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CREDENTI DA IMITARE (Eb.13,7)

Ultimo Aggiornamento: 18/05/2019 13:12
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31/10/2016 07:06
 
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San Stachys Discepolo di s. Paolo, vescovo di Costantinopoli

31 ottobre


I sec.







« Al 31 ott. a Costantinopoli, s. Stachys, vescovo, ordinato primo vescovo di quella città dal beato Andrea, apostolo », così il Martirologio Romano. Stachys è nome greco, che signi­fica « spiga, frutto ». È nominato in Rom. 16, 9: « Salutate Urbano e il mio carissimo Stachys ». Niente altro sappiamo di lui, al di fuori dei racconti conservatici dai greci: l'apostolo s. Andrea l'avrebbe consacrato primo vescovo di Bisanzio o di Argiropoli.
Queste leggende sorsero verso la fine del sec. VIII ad opera di ignoti che si presentavano sotto i nomi di Epifanio, Doroteo e Ippolito.
Esse passarono nella letteratura sui discepoli del Signore (De LXX apostolis, falsamente attribuito a s. Ippolito).


Autore: Francesco Spadafora

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01/11/2016 07:25
 
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San Severino di Tivoli Monaco

11 novembre




Martirologio Romano: A Tivoli nel Lazio, san Severino, monaco.

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02/11/2016 08:13
 
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Santi Acindino (Acendino), Pegasio, Aftonio, Elpidiforo, Anempodisto e compagni Martiri in Persia

2 novembre


† Isfahan (Persia), 341/345 ca.

I santi martiri Acindino, Pegasio, Aftonio, Elpidiforo, Anempodisto ed i numerosi loro compagni patirono il martirio in odio alla fede cristiana sotto il re Sapore II di Persia, tra gli anni 341 e 345.

Etimologia: Acindino = Acidinus (leggermente acido), soprannome romano


Martirologio Romano: In Persia, santi Acíndino, Pegasio, Aftonio, Elpidíforo, Anempodisto e molti compagni, martiri, che si tramanda abbiano subito la passione sotto il re Sabor II.







ACINDINO, PEGASIO, AFTONIO, ELPIDOFORO, ANEMPODISTO

Questi santi martiri in Persia, sono menzionati in una ‘passio’ greca del tempo di Eraclio (610-614), storicamente di scarso valore, che ci è pervenuta in una rielaborazione di Simeone Metafraste, agiografo bizantino del X secolo, e in una versione latina nel codice 1622 dell’Università di Padova.
La vicenda narrata dalla ‘passio’, si svolse al tempo del re di Persia Sapore II (310-379); infuriando le persecuzioni contro i cristiani, che in contrapposizione alla libertà di culto concessa dall’imperatore romano Costantino il Grande nel 313, furono considerati dai persiani, una ‘quinta colonna’ dell’Impero romano, con cui Sapore II era in ostilità.
Il re fece catturare Acindino, Pegasio e Anempodisto ferventi cristiani, i quali furono sottoposti ad interrogatorio e torturati secondo la prassi del tempo, ma poi furono miracolosamente risanati, le loro catene si spezzarono e si fusero, mentre una violenta bufera si abbatté sulla città reale di Isfahan; mentre Sapore II perdette la voce, che riacquistò per intercessione degli stessi martiri.
Come per altri racconti antichi sul martirio dei cristiani, il supplizio non si fermò qui; i tre cristiani furono immersi nel piombo fuso e ne uscirono illesi, fra lo stupore dei carnefici, dei quali uno, Aftonio, si convertì e fu subito decapitato; si tentò di ucciderli gettandoli in mare chiusi in un sacco, ma essi risalirono dalle onde incolumi.
Intanto nel Senato persiano, Elpidoforo e altri senatori, avevano preso le difese dei cristiani, pagando anch’essi con la vita il loro coraggio. Alla fine Acindino, Pegasio e Anempodisto, furono bruciati vivi a Isfahan, era circa il 350 d.C.
Le loro reliquie furono più tardi traslate a Costantinopoli e venerate in una chiesa a loro dedicata; nel 1204 durante la quarta crociata, una reliquia di Acendino finì in Francia a Vedans e da lì nell’abbazia di Rosières; fu perduta durante la Rivoluzione Francese e ritrovata un secolo dopo, nel 1892 a Grozon.
I santi martiri sono venerati in Oriente e in Occidente il 2 novembre e particolarmente ricordati dalla Chiesa Bizantina; sono raffigurati nella celebre Pala d’Oro della Basilica di San Marco a Venezia.
Sant’Acindino o Acendino, il cui nome deriva dal soprannome romano ‘Acidinus’, che significa “leggermente acido”, è venerato come titolare della Parrocchia di Gasponi (frazione del Comune di Drapia, in provincia di Vibo Valentia), la cui festa ricorre però il 3 novembre, a causa che il 2 è la Commemorazione dei Defunti.


Autore: Antonio Borrelli

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03/11/2016 08:28
 
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San Papulo Martire

3 novembre




Martirologio Romano: Nel territorio di Lauragais nella Gallia narbonense, ora in Francia, san Pápulo, venerato come martire.

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04/11/2016 09:20
 
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San Felice di Valois

4 novembre


1127 - 1212

Etimologia: Felice = contento, dal latino


Martirologio Romano: Presso Cerfroid nel territorio di Meaux in Francia, san Felice di Valois, che, dopo avere condotto per lungo tempo vita solitaria, si ritiene sia stato compagno di san Giovanni de Matha nel fondare l’Ordine della Santissima Trinità per la liberazione degli schiavi.



Ascolta da RadioRai:





Felice, illustre rampollo della stirpe reale dei Valois, nacque in Francia nell'anno 1127. Di indole dolce e compassionevole, fin da bambino diede prove insigni di quella pietà e carità che poi lo resero l'apostolo degli schiavi.
Ricco di beni, dava ai poveri quanto gli era permesso, e spesso si privava anche della frutta e del pane per soccorrerli. Lo zio duca un giorno condannò a, morte un omicida: il giovane Felice gli chiese per amor di Dio di non punire quel delinquente, ma di darlo a lui: ne avrebbe fatto un ottimo cristiano. Fu esaudito, e il disgraziato liberato dalla morte, condusse d'allora vita esemplarissima.
Felice compì regolarmente gli studi, e ricevuti gli ordini sacri rinunziò a ogni diritto e ricchezza terrena. La gente lo lodava per le sue rare doti di animo e di corpo ed egli, per sottrarsene, un giorno si ritirò in un bosco a vivere da anacoreta. La fama della sua santità però non poteva rimanere ignota.
L'amico, S. Giovanni di Matha, che aveva deliberato di consacrare il suo ministero alla liberazione degli schiavi cristiani dalle mani dei Turchi, si portò presso il nostro eremita pregandolo di volerlo ricevere per prepararsi al grande apostolato. Lo studio, la preghiera e la penitenza furono i tre grandi mezzi che maturarono i loro animi per l'eroica impresa. E quando Giovanni conobbe essere giunto il tempo di iniziare l'ordine da lui vagheggiato, Felice rispose: “Io sarò il primo a seguirti”. Si portarono quindi a Roma presso la Santa Sede per averne l'approvazione. Papa Innocenzo III li accolse con deferenza e approvò il nuovo ordine, sotto il nome di Trinilari o Frati della SS. Trinità colla divisa di abito bianco ed una croce rosso-azzurra sul petto.
Ritornati in Francia, vennero favoriti dall’autorità. Re Filippo offrì loro le terre per edificare il primo convento; S. Giovanni s'impose viaggi lunghi e faticosi nell'Africa e a Roma, mentre S. Felice in Francia consacrò libertà, averi e vita per la formazione e propagazione dell'ordine.
Il primo gagliardo manipolo di Trinitari coronarono le loro fatiche con un felice successo. Circa 200 cristiani furono liberati nell'anno 1201 e nel seguente altri 100. Non si può dire però quanto fosse difficile strapparli di mano a quei barbari tiranni. Il mezzo più opportuno era il denaro; ma quando non si poteva raggiungere le somme da loro richieste, bisognava offrire la propria vita.
E S. Felice seppe così bene preparare i suoi figli a questa missione che molti, seguendo l'esempio del loro fondatore S. Giovanni, fecero l'eroico sacrificio.
Già più che ottantacinquenne il nostro Santo meritò di contemplare la Vergine e di sapere il momento della sua morte. Convocò allora i numerosissimi figli, li esortò a perseverare generosamente nella vocazione, indi spirò nella casa madre di Cerfroi nell'anno 1212.
La Chiesa lo venera come santo dal 1694.


Autore: Antonio Galuzzi

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05/11/2016 09:06
 
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Tutti i Santi delle regioni Conciliari

5 novembre










Fin dai primi secoli è in uso nella Chiesa la celebrazione dei santi locali. L'Eucaristia veniva offert asulle tombe dei martiri, poi le loro reliquie vennero poste in ogni altare in una piccola cavità chiamata "sepolcro".
In seguito furono venerati anche santi non martiri, ma sempre nella chiesa locale dove erano vissuti, dove erano sepolti.
A poco a poco il culto dei santi si diffuse anche in altre chiese ed è ora invalso l'uso di celebrare insieme tutti i santi della chiesa regionale, cioè di tutte le diocesi di una data regione conciliare.
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06/11/2016 07:22
 
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San Severo di Barcellona Vescovo e martire

6 novembre




Martirologio Romano: A Barcellona in Spagna, san Severo, vescovo, che, come si tramanda, ricevette la corona del martirio.








San Severo vescovo di Barcellona, menzionato nel 633.
In alcuni casi viene considerato l’undicesimo vescovo della Diocesi, anche se sulla sua esistenza, quale vescovo e martire, ci sono molti dubbi.
Su di lui è rimasta una moderna “Passio” databile intorno al XIII-XIV secolo.
In questo testo di dubbia veridicità si dice che San Severo fu martirizzato durante la persecuzione di Diocleziano e Massimiano. L’epoca di questa persecuzione però, non corrisponde affatto al periodo in cui San Severo fu il vescovo di Barcellona.
Comunque nel racconto si afferma che San Severo, invitato ad adorare gli idoli, riuscì a fuggire.
Alla cattura di un cristiano di nome Emeterio, che era accusato di coprire la sua fuga, San Severo si presentò spontaneamente da Castro Ottaviano. Imprigionato, venne torturato insieme ai quattro chierici che lo accompagnavano.
Tutti e sei ricevettero la corona del martirio e la gente del luogo decise di seppellirli nella chiesa del paese.
E’ evidente quanto possa essere immaginario questo racconto.
Sappiamo solo che un San Severo è menzionato quale vescovo di Barcellona intorno al 633.
Nei martirologi antichi non figurò mai il suo nome.
La sua prima menzione avviene nel Seicento e successivamente nel Martirologio Romano.
La sua festa era celebrata il 9 agosto, data della traslazione delle sue reliquie nel 1405.
Oggi la festa è fissata al 6 novembre.


Autore: Mauro Bonato

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07/11/2016 08:45
 
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San Villibrordo Vescovo

7 novembre


Northumbria, 658 - Echternach (Lussemburgo), 7 novembre 739



A trent’anni ricevette l’ordinazione sacerdotale, dopo di ché insieme a undici compagni si dedicò all’evangelizzazione della Frisia (Paesi Bassi) e di una parte della Germania. Anversa fu la prima residenza e il centro dell’apostolato di Villibrordo, fu l’avamposto e forse il Seminario delle fondazioni di Utrecht. La consacrazione episcopale, ricevuta a Roma, avvenne la domenica 24 novembre 695, antivigilia della festa di S. Clemente. In quella occasione il papa dette al nuovo arcivescovo il nome di Clemente. Per parecchi anni, senza un attimo di tregua, percorse la Frisia, la Fiandra, il Lussemburgo e le rive del Reno predicando e costruendo conventi. Dopo una vita dedicata alla preghiera e all’introduzione di vescovi ausiliari la malattia e la vecchia rallentano e interrompono la sua attività. Morì all’età di ottantuno anni. Qualche giorno dopo il suo corpo viene deposto in sarcofago nei monasteri di Echternach.

Emblema: Bastone pastorale


Martirologio Romano: A Echternach in Austrasia, nel territorio dell’odierno Lussemburgo, deposizione di san Villibrordo, che, di origine inglese, ordinato vescovo di Utrecht dal papa san Sergio I, predicò il Vangelo tra le popolazioni dell’Olanda e della Danimarca e fondò sedi episcopali e monasteri, finché, gravato dalle fatiche e logorato dall’età, si addormentò nel Signore in un cenobio da lui fondato.



Ascolta da RadioVaticana:
Ascolta da RadioMaria:





L'evangelizzazione della Germania transrenana ebbe inizio nel VII secolo, sul finire dell'epoca merovingia, per opera dei monaci irlandesi e anglosassoni, e raggiunse il massimo sviluppo nel secolo seguente con l'azione missionaria di S. Bonifacio. Il primo a sbarcare in Frisia, nei Paesi Bassi, fu Vilfrido di York. Poi l'abate Egberto, un maestro di vita spirituale dell'epoca, vi mandò Villibrordo (Willibrord), oriundo della Northumbria, dov'era nato nel 658, il cui zelo per la diffusione del regno di Dio sarà l'unico incentivo della sua movimentata esistenza.
Questo monaco, che i biografi descrivono piccolo di statura, nero di capelli, di delicata costituzione, con occhi profondi e vivi, incarna il tipo ideale del monaco occidentale: un lavoratore che non conosce pause né crisi di scoramento, austero, prudente, leale, tenace, devoto al papa. Formatosi nell'abbazia inglese di Ripon, all'età di vent'anni si era recato in Irlanda per perfezionare la sua cultura teologica sotto la guida dell'abate Egberto, che a trent'anni lo consacrò sacerdote.
Dopo l'insuccesso della missione di Vilfrido, fu mandato con undici compagni in Frisia. La vittoria di Pipino di Heristal sul re Radbod nel 689 rese più facile l'impresa. Sbarcati all'imbocco dell'Escaut, una regione di terre acquitrinose, i missionari si diressero all'interno, accolti con grandi onori dal duca Pipino. Ma Villibrordo, prima di dare inizio alla sua opera di evangelizzazione, volle recarsi a Roma per avere il beneplacito del papa. Da Sergio I ebbe approvazione e incoraggiamento. Al rientro, il monaco scelse Anversa come centro del suo apostolato e come avamposto delle future fondazioni, tra cui la più celebre fu quella di Utrecht.
Per l'erezione della nuova diocesi in Frisia, Villibrordo si recò nuovamente a Roma, dove il papa Sergio I il 21 novembre 695 lo consacrò vescovo, col nome di Clemente (24 anni dopo Gregorio Il farà altrettanto col monaco sassone Vinfrido-Bonifacio). Da questo momento sarebbe arduo elencare tutti i viaggi dell'infaticabile missionario, dalle rive del Reno fino alla Danimarca. Fondato a Echternach (Lussemburgo) un piccolo convento, vi morì il 7 novembre 739 a ottantun anni di età.
Fu un uomo di azione e di preghiera e soprattutto un grande organizzatore con uno spiccato senso del comando, che gli consentì, grazie anche alla formazione di vescovi ausiliari (una novità per l'Occidente), di evitare il frazionamento delle varie Chiese con la conseguente dispersione dell'attività pastorale.


