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COME FAR TESORO DEI PROPRI SBAGLI

Ultimo Aggiornamento: 10/08/2013 18:16
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10/08/2013 13:56
 
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4. - Le colpe sono come tante finestre che rischiarano le nostre miserie.

Contro il nemico d'una virtù così necessaria, niuno saprebbe armarsi sufficientemente. Ma, dal momento che non ci è dato di poterlo uccidere in questa vita, dobbiamo almeno adoperarci con tutti i mezzi per indebolire e rendere vani i suoi attacchi. Ora uno dei mezzi più efficaci è fornito precisamente dalle nostre colpe. Come la secca mascella d'un vile animale, divenne tra le mani di Sansone un arma micidiale contro i Filistei, così i nostri peccati, per quanto brutti siano, possono trasformarsi in arma potentissima contro l'orgoglio, e diventar occasione di salute e di perfezionamento.
Difatti, se l'orgoglio consiste nella stima e nell'amore disordinato alla nostra pretesa superiorità, l'umiltà consiste “nella vera conoscenza e nel volontario riconoscimento della nostra abiezione” (13). Perciò, che cosa si può trovare di più adatto che la vista delle nostre colpe, per produrre in noi questo verace riconoscimento? Esse sono, secondo l'ingegnosa espressione del P. Alvarez, altrettante finestre per le quali la luce entra più abbondante sulla nostra miseria (14). Più efficaci ancora delle umiliazioni che ci vengono dagli incidenti e dagli uomini, esse illuminano e convincono di dappochezza le forze più vive e più intime dell'anima. E, dice S. Francesco di Sales, “questa conoscenza della nostra nullità non deve turbarci, abbassarci e renderci meno duri. E’ solo l'amor proprio che ci fa impazientire al vederci vili e abietti” (15).
Ma io sono tanto miserabile e piena di imperfezioni! - Lo riconoscete davvero? Allora benedite Dio che vi ha dato questa conoscenza e non ve ne lamentate più. Fortunata voi se riconoscete di non essere altro che miseria!” (16).
“Bisogna confessare la verità, e la verità è che siamo della povera gente, incapaci a far del bene” (17).
“Io vi dichiaro che sarete devoto, se sarete umile. - Ma potrò davvero essere umile? - Sì, se lo volete. - Ma io lo voglio. - Dunque lo siete. - Ma io sento invece di non esserlo. - Tanto meglio! poiché il non sentirlo serve a esserlo più sicuramente” (18).
“I difetti che incorriamo nello sbrigare gli obblighi sia esterni che interni, sono un grande motivo di umiltà e l'umiltà farà nascere e crescere la generosità” (19).
Com'è infatti possibile che uno confidi in se stesso e si creda qualcosa di grande, se al primo soffio della tentazione si sente rovesciato e vede i propositi svanire come scintilla, come stoppa gettata sulla fiamma, ut favilla stuppae... quasi scintilla (Is 1, 31). Oh, quanta forza perde l'orgoglio in colui che da una caduta viene richiamato alla realtà della sua miseria, e come allora si radica profondamente nella verità! Sembra quasi di sentire tante voci che gridano: Recta iudicate! siano giusti i tuoi giudizi! (20) - Sei stato pesato sulla bilancia e sei stato trovato mancante (21) - Pensavi di essere da più e sei da meno! (22).
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10/08/2013 13:57
 
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5.5Le tre verghe che il buon Pastore usa con le sue pecorelle.

