radonez, Stefano nacque tra in 1340 ed il 1345 nella cittadina russa di Velikiy Ustyug, nella zona dei monti Urali a nord est di Mosca in un’area abitata dal popolo zyryani (o permyak), prevalentemente ancora pagani. La sua famiglia, di origine russa, era cristiana: suo padre era corista nella città di Ustiug. Sin da ragazzo Stefano aveva appreso la lingua della tribù ungro-finnica degli zyryani, Dotato di un intelletto brillante, volle sfruttare i suoi talenti per diffondere la luce del Vangelo di Cristo. Divenuto monaco nel monastero di San Gregorio Nazianzeno a Rostov, vi rimase ben tredici anni, apprendendo il greco, perfezionando la conoscenza delle Sacre Scritture e delle ufficiature ecclesiastiche, elaborando un alfabeto per la lingua zyryana e traducendovi dal greco i testi sacri.
Per dare inizio al suo progetto di evangelizzazione, in spirito di obbedienza monastica, attese la benedizione episcopale, e quindi nel 1379 iniziò con zelo a percorrere la terra di Perm. I suoi successi iniziali furono in realtà deludenti, a giudicare dall’esiguo numero di seguaci, tuttavia riuscì a edificare per loro una chiesa, presso la quale avrebbe pure fondato un monastero. Iniziò così ad attrarre nuove persone, soprattutto grazie alla bellezza ed al mistero della liturgia. Abile iconografo, iniziò a decorare di persona alcune chiese.
Di fronte ai pochi zyryani che erano stati da lui convertiti e battezzati, Stefano doveva dunque fare i conti con la maggioranza della popolazione diffidente e talvolta apertamente ostile nei suoi confronti. Il punto di svolta della sua missione arrivò quando da solo incendiò un tempio pagano e ne distrusse gli idoli. Il suo amore per la verità riuscì ben presto a mutare la furia dei pagani in ammirazione, a cui seguì la conversione di quasi tutto il popolo zyryano. All’intransigenza verso il paganesimo, tuttavia, Stefano univa una profonda tolleranza per le persone, e gli ultimi pagani rimasti trovarono in lui un difensore dagli eccessi dei neoconvertiti. Stefano costruì poi altre due chiese, istruendo il popolo alla conoscenza delle Scritture e del culto, attraverso la forma scritta della lingua zyryana che lui stesso aveva ideata. Inoltre, si spese in ogni modo per la formazione e la preparazione di un clero indigeno.
A Perm iniziò a farsi sentire la necessità di un vescovo ed alla sede metropolitana di Mosca si constatò che nessuno avrebbe potuto ricoprire tale carica meglio che lo stesso evangelizzatore di quella terra: Stefano ricevette allora l’ordinazione episcopale nel 1383. Come vescovo di Perm, con il sostegno attivo del popolo Stefano si rimise all’opera con nuovo entusiasmo, fondando chiese e monasteri, insegnando, assistendo la popolazione nei momenti di maggiore necessità materiale, proteggendola dalla tassazione ingiusta imposta da ufficiali di Mosca e Novgorod e, in un’occasione, guidando una battaglia contro una tribù nemica.
Parecchie volte si recò a Mosca e durante uno dei suoi soggiorni nell’attuale capitale russa morì il 26 Aprile 1396. Ricevette degna sepoltura nel Monastero della Trasfigurazione. Sfortunatamente il lavoro da lui compiuto sulla lingua zyryan non ebbe molto successo ed il suo alfabeto non sopravvisse che in poche iscrizioni, come d’altronde fallì il tentativo di evitare l’omologazione alla cultura russa, sviluppando liturgia e cultura autoctone. Santo Stefano rimane comunque il più alto ideale di santità per i missionari russi. La sua biografia fu scritta da Epifanio il Saggio, discepolo e biografo di San Sergio di Radonez.
Nel 1549 la Chiesa Ortodossa Russa procedette alla canonizzazione di Stefano di Perm, atto riconosciuto anche da parte cattolica, che annovera il santo nel Martyrologium Romanum nell’anniversario della morte.


Autore: Fabio Arduino

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27/04/2017 07:44
 
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an Teodoro Abate

27 aprile


Sec. IV

Martirologio Romano: A Tabennési nella Tebaide in Egitto, san Teodoro, abate, che fu discepolo di san Pacomio e padre della comunità monastica.

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28/04/2017 09:46
 
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Dai «Discorsi» di san Teodoro Studita, abate

(Disc. sull'adorazione della croce; PG 99, 691-694. 695. 698-699)
La croce di Cristo, nostra salvezza