Autore: Piero Bargellini

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08/11/2016 08:08
 
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San Villeado di Brema Vescovo

8 novembre




Martirologio Romano: A Brema in Sassonia, in Germania, san Villeado, vescovo, che, nato nella Northumbria in Inghilterra e amico di Alcuino, propagò dopo san Bonifacio il Vangelo in Frisia e Sassonia e, ordinato vescovo, istituì la sede di Brema e la governò con saggezza.







Nacque in Gran Bretagna in data sconosciuta, ma indubbiamente tra il 735 e il 744. Si consacrò al sacerdozio all’età di trent’anni. Divenuto prete desiderava essere missionario presso i popoli Frisoni e Sassoni. Tra il 766 e il 774 sbarcò sul continente e in seguito si recò in Frisia, dove fu in pericolo di morte. Passò allora nella Drenthe, dove ottenne un risultato più positivo , ma un giorno alcuni compagni offesero gli abitanti pagani e Villehado fu assalito e ferito e riuscì con molta difficoltà a fuggire. Non restò per lungo tempo nella regione , e fu inviato dal re Carlo Magno nella Bassa Sassonia. Nel 782 fu obbligato a fuggire. Intraprese allora un viaggio a Roma. IL 13 luglio 787 fu consacrato vescovo e stabilì la sua sede a Brema. Morì l’8 novembre dello stesso anno. Le sue reliquie vennero disperse.

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09/11/2016 11:55
 
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Sant' Ursino (Orsino) di Bourges Vescovo

9 novembre


† seconda metà del III secolo

Primo prelato di Bourges, Francia. Trasformò in chiesa la casa del senatore Leocadio.

Martirologio Romano: Presso Bourges in Francia, sant’Orsino, primo vescovo, che annunciò al popolo Cristo Signore e per i credenti, per la massima parte poveri, trasformò in chiesa la casa di Leucadio, senatore delle Gallie ancora pagano.







Sant’Ursino è celebrato a Bourges in Francia, di cui è patrono, il 29 dicembre e il 9 novembre; mentre il Martirologio Romano celebra il primo vescovo di quella città, il 9 novembre (forse il giorno dell’elevazione delle reliquie).
Sulla figura del santo vescovo della Gallia, sono state scritte nel tempo varie ‘Vite’, che come al solito sono in buona parte leggendarie, favolose e dense di errori cronologici.
Qui ci atteniamo al testo del grande vescovo e storico Gregorio di Tours (538-594), che nella sua “Historia Francorum”, lo descrive mandato nella Gallia con i sette primi vescovi.
Nell’altra sua opera “De Gloria confessorum”, capp. 79 e 90, Gregorio di Tours dice che Ursino è uno dei 72 discepoli degli Apostoli, precisando che era presente all’Ultima Cena, con funzione di lettore di tavola.
Quest’ultima versione è molto popolare nella regione del Berry, la cui tradizione aggiunge che Ursino era presente alla Passione, seguì gli Apostoli fino alla Pentecoste, ricevendo anche lui lo Spirito Santo. In seguito avrebbe accompagnato s. Stefano, raccogliendone il sangue quando subì il martirio. Sarebbe stato papa Clemente (88-97) ad inviarlo nelle Gallie.
In realtà tutta questa versione è fantasiosa, soprattutto per il periodo storico; perché facendo seguito alla versione della “Historia Francorum”, Ursino giunto nel Berry, dopo aver predicato, convertito e battezzato buona parte della popolazione, specie i più poveri, volle costruire la prima chiesa della regione a Bourges; la costruì nella proprietà di un ricco pagano convertito, il senatore s. Leocadio († inizi del IV secolo), membro della famiglia di s. Vettio Epagato, martirizzato a Lione nel 177.
Dopo consacrata la chiesa, Ursino vi depose la reliquia del sangue di s. Stefano Protomartire; e dopo aver governato la Chiesa di Bourges per 27 anni, il primo vescovo Ursino morì un 29 dicembre di un anno imprecisato della seconda metà del III secolo.
Questi pochi dati cronologici, come la morte di s. Leocadio, il martirio di s. Vettio, l’istituzione della Chiesa di Bourges intorno al 250, indicano credibilmente che s. Ursino sia vissuto nel III secolo, mentre gli altri racconti, fra l’altro passati nella tradizione popolare, lo pongono erroneamente nel I secolo, nel periodo apostolico.
S. Gregorio di Tours continua il racconto, narrando il ritrovamento miracoloso del sarcofago del santo, sotto una vigna in un antico cimitero, al tempo dell’episcopato di Probiano, in un arco di tempo dal 558 al 573. Le reliquie furono portate nella Basilica di S. Sinforiano, che prese in seguito il nome di S. Ursino.
Nel 1055, Ugo vescovo di Lisieux, chiese ed ottenne alcune reliquie di s. Ursino, le quali furono oggetto di ricognizioni canoniche nel 1399 e nel XVII e XVIII secolo; altre reliquie si conservano a Chaussée-Saint-Victor, fin dal 1379.
Il culto per il santo vescovo, oltre che a Bourges è diffuso in Normandia, nelle diocesi di Lisieux, di Bayeux, di Rouen, di Blois, in varie date, più volte spostate.
La cattedrale di Bourges è la più grande testimonianza del profondo culto che lega la città al suo santo protovescovo Ursino. Le opere d’arte e di culto lì esistenti, sono tutto un inno alla devozione per il santo patrono.
A lui sono dedicate, una delle più celebri vetrate del XIII secolo e le sculture della Porta di S. Ursino del XV secolo, che narrano gli episodi culminanti del santo evangelizzatore del Berry.
In altre opere d’arte custodite nel Museo di Bourges e nella chiesa di Lisieux (razzi e trittico), sono riprodotte scene della leggenda di Ursino, testimone all’Ultima Cena di Gesù con gli Apostoli.


Autore: Antonio Borrelli

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10/11/2016 05:00
 
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San Demetriano di Antiochia Vescovo

10 novembre




Martirologio Romano: In Persia, transito di san Demetriano, vescovo di Antiochia, mandato in esilio dal re Sabor I.







Due calendari di Qennesre (cod. ms. del Museo Britannico Add. 17134 e Add. 14504) menzionano un s. Demetrino o Demetriano vescovo, festeggiato col re Onorio il 20 o meglio il 21 tesrin (nov.). Il Martirologio Geronimiano al 10 nov. ricorda un s. Demetrio di Antiochia; inoltre un s. Demetrio è nominato in una lista di santi e vescovi di Antiochia, in un panegirico siriaco, tradot­to dal greco ed attribuito ad Eusebio di Cesarea.
Chi sia questo Demetrio o Demetriano lo appren­diamo da testimonianze storiche soprattutto orienta­li, che parlano di un Demetriano, vescovo di Antiochia, pa­dre del vescovo Domno, eletto nella prima metà del 253 e morto prima del 261, data in cui fu eletto vescovo di Antiochia Paolo di Samosata. Egli si adoperò per combattere l'eresia di Novato. La data di elezione ci è nota da una lettera di Dionigi d'Alessandria al papa Cornelio e dal Chronicon di Eusebio. Dalle fonti orientali invece veniamo a co­noscere i particolari della sua fine.
Una cronaca ritrovata a Seert, basata sulle noti­zie fornite da Daniele bar Maria, storico siriaco del sec. VII, racconta che il re Sapore I, dopo avere de­vastato la Siria nel 256, deportò in massa gli abi­tanti di Antiochia in alcune città recentemente fondate nel suo regno : Sadsabur (corrispondente a Sadhsabur), Sapor (Sabur in Persia) e Bendo-sabora (Gundaisabur). I cristiani di Antiochia, de­portati a Bendosabora, elessero come successore del loro vescovo Demetriano, morto di dolore in esilio, un antiocheno di nome Azdaq.
Altri autori arabi, tra i quali At-Tabari, confer­mano queste notizie sull'opera di Sapore I e ci for­niscono validi confronti con l'operato di altri re persiani. Inoltre cronografi più recenti, Mari ibn-Sulayman, Amr ben Matta e Saliba ben Iohanna, raccontano, sebbene in forma non attendibile, il mo­do in cui avvenne l'elezione di Demetriano a vescovo di Bendosabora.
È probabile che la notizia della sua morte non sia giunta subito ad Antiochia e che quindi solo nel 261 gli abitanti della città abbiano pensato ad eleggergli un successore. È facile capire come possa essere stato considerato martire un pio vescovo de­portato da un re pagano e morto in esilio nell'adempiere al suo ministero. Il silenzio delle fonti occidentali non è facilmente spiegabile; possiamo però notare che questo è solo uno dei molti avve­nimenti importanti, quali ad esempio la cattura e la morte in esilio dell'imperatore Valeriano, che Euse­bio tace. In seguito troviamo che alcune diocesi per­siane si dicevano dipendenti da Antiochia ed i loro vescovi avevano nome greco. Il Martirologio Ro­mano celebra al 10 nov. Demetrio vescovo di Antio­chia, col suo diacono Aniano, con Eustosio e venti compagni. Si tratta in realtà di Demetriano sdoppiato in Demetrio e Aniano. Eustosio è sconosciuto e i venti compagni non hanno alcun rapporto con Demetriano.


Autore: Carla Sisto

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12/11/2016 08:44
 
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San Margarito Flores Garcia Sacerdote e martire

12 novembre


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Taxco, Messico, 22 febbraio 1899 - Tulimán, Messico, 12 novembre 1927

Nacque a Taxco, Guerrero (Diocesi di Chilapa) il 22 febbraio 1899. Parroco di Atenango del Río, Guerrero (Diocesi di Chilapa). I tre anni trascorsi nel ministero furono sufficienti per conoscere la sua indole sacerdotale. Il Vicario generale della Diocesi lo nominò vicario con funzioni di parroco di Atenango del Rio, Guerrero. Il Padre Margarito si mise all'opera. Fu scoperto, identificato come sacerdote, quando stava per giungere alla meta; fu imprigionato e condotto a Tulimán, Guerrero, luogo in cui venne dato l'ordine di fucilarlo. Il Padre Margarito chiese il permesso di pregare, si inginocchiò per qualche secondo, baciò il suolo e quindi, in piedi, attese gli spari che gli distrussero la testa e lo unirono per sempre a Cristo Sacerdote, il giorno 12 novembre 1927.

Emblema: Palma


Martirologio Romano: Nella città di Tulimán in Messico, san Margherito Flores, sacerdote e martire, che, durante la grande persecuzione contro la Chiesa, fu arrestato per il suo sacerdozio e coronato da glorioso martirio con la fucilazione.







Soltanto perché non potevano permettersi il lusso di pagargli la scuola, si erano opposti con tanta fermezza all’idea che uno dei loro figli entrasse in seminario. Per il resto, Germano Flores e Mercede García erano buoni e ferventi cristiani e non si sarebbero mai permessi di ostacolare una vocazione sacerdotale. Siamo in Messico, nel 1915, e precisamente a Taxco, Guerrero, nella diocesi di Chilapa, dove vivere non è sempre facile, specie in quel periodo e per far andare avanti una famiglia servono anche le braccia di un ragazzo di 14 anni. Che è però talmente convinto che quella del sacerdozio sia la sua strada, da mettersi in quattro per trovare da sé, presso sacerdoti e amici, i benefattori di cui ha bisogno per andare in seminario di Chilapa, dove studia senza farsi pregare; tutti gli riconoscono intelligenza e capacità non comuni e lui collabora per quanto può al suo mantenimento, tagliando barba e capelli a questo e a quello. Intraprendente e determinato, dunque, il ragazzino, che nel poco tempo libero si dedica anche con profitto alla scultura e alla pittura. Il 5 aprile 1924 è ordinato sacerdote e lo mandano subito ad esercitare il ministero nella parrocchia di Chilpancingo, dove rimane fino allo scoppio, nel 1926, della persecuzione religiosa. In quell’anno dovrebbe trasferirsi a Tecalpulco, ma la situazione è così incandescente e i preti sono così braccati e perseguitati che deve darsi alla macchia, vivendo per parecchio tempo tra i monti, patendo la fame e la sete fino a quando riesce a trovare rifugio nella casa paterna. Qui si ferma il meno possibile, cosciente dei pericoli che fa correre anche ai suoi familiari, e nei primi giorni del 1927 raggiunge Città del Messico, qualificandosi come medico e frequentando anche per alcuni mesi l’Accademia, dove perfeziona le sue inclinazioni artistiche. Ma nella capitale non resta con le mani in mano: oltre ad esercitare clandestinamente il suo ministero, insieme alla Lega Nazionale per la Difesa della Religione cerca di pacificare gli animi nel clima torrido della persecuzione religiosa che si sta respirando in tutto il Messico. Così facendo, finisce per esporsi troppo e con un bel gruppetto della Lega a giugno finisce in cella e vi resta per oltre un mese, tutto trascorso in preghiera e nel sostegno spirituale degli altri detenuti. A tirarlo fuori dal carcere ci pensa una famiglia amica, ma Padre Margarito ormai ha il presentimento che la sua sorte è definitivamente segnata. Ne parla apertamente, con serenità e fermezza, raddoppiando le preghiere e le occasioni per esercitare bene il suo ministero, consapevole che il tempo a sua disposizione si fa sempre più breve. E’ sicuramente questo il pensiero che lo accompagna in quel giorno di ottobre, quando celebra l’ultima messa nella capitale, poche ore prima della sua partenza per tornare in diocesi. È sicuramente la sua messa più sofferta, celebrata per ottenere il dono della pacificazione del suo amato Messico, durante la quale offre la propria vita perché non venga più sparso altro sangue innocente. Arrivato fortunosamente a Chilapa, non ha neppure il tempo di disfare le valigie che il vicario generale subito lo destina come parroco di Atenango del Rio. Si rimette in viaggio per raggiungere la sua nuova parrocchia , ma qui trova ad accoglierlo le truppe federali. Spogliato e lasciato con i soli indumenti intimi, picchiato e malmenato, viene trascinato fino a Tuliman a piedi nudi, circondato come un malfattore dalle guardie, che gli negano anche il conforto di un goccio d’acqua. Qui lo attende un processo sommario , al termine del quale è scontata la sua condanna a morte per il semplice motivo di essere un prete. Sceglie come luogo per essere fucilato il muro posteriore della chiesa e vi si dirige con assoluta serenità. È il 12 novembre 1927. Come ultimo desiderio chiede il tempo necessario per una breve preghiera e per baciare la sua amata terra messicana; il gesto non deve passare inosservato al plotone d’esecuzione, se una delle guardie gli si avvicina per sussurrargli una richiesta di perdono. “Non solo il mio perdono, ma anche la mia benedizione per tutti voi”: sono le ultime parole, prima che una raffica di pallottole gli fracassino il cranio. Padre Margarito Flores Garcia, il parroco massacrato a 28 anni a causa del suo ministero, è stato beatificato nel 1992 e proclamato santo il 21 maggio 2006.