Questo è, secondo i SS. Dottori, il principale disegno che ha Dio nel permettere i nostri peccati. “Il buon Pastore, dice il Principe della sacra eloquenza italiana (23), con le sue pecorelle usa tre sorti di verghe: l'una è verga di correzione, e sono le avversità; l'altra è verga di probazione e sono le tentazioni; la terza è verga di indignazione e consiste nel permettere i peccati. Sottoposto ad esse, l'uomo è forzato a riconoscere il suo nulla e a umiliarsi; ma la più efficace è l'ultima, quella dei peccati; perché è proprio nella constatazione delle sue cadute che l'uomo tocca con mano la sua miseria, secondo l'espressione di Geremia: Io son l'uomo che conosco la mia povertà sotto la verga del furore del Signore (24). Questa verga è tanto efficace, che il Signore non esita a usarla anche coi suoi migliori amici. Siccome la loro umiltà trova uno scoglio nella vista delle loro virtù, egli lascia che cadano in alcune imperfezioni, o meglio, permette che le loro antiche inclinazioni cattive, rialzino di nuovo la testa, a fine di persuaderli, con l'esperienza della loro fragilità, a non fare gran conto delle proprie forze” (25).
“Il Signore, riprende il nostro Santo, permette che in questi piccoli scontri restiamo sconcertati, affinché ci umiliamo e ci persuadiamo che, se in precedenza abbiam superato certe grandi tentazioni, non è stato per le nostre forze, ma per l'assistenza della sua divina bontà” (26).
“Abbiate pazienza... se Dio vi lascia inciampare, è solo per farvi capire che, se egli non vi sostenesse, voi cadreste continuamente” (27).
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10/08/2013 13:58
 
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6. - L'umiltà si nutre delle sofferenze che ci procurano le imperfezioni.

E’ vero che Dio ha guariti certuni tutto d'un tratto senza lasciar traccia delle malattie precedenti, come ad esempio la Maddalena che in un istante fu mutata da sentina d'acqua putrida in sorgente d'acqua pura, che più non s'intorbidì. Ma nella maggioranza dei suoi più cari discepoli, il Signore lasciò, anche dopo la loro conversione, molti segni delle vecchie inclinazioni cattive; e tutto per ]l loro maggior bene. Ne è testimone S. Pietro il quale, dopo la prima conversione, cadde più volte in mancanze e infine precipitò miseramente col rinnegare Gesù.
“Salomone dice che se una cameriera diventa improvvisamente padrona, sarà come un insolentissimo animale (28); così, se un anima che è sempre stata serva delle proprie passioni, divenisse perfetta padrona di se stessa tutto d'un tratto, potrebbe diventar presuntuosa e superba. Bisogna che anche noi ci contentiamo di acquistare, a poco a poco e un passo alla volta quella padronanza, per la quale i Santi e le Sante impiegarono diverse decine d'anni” (29).
“State quindi tranquilli e sopportate con dolcezza le vostre piccole miserie: vi siete data a Dio senza riserva, ed egli vi condurrà sicuramente bene. Che se poi egli non vi libera tanto presto dalle imperfezioni, lo fa perché ne siate liberata in seguito, con più utilità, e per esercitarvi più a lungo nell'umiltà, finché vi siate bene radicata” (30).
“Sovente vi ho ripetuto che dovete tanto amar la pratica della fedeltà verso Dio come la pratica dell'umiltà; la fedeltà, per rinnovare il proposito di servire la divina bontà tutte le volte che lo trasgredite, stando all'erta per non più mancarvi; l'umiltà, per riconoscere la vostra miseria e abiezione quando vi accadrà di violarlo di nuovo” (31).
“Chi aspira al puro amor di Dio deve avere più pazienza con se stesso che con gli altri, e per acquistare la perfezione, bisogna prima di tutto sopportare la propria imperfezione. Dico però di sopportarla con rassegnazione, non già di amarla o accarezzarla. L'umiltà si nutre di questa sofferenza” (32).
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10/08/2013 13:58
 
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7. - Certi peccati sono meno gravi della superbia e servono a guarirla.

E notiamo che la dottrina del nostro Santo, come quella degli altri Dottori, non si applica solamente alle colpe leggere. S. Isidoro (33) e S. Tommaso (34) affermano che talvolta, in punizione dell'orgoglio, Dio permette anche delle cadute gravi in peccati vergognosi. Questi peccati, dicono essi, sono meno gravi della superbia, e la misericordia divina se ne serve per intimorire, scuotere e far rientrare in sé l'uomo orgoglioso, ut per hanc humiliatus a confusione exsurgat. Così, aggiungono, fa quel medico che, per guarire il malato da una malattia seria, lo assoggetta a dolori forse più forti, ma meno dannosi. Un celebre scrittore moderno ha così scritto in proposito: “E una grazia per la miseria dell'uomo che egli inciampi, allorché un passo più deciso gli potrebbe far toccare la sommità della superbia” (35).
S. Giovanni Crisostomo fa riflessioni analoghe: “Qualche volta, dice, Dio permette che gli altri conoscano certi peccati delle anime nobili e grandi per il motivo che in esse cominciano a insinuarsi dei pensieri di vanità. Ora il Signore, per mezzo di cadute, vuole spogliarle di quell'aura popolare per la quale hanno sfidato tanti pericoli e, mostrando che essa è effimera come il fiore del campo, li induce a consacrarsi a lui senza riserva e a considerarlo come l'unico fine di tutte le loro azioni” (36).
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10/08/2013 13:59
 