O dono preziosissimo della croce! Quale splendore appare alla vista! Tutta bellezza e tutta magnificenza. Albero meraviglioso all'occhio e al gusto e non immagine parziale di bene e di male come quello dell'Eden.
È un albero che dona la vita, non la morte, illumina e non ottenebra, apre l'adito al paradiso, non espelle da esso.
Su quel legno sale Cristo, come un re sul carro trionfale. Sconfigge il diavolo padrone della morte e libera il genere umano dalla schiavitù del tiranno.
Su quel legno sale il Signore, come un valoroso combattente. Viene ferito in battaglia alle mani, ai piedi e al divino costato. Ma con quel sangue guarisce le nostre lividure, cioè la nostra natura ferita dal serpente velenoso.
Prima venimmo uccisi dal legno, ora invece per il legno recuperiamo la vita. Prima fummo ingannati dal legno, ora invece con il legno scacciamo l'astuto serpente. Nuovi e straordinari mutamenti! Al posto della morte ci viene data la vita, invece della corruzione l'immortalità, invece del disonore la gloria.
Perciò non senza ragione esclama il santo Apostolo: «Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo» (Gal 6, 14).
Quella somma sapienza che fiorì dalla croce rese vana la superba sapienza del mondo e la sua arrogante stoltezza. I beni di ogni genere, che ci vennero dalla croce, hanno eliminato i germi della cattiveria e della malizia. All'inizio del mondo solo figure e segni premonitori di questo legno notificavano ed indicavano i grandi eventi del mondo. Stai attento, infatti tu, chiunque tu sia, che hai grande brama di conoscere. Noè non ha forse evitato per sé, per tutti i suoi familiari ed anche per il bestiame, la catastrofe del diluvio, decretata da Dio, in virtù di un piccolo legno? Pensa alla verga di Mosè. Non fu forse un simbolo della croce? Cambiò l'acqua in sangue, divorò i serpenti fittizi dei maghi, percosse il mare e lo divise in due parti, ricondusse poi le acque del mare al loro normale corso e sommerse i nemici, salvò invece coloro che erano il popolo legittimo. Tale fu anche la verga di Aronne, simbolo della croce, che fiorì in un solo giorno e rivelò il sacerdote legittimo. Anche Abramo prefigurò la croce quando legò il figlio sulla catasta di legna.
La morte fu uccisa dalla croce e Adamo fu restituito alla vita. Della croce tutti gli apostoli si sono gloriati, ogni martire ne venne coronato, e ogni santo santificato. Con la croce abbiamo rivestito Cristo e ci siamo spogliati dell'uomo vecchio. Per mezzo della croce noi, pecorelle di Cristo, siamo stati radunati in un unico ovile e siamo destinati alle eterne dimore.
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28/04/2017 09:49
 
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Beati Lucchese e Buonadonna Sposi, terziari francescani

28 aprile


Toscana, 1181 – Poggibonsi, 28 aprile 1260



Lucchese nacque presso Poggibonsi (SI) lo stesso anno di S. Francesco d’Assisi (1181). In gioventù combattè per il partito dei Guelfi; ma poi, abbandonata la vita militare, si sposò con Bona Segni e si mise a commerciare in granaglie e fare il cambiavalute approfittando dei pellegrini che si recavano a Roma lungo la via Francigena. Nell’ottobre1212 Lucchese ebbe modo di ascoltare una predica di S. Francesco a S. Gimignano e da lì iniziò la sua conversione: risarcì tutti coloro che aveva impoveriti con i suoi traffici, fece penitenza, si mise al servizio dei frati , donò tutti i suoi beni e insieme alla moglie trasformò la sua casa in ospedale. Quando S. Francesco tornò in Valdelsa, nel 1221, donò a questa coppia di sposi l’abito della Penitenza, facendone i primi Terziari francescani.

Martirologio Romano: Presso Poggibonsi in Toscana, beato Lucchese, che, dapprima avido di lucro e poi convertito vestì l’abito del Terz’Ordine dei Penitenti di San Francesco, vendette i suoi beni e li distribuì ai poveri, servendo in povertà e umiltà Dio e il prossimo secondo lo spirito del Vangelo.