Autore: Gianpiero Pettiti

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12/11/2016 08:44
 
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San Margarito Flores Garcia Sacerdote e martire

12 novembre


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Taxco, Messico, 22 febbraio 1899 - Tulimán, Messico, 12 novembre 1927

Nacque a Taxco, Guerrero (Diocesi di Chilapa) il 22 febbraio 1899. Parroco di Atenango del Río, Guerrero (Diocesi di Chilapa). I tre anni trascorsi nel ministero furono sufficienti per conoscere la sua indole sacerdotale. Il Vicario generale della Diocesi lo nominò vicario con funzioni di parroco di Atenango del Rio, Guerrero. Il Padre Margarito si mise all'opera. Fu scoperto, identificato come sacerdote, quando stava per giungere alla meta; fu imprigionato e condotto a Tulimán, Guerrero, luogo in cui venne dato l'ordine di fucilarlo. Il Padre Margarito chiese il permesso di pregare, si inginocchiò per qualche secondo, baciò il suolo e quindi, in piedi, attese gli spari che gli distrussero la testa e lo unirono per sempre a Cristo Sacerdote, il giorno 12 novembre 1927.

Emblema: Palma


Martirologio Romano: Nella città di Tulimán in Messico, san Margherito Flores, sacerdote e martire, che, durante la grande persecuzione contro la Chiesa, fu arrestato per il suo sacerdozio e coronato da glorioso martirio con la fucilazione.







Soltanto perché non potevano permettersi il lusso di pagargli la scuola, si erano opposti con tanta fermezza all’idea che uno dei loro figli entrasse in seminario. Per il resto, Germano Flores e Mercede García erano buoni e ferventi cristiani e non si sarebbero mai permessi di ostacolare una vocazione sacerdotale. Siamo in Messico, nel 1915, e precisamente a Taxco, Guerrero, nella diocesi di Chilapa, dove vivere non è sempre facile, specie in quel periodo e per far andare avanti una famiglia servono anche le braccia di un ragazzo di 14 anni. Che è però talmente convinto che quella del sacerdozio sia la sua strada, da mettersi in quattro per trovare da sé, presso sacerdoti e amici, i benefattori di cui ha bisogno per andare in seminario di Chilapa, dove studia senza farsi pregare; tutti gli riconoscono intelligenza e capacità non comuni e lui collabora per quanto può al suo mantenimento, tagliando barba e capelli a questo e a quello. Intraprendente e determinato, dunque, il ragazzino, che nel poco tempo libero si dedica anche con profitto alla scultura e alla pittura. Il 5 aprile 1924 è ordinato sacerdote e lo mandano subito ad esercitare il ministero nella parrocchia di Chilpancingo, dove rimane fino allo scoppio, nel 1926, della persecuzione religiosa. In quell’anno dovrebbe trasferirsi a Tecalpulco, ma la situazione è così incandescente e i preti sono così braccati e perseguitati che deve darsi alla macchia, vivendo per parecchio tempo tra i monti, patendo la fame e la sete fino a quando riesce a trovare rifugio nella casa paterna. Qui si ferma il meno possibile, cosciente dei pericoli che fa correre anche ai suoi familiari, e nei primi giorni del 1927 raggiunge Città del Messico, qualificandosi come medico e frequentando anche per alcuni mesi l’Accademia, dove perfeziona le sue inclinazioni artistiche. Ma nella capitale non resta con le mani in mano: oltre ad esercitare clandestinamente il suo ministero, insieme alla Lega Nazionale per la Difesa della Religione cerca di pacificare gli animi nel clima torrido della persecuzione religiosa che si sta respirando in tutto il Messico. Così facendo, finisce per esporsi troppo e con un bel gruppetto della Lega a giugno finisce in cella e vi resta per oltre un mese, tutto trascorso in preghiera e nel sostegno spirituale degli altri detenuti. A tirarlo fuori dal carcere ci pensa una famiglia amica, ma Padre Margarito ormai ha il presentimento che la sua sorte è definitivamente segnata. Ne parla apertamente, con serenità e fermezza, raddoppiando le preghiere e le occasioni per esercitare bene il suo ministero, consapevole che il tempo a sua disposizione si fa sempre più breve. E’ sicuramente questo il pensiero che lo accompagna in quel giorno di ottobre, quando celebra l’ultima messa nella capitale, poche ore prima della sua partenza per tornare in diocesi. È sicuramente la sua messa più sofferta, celebrata per ottenere il dono della pacificazione del suo amato Messico, durante la quale offre la propria vita perché non venga più sparso altro sangue innocente. Arrivato fortunosamente a Chilapa, non ha neppure il tempo di disfare le valigie che il vicario generale subito lo destina come parroco di Atenango del Rio. Si rimette in viaggio per raggiungere la sua nuova parrocchia , ma qui trova ad accoglierlo le truppe federali. Spogliato e lasciato con i soli indumenti intimi, picchiato e malmenato, viene trascinato fino a Tuliman a piedi nudi, circondato come un malfattore dalle guardie, che gli negano anche il conforto di un goccio d’acqua. Qui lo attende un processo sommario , al termine del quale è scontata la sua condanna a morte per il semplice motivo di essere un prete. Sceglie come luogo per essere fucilato il muro posteriore della chiesa e vi si dirige con assoluta serenità. È il 12 novembre 1927. Come ultimo desiderio chiede il tempo necessario per una breve preghiera e per baciare la sua amata terra messicana; il gesto non deve passare inosservato al plotone d’esecuzione, se una delle guardie gli si avvicina per sussurrargli una richiesta di perdono. “Non solo il mio perdono, ma anche la mia benedizione per tutti voi”: sono le ultime parole, prima che una raffica di pallottole gli fracassino il cranio. Padre Margarito Flores Garcia, il parroco massacrato a 28 anni a causa del suo ministero, è stato beatificato nel 1992 e proclamato santo il 21 maggio 2006.


Autore: Gianpiero Pettiti

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13/11/2016 09:16
 
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San Dalmazio di Rodez Vescovo

13 novembre


Sec. VI

Emblema: Bastone pastorale


Martirologio Romano: A Rodez in Aquitania, san Dalmazio, vescovo, la cui generosità verso i poveri è lodata da san Gregorio di Tours.







Nel mondo romano, e specialmente nella tarda latinità, erano frequenti i nomi propri che indicavano la provenienza di una persona, o della sua famiglia, da una certa provincia dell'Impero. Così, chi era originario della Siria poteva esser chiamato Siro, chi veniva dalla Mauretania, Mauro, chi discendeva da una tribù scozzese, Scoto.
Oggi, per esempio, il Martirologio commemora un Dalmazio. cioè a stare al significato del nome, un cittadino della Dalmazia, e un Brizio, cioè un cittadino della Britannia. Quello di oggi non è l'unico Santo di nome Dalmazio: ce ne sono altri due o tre, uno dei quali festeggiato il 3 agosto insieme con il figlio San Fausto. Egli fu Abate a Costantinopoli al tempo di Teodosio il Grande, e passò gran parte della sua vita nella solitudine e nello studio. Tenace e sapiente oppositore delle eresie del suo tempo, ruppe il proprio isolamento soltanto per recarsi al famoso Concilio di Efeso nel quale fu esaminata e finalmente condannata la dottrina eretica di Nestorio, Patriarca di Costantinopoli. Per il valido aiuto dato alla causa dell'ortodossia cattolica, sostenuta soprattutto da San Cirillo, il quale riuscì a fare approvare il dogma della divina maternità della Madonna, San Dalmazio ebbe l'onore di venir detto " Avvocato del Concilio di Efeso ".
Un altro San Dalmazio, festeggiato il 5 dicembre, vien detto Vescovo di Pavia. Il suo episcopato sarebbe stato brevissimo, perché interrotto con la spada dalla persecuzione di Diocleziano, l'Imperatore dalmata, non di nome, ma di fatto, perché nato a Spalato, e che potrebbe definirsi il " pericolo pubblico numero uno " dei cristiani, a causa della sua improvvisa, lunga e crudelissima persecuzione, che fu anche l'ultima.
Veramente, le reliquie di questo San Dalmazio non si trovano a Pavia, ma in provincia di Cuneo, e dettero il nome a Borgo San Dalmazzo. Più tardi, prima del Mille, vennero riposte ad Asti.
Il San Dalmazio di oggi fu un francese, Vescovo di Rodez, luminoso per saggezza nei burrascosi tempi dei trapasso tra la dominazione dei Visigoti e il regno dei Franchi. Si sa che intervenne autorevolmente in molti ConciIi delle Chiese francesi, e i biografi gli attribuiscono diversi interventi miracolosi.
Il più sensazionale, sarebbe stato quello del condannato a morte, per il quale inutilmente San Dalmazio aveva chiesto la grazia ai giudici. Quando fu impiccato, il corpo del disgraziato levitò prodigiosamente in aria, senza gravare sul capestro. Perciò, quando si andò per seppellirlo, venne trovato ancora vivo, e per quella volta scampò alla morte ignominiosa.
Un simile miracolo, osserva un biografo, uguaglia San Dalmazio, vissuto nel VI secolo, al grande San Martino, festeggiato due giorni fa e la cui luce è presente, nel Martirologio, in questo periodo dell'anno, che anche popolarmente, e con riferimento al clima, vien detto " estate di San Martino ".
Si tratta per San Dalmazio, di un complimento ambitissimo, perché il Vescovo di Tours venne considerato dai Francesi, per molti secoli, culmine e perfezione della santità, specialmente dei Vescovi e dei missionari. Una specie di pietra di paragone, sulla quale la virtù dei Santi vissuti più tardi poteva essere provata e misurata, senza esserne mai immiserita o umiliata.

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15/11/2016 08:39
 
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San Flaviano di Vercelli Vescovo

15 novembre


m. Vercelli, 556

San Flaviano, quattordicesimo vescovo di Vercelli, successore di San Costanzo, fu insigne poeta e cultore della memoria dei santi locali. San Flaviano promosse inoltre la decorazione con particolari ornamenti, dell’antica basilica eusebiana.

Etimologia: Flaviano = dai capelli biondi, dal latino


Emblema: Mitra, Pastorale








San Flaviano fu il quattordicesimo vescovo di Vercelli, succedendo così a San Costanzo nel 541 circa. La sua cultura elevata denota la quasi certa provenienza dal celebre cenobio fondato dal protovescovo Sant’Eusebio, un’istituzione che raccoglieva a vita comune e sotto un’austera disciplina i candidati al sacerdozio, in pratica una sorta di seminario del tempo.
Flaviano è ricordato dagli storici quale “Damaso vercellese”, paragonandolo così al papa poeta San Damaso, dunque il più elevato rappresentante della scuola poetica e letteraria del cenobio. Il santo vescovo lasciò preziosi segni della sua capacità di compositore nei carmi sepolcrali dedicati ai primi santi della diocesi vercellese. Gli scritti di Flaviano, infatti, sono conservati esclusivamente nei marmi e nelle sillogi antiche e comprendono in tutto un centinaio di versi riferiti a Sant’Eusebio ed alle prime consorelle del cenobio femminile, fondato da Santa Eusebia, presunta sorella del protovescovo. Si segnala in particolare lo splendido carme che orna il sepolcro delle sante Costanza ed Esuperia, sorelle del vescovo San Costanzo. San Flaviano promosse inoltre la decorazione con particolari ornamenti, in particolare mosaici ed iscrizioni metriche, dell’antica basilica eusebiana.
Questo vescovo è sicuramente annoverato tra i più illustri porporati vercellesi. Il suo epitaffio funebre ricorda le sue peculiari qualità: prestante nel fisico e nella virtù, generoso nel perdonare, buono di cuore, versatile e vivace d’ingegno, delicato di sentimento e ricco di vita interiore. Queste sue doti, sopravvissute all’oblio del tempo, emergono ancora oggi dai suoi carmi. Dopo tanti secoli testimoniano infatti ancore che Dio è armonia, bellezza e soprattutto amore, come ha ricordato nella sua prima enciclica il pontefice Benedetto XVI.
San Flaviano è festeggiato al 15 novembre, anche se in realtà purtroppo la sua memoria non compare più sul calendario liturgico diocesano.


Autore: Fabio Arduino

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16/11/2016 09:18
 
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Santi Lusore e Leucadio

16 novembre




Martirologio Romano: A Dol nel territorio di Bourges in Francia, commemorazione dei santi Leucádio e Lusóre: il primo, senatore delle Gallie, ancora pagano, accolse i primi predicatori della fede cristiana a Bourges e fece in questo villaggio della sua casa una chiesa; l’altro, suo figlio, si dice abbia lasciato questo mondo indossando la veste bianca dei neofiti.

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17/11/2016 08:47
 
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Sant' Ilda Badessa

17 novembre


Sec. VII

Martirologio Romano: A Whitby nella Northumbria in Inghilterra, santa Ilda, badessa, che accolta la fede e i sacramenti di Cristo, posta alla guida del monastero, si adoperò per il rinnovamento della disciplina monastica maschile e femminile, per la difesa della pace e dello spirito di carità e per la promozione del lavoro e della lettura della Sacra Scrittura, al punto che si riteneva avesse compiuto in terra opere celesti.







