CITTÀ DEL VATICANO. Nel giorno in cui viene presentata "Iuvenescit Ecclesia", la Lettera redatta dalla Congregazione per la dottrina della Fede, sulla relazione tra doni gerarchici e carismatici per la vita e la missione della Chiesa, parliamo con il prefetto della Congregazione, il cardinale Gerhard Ludwig Mueller dei motivi che hanno spinto il Vaticano a redigere il documento. Come anticipato giorni scorsi dall'Osservatore Romano, infatti, il rapporto fra gerarchia e nuove realtà non è fine a se stesso, ma ha lo scopo di far ringiovanire la Chiesa, per rinnovare la vita del popolo di Dio.

Eminenza, quindi non è vero che Francesco non ami particolarmente i movimenti?
"Un Papa non può non amare ciò che lo Spirito suscita a vantaggio di tanti uomini, il cui cuore attende Dio spesso senza saperlo, e in favore di tutto il popolo di Dio, che è il primo destinatario di questi doni. Certo, questi doni sono stati spesso una novità dirompente e anche bisognosa di purificazione. Magari sono stati un po' come figli venuti al mondo senza essere stati programmati... Ma chi è davvero padre e madre, una volta che sono arrivati, ama questi figli e provvede a loro come e più degli altri".

Come si concilia la presenza dei movimenti, spesso fortemente identitari, in un pontificato che chiede l'abbandono dell'autoreferenzialità?
"Si può spostare fuori di sé il proprio baricentro ed amare, se non si ha una identità forte e ben delineata? Certo, questo deve avvenire non con supponenza e con rispetto degli interlocutori. Mentre una certa incapacità al dialogo sincero nasce proprio da una debolezza identitaria e culturale... Aver chiara la propria identità dona il gusto del dialogo autentico. Anche perché il dialogo vero comincia sempre con uno scambio di doni fra due identità. Altrimenti è solo una serie di monologhi, condita magari da tanta cortesia... Autoreferenzialità è invece l'incapacità di uscire da sé stessi e di scoprire che la propria riuscita si avvantaggia dall'incontrare altro rispetto a noi. Ma è necessario uscire da noi stessi, perché la realtà è più grande del nostro pensiero, come dice spesso Francesco. Attenzione, però, perché il contrario dell'autoreferenzialità non è il servilismo di chi esegue e basta".

Alcune realtà nella Chiesa sembrano sempre in rincorsa rispetto al magistero "in uscita" di Francesco. Perché?
"È difficile tenere il passo della profezia. D'altronde non è la velocità del passo che conta. Ciò che è importante è che tutto il popolo di Dio e tutte le realtà della Chiesa, poco alla volta, ciascuno con il suo passo e i suoi doni, perfino con le sue debolezze, si instradino nella direzione giusta. E questo non avviene in modo efficace se non con una certa laboriosità e fatica, se non con un'obbedienza dialogica, e tante volte anche in modo dialettico... Inoltre, la stessa profezia, solo nel tempo matura la sua verità e si rivela nella sua portata. Anche per questo, non è facile comprenderla subito e spesso implica un aspetto di "croce", sia per chi la porta che per chi la riceve. "Uscire" davvero da se stessi, poi, implica sempre lo sforzo di uscire dai propri piani e ambiti rassicuranti".

L'approccio che avevano Giovanni Paolo II e Benedetto XVI alle nuove realtà della Chiesa è diverso da quello di Francesco?
"Ogni Papa ha i suoi doni e le sue preferenze. Credo che Francesco sia profondamente unito a Giovanni Paolo II e a Benedetto XVI nel desiderio di valorizzare tutte le novità che lo Spirito suscita nella Chiesa. L'occhio del Papa è l'occhio vigile e affettuoso di un padre che non solo sorregge ma anche, quando occorre, corregge. E lo fa per il bene dei suoi figli e a loro vantaggio, anzitutto".

Come devono vivere i movimenti per non cadere nella tentazione di ingabbiare lo Spirito entro propri schemi?
"Sono i santi che ci insegnano questo. I santi, nella storia della Chiesa, sono stati coloro che hanno saputo coniugare, in modo sempre fecondo, continuità e novità. Fedeltà alla tradizione e apertura a ciò che Dio chiedeva di nuovo. E questo hanno fatto mettendosi a servizio della Chiesa e del bene autentico di tanti fratelli e sorelle del loro tempo. Amandoli e accompagnandoli davvero, cioè coltivando nel proprio cuore un amore sempre più grande al destino buono dei loro compagni di strada. E anche riconoscendo sinceramente i propri sbagli e lasciandosi correggere dalla verità e dal bene. In ogni caso, penso che mettersi al servizio di un disegno e di bisogni più grandi dei propri sia il modo migliore per uscire dalla tentazione dell'autoreferenzialità. E questo vale tanto per chi nella Chiesa è chiamato a servire nella gerarchia, quanto per i semplici fedeli, nessuno escluso".