Contemporaneo di S Francesco d’Assisi, Lucchese verso i 30 anni si liberò di tutte le ricchezze accumulate come mercante e scelse di fare la carità. All’inizio la moglie dubitò della sua salute mentale. Una volta stava rimproverando il marito perché, per la sua mania di regalare pane a tutti, la madia era rimasta vuota. Ma aprendola di nuovo la trovò piena di pane fresco. Dopo questo miracolo anch’essa decise di seguire il marito. Perduti i due figli in tenera età, gli sposi si dedicarono a Dio e al prossimo. S.Francesco stava percorrendo le campagne italiane e molti laici gli chiedevano di seguirlo. Anche Lucchese avrebbe voluto farsi frate e Bona unirsi a S. Chiara nel convento di S. Damiano, ma Francesco, incontratili, disse: “Siete sposati e dovrete continuare a vivere insieme. Ma vi darò una regola di vita perché possiate diventare perfetti.” Li vestì lui stesso della tunica color cenere e li cinse col cordone a più nodi, dicendo: “ Voi vivrete nel mondo come Frati Penitenti, ma non apparterrete al mondo: farete opere pie, digiunerete, predicherete la pace” La prima Regola dell’Ordine Francescano Secolare fu approvata nel 1223 da Papa Onorio III. S. Francesco aveva insediato alcuni frati del primo Ordine nell’eremo di S. Maria a Camaldo e il Comune gli cedette quel luogo. Dopo la morte del Santo essa fu ampliata su disegno di frate Elia e intitolata appunto a S. Francesco. Qui veniva a pregare Lucchese con la moglie e molte volte nella contemplazione il suo corpo restava sospeso in aria. Venduta nel 1227 anche la casa dotale della moglie e consegnato il denaro del ricavo all’ospedale di S. Giovanni, i due sposi ora avevano solo un misero alloggio vicino ad un campicello che Lucchese coltivava con le proprie mani, destinando i prodotti al nutrimento dei poveri.Una volta un prete che passava di lì gli chiese delle cipolle e Lucchese gliene diede così tante che gliene rimasero pochissime. Siccome il prete glielo fece osservare, Lucchese gli chiese di benedire ciò che era rimasto e l’indomani il misero mucchietto si era moltiplicato. Spesso Lucchese andava a raccogliere gli ammalati e li portava dove potevano essere curati. Una volta stava trasportando sulle proprie spalle un infermo, quando un giovane lo derise. Lucchese disse: “ Porto su di me Cristo sofferente “ Per punizione divina il giovane divenne muto, ma Lucchese si mise a pregare per lui e la parola gli fu restituita. Quando Lucchese stava recandosi in Maremma con un asino carico di provviste per i malati di malaria, alcuni giovinastri, avendolo visto da lontano, pensarono di derubarlo. Egli, giungendo davanti a loro, rivelò di conoscere il loro progetto, ma disse che ciò che trasportava era dei poveri e il Signore non permetteva che altri se ne appropriassero. Il 28 aprile 1260 Lucchese e Buonadonna, uniti dall’amore in terra, furono chiamati nello stesso giorno a far parte della Chiesa celeste. La moglie, inchiodata a letto dalla febbre, pregò il marito ottantenne, che già stava poco bene, di far venire il loro confessore frate ldebrando e si spensero entrambi a poche ore di distanza. Al funerale avvenne un miracolo perché, nonostante il violento acquazzone, la pioggia non bagnò né le bare, né la gente. Mentre i corpi dei due santi sposi erano esposti in chiesa ricoperti di fiori, uno della folla, chinandosi per baciare i piedi di Lucchese, di nascosto con un temperino gli recise un dito e subito dal cadavere zampillò sangue vermiglio. Il fratello di padre Ildebrando, di nome Tebaldo, era tormentato da un tumore allo stomaco, ma toccando le mani congiunte di Lucchese fu guarito. C’era un uomo poverissimo, carico di figli, che Lucchese in vita aveva protetto e ora era stato imprigionato: egli pregò il santo che aiutasse i suoi figli e subito sentì cadersi le catene ai piedi e si trovò fuori dal carcere senza che nessuno gli avesse aperta la porta. Percorse in poche ore una cinquantina di chilometri e arrivò miracolosamente a casa prima che la moglie e i figli si svegliassero. Alcune mamme per intercessione di Lucchese videro tornare in vita i loro figli, un cieco che venne ad inginocchiarsi sulla sua tomba recuperò la vista e una donna ebbe insieme alla luce degli occhi anche quella dell’anima: riconobbe i suoi peccati e si convertì. Cadde un bambino in fondo ad un pozzo e i presenti atterriti invocarono Lucchese: subito dopo videro il piccino seduto sull’acqua sostenuto dalle mani invisibili del santo. Un ragazzo che si era storto un piede, passando sulla tomba di Lucchese nella chiesa dei frati, sentì come una morsa serragli il piede e la distorsione scomparve. A Recanati era stata fatta una legge per cui chi si rendeva colpevole di omicidio doveva essere legato alla sua vittima e sepolto insieme. Ma due fratelli uscirono vivi da sotto terra, per intercessione di Lucchese da Poggibonsi. Nel 1319 fra Bartolomeo de’ Tolomei, di ritorno dal Capitolo di Marsiglia, si trovò in un vascello che stava per naufragare, ma raccomandandosi a Lucchese immediatamente la furia dei venti e del mare cessò. Nel periodo dell’accaparramento delle reliquie, sembra che i tedeschi si portassero via il corpo di Buonadonna, ma i frati fecero in tempo a staccarle un braccio e la mano sinistra. Per paura separarono la testa dal corpo di Lucchese e la conservarono in una teca. Nel 1274 Papa Gregorio X, nel recarsi al Concilio di Lione, si fermò a Poggibonsi e fece la prova del fuoco gettando la testa di Lucchese nelle fiamme di un gran braciere acceso. Ma la testa saltò fuori dal braciere e andò a posarsi sulle ginocchia del papa. Dopo questo prodigio il culto di Lucchese fu autorizzato. Nel 1581, durante i lavori di riparazione del pavimento del coro, furono ritrovate le ossa di Lucchese, il corpo fu ricomposto e deposto in un’urna sopra l’altare. Ogni anno il 28 aprile a Poggibonsi si fa una festa religiosa e popolare, la città viene benedetta dall’alto col corpo del santo patrono e la reliquia della moglie durante una processione.


Autore: Gabriella
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29/04/2017 10:53
 
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Sant' Acardo Abate

29 aprile


m. 1172

Martirologio Romano: Nell’abbazia di La Lucerne-d’Outremer nella Normandia, in Francia, sant’Acardo, vescovo di Avranches, che, un tempo abate di San Vittore a Parigi, scrisse molti trattati di vita spirituale al fine di condurre l’anima cristiana alle vette della perfezione e alla sua morte fu sepolto in questa abbazia premostratense da lui spesso frequentata.