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8. - Meglio il peccato accompagnato dall'umiltà che l'innocenza accompagnata dalla superbia.

E dopo aver citato celebri penitenti che restavano santamente impressionati dal pensiero dei benefici di Dio e dal ricordo delle loro imperfezioni anche leggere, il santo Vescovo di Costantinopoli aggiunge ancora: “Per noi questi rimedi sono insufficienti... Per trionfare della nostra superbia, è necessaria un'altra forza, e quale? Il cumulo dei nostri peccati e la perversità della nostra coscienza, che dopo averci affogati in mille turpitudini, osa ancora farci inorgoglire” (37).
Gli altri Padri parlano allo stesso modo. S Agostino dice chiaramente: “Dio sopporta più facilmente le azioni cattive accompagnate dall'umiltà, che non le opere buone infettate dall'orgoglio” (38). S. Ottavo di Milevi: “Meglio i peccati seguiti dall'umiltà, che non l'innocenza unita alla superbia” (39).
S. Gregorio Nisseno: “Un carro di buone opere, ma tirato dalla superbia, mena all'inferno, mentre un carro di peccati, ma condotto dall'umiltà, arriva al Paradiso” (40).
S. Gregorio Magno: “Spesso avviene che colui il quale riconosce di essere coperto di molte macchie davanti a Dio resta riccamente abbellito dalla sua profonda umiltà”.
S. Bernardo, infine, termina così una magnifica apologia dell'umiltà e della verginità: “Il peccatore che, per cominciare a seguire le orme dell'agnello, segue il sentiero dell'umiltà, prende una via ben più sicura di un altro che, pur trovandosi nella verginità, segue la via dell'orgoglio; perché mentre l'umiltà purifica le sozzure del primo, l'orgoglio giungerà a insozzare la purezza dell'altro” (41).
Lo stesso Dottore, interpretando altrove l'ottavo versetto del salmo 24, dice: “Il Signore, pieno di rettitudine e di dolcezza, ha stabilito anche una legge per quelli che sbagliano nella vita. Essi sì sono allontanati dalla verità; ma Dio non li abbandona mai: offre loro la via dell'umiltà che deve ricondurli alla conoscenza della verità” (42).
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10/08/2013 13:59
 
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9. - Gravità dell'orgoglio e benefici delle imperfezioni.