La madre, una Principessa inglese, sognò di avere sotto il vestito un brillante purissimo e bellissimo, che tratto fuori illuminava tutta la isola con il suo splendore. Pensò naturalmente alla nascita di un maschio, il quale avrebbe rinnovato la gloria del Re Edwin, e fu delusa quando invece venne alla luce una bambina.
Vagheggiò allora per lei uno splendido sposalizio con un Principe, che l'avrebbe fatta brillare su qualche trono inglese, com'ella, la madre, aveva brillato al fianco di Ererico, Re di Nurthumbria.
Il Vescovo Paolino, compagno di Sant'Agostino di Canterbury, e uno dei primi Vescovi nell'Inghilterra del VII secolo, battezzò la bambina, nell'età della ragione, con il nome di Ilda. E fu proprio la bianca veste battesimale che dette alla Principessa il primo ammanto di luce.
Deludendo ogni aspettativa e disprezzando ogni onore, Ilda abbandonò la casa principesca per mettersi al servizio di Dio. Lasciò il paese dove era conosciuta, per recarsi nelle regioni orientali dell'isola, celandosi agli occhi del mondo e rimanendo solo sotto lo sguardo del Padre celeste.
Allora si vide quanto fosse stato profeticamente vero il sogno di sua madre. Più Ilda fuggiva il mondo, più il mondo la seguiva; più si celava, più si rivelava la luce spirituale che da lei irradiava con abbagliante splendore. A trentatré anni, Ilda attirava attorno a sé giovani desiderose di vita contemplativa. Dov'ella passava, sorgevano monasteri in ogni contea dell'Inghilterra.
Per altri trentatré anni Ilda ricamò per la sua patria questa mistica veste, con una delicatezza e insieme con una fermezza che fecero stupire anche gli uomini più quadrati. A lei, donna, si rivolgevano infatti per consiglio i potenti dell'isola; a lei, monaca, ricorrevano prelati e religiosi.
Per trent'anni, Ilda fu così la guida spirituale dell'Inghilterra cristiana. La prima cosa che raccomandava era la giustizia. Il primo dovere, il primo debito dell'uomo, per questa donna piena di illuminata saggezza, era la giustizia, che non si stancava mai di consigliare. Conseguenza della giustizia era la pace, e fiore della raggiunta pace nella giustizia era la pietà. Come si vede, la dottrina e la condotta di Ilda non aveva nulla di sentimentale. Ella partiva dalla solida piattaforma delle virtù cardinali, giustizia, fortezza, prudenza e temperanza, per salire alle virtù teologali, fede, speranza e carità. Partiva dalla vita pratica per giungere a quella contemplativa.
Molti dei suoi seguaci, cioè di coloro che si posero sotto la sua guida spirituale, divennero Vescovi, e furono ottimi pastori, appunto perché solidamente formati da quella donna che univa a una infiammata carità una profonda saggezza.
Santa Ilda fu così la grande maestra di spirito dell'Inghilterra; il diamante che illuminò tutta l'isola. Gli ultimi anni della sua vita, nel celebre monastero di Whitby, furono tormentati da una febbre continua, che la consumava senza spengerla. Sembrava che il calore della sua anima struggesse a poco a poco il corpo, sprigionando sempre nuova e inesauribile luce. A quella luce, come un faro levato su tutta l'isola, guardavano Vescovi e Sovrani, monaci ed eremiti, donne e fanciulli, per indirizzare la loro navigazione verso il sicuro porto delle anime.

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18/11/2016 09:43
 
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Santa Filippina Rosa Duchesne Monaca

18 novembre


Grenoble, Francia, 29 agosto 1769 - St. Charles, Missouri, 18 novembre 1852



Coetanea di Napoleone, studia dalle Visitandine, a Grenoble. A 18 anni il monastero la accoglie come novizia, anche se lei non fa in tempo a pronunciare i voti solenni: la Rivoluzione sopprime conventi e monasteri. Rosa decide allora di dedicarsi all'assistenza degli ultimi. Nel 1801 le comunità religiose riacquistano la libertà, e lei entra nella società del Sacro Cuore, creata nel 1800 da madre Maddalena Sofia Barat. Nel 1818 arriva con quattro consorelle in Louisiana, dove il vescovo cerca aiuto per l'assistenza religiosa agli immigrati francesi. Rosa apre una scuola gratuita nel 1820, e intanto arrivano altre consorelle; nel 1828 le case con scuola sono sei, in Louisiana e Missouri. Lei deve lasciare la responsabilità di superiora: le fatiche l'hanno resa invalida. E tuttavia c'è un nuovo campo di lavoro da aprire: quello dell'evangelizzazione e dell'istruzione per la popolazione indiana seminomade dei Potawatomi, nel Kansas dove c'è una missione e dove la religiosa si reca in visita nonostante la malattia. Dal Kansas fa ritorno a Saint Charles, nel Missouri, dove muore a 83 anni. Beatificata nel 1929, madre Filippina è stata proclamata santa da Giovanni Paolo II nel 1988. (Avvenire)

Martirologio Romano: Nella città di Saint-Charles in Missouri negli Stati Uniti d’America, santa Filippina Duchesne, vergine delle Suore del Sacro Cuore di Gesù, che, nata in Francia, al tempo della rivoluzione in patria aggregò una comunità religiosa e, recatasi poi in America, vi istituì numerose scuole.








Da un padre che aveva assorbito le idee di Voltaire e da una madre tutta casa e chiesa, quale felice combinazione di geni si poteva sperare? Filippina Rosa Duchesne viene al mondo a Grenoble il 29 agosto 1769. Eredita da papà un carattere forte, insieme ad alcuni tratti di ostinazione, impetuosità e testardaggine. In compenso, da mamma assorbe un’inclinazione per la preghiera e per le opere di carità e per l’altruismo.
Fin da bambina si lascia affascinare dai racconti di vita missionaria e a 8 anni sogna di andare ad evangelizzare gli indiani d’America. L’anticlericalismo papà non gli impedisce di rispettare preti e suore e, soprattutto, di affidare a queste ultime l’educazione della sua bambina. Così, a 12 anni Filippina viene affidata alle suore della Visitazione, ma papà si affretta a riportarla a casa quando si accorge che lei ha un’inclinazione un po’ troppo accentuata per la vita religiosa.
A 17 anni le trova un buon partito e allora lei sfodera il suo bel caratterino, eredità di famiglia, per dire chiaro e tondo a tutti che vuole farsi suora. Manco a dirlo, vince lei e a 18 anni, all’insaputa, dei suoi entra nel convento della Visitazione. Dopo il noviziato papà le impedisce di prendere i voti, ma, cosa ben più grave, sulla Francia si abbatte la rivoluzione francese, che fa chiudere i conventi e disperde i religiosi.
Filippina depone l’abito monacale e torna casa, aspettando che la bufera passi, ma quando potrebbe rientrare in convento questo non esiste più. Si dà da fare per restaurarne le mura e soprattutto per ricostituire la comunità con alcune sue ex compagne di noviziato, ma quando scopre l’esistenza della Società del Sacro Cuore, appena fondata da Maddalena Sofia Barat, si affretta a mettere nelle mani di questa donna eccezionale e carismatica se stessa, le amiche e il monastero.
A 35 anni può così finalmente emettere i voti religiosi, continuando a coltivare il sogno della missione. La fondatrice, che ha imparato a conoscerla bene nei pregi e negli eccessi del carattere, pensa però più opportuno trattenerla in Francia, dove tra l’altro ha anche bisogno di lei come segretaria generale della Congregazione. Arriva però il giorno che proprio non ce la fa più a trattenerla e deve lasciarla partire: Filippina è sulla soglia dei cinquant’anni, ma con l’entusiasmo per la missione di un’adolescente.
Dopo un viaggio avventuroso tocca il suolo americano, stabilendosi con una piccola comunità di suore in Luisiana. Ventidue anni di lavoro missionario, soprattutto speso per evangelizzare ed educare, fanno crescere la Società del Sacro Cuore, che ben presto raccoglie vocazioni anche su suolo americano. Filippina, che ha poco senso del successo dei suoi sforzi e che con l’umiltà dei santi pensa davvero di essere inutile, continua a sognare il lavoro “di frontiera”, in mezzo ai “selvaggi”. La accontentano a 70 anni suonati, facendola rientrare in una spedizione missionaria diretta in una riserva di indiani Potawatomi.
Il sogno di Filippina, che si era avverato dopo 60 anni, dura poco, un anno o poco più, quando per le condizioni di salute pensano bene di farla tornare indietro. Ubbidiente e umile torna in Luisiana, a rattoppare vestiti e soprattutto a pregare per altri dieci anni. Muore il 18 novembre 1852.
Proclamata beata da Pio XI nel 1929, è stata canonizzata da Giovanni Paolo II nel 1988.

Autore: Gianpiero Pettiti

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19/11/2016 08:41
 
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San Narsete (Nerses) I il Parto Katholicos degli Armeni

19 novembre


IV secolo

San Narses I il Grande fu un Catholicos armeno (o Patriarca) che visse nel IV secolo. Fu padre di un altro catholicos, San Sahak I. Appartenente alla stirpe reale che aveva visto tra i suoi componenti San Gregorio Illuminatore, trascorse la sua gioventù a Cesarea dove sposò Sanducht, una principessa mamiconianea. Dopo la morte della moglie fu nominato cavaliere da Re Arshak II e, pochi anni più tardi, entrò nella gerarchia ecclesiastica. Fu eletto catholicos nel 353. Il suo patriarcato segnò una nuova era nella storia dell'Armenia. Fino ad allora infatti la Chiesa era stata identificata con la famiglia reale e la nobiltà; Narses la portò a un più stretto contatto con le credenze e gli usi del popolo armeno. Durante il Concilio di Ashtishat (354) promulgò infatti numerose leggi riguardanti il matrimonio, i giorni di festa e il culto divino. Costruì inoltre scuole e ospedali, inviando monaci per tutto il paese a predicare il Vangelo a quella parte di popolazione più indigente. Alcune di queste riforme, per il loro carattere "popolare", provocarono la reazione del Re che decise di esiliarlo a Edessa. Nonostante l'allontanamento forzato continuò ad intrattenere rapporti con il Regno armeno, tanto che si suppone abbia svolto il ruolo di ambasciatore a Costantinopoli per assicurare all'imperatore l'appoggio dello Stato Armeno nella guerra contro i Persiani. A seguito della salita al trono del nuovo Re, l'ariano Pap (369) Narses tornò al proprio trono patriarcale. A causa dei comportamenti del nuovo Re, considerati dal patriarca dissoluti e indegni, Narses proibì lui l'entrata in chiesa. Con il pretesto di una riconciliazione, nel 373, Pap invitò il patriarca al suo tavolo, avvelenandolo. Viene venerato come santo dalla Chiesa ortodossa armena e da quella cattolica, che lo venera il 19 novembre.