Abate di S Vittore, poi vescovo d'Avranches. Discendente da nobile famiglia normanna, stabilitasi in Inghilterra al seguito di Guglielmo il Conquistatore nella spedizione del 1066, n. nella prima metà del sec. XII, secondo alcuni nell’isola inglese, secondo altri in Normandia presso Domfront (Orne). M. il 29 marzo 1171.
Ricevuta la prima educazione tra i canonici regolari di Bridlington (diocesi di York), passò, per perfezionarsi negli studi, a Parigi. Quivi abbracciò la vita religiosa nella novella abbazia di S. Vittore, dove l’esempio del celebre Ugo gli fu di sprone nello studio e nella virtù. Morto l’abate Gilduino (1155), gli successe quale secondo abate di S. Vittore. Nel 1157 fu eletto vescovo di Séez, ma Enrico II d’Inghilterra si oppose alla sua consacrazione perché, a quanto riferisce s. Tommaso di Canterbury, il papa Adriano IV ne aveva favorito la scelta. Nel 1161, fu nominato vescovo di Avranches. Pio e benefico, per la sua amicizia col monarca inglese ottenne molti favori per la sua diocesi e per l’intera regione di Normandia. Fu sepolto nella chiesa dell’abbazia premostratense di La Lucerne, di cui era stato il principale benefattore e di cui aveva benedetto (1164) la prima pietra.
Nelle fonti ha il titolo di maestro (magister Achardus) e il suo epitaffio lo dice famosus doctor Achardus (PL 196, 1779). Ma i suoi scritti, non ancora del tutto individuati, sono rimasti inediti.
L'abbazia di Maredsous si è assunta l'impresa dell'editio princeps, e fin dal 1899 ha raccolto i materiali necessari. In base a questi il Morin rileva il « suo genio sottile e insieme lucido, la sua ardita analisi dei misteri dell'essere umano, unita al misticismo vittorino, in un stile vivace, talora eloquente, molto più efficace dello stile scolastico dell'età posterine », e gli riconosce la paternità del trattato De discretione animae, spiritus et mentis, già falsamente attribuito ad Adamo di S. Vittore. Nel 1935 lo ha pubblicato, secondo il cod Paris. Mazar, 1002 (942), del sec. XIII, proveniente da S. Vittore. Importante è il suo trattato o sermone De abnegatione sui ipsius, detto anche, meno esattamente, De tentatione Domini in deserto, perché ha per assunto Matt. 4, I. Fine dell’autore è di condurre l'anima alla perfezione attraverso i sette gradi dell'abnegazione evangelica, che la fanno entrare come in sette deserti. Spogliandosi così di se stessa e di tutte le cose, l'anima si unisce intimamente a Dio. L'opuscolo si dirige a tutti, ma specialmente ai religiosi.
Nel Migne si hanno di A. solo due brevi Epistolae (PL 196, 1381-82). Alcune sue opere sono perdute, come il De Trinitate, di cui qualche tratto è riportato nell’Eulogium ad Alexandrum III di Giovanni di Cornovaglia (PL 199, 1054 sg.), e le Quaestiones de peccato, citate nelle Allegoriae in Novum Testamentum attribuite ad Ugo di S. Vittore (ma posteriori).
Profondo teologo, campione della dottrina tradizionale, propugna il realisrno dell'unione delle due nature in Cristo contro i nominalisti di tutte le tinte.
Erroneamente dal Vossio gli è stata attribuita la Vita B Gezzelini o Schetzelonis edita (Douai 1626) dal Raisse (cf. Acta SS. Augusti, I, Venezia 1741, pp 172-73, l75-80) probabilmente è opera del suo omonimo e contemporaneo Acardo di Clairvaux.


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30/04/2017 08:12
 
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San Gualfardo Religioso camaldolese

30 aprile


Germania XI sec. – Verona, 30 aprile 1127

San Gualfardo, sellaio di origine germanica, si ritirò a vita eremitica presso Verona, ma poi fu accolto quale oblato dai monaci camaldolesi di san Salvatore della medesima città. Giunse ai più alti fastigi della contemplazione e della santità con l’orazione ininterrotta, le veglie, i digiuni, le astinenze, il tutto in una mirabile cornice di equilibrio, di modestia e di prudenza. Operò numerosi prodigi. Morì presso Verona il 30 aprile 1127 ed in tale anniversario è commemorato dal Martyrologium Romanum e dal Menologio Camaldolese.

Martirologio Romano: A Verona, san Gualfardo, che, sellaio originario della Germania, dopo moltissimi anni passati in solitudine fu accolto in questa città dai monaci di San Salvatore.