Ci si perdoni tante citazioni; ma il soggetto è così importante e delicato che esige forti autorità. D'altra parte, in tutti questi passi non troveremo neppur l'ombra dell'esagerazione, se mediteremo bene la tesi mirabilmente dimostrata nella Somma di San Tommaso (Questione 162, art. 6): “Per sua natura, secundum genus suum, la superbia è il peggiore dei peccati; più grave ancora dell'infedeltà, della disperazione, dell'omicidio, della lussuria, ecc.”. La ragione di questo, continua l'Angelo della scuola, sta nella sua avversione da Dio. Con gli altri peccati, l'uomo si allontana da Dio per ignoranza, per debolezza o per desiderio d'un bene qualunque; ma con la superbia se ne allontana unicamente perché non vuole sottomettersi a Dio e alla sua legge. Perciò, dice Boezio, mentre tutti i vizi fuggono Dio, solo la superbia tenta di resistergli in faccia. Donde le parole di S. Giacomo: Dio resiste ai superbi (Gc 4, 6). Così, l'allontanamento da Dio e dai suoi comandamenti, che negli altri peccati vien solo di conseguenza, nella superbia si trova in radice, perché l'atto suo proprio è il disprezzo di Dio. E siccome ciò che è male in sé, è peggiore di quello che è male solo per via di un'altra causa, ne segue che la superbia è, per sua natura, il più grave di tutti i peccati, perché tutti li sorpassa per l'allontanamento da Dio, che costituisce la loro malizia formale.
“Se non ci è possibile acquistare molte virtù, diceva S. Giovanna di Chantal, abbiamo almeno quella dell'umiltà”. Orbene, è precisamente sul riconoscimento sincero della mancanza di virtù, ossia sulla nozione che le colpe ci danno .della nostra povertà spirituale e del nostro nulla, che noi potremo fondare l'umiltà, madre di tutte le altre virtù.
Come, allora, non esclamare col nostro amabile Santo: “Care imperfezioni, che ci fanno conoscere la nostra miseria e ci esercitano nell'umiltà!” Come non ripetere: O felix culpa! o felice colpa! dopo ogni nostra caduta?
“Forse che non vi rallegrereste, pur deplorandone i disastri, 'scrive una santa Figlia della Visitazione, se un'inondazione trasportasse sul vostro terreno delle pietre adattissime per fare da fondamento a un palazzo che intendete costruire? Ora, l'umiltà è chiamata fondamento della vita spirituale, perché Dio, che è il solo costruttore (Sal 126), non edificherà che sul vuoto che gli avremo scavato mediante la vera conoscenza di noi stessi” (43).
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10/08/2013 14:00
 
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10. - Il ricordo delle nostre colpe è potente rimedio contro l'orgoglio.

Ancora una volta: da che cosa potrà essere più sicuramente prodotta questa salutare cognizione e questo gran vuoto, se non dalle nostre colpe? Esse demoliscono, fan crollare pezzo per pezzo l'impalcatura immaginaria delle nostre forze, e noi non tarderemo a vederci nell'abisso del nostro nulla, poggiati e sostenuti unicamente dalla divina misericordia. Preziosa scoperta! Dio l'aspettava; egli posa benevolmente gli occhi sull'umiltà dei suoi servi, e resiste, ai superbi allo stesso modo che largheggia in grazia con gli umili (44). Queste grazie che, al dire di S. Agostino, Dio ama far scorrere nelle valli più profonde, ci inondano in proporzione di quanto noi ci abbassiamo e gettano sul fondo del nostro nulla riconosciuto le basi della vera santità, la quale d'ora in poi si troverà meglio difesa contro gli assalti della superbia.
Se quindi la vanità cercherà ancora di entrare in questo nuovo edificio, per scacciarla basterà una parola: Peccavi, ho peccato (45); è questa la mia parte: il resto è opera di Dio.
Sull'esempio di un illustre successore di S. Francesco di Sales, “per meglio ricordarmi delle colpe passate, io mi farò un libro intimo, intitolato: Rimedio contro la superbia, e ne rileggerò spesso le pagine; esse emaneranno l'odor del mio nulla e serviranno ad attossicare il verme della mia superbia” (46). Più Iddio mi innalzerà, fosse pure al terzo cielo come S. Paolo, e più io, sull'esempio dello stesso Apostolo, cercherò nel ricordo delle antiche infedeltà un contrappeso ai favori celesti, che servirà a mantenermi ,nel giusto disprezzo di me stesso. Seguirò in tal maniera il consiglio dello Spirito Santo: nel giorno della prosperità non dimenticare quello della sventura (47).
Si legge nella vita di S. Gertrude che Dio le lasciava alcune imperfezioni spirituali a fine di salvaguardare la sua umiltà. La serva di Dio se ne affliggeva, e, cedendo alle sue istanze, una divota persona pregava per lei, quando un giorno il Signore le apparve e le disse: “I difetti di cui si lamenta la mia diletta, sono per suo bene. Ogni giorno io spando nella sua anima tale abbondanza di grazie che, per preservarla dalla vanità, devo nasconderne alcune ai suoi occhi, coprendole con la nube di queste mancanze leggere. Come il letame feconda la terra, così il sentimento della propria debolezza fa nascere nell'anima la riconoscenza, e ogni volta che essa si umilia delle sue mancanze, io le dono una grazia che serve a distruggerle; così a poco a poco cambio i difetti in virtù e un giorno l'anima sì sorprenderà in una luce senz'ombre” (48).
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10/08/2013 14:00
 
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11. - Altro frutto del ricordo delle colpe perdonate è la riconoscenza verso Dio.