Discendente dalla fami­glia di s. Gregorio Illuminatore e nipote di s. Iusik, Narsete nacque ca. l'a. 330 da Athanagines, figlio di Iusik e da Bambish, figlia del re armeno Tiran. Dopo avere ricevuto un'educazione corrispondente al suo stato principesco, frequentò le scuole elleniche di Cesarea. Sposato con la figlia del principe Vardan Mamikonian, Sahaktucht, ebbe un figlio che chiamò Sahak, il futuro grande Katholicos santo. Dopo tre anni, mortagli la moglie, Narsete ritornò in patria dove fu assunto dal re come suo camerlengo.
Nel 350 Arshak, figlio di Tiran, succedeva al padre sul trono del regno armeno, e cominciava a ristabilire l'ordine fra i principi, affidando a ciascuno il proprio ufficio ed il posto che gli competeva per successione; Tiran, infatti, aveva usurpato tutti i loro diritti. In questa occasione anche i principi chiesero al re di ristabilire alla sede katholicossale, com'era consuetudine, un discendente della famiglia di s. Gregorio. Il re acconsenti alla proposta e, d'accordo con i principi e con il popolo, scelse il camerlengo reale, il giovane Narsete che Fausto (Storia, IV, 3) descrive: « Di statura alta e di una bellezza eccezionale, ma nel medesimo tempo timoroso di Dio ed osservante dei precetti divini, sapiente e modesto, caritatevole e misericordioso, casto e sobrio nella vita coniugale, ed esemplare nel servizio militare ». Saputo dell'acclamazione popolare e del beneplacito del re, Narsete rifiutò l'elezione e per con­vincerli, cominciò ad accusarsi di peccati che non aveva mai commesso. Il popolo, incredulo, si assunse tutta la responsabilità di quei peccati, mentre il re, per troncare la questione, prese la spada dalle sue mani e gli tagliò la chioma. Quindi i vescovi armeni, su invito del re, si radunarono in un sinodo per eleggerlo canonicamente Katholicos dell'Armenia; poi lo inviarono a Cesarea per l'ordi­nazione sacerdotale e la consacrazione episcopale, accompagnato da otto principi e da una parata militare, come era consuetudine dai tempi di s. Gregorio.
Fausto afferma che a Cesarea Narsete fu consacrato dal metropolita Eusebio, e la data di tale consa­crazione, come risulta dall'analisi dei dati storici, sarebbe il 353. A quest'epoca, però, secondo la Series Episcoporum pubblicata dal Gams, il metro­polita di Cesarea era Dianeo (341-362); tuttavia in un documento armeno antico, che riporta la serie dei vescovi di Cesarea dall'inizio fino ai tempi di Elladio, troviamo notato per Eusebio: « Questi consacrò Nerses e rimase sulla sede per anni 19 ». Quindi essendo nota la data della morte di Euse­bio (370), quella dell'inizio della sua carriera, secondo il documento, dovrebbe essere l'anno 352; tutto ciò, unito ad altri dati, confermerebbe come data di consacrazione di Narsete l'anno 353.
Dopo il ritorno alla sua sede episcopale, Narsete convocò un sinodo i cui Atti non ci sono pervenuti, ma di cui Fausto ha conservato un riassunto: Narsete ordinò la costruzione di ospedali e di ospizi per i lebbrosi e per tutti i poveri della città che dove­vano essere ricoverati in questi luoghi e mantenuti dalla carità dei fedeli; vietò sotto severe pene l'usanza superstiziosa di piangere i morti secondo i riti pagani; decretò leggi per regolare il matrimonio cristiano e la vita coniugale; inflisse pene contro tutti i vizi e i delitti. Esortò inoltre il re, i principi e tutti coloro che esercitavano l'autorità, ad essere miti verso i propri sudditi, e a non gravarli di tasse eccessive. Ai sudditi ordinò di rendere perfetta obbedienza e fedeltà alle autorità. Infine istituì in diversi luoghi scuole di lingua greca e siriaca, per l'educazione della gioventù ed in particolare degli ecclesiastici.
Fausto loda l'ordine e la prosperità della Chiesa armena ai tempi di Narsete e scrive: « Ai suoi tempi le chiese godevano della pace e tutti i vescovi erano circondati di rispetto in tutta l'Armenia; le chiese erano colme di pompa e di magnificenza; il clero aumentava di numero, ed egli costruiva in tutto il paese nuove chiese e monasteri per i monaci. Egli stesso liberò molti dalla schiavitù; aiutava le vedove e gli orfani, ed ogni giorno ospitava molti poveri alla sua tavola. Benché avesse istituito ospizi per i poveri e gli indigenti, accettava nel suo palazzo chiunque venisse a chiedere aiuto, ed egli stesso li lavava, li ungeva e distribuiva loro il cibo » (Storia, IV, 4). Con l'istituzione degli ospizi e dei lebbrosari iniziò nell'Armenia quell'opera sociale che doveva continuare nei secoli seguenti a cura della Chiesa armena. Tutti i fedeli erano invitati ad aiutare queste opere; anzi, furono ema­nati anche canoni penali, che infliggevano come pena l'aiuto in denaro o in lavoro a questi ospizi. L'organizzazione fondata da Narsete è quindi una delle prime del genere che s'incontrano nella storia.
Come capo della Chiesa armena, aveva anche compiti nella vita civile e politica del regno; infatti a lui era affidato il tribunale. Il re stesso lo man­dò alla corte di Bisanzio per trattare con l'impe­ratore. La sua prima missione fu, nel 354, presso l'imperatore Costanzo II, con il quale stipulò un trattato di alleanza. Ritornò in patria riportando con sé i due nipoti del re Arshak, trattenuti presso l'imperatore come ostaggi, e la figlia di un prefetto dei pretoriani, Olimpia, come moglie per il re.
Ma la collaborazione tra Narsete e Arshak non durò a lungo, poiché quest'ultimo seguiva nella vita privata e sociale soltanto i propri interessi, non dando ascolto alle ammonizioni del vescovo. Il motivo fondamentale e decisivo della rottura tra i due fu l'uccisione di Gnel, nipote dello stesso re, avvenuta nel 359. Narsete esortò il sovrano a desi­stere dal suo delitto, ma questi, non solo non ritirò l'ordine dell'uccisione, ma prese anche la moglie della vittima. Il vescovo allora lo scomunicò, riti­randosi dal suo ufficio. Arshak elesse al suo posto Ciunak invitando i vescovi armeni a consacrarlo, ma, ad eccezione di due, nessuno accettò l'invito. Ciunak, che non ebbe alcuna giurisdizione eccle­siastica e si accontentò di accompagnare il re, non fu preso in considerazione dai vescovi armeni i quali affidarono l'ufficio di Narsete a Iussik che rap­presentò la Chiesa armena nel sinodo di Antiochia (364), come si legge tra i firmatari della lettera sinodale indirizzata all'imperatore Gioviano (cf. So­crate, Hist. Eccl., III, 25).
Il ritiro di Narsete nei suoi possedimenti ad Ashtishat durò per tutto il periodo del regno di Arshak, ma quando questi fu fatto prigioniero dal re sassanide Shapuh, su invito dei principi armeni, che resiste­vano all'invasione persiana, verso il 367 accettò di nuovo l'incarico. Tornò allora a Costantinopoli per stringere amicizia coll'imperatore Valentiniano I (364-375) e far incoronare il figlio di Arshak, Pap, re d'Armenia. L'imperatore accettò la proposta impegnandosi ad aiutare il nuovo re. Tornato in patria dopo il felice esito della missione, portò anche aiuti militari e potè assistere alla battaglia di Zirav in cui gli armeni riportarono la vittoria ed il re Pap potè stabilirsi sul suo trono.
Riprendendo il suo ufficio Narsete si dedicò intera­mente alla cura pastorale del popolo. Partecipò anche ai sinodi provinciali di Cesarea: nel 372 troviamo infatti il suo nome, con quello di altri due vescovi armeni, nella lettera del sinodo di Cesarea, al quale presiedette s. Basilio (Basilio, Ep. 92).
Ma anche il re Pap, come suo padre, non voleva ascoltare le ammonizioni di Narsete, anzi, risen­tito dei suoi rimproveri, lo fece avvelenare durante una festa, alla quale lo aveva invitato col pretesto di voler riappacificarsi. Il santo vescovo mori, nel 373, dopo essere ritornato al suo palazzo, circondato dai suoi amici e dai suoi discepoli.
Gli storiografi moderni non concordano circa l'uccisione da parte del re armeno, mentre il con­temporaneo Fausto lo asserisce apertamente, né vi sono motivi seri per negarlo. Non sono invece accettati l'esilio di Narsete da parte dell'imperatore Valentiniano, con il quale avrebbe avuto una discus­sione teologica circa l'arianesimo, e la sua parteci­pazione al concilio di Costantinopoli nel 381, in quanto la sua morte è fissata al 373.
Narsete fu sepolto a Thil, nella chiesa del villaggio di Erzerum, ove erano già stati sepolti tutti i suoi santi antenati e la tomba fu meta di pellegri­naggio fino all'invasione araba (sec. VII). In questo periodo la chiesa fu distrutta e non ci si curò più della tomba del santo fino al sec. XIII. Nel 1272, in seguito ad una visione, furono trovate le sue reliquie e il vescovo della diocesi, Sarkis, ordinò di costruire sul posto una chiesa a lui dedicata. Questa chiesa fu anche, da allora in poi, la catte­drale della sede vescovile.
La Chiesa armena celebra la festa di Narsete nella settimana della quarta domenica dopo Pentecoste.


Autore: Paolo Ananian

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21/11/2016 07:23
 
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San Gelasio I Papa

21 novembre


Sec. V



(Papa dal 01/03/492 al 21/496)
Africano, presiedette nel 494 il sinodo nel quale fu redatto il decreto che porta il suo nome e che distingue i libri rivelati accettati dalla Chiesa cattolica da quelli considerati come apocrifi.

Martirologio Romano: A Roma presso san Pietro, san Gelasio I, papa, che, insigne per dottrina e santità, onde evitare che l’autorità imperiale nuocesse all’unità della Chiesa, illustrò con vera profondità di analisi le prerogative dei due poteri, temporale e spirituale, sostenendo l’esigenza di una mutua libertà; spinto dalla sua grande carità e dai bisogni degli indigenti, per soccorrere i poveri morì egli stesso poverissimo.



Ascolta da RadioVaticana:





È uno strenuo difensore della fede e un tenace maestro di dottrina. Oriundo dell’Africa romana ma romano di spirito («sicut romanus natus», scrive di sé), Gelasio («colui che irride», dal greco) sale al soglio pontificio mentre in Italia cambia la dominazione straniera: Teodorico infatti inaugura - con la strage d’Odoacre e della sua famiglia - il suo regno, che sarà trentennale.
Oltre che dalla peste e dalla fame, in quegli anni Roma è scossa anche da un fenomeno - e relativa polemica - stravagante. Ecco quale. Ai piedi del Palatino si apre ancora la buia caverna che la leggenda ha identificato come il luogo di Romolo e Remo allattati dalla lupa: la festività dei lupercali che si celebra ogni anno in onore dell’allattamento di Romolo e Remo degenera sempre più, fino a diventare delle vere e proprie orge. Già i predecessori di Gelasio hanno protestato contro quest’ultima superstizione pagana, ma inutilmente. Invece la plebe, ma sostenuta anche da alcuni senatori, sosteneva che le catastrofi capitate a Roma erano dovute all’abbandono del vecchio culto propiziatorio. Ma ecco che Gelasio ha successo dove nessun Papa è riuscito: con dottrina e con precisione scrive un imponente e inattaccabile trattato contro quella cre­denza, condannando totalmente le pratiche immorali: dopo questa iniziativa, non ci sono più segni di costumanze pagane.
La stessa fermezza il Pontefice la dimostra con gli Imperatori e i patriarchi orientali nella questione dello scisma di Acacio e contro l’«Enotico».
Mantiene rap­porti collaborativi con Teodorico e con gli Imperatori d’Oriente, partendo però dal presupposto indiscutibile del primato romano. In una lettera all’imperatore Anastasio I pone inequivocabilmente la distinzione dei due poteri di origine divina: l’autorità dei Papi e quella dei Re, indipendenti ciascuna nel proprio ambito, però, sottolinea Gelasio I, la supremazia assoluta spetta a colui che Cristo ha messo a capo di tutto e tutti, riconosciuto come tale dalla Chiesa.
Gelasio nei suoi quattro anni di pontificato indebolisce e annulla gli ultimi residui del paganesimo, smorza definitivamente il mani­cheismo in Roma e il pelagianesimo tornato qua e là, nel Piceno e in Dalmazia. Scrive sei trattati teologici contro il monofisismo e lo stesso pelagianesimo, e poi molte lettere. I suoi formulari liturgici sono l’origine del «Sacramentario gelasiano», e vari suoi principi in materia ecclesiastica diventeranno punti fermi del Diritto canonico, e saranno anche inseriti nella costituzione dogmatica del Concilio Vaticano II.
Dopo la sua morte verrà sepolto nella Basilica di San Pietro.


Autore: Domenico Agasso Jr.

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22/11/2016 08:03
 
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Santi Filemone ed Appia Sposi e martiri, discepoli di San Paolo

22 novembre


Sec. I

Nella lettera a lui destinata, l'Apostolo delle Genti elogia la sua Fede e il suo amore a Cristo.

Emblema: Palma


Martirologio Romano: Commemorazione di san Filemone di Colossi, della cui carità per Cristo Gesù si rallegrò san Paolo Apostolo; è venerato insieme a sua moglie santa Affia.