Di origine germanica e di mestiere sellaio, san Gualfardo, obbedendo al suo desiderio interiore di una vita tutta dedita a Dio, dopo aver trascorso qualche tempo a Verona, si ritirò in solitudine eremitica, come facevano tanti giovani uomini del Medioevo, in un luogo vicino all’Adige.
Sull’esempio di s. Romedio, eremita nella Val di Non nel Trentino, trascorse in questo luogo solitario venti anni di nascondimento, poi alcuni barcaioli che navigavano sul fiume lo scoprirono, costringendolo così a trasferirsi a Verona presso la chiesa di S. Pietro.
Dopo un certo tempo, passò alla chiesa della SS. Trinità fuori le mura della città e finalmente fu accolto caritatevolmente come oblato, dai monaci camaldolesi di San Salvatore di Corteregia in Verona, coi quali rimase dieci anni fino alla morte.
Giunse ai più alti gradi della contemplazione e della santità, con la preghiera incessante, le veglie notturne, i digiuni, le penitenze; il tutto intessuto da equilibrio, serenità, modestia e prudenza, che riflettevano la pace con sé stesso e l’unione intima con Dio.
Un contemporaneo monaco, che fu autore della sua prima ‘Vita’, descrisse il fervore che san Gualfardo metteva nella santa conversazione con i fedeli e con i camaldolesi; inoltre parlò di molti miracoli che operò in vita e dopo morto.
Morì nel convento di Verona il 30 aprile 1127; i veronesi ne celebrano la festa il 1° maggio come protettore dei sellai, mentre l’Ordine Camaldolese e il Martirologio Romano, lo ricordano il 30 aprile, anniversario della sua nascita al cielo.


Autore: Antonio Borrelli

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01/05/2017 09:55
 
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Sant' Andeolo Martire

1 maggio




Martirologio Romano: Nel territorio di Viviers in Francia, sant’Andéolo, martire.









È inserito nel Martirologio Romano al 1° maggio con un elogio tratto da Atti favolosi. Inviato da Policarpo di Smirne ad evangelizzare la Gallia insieme con Benigno, Andochio e Tirso, la sua predicazione si estese da Carpentras ad Orange, ad Aps (Alba Augusta) e a Bourg-Saint-Andéol (Bergoiata). Stava organizzando la cristianità in quest'ultimo luogo, quando l'imperatore Settimio Severo, in viaggio verso la Bretagna, lo sottopose personalmente a giudizio. Dopo molti e diversi tormenti, la cui inefficacia ricorda i soliti racconti apocrifi, gli venne divisa la testa in forma di croce e il suo corpo fu gettato nel Rodano (1° maggio 208). Una donna pagana, di nome Tullia, raccolse il suo corpo e gli diede pietosa sepoltura, ricevendo in cambio il dono della fede. Come si vede, si tratta di dati non attendibili; tuttavia la "tradizione del martirio e del culto di Andeolo a Bourg-Saint-Andéol deve essere accettata. Nell'858 il vescovo di Viviers Bernoino ne ritrovò le reliquie in una piccola cripta, su cui fu edificata una chiesa, dedicata a san Policarpo, che esiste ancora. Le reliquie furono in gran parte bruciate durante la Rivoluzione. La sua festa si celebra a Lione e ad Avignone il 10 maggio, a Viviers e a Valenza il 13 dello stesso mese.


Autore: Pietro Burchi

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02/05/2017 09:16
 
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Santa Viborada (o Wiborada) Vergine e martire di San Gallo

2 maggio


Turgovia, IX sec. – San Gallo (Svizzera), 1° maggio 926

Martirologio Romano: Nel territorio di San Gallo nell’odierna Svizzera, santa Viborada, vergine e martire, che, ritiratasi in una piccola cella presso la chiesa di San Magno, provvedeva alle necessità del popolo e per la sua fede e la sua condizione di religiosa trovò la morte per mano degli Ungheresi invasori.







Santa Wiborada ha il privilegio di essere stata la prima donna proclamata ufficialmente santa dalla Chiesa; la sua canonizzazione effettivamente testimoniata, avvenne nei primi giorni del gennaio 1047 ad opera di papa Clemente II, alla presenza dell’imperatore di Germania Enrico III.
La vita di questa reclusa di San Gallo, storicamente testimoniata, è descritta in due biografie, una scritta tra il 993 e il 1047 dal monaco di San Gallo Hartmann, e un’altra scritta tra il 1072 e il 1076 dal monaco Erimanno; inoltre santa Wiborada è ricordata in documenti ed Annali della celebre abbazia, fondata in Svizzera da s. Gallo († 646) monaco irlandese.
Wiborada nacque in un anno imprecisato di fine secolo IX, in una nobile famiglia alemanna della regione del Turgovia, attuale cantone della Svizzera nord-orientale.
Dietro suo consiglio, il fratello Itto divenne sacerdote e più tardi monaco a San Gallo; durante la sua giovinezza Wiborada aveva cura nella casa paterna di ammalati e poveri.
Rimasta orfana anche della madre, si ritirò come solitaria in una cella presso la chiesa di S. Giorgio sopra San Gallo dal 912 al 916, dove con preghiere ed esercizi ascetici si preparava alla vita di reclusa; pratica di ascetismo femminile che continuava nell’ambiente occidentale, la vita eremitica dei primi secoli, di solito vicino a delle comunità monastiche, dalle quali ricevevano un po’ di cibo e assistenza spirituale.
Nel 916, Wiborada venne rinchiusa a vita in una cella presso la chiesa di San Magno, dal vescovo-abate di San Gallo, Salomone III (890-920); fu certamente una delle prime recluse, la cui esistenza è provata storicamente; visse in questa condizione dieci anni, dedita alla preghiera e all’ascetismo.
Essendo dotata del dono della profezia, dispensò molti consigli, a lei si rivolse il vescovo Ulrico di Augusta (923-973) per chiederle consiglio nella controversia sorta con la comunità di San Gallo, in quel periodo priva di abate; inoltre consigliò l’abate Engilberto (925-933), per l’approssimarsi delle invasioni ungheresi, di mettere in salvo i monaci e i tesori del monastero.
E agli inizi del 926 visto le continue pressioni, i manoscritti più preziosi furono trasferiti nel monastero di Reichenau, sul Lago di Costanza.
[I Magiari, popolazione pagana conosciuta anche come Ungari, compirono devastanti e periodiche incursioni nei Paesi occidentali, specie in Germania sin oltre la metà del X secolo; furono sconfitti da Ottone I di Sassonia nel 955, la loro conversione al cristianesimo iniziò nel 973 e furono totalmente convertiti dal re s. Stefano I (997-1038)].
Wiborada fu uccisa dai suddetti magiari, durante l’invasione di tutta la zona il 1° maggio 926; l’8 maggio fu sepolta con solennità nel suo stesso reclusorio.
Venti anni dopo nel 946, i suoi resti mortali furono traslati nella Chiesa di S. Magno al tempo dell’abate Cralo; fu proclamata santa come già detto nel 1047; santa Wiborada insieme a san Gallo e sant’Osmaro, formano le tre stelle dei santi sangallesi.
Nell’iconografia, la santa viene rappresentata in abiti di suora benedettina, alla cui Regola si attenevano i monaci di san Gallo, con un libro che simboleggia il dono della profezia e l’alabarda, strumento con cui fu torturata e uccisa dagli invasori pagani. La sua festa si celebra il 2 maggio.