La gratitudine verso Dio è un altro frutto prodotto e fatto germogliare dalla vista delle proprie colpe. L'umiltà è prima di tutto verità e, nello stesso tempo che ci svela il nulla da cui siamo stati tratti, fa anche risaltar meglio il bene che è in noi e che “procede da Dio come da prima fonte” (49). Così quanto più essa illumina l'anima sulla sua bassezza, tanto più fa risplendere con evidente contrasto la grandezza e la moltitudine dei benefici divini, e facilita, per conseguenza, la gratitudine verso l'Autore di ogni dono perfetto.
Né questo è piccolo guadagno, poiché l'ingratitudine, figlia della superbia, “è un peccato generale che infetta anche tutti gli altri peccati e li rende infinitamente più enormi” (50). E’ un vento secco che inaridisce le sorgenti delle grazia (51). Ora un simile vizio non potrebbe essere più vittoriosamente combattuto che dalla considerazione delle nostre infedeltà messe di fronte alla persistente misericordia di Dio.
“Nulla, senza dubbio, ha tanto potere di umiliarci davanti alla misericordia di Dio, quanto l'abbondanza dei suoi. benefici; come nulla vale tanto a umiliarci davanti alla sua giustizia, quanto la moltitudine dei nostri peccati. Consideriamo quello che Dio ha fatto per noi e consideriamo quello che noi abbiam fatto per lui, e alla stessa maniera che esaminiamo minutamente i nostri peccati, esaminiamo pure le sue grazie. Non c'è da temere che la conoscenza di quel che Dio ha posto in noi ci faccia insuperbire, se teniam presente che tutto quel che abbiam di buono non è nostro. Forse che i muli cessano di essere luride bestie, quando sono carichi della mobilia preziosa e profumata d'un principe? Qual buona cosa c'è in noi, che non sia ricevuta? E se l'abbiam ricevuta, perché vogliamo gloriarcene? Al contrario, la considerazione attenta delle grazie ricevute ci rende più umili, perché la conoscenza di esse genera la riconoscenza. Che se poi la vista delle grazie di Dio generasse proprio qualche pensiero di vanità, rimedio infallibile sarà il ricorrere al pensiero delle nostre ingratitudini, delle nostre imperfezioni, delle nostre miserie. Se consideriamo quel che abbiam fatto quando Dio non era con noi, ci convinceremo presto che quello che facciamo quando Egli è con noi non è opera nostra, né farina del nostro sacco. Godremo e ci rallegreremo perché l'abbiamo, ma ne daremo gloria a Dio solo, che è l'autore” (52).
“Riempitevi la memoria col ricordo delle vostre mancanze e infedeltà, per umiliarvene e correggervi, e con quello dei benefici ricevuti da Dio, per ringraziarlo” (53).
“Dite al vostro cuore: Orsù, cuor mio, non essere più ingrato e sleale con questo grande Benefattore. Come sarà possibile che la mia anima non resti soggetta a Dio, dopo che egli ha operato in me tante meraviglie?” (54).
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10/08/2013 14:01
 
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12. - Ancora un frutto dell'umiltà, prodotto dal ricordo delle colpe, è l'indulgenza verso le altrui debolezze.