Filemone di Colosse in Frigia, fu discepolo di s. Paolo. A lui l'Apostolo scrisse la più breve delle sue epistole, una delle quattro che spedì dalla prigionia romana (Eph., Phil, Col, Philem.).
Il suo nome era diffuso nell'Asia Minore (per es. il commediografo greco Filemone, cilicio, 361-262 a.C.) e soprattutto nella Frigia, come attestano, con molte iscrizioni, Aristofane (Aves, 762) e Ovidio (Metamorph., VIII, 631: il bel mito di Filemone e Bauci). Era un facoltoso colossese, proprietario di fabbricati e schiavi. Poiché s. Paolo non era stato a Colossc, Filemone deve averlo conosciuto ad Efeso (cf. Act. 19, 10-11), oppure durante un giro attraverso l'interno della provincia d'Asia (Act. 19, 26; I Cor. 16, 19). Fu convertito e battezzato da Paolo insieme ai suoi (Philem. 19: « devi a me anche te stesso »), probabilmente durante il suo lungo ministero efesino tra il 54 e il 57. Filemone si distingueva per la sua generosità nel soccorrere e nell'ospitare « i santi » (ibid. 5-7, 22) e la « chiesa » o comunità colossese, si radunava nella sua « casa » (ibid. 2). Aveva almeno cinquant'anni quando (nel 63) Paolo gli scrisse da Roma, presentandoglisi come « vecchio » (ibid. 9) ; se Archippo, che doveva averne almeno trenta poiché godeva di autorità nella chiesa colossese (Col. 4, 17), era suo figlio, Filemone era più giovane di s. Paolo di dieci o quindici anni, non più.
S. Paolo chiama Filemone (ibid. 1) suo « collaboratore »; egli aveva infatti impiantato e diffuso l'Evangelo a Colosse, insieme ad Archippo il quale è considerato da Paolo suo « commilitone » (ibid. 2) e in Col. 4, 17 è menzionato come investito d'importante ministero nella chiesa colossese; perciò parecchi ritennero fosse vescovo di Colosse, forse sotto l'alto controllo e la direzione di Filemone (preposto alle varie chiese della valle del Lieo, Laodicea compresa?). Il termine greco con cui Paolo qualifica Archippo, è classico (Senofonte, Platone, Aristotele), ma infrequente nei papiri (5-6 volte) e raro nel sec. I : solo un'altra volta nel N. T. (Phil. 2, 25) e una volta in Flavio Giuseppe al femminile (Bell. Iud. VI, 9, 1).
Non sorprende quindi se le Constitutiones Apostolicae (sec. IV), VII, 46, 12 (ed. Funck, Paderborn 1905, pp. 454 sg.) dicono Filemone vescovo di Colosse e Archippo vescovo di Laodicea (l'assegnazione di quest'ultimo a Laodicea è dovuta al fatto che in Col. 4, 17 sembra incluso nella « chiesa » di Laodicea). Che Filemone fosse capo della Chiesa di Colossepuò dedursi anche dalla sua forte e operosa amicizia con s. Paolo (Philem. 13, 17, 22), che lo pone alla pari degli altri suoi noti « collaboratori »; per mezzo suo l'Apostolo si rivolge alla « chiesa » colossese (ibid. 2, 25), le cui assemblee dovevano essere presiedute da lui « nella casa » sua.
Per uno strano equivoco, il colossese Filemone venne creduto di Rodi da vari bizantini (Suida, G. Ce-dreno, ecc.) che identificavano i Colossesi con i Rodioti, la cui isola era caratterizzata dal famosissimo « colosso ». Questa curiosa opinione riappare ancora in s. Francesco di Sales (Traité de l'Amour de Dieu, 1. VII, c. 6).
Se, come è probabile, Filemone era capo della comunità colossese, è da ritenersi uno « spirituale » eccezionalmente « perfetto » (cf. I Cor. 2, 6, 10-16), poiché l'Apostolo gli inviò, insieme alla breve lettera a lui intestata, la sublime sintesi dell'Epistola ai Colossesi. Al tempo di Teodoreto (sec. V) si mostrava ancora in Colosse la casa di Filemone (In epist. ad Philem., Prooem., in PG, XXVI, col. 601).
Appia, o meglio Affia o Apphia, fin dall'inizio della lettera, è posta da s. Paolo a fianco di Filemone « fratello diletto » e salutata come « sorella diletla » (questo aggettivo manca nella maggioranza dei codd. e nelle edizioni critiche, ma si ha nella Volgata, nella Peshitta e in parecchi codd. dal sec. VIII in poi). S. Giovanni Crisostomo, Teodoreto, ed altri al loro seguito, hanno ritenuto, con buon fondamento, che essa fosse la moglie di Filemone. Apparteneva, comunque, certamente alla sua famiglia, come del resto Archippo, nominato per ultimo fra i tre destinatari della lettera (ibid. 1-2) i quali formavano un gruppo familiare assai caro a Paolo; Archippo doveva essere il figlio di Filemone ed Appia. La loro casa amica era a disposizione dell'Apostolo (ibid. 22). I tre, insieme al loro schiavo convertito Onesimo, che è oggetto, e (con Tichico), latore dell'Epistola a Filemone, sono commemorati nei martirologi latini, al seguito dei menologi greci, il 22 nov. ; tutti e quattro sarebbero stati martirizzati insieme a Colosse.
Tra Filemone e s. Paolo intercorrevano rapporti di figlio a padre, una solidarietà (ibid. 17) di beni, di opere e di responsabilità che indusse l'Apostolo ad intervenire « più esortando che comandano » (ibid. 8-9) per risolvere il delicato caso di Onesimo, schiavo di Filemone, che era fuggito. Filemone aveva acquistato un giovane schiavo, svelto e capace, che chiamò Onesimo (« utile »), nome greco che ricorre già in Tucidide. Dopo aver derubato il padrone, Onesimo scappò; giunse a Roma, ove confluivano avventurieri da ogni nazione, mentre Paolo vi era prigioniero (61-63). Gli schiavi fuggitivi erano fuori legge e, unendosi ai loro pari, si abbandonavano spesso alla delinquenza. Esaurito il danaro, braccato forse dalla polizia posta da Filemone sulle sue tracce, Onesimo, che in casa dell'antico padrone doveva aver sentito parlare di Paolo, andò a trovarlo nell'alloggio che l'Apostolo aveva affittato e ove riceveva liberamente le visite di molti (Act. 28, 30-31).
Paolo insegnò a Onesimo qual'è la vera, d'unica libertà : la vita interiore « nascosta con Cristo in Dio » (Col. 3, 3). Gesù Cristo, il più potente e libero tra gli esseri, sacrificò la sua sovranità e la sua libertà assumendo la veste di schiavo, e volle subire la crocifissione degli schiavi (Phil. 2, 7-8), per riscattare tutti dalla quadruplice schiavitù dell'errore, della carne con i suoi desideri, del mondo, del peccato (I Cor. 7, 23; Rom. 6, 16-22), di fronte alla quale le oppressioni esteriori sono cosa insignificante. Paolo stesso era vissuto nella schiavitù della lettera della Legge, la quale non affrancava dalla carne e dal peccato; ma convertitosi allo Spirito di Cristo Signore, aveva trovato l'unica vera libertà (II Cor. 3, 17). Perciò la fede che unisce a Gesù e il Battesimo che immerge nel suo mistero di morte e di vita elevano il rigenerato sopra le transitorie vicende umane e annullano le abnormi distanze sociali prodotte dalle prepotenze egoistiche di pochi fortunati. « Hai ricevuto la vocazione cristiana essendo schiavo? Ciò non ti deve angustiare. Ma, anche se puoi diventare libero, metti a profitto la tua condizione di schiavo. Infatti, colui che è chiamato nel Signore essendo schiavo, è il liberto del Signore. Parimenti, colui che è stato chiamato essendo libero è lo schiavo di Cristo. Siete stati comprati in contanti (dal Redentore); non diventate schiavi degli uomini!» (I Cor. 7, 21-23). Il più meschino schiavo di Cristo è il più libero degli uomini; invece la libertà conclamata dagli uomini abbandonati a se stessi è la più obbrobriosa delle degenerazioni oppressive (Rom. 1, 21-26). Solo chi è morto all'uomo vecchio crocifiggendosi con Gesù al mondo e alle sue nefandezze per risorgere con lui alla nuova vita, eterna (Col. 3, 6-10; Eph. 4, 20-24; Gal. 3, 27; 6, 14-15), possiede la libertà autentica: «voi siete stati chiamati per la libertà, fratelli; soltanto che non dovete fare della libertà un pretesto per la carne, ma, mediante la carità, dovete servirvi a vicenda » (Gal. 5, 13). Dalla vera ed unica libertà che si identifica con l'amore divino in Gesù Cristo, « né i ceppi, né le oppressioni, né le sofferenze del tempo attuale » ci potranno mai separare (Rom. 8, 18, 35-39). Perciò come non esiste più distanza tra il giudeo e il pagano, non vi è più differenza tra lo schiavo e il libero (Col. 3, 11; Gal. 3, 28; I Cor. 12, 13) : sono una sola e stessa cosa in Cristo.
Ignoriamo quante volte Onesimo sia stato istruito da Paolo, il quale, alla fine, lo battezzò. Stretto in catene, l'Apostolo libera lo schiavo di Filemone, che poteva ripetere ciò che Diogene diceva del suo maestro Andatene : « Mi ha reso libero nell'anima, e così ho cessato di essere schiavo ».
Paolo avrebbe voluto trattenere Onesimo, ormai cristiano e quindi libero, con sé, perché l'aiutasse mentre era prigioniero (Philem. 13). Ma legalmente il neofito era ancora schiavo di Filemone e, poiché Tichico partiva per d'Asia (Col. 4, 7-9), Paolo invia entrambi alla chiesa di Colosse con una sua lettera per Filemone. Questa è la più breve — come si è detto — dell'epistolario paolino (25 versetti); eccezionalmente sembra essere stata scritta interamente di mano dell'Apostolo (Philem. 19) e verte intorno allo schiavo redento per il quale Paolo chiede il perdono, il condono, e delicatamente suggerisce, infine, l'affrancamento (ibid. 21). Non si tratta di un affare puramente privato : è connesso indissolubilmente alla fede e alla morale cristiana. Onesimo era ormai un « fratello carissimo e fedele » di Paolo e, in quanto tale e come uno « dei loro », interessava la Chiesa colossese (Col. 4, 9). L'Apostolo mediante questa lettera pone le premesse dell'affrancamento dello schiavo convertito. La manumissio (cf. I Cor. 7, 22), nelle province greche, era attuata in forme non solenni che venivano progressivamente accolte nel diritto romano; la più semplice e spontanea era la manumissio inter amicos; il padrone dichiarava in presenza di amici di liberare lo schiavo (U. E. Paoli). Paolo che, nel diritto nuovo e più profondo della nuova vita in Cristo, era padrone di Onesimo assai più di Filemone, inizia ora, con la liberazione dello schiavo rigenerato, l'abolizione della schiavitù.
« Incatenato per Cristo Gesù », Paolo si unisce come intestatario della lettera « il fratello Timoteo ». Gli sono in quel momento vicini Epafra « mio concaptivo in Cristo Gesù » e i « collaboratori » Marco, Aristarco, Dcmas, Luca (Philem. 23-24). Questi nomi sono gli stessi che compaiono nell'Epistola ai Colossesi (Col. 4, 10-14), ove è menzionato in più Gesù il Giusto. Varie analogie di concetto e di forma fra la fine dell'Epistola ai Colossesi e la lettera a F. (Philetn. 2 = Col. 4, 17; Philem. 1, 9, 13 = Col. 4, 18; Philetn. 8 = Col.3, 18; Philem. 10 = Col. 4, 9; Philem. 16 = Col.4, 7; Philem. 23 = Co/. 4, 10; ecc.). Molti accenni a identiche persone e circostanze, permettono di affermare che Philem. fu scritta subito dopo Col., al termine della biennale prigionia romana, cioè nella primavera del 63. Le due lettere, infatti, dovevano essere recate a Colossc da Tichico con One-simo (Col. 4, 7-9).
Come le grandi epistole, Philem. è divisa in prologo, corpo della trattazione, epilogo e, come le altre, fin dal prologo irradia la luce e la vita dell'Evangelo. L'Apostolo sa che F. leggerà la sua lettera durante la sinassi liturgica in casa sua : perciò saluta, con Filemone e Archippo che la ospitano e dirigono, « la chiesa che si riunisce in casa tua » (Philem. 2), cui ritorna nella chiusa (ibid. 25) augurandole « la grazia di N. S. G. C. » (« con lo spirito vostro »). Ciò spiega il facile passaggio della seconda persona dal singolare al plurale (vv. 3-6, 22-25).
Il prologo (vv. 1-7) è costituito dal saluto unito all'indirizzo ai tre della famiglia (Filemone, Appia ed Archippo) ed alla « chiesa » (1-3) : l'augurio (« grazia e pace ») è letteralmente identico a quello di tutte le epistole paoline (eccetto Col. 1, 2 nel testo critico!). Segue il ringraziamento a Dio (vv. 4-7), in cui loda « la carità e la fede che (tu, Filemone) hai per il Signore Gesù e verso tutti i santi, onde la partecipazione della tua fede diventi operosa nella conoscenza di tutto il bene che è in voi, per Cristo » (v. 6) ; si congratula molto a motivo della « tua carità, perché le viscere dei santi si sono ristorate (secondo la promessa di Gesù: Mt. 11, 28) per causa tua, fratello » (v. 7).
Dopo l'insinuante esordio, Paolo introduce la sua richiesta (che — osserva — potrebbe essere « comando », in virtù dell'autorità apostolica e della paternità spirituale) in forma di amorevole raccomandazione (« preferisco esortarti a motivo della carità » v. 9) in favore di Onesimo, Io schiavo fuggitivo, pentito e redento in Cristo (vv. 8-21). La domanda si svolge poi nel quadro dell'eùayysXtov paolino, e procede dalla commossa rievocazione della presente situazione dell'Apostolo all'argomentazione dogmatica che sfocia nella vita in Cristo, unica e sovraterrestre per tutti i credenti senza distinzione. « Io, Paolo, ormai vecchio, ed ora anche incatenato per Cristo Gesù, intercedo per il mio figliuolo, che ho generato (cf. I Cor. 4, 15) nei ceppi » (v. 10). Fino al v. 16 espone i motivi connessi alla persona del suo neofito.
« Onesimo (" utile ", donde una delicata paronomasia) ti fu già disutile; ma ora è utile e a te e a me. Te l'ho mandato, e tu accoglilo come le mie stesse viscere» (vv. 11-12). Dopo la sua conversione o « nuova creazione », che ha liquidato tutto il passato (cf. II Cor. 5, 17), spiega l'Apostolo, « avrei voluto trattenerlo presso di me, affinché in vece tua mi servisse mentre sono nei ceppi dell'Evangelo ». Ma, rispettoso dei diritti (legali, convenzionali) del padrone, « non ho voluto fare nulla senza il tuo permesso, né che tu compissi un'opera buona perché costretto, bensì per tua volontà» (vv. 13-14). Ed assurge ai principi supremi dell'economia salvifica (vv. 15-16) : « Forse infatti a tal fine si è separato temporaneamente da te, perché tu lo ricuperi in eterno, e non più quale schiavo ma ben più che schiavo quale fratello diletto; se è tale per me, tanto più per te per ragioni naturali e soprannaturali ». E Paolo, incalzando, conclude (vv. 17-20): «Se dunque mi consideri in comunione con te (per la fede e carità, cf. v. 6), accoglilo come me stesso. Se poi in qualche cosa ti ha danneggiato o ti è debitore, imputalo a me stesso ». E come il debitore che s'impegna legalmente, aggiunge : « Io, Paolo, ho scritto di mia mano : restituirò. Per non dirti che, a tua volta, tu mi devi te stesso. Sì, fratello, fa che io abbia da te questo favore nel Signore. Ristora le mie viscere (cf. v. 7) in Cristo ». E termina con una frase che suggerisce discretamente a Filemone una generosità più piena : « Ti ho scritto persuaso della tua obbedienza (la domanda dell'Apostolo equivale quindi a un " comando ", v. 8 : poiché si basa su motivi irrecusabili), sapendo anzi che farai anche più di quanto dico » (v. 21), concederai cioè addirittura l'affrancamento al tuo schiavo rigenerato in Cristo, divenuto quindi tuo « fratello diletto » (v. 16).
Nell'epilogo, contraccambiando Filemone con una consolante prospettiva, Paolo annunzia come probabile la sua venuta in casa di Filemone, poco dopo che vi sarà rientrato Onesimo. « Contemporaneamente prepara anche a me ospitalità; spero infatti che, mediante le vostre preghiere, vi sarò concesso » (v. 22). Le norme di ospitalità ricorrono nella Didaché 11, 3-6 (cf. J.-P. Audet).
Questo accenno dell'Apostolo al suo prossimo proscioglimento induce a supporre che la lettera a F. per porre termine all'avventura di Onesimo fu scritta al termine del biennio della prigionia romana 61-63. Ignoriamo però se il progetto di raggiungere fra breve la casa di F. a Colosse, potè realizzarsi.
John Knox, dal 1935, propugna una nuova ipotesi. Il vero padrone di Onesimo non sarebbe Filemone nominato per primo, bensì Archippo. Volendo ottenere l'affrancamento dello schiavo per associarselo nel ministero evangelico, Paolo ne perora la causa presso Archippo; ma siccome non lo conosce, indirizza la lettera a Filemone suo amico, che sembra preposto alle chiese della valle del Lico. Non fidandosi troppo di Archippo, l'Apostolo incaricherebbe di condurre a termine la pendenza Filemone e l'intera comunità (v. 2). Vuole che i fedeli di Colosse leggano la « lettera ai Laodicesi » (Col. 4, 16); Knox identifica questa con la lettera a Filemone, la cui residenza episcopale sarebbe stata Laodicea. Vuole che, dopo averla letta, insistano presso Archippo perché disimpegni il «servizio» richiestogli (ibid. 4, 17) di cedergli Onesimo. J. Knox ritiene di avere con tali precisazioni chiarito molti punti oscuri (pp. 30-34, 51-57); ma la sua elaborata, troppo ingegnosa, ricostruzione critico-storica ha riscosso poche adesioni : suscita più difficoltà di quante non ne risolva. Anche psicologicamente appare forzata, giacché trasforma in simulazione diplomatica uno scritto che si distingue a prima vista per spontaneo abbandono e limpida semplicità di cordiale effusione.
Il merito della conservazione di questa breve lettera paolina risale anzitutto a Filemone e alla sua famiglia. Menzionata dal canone Muratoriano (sec. II) che la pone con le tre lettere pastorali, la lettera a Filemone è rivendicata come autentica, contro i pochi critici radicali che la rigettarono, dai « liberali » E. Renan, A. Sabatier, H. J. Holtzmann, C. Olemen, A. Deissmann, A. Jùlicher, ecc. Lo stile, molto ammirato da H. von Soden, è squisitamente paolino. Dopo Erasmo (In Philem., 20), che sfida lo stesso Cicerone davanti alla penetrante suasività di questo rapido biglietto confidenziale, tutti ne rilevano oggi l'insuperabile grazia e suggestività.
Già F. W. Farrar istituì un diligente paragone (1892) con le due lettere di Plinio il Giovane a Sabiniano su analogo argomento, prima e dopo l'affrancamento (Epistolae, 1. IX, 21, 24), concludendo per l'inconfondibile originalità e per la totale superiorità, morale e letteraria, dello scritto paolino a Filemone.
Rinviando Onesimo al suo padrone, Paolo non intendeva certo consacrare l'istituto della schiavitù allora diffusa. Ma si astiene, sull'esempio di Gesù Cristo, da pose demagogiche e rivoluzionarie. Lascia sopravvivere i potenti che soggiogano i debali e sfruttano i poveri; ma orienta gli animi dei padroni e degli schiavi ai supremi valori immutabili, all'apprezzamento della vera inamissibile libertà, che è interiore e non subordinata alle contingenti sopraffazioni dell'homo homini lupus; afferma la completa eguaglianza di tutti alla luce di Dio in Cristo. In Col. 3, 22-41 (brano contemporaneo a Philem.), Paolo espone come l'obbedienza dello schiavo in Christo è assai più nobile della potenza del padrone spocchioso. Pur obbedendo, il credente « non cerca di piacere agli uomini, ma lavora per il Signore e non per gli uomini » ; sa che presso Dio « non vi è accezione di persone », che tutti sono uguali davanti al Giudice de! bene e del male, e che l'unico padrone tollerabile è quello che riconosce di essere anch'egli servo del « Padrone in cielo ». In tal modo lo schiavo conculcato diventa superiore all'ottuso e truce suo capo. Queste stesse norme di Col. 3, 22-41 che debbono reggere i rapporti tra i cristiani sono ribadite nella Didaché 4, 9-11 (J. P. Audet, p. 338-43).
Ormai l'unica gerarchia è quella dello Spirito di Cristo, fonte di libertà (II Cor. 3, 17). Di questa unica libertà ed eguaglianza, per cui occorre rassegnarsi alle temporanee ingiustizie terrene, l'Apostolo era costante assertore (I Cor. 7, 21-22). Chiunque è battezzato è « fratello diletto » d'ogni altro cristiano, sia pur ricco e potente (Philem. 16) : sono infatti parimenti rigenerati quali figli di Dio (Col. 1, 12-14; Gal. 3, 26; 4, 7), ed in Cristo scompare ogni differenza tra lo schiavo e il libero, il capo e il suddito (Col. 3, 11; Gal. 3, 28; I Cor. 12, 13). Questa visione cristiana, aperta anzitutto ai poveri, ai sopraffatti dai « grandi », agli umiliati ed offesi, spezzerà in breve le esteriori catene legali; è l'unica infatti che ha liberato l'uomo dalla schiavitù del mondo con i suoi privilegi e privilegiati, dall'oppressione del potere e della sua pompa con le conseguenti insaziabili cupidigie, dall'assoggettamento alla carne, al peccato e alla morte (Rom. 6, 20). Cristo ci ha tutti egualmente riscattati a caro prezzo (Col. 1, 14; I Cor. 7, 23). Ma, purtroppo, la schiavitù individuale e « di massa » continua ad imperversare illegalmente, anzi si aggrava, perché « lo Spirito del Signore, che è libertà », è soffocato dagli scaltri potenti, arricchiti dal lavoro dei pazientissimi asserviti.