Autore: Antonio Borrelli

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03/05/2017 08:12
 
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San Conlaedo Vescovo di Kildare

3 maggio


m. 520 circa

Martirologio Romano: A Kildare in Irlanda, san Conlaédo, vescovo, che fu compagno di santa Brigida nella cura spirituale del suo monastero e degli altri posti sotto la sua giurisdizione ed ebbe grande autorità presso i prelati del luogo.








Le poche notizie pervenuteci su Conlaedo (celt. Collaid, Condlaedh, Conlaeth, Conlaidh, Conleo, Conliad, Conlian, Connlaed), sono contenute nella Vita di santa Brigida di Cell Dara, l'attuale Kildare (Irlanda), scritta da Cogitosus nella prima metà del sec. VII, e in alcuni martirologi irlandesi. Conduceva vita solitaria a Old Connel sul Liffey, quando fu conosciuto da santa Brigida che lo apprezzò e strinse con lui rapporti di amicizia, associandoselo nel governo spirituale del suo monastero e di quelli affiliati e dipendenti del territorio vicino. Resta dubbio se in quel tempo il monastero avesse già due sezioni: maschile e femminile. Elevato alla dignità episcopale, Conlaedo svolse il suo ministero all'interno dell'abbazia e anche in rebus exterioribus, benché sempre in dipendenza dalla badessa. E pertanto considerato primo vescovo della diocesi di Kildare, che nell'organizzazione ecclesiastica succedette al monastero come organo giurisdizionale sui territori circostanti.
Fonti provenienti dal predetto cenobio gli danno talora il titolo di arcivescovo per la grande autorità che aveva sugli altri prelati di quella regione. Fu anche uno dei principali artigiani e artisti irlandesi del suo tempo, distinguendosi come miniaturista e specialmente come lavoratore del metallo, artefice di vasi e arredi sacri. La tradizione gli attribuisce il pastorale in seguito posseduto da san Finbaro di Termon Barry e ora conservato nel museo della Royal Irish Academy. In una glossa al Félire Oengusso è contenuta la curiosa affermazione che Conlaedo (il cui vero nome sarebbe stato Roncenn) fu divorato dai lupi mentre persisteva nella decisione d'intraprendere un viaggio a Roma contro i desideri di santa Brigida.
Mori verso il 520. Le sue reliquie già nel sec. VII erano onorate in un'urna marmorea decorata di metalli e pietre preziose, alla sinistra dell'altar maggiore della chiesa monastica, mentre alla destra vi era la tomba di santa Brigida. Il bel sepolcro andò perduto durante l'invasione dei Dani. Il santo è considerato patrono principale della diocesi di Kildare e la sua festa è celebrata il 3 maggio. Nel resto dell'Irlanda è commemorato, con san Cataldo, il 13 maggio. Il suo culto è stato approvato il 18 giugno 1903.


Autore: Gian Michele Fusconi

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04/05/2017 06:30
 
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San Ciriaco di Gerusalemme Vescovo e martire

4 maggio


Data di nascita e morte incerte

Originario, secondo una tradizione, della Palestina. Un testo apocrifo racconta che, ebreo di nome Giuda , assunse il nome di Ciriaco dopo essersi convertito. Divenuto vescovo di Gerusalemme, subì il martirio insieme alla madre Anna, sotto Giuliano l’Apostata. Secondo un’altra tradizione, appena convertito Ciriaco sarebbe venuto in Italia, ad Ancona, dove è venerato fin dall’Alto Medioevo. Dopo un lungo episcopato, durante un pellegrinaggio sui luoghi santi, sarebbe stato martirizzato, sembra, verso il 135. Una terza tradizione racconta invece che egli non sarebbe mai giunto in Italia e che le sue reliquie furono trasportate ad Ancona nel secolo V, per volontà di Galla Placidia.

Patronato: Ancona


Etimologia: Ciriaco = padrone, signore, dal greco


Emblema: Bastone pastorale, Palma




Ascolta da RadioRai:
Ascolta da RadioMaria:




In greco, Ciriaco significa “dedicato al Signore”. Così si chiamano vari santi, e tra essi quello che si ricorda qui, il patrono di Ancona, titolare della cattedrale che dal monte Guasco domina la città e il porto. Qui il culto per lui dura da un millennio e mezzo. Ma non c’è una storia certa della sua vita. Abbiamo solo tradizioni incomplete, discordi, e se ne tenta qui una succinta rassegna. Secondo una di esse, egli era un dotto ebreo di nome Giuda; e si fece poi cristiano (chiamandosi Ciriaco) dopo aver visto disseppellire nella zona del Calvario quella che fu ritenuta la vera Croce di Gesù. (Aveva promosso la ricerca, nella prima metà del IV secolo, Elena, madre dell’imperatore Costantino). Questa tradizione aggiunge che Ciriaco fu poi vescovo di Gerusalemme, e che morì martire sotto l’imperatore Giuliano, detto dai cristiani “l’Apostata” per il suo conflitto con la Chiesa.Una seconda tradizione dice che Ciriaco il convertito venne in Italia, fu vescovo di Ancona, e trovò poi morte violenta in Palestina, dove era tornato in visita. Però non c’è alcun indizio di un suo ministero episcopale ad Ancona; qui il primo vescovo sicuro è san Marcellino (V secolo), di cui si conserva tuttora un prezioso codice liturgico.Ma in base alla tradizione anconetana registrata anche dal Martirologio Romano, e a giudizio di studiosi moderni come Mario Natalucci, un altro scenario pare più attendibile: Ciriaco è venuto sì ad Ancona; ma solo da morto, avendo trascorso tutta la vita in Palestina, onorato come testimone del ritrovamento della Croce. A quel tempo gli anconetani insistevano per ricevere da Gerusalemme i resti del primo martire cristiano, santo Stefano (che erano stati ritrovati nel 415), per collocarli in una chiesa a lui dedicata. La richiesta non fu accolta, pur essendo “appoggiata” da un personaggio potentissimo: Galla Placidia, figlia dell’imperatore Teodosio I, sorella degli imperatori Onorio e Arcadio, moglie poi di Costanzo III e madre di Valentiniano III. Si volle tuttavia venire incontro a lei e agli anconetani, donando loro le spoglie di Ciriaco, anch’egli venerato e in fama di martire.Così incomincia la storia autentica del legame tra Ancona e Ciriaco: quelle spoglie arrivate nel V secolo si trovano oggi nell’alta cattedrale, dove Ciriaco e Stefano sono raffigurati in due plutei marmorei dell’XI secolo. La città farà di lui il suo patrono principale, incidendo poi la sua immagine nelle monete. Anche oggi, nel giorno della sua festa, continua a vivere un’amabile tradizione: si distribuiscono ai fedeli mazzolini di giunchi benedetti. È un richiamo alla leggenda secondo cui la cassa con i resti di Ciriaco arrivò galleggiando sulle onde; e poi, grazie appunto a una corda fatta di giunchi attorcigliati, a forza di braccia raggiunse la terra anconetana.


Autore: Domenico Agasso

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05/05/2017 09:42
 
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Santa Tosca (Tusca) Vergine

5 maggio










Sante TEUTERIA E TUSCA

S. Tosca o Tusca nome originale, è una vergine eremita presso Verona, essa è commemorata insieme a s. Teuteria, anch’essa eremita a Verona, il 5 maggio.
Secondo un racconto del secolo XVI, scritto dal vescovo della città scaligera, Agostino Valier, Teuteria era nata da una nobile famiglia anglosassone fra il VII e l’VIII secolo, convertitasi al cristianesimo, crebbe notevolmente sulla via della santità, finché un re pagano Osvaldo, prese ad insidiarla nella purezza, Teuteria fu costretta a scappare in Italia per sfuggirgli.
Giunta a Verona si nascose presso la vergine Tusca (Tosca) sorella del vescovo Procolo per sfuggire alle ricerche del re deluso.
Tusca era una vergine veronese che conduceva vita eremitica e godeva della devozione dei fedeli per la sua spiritualità, Teuteria decise di vivere in intima comunione con Tusca fino alla morte, considerandola sua guida spirituale.
Il loro culto è documentabile fin dal sec. VIII, infatti nel 750 il vescovo Annone fece una dedicazione di una chiesa in loro onore; nel 1161 il vescovo Ognibene, autorizzò una ricognizione delle reliquie per sistemarle nella nuova basilica consacrata il 14 settembre 1161.
Anticamente la Chiesa veronese nei suoi libri liturgici commemorava le due sante eremite in date diverse: Teuteria il 5 maggio e Tusca il 10 luglio, poi unificate al 5 maggio.
Il nome Tosca o Tusca deriva dal latino ‘Tuscus’ e significa “etrusco” e poi per estensione “toscano” (e da qui la Toscana).
Più frequentemente usato in Emilia Romagna, in Toscana ed a Verona, ebbe un ritorno popolare dopo la rappresentazione dell’opera lirica ‘Tosca’ di Giacomo Puccini; il maschile Tosco o Tusco è praticamente scomparso.