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23/11/2016 08:53
 
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Sant’ Anfilochio di Iconio Vescovo

23 novembre


340/345 – 403

Etimologia: Anfilochio = proveniente da Filace, città dell'Epiro, dal greco


Emblema: Pallio


Martirologio Romano: A Konya in Licaonia, nell’odierna Turchia, sant’Anfilochio, vescovo, che, compagno di eremo dei santi Basilio e Gregorio Nazianzeno e loro collega nell’episcopato, fu insigne per santità e dottrina e sostenne molte prove per la fede cattolica.







La principale fonte a cui è possibile attingere informazioni circa Sant’Anfilochio è la sua corrispondenza con due cari amici, suo cugino San Gregorio Nazianzeno e San Basilio Magno. Anfilochio nacque in Cappadocia tra il 340 ed il 345 ed in giovane età fu insegnante di retorica a Costantinopoli. Incorso poi in difficoltà finanziarie, abbandono la capitale imperiale e si trasferì nei pressi di Nazianzo, al fine di condurre un’esistenza tranquilla e potersi prendere cura del padre anziano.
Nel 374 ricevette la nomina alla sede episcopale di Iconio, che accettò con non poca riluttanza, ben conscio di ciò che questo avrebbe comportato. Suo padre si lamentò con Gregorio Nazianzeno,poiché gli sarebbero mancate le cure amorevoli del figlio, ma il santo gli rispose che non aveva avuto alcun ruolo nella nomina di Anfilochio ed anche lui in fondo avrebbe risentito della sua mancanza. Basilio, probabile sostenitore della nomina, scrisse all’amico per incoraggiarlo ad essere guida piuttosto che succube degli altri. Anfilochio consultava spesso Basilio, che proprio per lui scrissi il trattato sullo Spirito Santo, e ne pronunciò il panegerico al funerale.
Sempre infervorato dalla questione dell’ortodossia, nel 376 Anfilochio tenne un sinodo proprio ad Iconio, onde condannare l’eresia macedone che negava la divinità dello Spirito Santo. Fu inoltre presente quando essa fu definitivamente condannata nel Primo Concilio di Costantinopoli nel 381.Esortò l’imperatose San Teodosio I a negare agli ariani la possibilità di riunirsi. Il sovrano inizialmente rifiutò, ritenendo troppo severa tale misura, ma il santo vescovo alla fine lo convinse a promulgare una legge che dichiarava illegali le assemblee pubbliche o private degli ariani. Altrettanto rigorosamente, Anfilochio si oppose alle dottrine dei messaliani, una setta carismatica e manichea che considerava la preghiera quale unica vera essenza della religione. La condanna di questa setta si ebbe durante un sinodo da lui presieduto nel 394 presso Sida, in Panfilia. Il suo amico Gregorio lo descrisse araldo della verità e vescovo irreprensibile. Suo padre testimoniò che diversi malati erano guariti per sua intersessione. Anfilochio morì nell’anno 403.


Autore: Fabio Arduino

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23/11/2016 08:54
 
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Dalle «Omelie» attribuite a san Macario, vescovo

(Om. 28; PG 34, 710-711)
L'anima che non è dimora di Cristo è infelice

Una volta Dio, adirato contro i Giudei, diede Gerusalemme in balia dei loro nemici. Così caddero proprio sotto il dominio di coloro che essi odiavano e si trovarono nell'impossibilità di celebrare i giorni festivi e di offrire sacrifici. Nello stesso modo, Dio, adirato contro un'anima che trasgredisce i suoi precetti, la consegna ai suoi nemici, i quali, dopo averla indotta a fare il male, la devastano completamente. Una casa, non più abitata dal padrone, rimane chiusa e oscura, cadendo in abbandono; di conseguenza si riempie di polvere e di sporcizia. Nella stessa condizione è l'anima che rimane priva del suo Signore. Prima tutta luminosa della sua presenza e del giubilo degli angeli, poi si immerge nelle tenebre del peccato, di sentimenti iniqui e di ogni cattiveria.
Povera quella strada che non è percorsa da alcuno e non è rallegrata da alcuna voce d'uomo! Essa finisce per essere il ritrovo preferito di ogni genere di bestie. Povera quell'anima in cui non cammina il Signore, che con la sua voce ne allontani le bestie spirituali della malvagità! Guai alla terra priva del contadino che la lavori! Guai alla nave senza timoniere! Sbattuta dai marosi e travolta dalla tempesta, andrà in rovina.
Guai all'anima che non ha in sé il vero timoniere, Cristo! Avvolta dalle tenebre di un mare agitato e sbattuta dalle onde degli affetti malsani, sconquassata dagli spiriti maligni come da un uragano invernale, andrà miseramente in rovina.
Guai all'anima priva di Cristo, l'unico che possa coltivarla diligentemente perché produca i buoni frutti dello Spirito! Infatti, una volta abbandonata, sarà tutta invasa da spine e da rovi e, invece di produrre frutti, finirà nel fuoco. Guai a quell'anima che non avrà Cristo in sé! Lasciata sola, comincerà ad essere terreno fertile di inclinazioni malsane e finirà per diventare una sentina di vizi.
Il contadino, quando si accinge a lavorare la terra, sceglie gli strumenti più adatti e veste anche l'abito più acconcio al genere di lavoro. Così Cristo, re dei cieli e vero agricoltore, venendo verso l'umanità, devastata dal peccato, prese un corpo umano, e, portando la croce come strumento di lavoro, dissodò l'anima arida e incolta, ne strappò via le spine e i rovi degli spiriti malvagi, divelse il loglio del male e gettò al fuoco tutta la paglia dei peccati. La lavorò così col legno della croce e piantò in lei il giardino amenissimo dello Spirito. Esso produce ogni genere di frutti soavi e squisiti per Dio, che ne è il padrone.
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24/11/2016 08:38
 
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San Romano di Blaye

24 novembre




Martirologio Romano: Nella fortezza di Blaye presso Bordeaux in Aquitania, ora in Francia, san Romano, sacerdote.

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25/11/2016 08:35
 
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Santi Pietro d’Alessandria, Esichio, Pacomio e Teodoro e compagni Martiri

25 novembre


† Alessandria d’Egitto, 25 novembre 311

San Pietro, vescovo di Alessandria d’Egitto, era un uomo dotato di tutte le virtù. Nel 311 venne inaspettatamente condannato a morte per ordine dell’imperatore Massimiano, ultima vittima e sigillo di una spietata persecuzione contro la Chiesa. Insieme con lui si ricordano tre santi vescovi egiziani, Esichio, Pacomio e Teodoro e molti altri cristiani, che sempre presso Alessandria e nella stessa persecuzione vennero assassinati a colpi di spada.

Martirologio Romano: Ad Alessandria d’Egitto, san Pietro, vescovo e martire, che, ornato di ogni virtù, fu improvvisamente decapitato per ordine dell’imperatore Galerio Massimiano, divenendo ultima vittima della grande persecuzione e sigillo dei martiri. Con lui si commemorano tre vescovi egiziani, Esichio, Pacomio e Teodoro, che, sempre ad Alessandria patirono insieme a molti altri nella stessa persecuzione e salirono al cielo crudelmente trafitti con la spada.



Ascolta da RadioVaticana:




Nonostante l’assoluta inattendibilità della “passio” di San Pietro, egli è menzionato parecchie volte dal grande storico ecclesiastico Eusebio di Cesarea, che lo descrive quale eccellente insegnante della religione cristiana, nonché come un grande vescovo. Nulla di certo si sa circa le sue origini e la sua provenienza, in quanto fa la sua prima comparsa sulla scena ecclesiale quando viene chiamato a succedere nel 300 a San Teonio sulla cattedra episcopale di Alessandria. Governò così questa Chiesa per circa una dozzina d’anni. Dopo i primi tre anni, dovette sopportare la feroce persecuzione dioclezianea, proseguita anche dai successori di tale imperatore. Divenne celebre per il suo prodigarsi in aiuto dei fratelli cristiani perseguitati. Com’è immaginabile, non tutti riuscirono a restare saldi nella fede essendo sottoposti a torture e toccò dunque a Pietro, la cui giurisdizione si estendeva su tutte le chiese d’Egitto, della Tebaide e della Libia, redigere delle istruzioni volte a regolare il trattamento di coloro che, pur avendo in un primo momento rinnegato la fede cristiana, desideravano riconciliarsi con la Chiesa.
Infine anche Pietro dovette inevitabilmente nascondersi e durante la sua assenza da Alessandria la chiesa egiziana subì uno scisma, le cui cause non sono però ben chiare. Pare che Melezio, vescovo di Antiochia, si fosse assunto la responsabilità di esercitare le funzioni metropolitane spettanti al legittimo vescovo alessandrino. Onde giustificare le sue azioni, diffuse alcune calunnie sul conto di Pietro, accusandolo di troppa indulgenza verso coloro che cadevano in errore. Rifiutando di ritirarsi, a Pietro non rimase altra alternativa che scomunicarlo, continuando nel frattempo a governare la sua Chiesa sino a quando non poté fare finalmente ritorno in città. La persecuzione anticristiana riprese però ben presto con Massimino Daia e nel 311 Pietro venne catturato inaspettatamente e giustiziato seduta stante senza accuse né processo.
In Egitto è conosciuto come “il sugello e il complemento della persecuzione”, in quanto fu l’ultimo martire condannato a morte dalle pubbliche autorità presso Alessandria. E’ inoltre ricordato come “colui che attraversò il muro”, in riferimento alla leggenda secondo cui, quando Pietro si accorse che le autorità erano pronte a massacrare l’enorme folla di cristiani riunitasi in segno di protesta fuori della prigione ove era detenuto, suggerì al comandante di aprire un varco nel muro approfittando delle tenebre affinché il boia potesse entrare senza essere intralciato dalla folla.
Il Martyrologium Romanum lo commemora ancora oggi nell’anniversario della sua nascita al cielo. Insieme con lui si ricordano anche tre santi vescovi egiziani, Esichio, Pacomio e Teodoro, nonché molti altri cristiani, che sempre presso Alessandria e nella stessa persecuzione vennero assassinati a colpi di spada.