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06/05/2017 09:49
 
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Santa Benedetta di Roma Vergine

6 maggio


sec. VI

Martirologio Romano: A Roma, santa Benedetta, vergine, che, monaca, come racconta il papa Gregorio Magno, trovò pace in Dio, come ella stessa aveva chiesto, trenta giorni dopo la morte di santa Galla, dalla quale era amata più di tutte le altre.








È commemorata il 6 maggio nel Martirologio Romano, dove fu introdotta dal Baronio. Le poche notizie che la riguardano sono riferite da Gregorio Magno, che la ricorda come compagna di santa Galla nel monastero fondato da quest'ultima a Roma, presso San Pietro. Benedetta morì trenta giorni dopo Galla, come le aveva predetto l'apostolo Pietro, apparsole in una visione.


Autore: Alfonso Codaghengo

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08/05/2017 09:58
 
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San Vittore il Moro Martire

8 maggio


sec. III-IV



Le notizie più antiche su di lui le abbiamo da Sant’Ambrogio nell’Explanatio evangelii secundum Lucam e soprattutto nell’Inno in onore dei martiri Vittore, Narbore e Felice, soldati originari della Mauritania, di stanza a Milano, che morirono a Lodi in difesa della fede. Negli Atti, invece che risalgono al VIII secolo, si tramanda che Vittore si rifiutò di continuare a prestare servizio militare. Trascinato nell’ippodromo del Circo alla presenza di Massimiano Erculeo e del suo consigliere Anulino, rifiutò di tradire la fede nonostante tormenti a cui fu sottoposto. Flagellato e incarcerato, dopo un’evasione quasi miracolosa, fu di nuovo catturato e decapitato. Il suo corpo sarebbe stato ritrovato dal vescovo S. Materno.

Etimologia: Vittore = vincitore, dal latino


Emblema: Palma


Martirologio Romano: A Milano, commemorazione di san Vittore, martire, che, di origine mora, mentre era soldato nell’esercito imperiale, all’imposizione da parte di Massimiano di sacrificare agli idoli depose le armi e, condotto a Lodi, morì decapitato con la spada.



Ascolta da RadioVaticana:
Ascolta da RadioRai:
Ascolta da RadioMaria:





Se l'appellativo non rischiasse di apparire troppo leggero e irriverente, potremmo dire che S. Ambrogio fu uno dei più efficaci "talent-scout" della storia. Scavando, letteralmente, nella storia di Milano, vi ritrovò personaggi illustri, che onoravano la diocesi di cui egli si era trovato così repentinamente alla testa. E da buon "talent-scout" egli sapeva anche lanciare i suoi pupilli con tutti i mezzi della pubblicistica allora disponibili, soprattutto le feste popolari, gli inni sacri e i monumenti. Una delle scoperte di S. Ambrogio è appunto S. Vittore, di cui egli parlò diffusamente nell'Explanatio evangelii secundum Lucam e nell'inno Victor, Nabor, Felix pii. L'altra fonte "storica" da cui apprendiamo la vita e soprattutto il martirio di S. Vittore sono gli Atti, che risalgono al secolo VIII.
Vittore, Nabore e Felice erano tre soldati provenienti dalla Mauritania e di stanza a Milano. Costretti, come altri loro compagni nella milizia e nella fede, a fare una scelta tra l'imperatore e Dio, la loro scelta fu chiara e decisa. Ma la sua obiezione di coscienza procurò a Vittore solo l'arresto e la cella di rigore. Dopo avergli fatto passare sei giorni senza mangiare e senza bere per fiaccarne la resistenza, venne trascinato nell'ippodromo del circo (presso l'attuale Porta Ticinese): nonostante che l'interrogatorio venisse condotto dallo stesso Massimiano Erculeo e dal suo consigliere Anulino, Vittore rimase ben saldo nel suo rifiuto di sacrificare agli idoli, che mantenne anche dopo una severa flagellazione. Riportato in carcere, là dove si trova ora Porta Romana, S. Vittore venne ulteriormente tormentato: tra l'altro gli versarono piombo fuso nelle piaghe, ma la forte tempra del soldato africano non ne fu ancora fiaccata.
Un giorno, anzi, approfittando di una disattenzione dei suoi carcerieri, riuscì ad evadere e a rifugiarsi in una stalla situata nei pressi di un teatro, là dove si trova attualmente Porta Vercellina. Ma ormai il suo peregrinare era terminato: scoperto, venne trascinato in un vicino bosco di olmi e decapitato. Il suo corpo rimase insepolto per una settimana, ma il vescovo S. Materno lo ritrovò ancora intatto e fedelmente vegliato da due fiere.
Gli venne quindi edificata una tomba sontuosa, accanto alla quale S. Ambrogio volle far seppellire suo fratello Satiro. S. Vittore è uno dei santi più cari ai milanesi, che gli hanno edificato e intitolato chiese e monumenti, il più tristemente celebre dei quali è... il carcere di S. Vittore. Non per nulla egli è patrono di prigionieri ed esuli.

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POTRESTE AVERE DIECIMILA MAESTRI IN CRISTO, MA NON CERTO MOLTI PADRI, PERCHE' SONO IO CHE VI HO GENERATO IN CRISTO GESU', MEDIANTE IL VANGELO. (1Cor. 4,15 .
 
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