Autore: Fabio Arduino

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26/11/2016 08:49
 
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Sant' Umile da Bisignano Confessore

26 novembre


Bisignano, 1582 circa - novembre 1637

La sua intensa vita interiore lo rese quasi trasparente alla luce soprannaturale di Dio, e accadde così che quel frate indotto e semplice, ritirato e modesto, venisse ricercato da sapienti e da potenti desiderosi di ottenere da lui consigli di spirituale perfezione.
Due Papi, Gregorio XV e Urbano VIII, lo ebbero in grande considerazione e insisterono perché il frate di Bisignano restasse presso di loro a Roma, dove non gli sarebbero mancati, se li avesse appetiti, leciti onori e consolanti soddisfazioni.
Frate Umile preferì invece tornare nel suo convento nel cuore della Calabria, dove il Signore aveva preparato per lui un doloroso calvario. Infatti, gli ultimi tempi della sua vita non lunga furono segnati da penose sofferenze fisiche, che il francescano riformato sopportò, in silenzio, con indicibile pazienza.

Martirologio Romano: A Bisignano in Calabria, sant’Umile (Luca Antonio) Pirozzo, religioso dell’Ordine dei Frati Minori, insigne per lo spirito di profezia e le frequenti estasi.







Sant’Umile da Bisignano appartiene al popolo dei “piccoli” che Dio ha scelto per confondere i “sapienti” e i “potenti” di questo mondo. A lui il Padre ha fatto conoscere, infatti, il suo mistero di condiscendenza, perché egli fu disponibile a lasciarsi afferrare dal suo amore, prendendo su di sé il giogo soave della Croce, che fu sempre per il francescano di Bisignano sorgente di pace e di consolazione. Nato il 26 agosto 1582 a Bisignano (Cosenza) da Giovanni Pirozzo e Ginevra Giardino, al battesimo ricevette il nome di Luca Antonio. Si fece ammirare fin da fanciullo per la straordinaria pietà: partecipava alla Messa quotidiana, si accostava alla mensa eucaristica in tutte le feste, pregava meditando la passione del Signore anche durante il lavoro dei campi.

Divenuto membro della Confraternita dell'Immacolata Concezione, era comunemente indicato a tutti gli aggregati come modello d'ogni virtù. Nei processi canonici è ricordato il fatto che a chi gli diede sulla pubblica piazza un solenne ceffone, per tutta risposta presentò umilmente l'altra guancia. Verso il diciottesimo anno sentì la chiamata di Dio alla vita consacrata; ma, per varie cause, dovette differire per ben nove anni la realizzazione dei suoi propositi, impegnandosi tuttavia in una vita più austera e fervorosa.

Finalmente a ventisette anni entrò nel noviziato di Mesoraca (Crotone) dei Frati Minori, dove erano preposti alla formazione dei giovani due santi religiosi: P. Antonio da Rossano come maestro e P. Cosimo da Bisignano come Superiore del convento. Superate, per intercessione della Vergine, non poche difficoltà, emise la professione religiosa il 4 settembre 1610.

Svolse con semplicità ed esattezza le tipiche mansioni dei religiosi non sacerdoti, quali la questua, il servizio alla mensa della comunità, la cura dell'orto ed ogni altro lavoro manuale richiesto dai superiori.

Fin dal tempo del noviziato si distinse per la maturità spirituale e per il fervore nell'osservanza della Regola. Si dedicò con slancio all'orazione e Dio fu sempre al centro dei suoi pensieri. Fu obbediente, umile, docile, condividendo con gioia i vari momenti della vita di comunità. Dopo la professione religiosa, intensificò l'impegno nella via della santità. Moltiplicò le mortificazioni, i digiuni e lo zelo nel servizio di Dio e della sua comunità. La carità lo rese caro a tutti: ai frati, al popolo ed ai poveri, che aiutava distribuendo loro quanto la Provvidenza gli dava. Gli stessi doni carismatici, che ebbe in abbondanza, li esercitò per la gloria di Dio, per la costruzione del regno di Cristo nelle anime e per la consolazione dei bisognosi.

Ebbe fin da giovane il dono di continue estasi, tanto da essere chiamato “il frate estatico”. Esse furono per lui occasione di una lunga serie di prove e di umiliazioni, a cui i superiori lo assoggettarono allo scopo di assicurarsi che provenissero realmente da Dio e che non vi fosse inganno diabolico. Ma tali prove, felicemente sostenute e superate, accrebbero la fama della sua santità sia presso i confratelli, sia presso gli estranei.

Fu dotato anche dei doni singolari del discernimento dei cuori, della profezia, dei miracoli e soprattutto della scienza infusa. Benché analfabeta e indotto, dava risposte sopra la Sacra Scrittura e sopra qualunque punto della dottrina cattolica, tali da far meravigliare insigni teologi. Venne sperimentato al riguardo più volte, con la proposta di dubbi ed obiezioni, da un'assemblea di sacerdoti secolari e regolari, presieduta dall'Arcivescovo di Reggio Calabria, da alcuni professori della città di Cosenza, in Napoli dall'inquisitore Mons. Campanile, alla presenza del P. Benedetto Mandini, teatino, e di altri. Ma fra Umile rispose sempre in maniera da sorprendere i suoi esaminatori.

È facile comprendere da quale stima fosse universalmente circondato. Il P. Benigno da Genova, Ministro generale del suo Ordine, lo condusse in sua compagnia per la visita canonica ai Frati Minori della Calabria e della Sicilia. Godé della fiducia dei Sommi Pontefici Gregorio XV e Urbano VIII, i quali lo chiamarono a Roma e, dopo averlo fatto rigorosamente esaminare nello spirito, si giovarono delle sue preghiere e dei suoi consigli. Si trattenne a Roma parecchi anni, soggiornando quasi sempre nel convento di San Francesco a Ripa, e, per pochi mesi, in quello di Sant'Isidoro. Soggiornò per qualche tempo anche a Napoli nel convento di Santa Croce, dove profuse il suo impegno nel diffondere il culto al Beato Giovanni Duns Scoto, particolarmente venerato nella diocesi di Nola.

Verso il 1628 fece domanda di poter “andare a patire” in terra di missioni. Avutane dai superiori risposta negativa, continuò a servire il regno di Dio tra la sua gente, prendendosi cura dei più deboli, degli emarginati e dei dimenticati (cfr. VC, 75)

La sua vita fu una “preghiera incessante per tutto il genere umano”. Semplici le sue preghiere, ma sgorganti daI cuore. Avendogli chiesto il P. Dionisio da Canosa, per molti anni suo confessore e suo primo biografo, che cosa domandasse al Signore in tante ore di orazione, egli rispose: “Io non faccio altro se non dire a Dio: “Signore, perdonami i miei peccati e fa' che io ti ami come sono obbligato ad amarti; e perdona i peccati a tutto il genere umano, e fa' che tutti ti amino come sono obbligati ad amarti!””.

Pronto sempre nell'obbedienza, coraggioso nella povertà, accogliente per l'esercizio della più lieta castità, Fr. Umile da Bisignano percorse un cammino di luce che lo condusse alla contemplazione dell'eterna Luce il 26 novembre del 1637, in Bisignano, nello stesso luogo, cioè, “dove aveva ricevuto lo spirito della grazia” (LM, XIV: FF 1239) e da dove egli “continua ad illuminare il mondo con i miracoli” (1Cel X: FF 525).

Fu beatificato da Leone XIII il 29 gennaio 1882.

IL BEATO UMILE: COLUI CHE DIPENDE TOTALMENTE DA DIO

Il mistero della vita del Beato Umile è certamente il mistero di un Dio che opera grandi cose nella sua creatura che crede in lui e si affida pienamente al suo amore, consacrando tutto, presente e futuro, nelle sue mani e ponendosi al suo esclusivo servizio (cf. VC, 17). Ma questa vita, nella quale risplende il fulgore della santità di Dio, è anche un mistero di disponibilità da parte di questa creatura che, nella sua profonda e convinta umiltà, ripete spesso: “Tutte le creature lodano e benedicono Iddio, io sono il solo che l'offende”.

Umile da Bisignano invitato da Cristo a lasciare tutto e a rischiare tutto per il Regno di Dio, ha avvertito il fascino del Vangelo delle Beatitudini ed ha accettato di mettersi al servizio del disegno di Dio su di lui, impegnandosi a vivere come Francesco d'Assisi, “in obbedienza, senza nulla di proprio e in castità” (S. Francesco d'Assisi, Regola bollata, 1: FF 75).

I poveri, infatti, a somiglianza di Maria, che ha fatto pienamente la volontà del Padre, sono liberi da tanti legami con le cose che passano e da tante ambizioni che procurano solo amare delusioni, e hanno uno spirito più pronto e disponibile. Un'anima veramente povera non si preoccupa, non si agita, non si disperde in molte cose, ma sa guardare in alto, lasciandosi affascinare da Dio e dal Vangelo del suo Figlio.

È la sorprendente saggezza che si rivela a noi, dopo 365 anni dal suo Transito, nella testimonianza di fede del Beato Umile da Bisignano.
Canonizzato il 19 maggio 2002.

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27/11/2016 07:20
 
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Santa Bililde Duchessa

27 novembre


m. 734 (?)

Non si hanno notizie sicure sulla sua vita poiché tutta la documentazione dipende da uno scritto di Magonza, che tutti oggi riconoscono per un falso del secolo XII. Secondo la leggenda Bililde nacque a Veitshochheim, presso Würzburg, e sposò il duca di Turingia. Partito il marito per una guerra, la santa si ritirò presso lo zio Sigiberto (o Rigiberto), vescovo di Magonza, ma, rimasta vedova molto presto, pose fine al suo ritiro per fondare il monastero di Altinfinster (identificato da alcuni con Hagenmiinster, nei pressi della stessa città) dove morì. Mentre le notizie concernenti la Vita di Bililde sono scarsamente attendibili, molte sono le testimonianze del culto. In un calendario manoscritto di Fulda del secolo IX, oggi perduto, è testimoniata la commemorazione di Bililde vergine. A Magonza esiste anche oggi una piccola chiesa a lei dedicata. Sembra quindi che Bililde non fu sposa ma una vergine di Magonza e che contribuì alla fondazione del monastero sopra ricordato. Con tutta probabilità morì nel 734. (Avvenire)

Martirologio Romano: A Magonza in Renania, in Germania, santa Bililde, vergine, fondatrice di un monastero, nel quale morì piamente.







Non si hanno notizie sicure sulla sua vita poiché i documenti che la concernono dipendono da una carta di Magonza, che tutti oggi riconoscono per un falso del secolo XII. Secondo la leggenda, dunque, Bililde nacque a Veitshochheim, presso Wùrzburg, e sposò il duca di Turingia. Partito il marito per una guerra, la santa si ritirò presso lo zio Sigiberto (o Rigiberto), vescovo di Magonza, ma, rimasta vedova molto presto, pose fine al suo ritiro per fondare il monastero di Altinfinster (identificato da alcuni con Hagenmiinster, nei pressi della stessa città) dove morì.
Mentre le notizie concernenti la Vita di Bililde sono scarsamente attendibili, certe sono le testimonianze del culto. In un calendario manoscritto di Fulda del secolo IX, oggi perduto ma consultato dal Mabillon nella biblioteca di S. Benigno a Digione, si leggevano queste parole: V Kal. dec. commemoratio sanctae Bilhildis virginis. A Magonza esiste anche oggi una piccola chiesa a lei dedicata. Si può quindi ammettere che Bililde visse presso Magonza, che fu vergine e non sposa, e che ebbe parte nella fondazione del monastero sopra ricordato. Morì probabilmente nel 734 e la sua festa ricorre il 27 novembre.


Autore: Theodor Freudenberger

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28/11/2016 09:24
 
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Santa Teodora di Rossano Badessa

28 novembre




Martirologio Romano: Vicino a Rossano in Calabria, santa Teodora, badessa, discepola di san Nilo il Giovane e maestra di vita monastica.

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29/11/2016 07:19
 
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San Bernardo di Nazareth Vescovo

29 novembre




Emblema: Bastone pastorale








Si tratta di uno dei numerosi vescovi che si trasferirono in Palestina durante o subito dopo lo svolgimento della prima Crociata. Nel 1120 partecipò ad un sinodo in Nablus di Samaria, presieduto dal vescovo di Gerusalemme e indetto per ovviare ad alcuni problemi di origine morale. Nel 1123 sottoscrisse ad Acri un patto tra i diversi principati crociati palestinesi e i veneziani. E' probabile che, essendo Tancredi principe della Galilea, Bernardo fosse originario di Barletta e avesse seguito i crociati venuti dalla Puglia.
Festa il 29 novembre.


Autore: Paola Cristofari

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30/11/2016 09:41
 
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San Taddeo Liu Ruiting Sacerdote e martire

30 novembre


>>> Visualizza la Scheda del Gruppo cui appartiene

Qunglai, Cina, 1773 circa - Quxian, Cina, 30 novembre 1823

Sacerdote a trentacinque anni, Taddeo Liu Ruiting percorreva i distretti affidatigli per assistere i fedeli sparsi nei villaggi. Arrestato nella Pentecoste del 1821, dopo aver sopportato il supplizio di stare esposto al sole per alcune ore fu lasciato languire in prigione per tre mesi. Condotto nel capoluogo di provincia Tcheou-Tou e condannato a morte, fu inviato nel suo paese Ku-Hien in attesa che l'imperatore confermasse la condanna. Attese due anni in carcere per essere poi strangolato presso il tempio il 30 novembre 1823.
Papa Giovanni Paolo II lo ha canonizzato il 1° ottobre 2000, durante il Grange Giubileo del 2000, insieme ad una folta schiera di 120 martiri in terra cinese.

Martirologio Romano: In località Quxian nella provincia di Sichuan in Cina, san Taddeo Liu Ruiting, sacerdote e martire, strangolato in odio alla fede.







Sacerdote a trentacinque anni, percorreva i distretti affidatigli per assistere i fedeli sparsi nei villaggi. Tradito da un cristiano, per vendetta contro un altro cristiano da cui era stato rimproverato, fu arrestato nella Pentecoste del 1821. Dopo aver sopportato il supplizio di stare esposto al sole per alcune ore, fu lasciato languire in prigione per tre mesi. Condotto nel capoluogo di provincia Tcheou-Tou e condannato a morte, fu rinviato al suo paese Ku-Hien in attesa che l'imperatore confermasse la condanna. Attese due anni in carcere, per essere poi strangolato presso il tempio il 30 nov. 1823. Fu beatificato da Leone XIII il 27 magg. 1900.


Autore: Giovanni Battista Proja

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POTRESTE AVERE DIECIMILA MAESTRI IN CRISTO, MA NON CERTO MOLTI PADRI, PERCHE' SONO IO CHE VI HO GENERATO IN CRISTO GESU', MEDIANTE IL VANGELO. (1Cor. 4,15 .
 
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