Infine S. Francesco di Sales vuole che la luce proiettata dalle colpe ci conduca, mediante l'umiltà, a essere indulgenti verso le debolezze altrui.
“L'umiltà, dice egli, fa sì che non ci turbiamo delle imperfezioni, pensando che anche altri le han commesse: perché pretenderemmo di essere più perfetti di loro? Allo stesso modo, non ci meraviglieremo delle colpe altrui, se ci ricorderemo delle nostre: perché deve sembrar strano che gli altri abbiano delle imperfezioni, dal momento che anche noi abbiam la nostra parte?” (55).
S. Giovanni Crisostomo insiste con energia su questa utilità spesso trascurata che le nostre colpe, secondo il disegno divino, sono destinate a procurarci. Egli dimostra che se il Sacerdozio non venne affidato agli Angeli, fu perché essi, basandosi sulla loro impeccabilità,. avrebbero forse invocato fulmini sui peccatori, mentre l'uomo, che conosce per esperienza personale la fragilità umana, più facilmente la compatisce quando la incontra negli altri.
Ecco perché, continua il santo Vescovo, tanto oggi come una volta, Iddio permette delle colpe in coloro che, nella Chiesa, sono depositari della sua autorità; affinché il ricordo delle loro cadute li renda più umani verso i fratelli. E dimostra la sua tesi con due esempi del Nuovo e del Vecchio Testamento. Prima mette in scena l'ardente Apostolo S. Pietro il quale, appunto perché credeva come uno potesse giungere a scandalizzarsi ed arrossire del suo Maestro, egli stesso miserabilmente lo rinnegò dopo avergli giurato tre volte fedeltà, e non già per minaccia di tortura o di morte, ma alla voce di una povera serva. Indi ricorda il profeta Elia, che se ebbe tanto zelo da rovesciare battaglioni e ridurre alla fame un intero popolo, tremò poi di spavento e fuggì atterrito davanti all'ira di una donna, Gezabele. “Dio, conchiude il Santo, ha permesso la caduta di S. Pietro, che è colonna della Chiesa, porto della Fede e Dottore dell'universo, per insegnargli a trattare gli altri con bontà e misericordia; ed anche Elia cade per disegno divino, affinché si ricopra intieramente col manto della carità e divenga indulgente come il suo Signore” (56).
S. Bernardo riprende questo pensiero nel commento d'un proverbio: “Chi sta bene, dice egli, non comprende il male altrui, e chi ha mangiato lautamente non conosce la sofferenza di chi è digiuno. Quanto più un malato diventa simile a un altro malato, e un affamato a un altro affamato, tanto più compatiscono i loro mali... Per sentirsi infelici dell'infelicità altrui bisogna sperimentarla in se stessi. Solo conoscendola in noi stessi, potremo ritrovare l'anima del prossimo e sapere come venirle in aiuto ” (57).
Facciamo tesoro di queste lezioni. Finché restiamo in piedi siamo quasi incapaci di scusare e compatire negli altri certe cadute che ci scandalizzano e ci muovono a sdegno. E quante volte purtroppo, un segreto orgoglio, in apparenza di zelo, ci porta all'indignazione! Se invece noi stessi veniamo gettati a terra da una caduta simile, ben presto la compassione subentrerà alla severità. Allora si capirà la frase di S. Agostino: “non c'è peccato possibile a uomo, di cui non possa macchiarmi anch'io” e la bella frase dell'Imitazione: “Tutti siam fragili; ma tu devi pensare di essere il più fragile di tutti” (58).
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10/08/2013 14:01
 
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CAPO II

 

 

UTILIZZARE LE PROPRIE

COLPE PER AMARE L'ABIEZIONE

 

 

1. - Il poter conoscere e amare la propria abiezione è una grazia grande

 

“Il più alto grado di umiltà, dice S. Francesco di Sales, consiste non solo nel riconoscere volontariamente la propria abiezione, ma nell'amarla e compiacersene; e questo non già per mancanza di coraggio e di generosità, ma per maggiormente esaltare la divina Maestà e per stimare di più il prossimo che noi stessi” (1).

“L'umiltà, dice a sua volta S. Maria Maddalena de' Pazzi, non è altro che l'abituale riconoscimento del nostro nulla, la gioia continuata anche in mezzo a tutto ciò che ci procura disprezzo”. Ora le colpe possono e devono elevarci precisamente a questo “alto grado”: la luce che esse gettano sulla nostra abiezione, non solo ce la deve far riconoscere, ma anche amare. “Tutti, dice il nostro amabile Dottore, andiamo soggetti a mancanze di ogni sorta, e non dobbiam quindi meravigliarci ogni volta che ne incontriamo qualcuna; perché, se anche riusciamo a passare qualche tempo senza commetterne, seguirà poi subito un altro periodo in cui cadremo sovente, e anche in imperfezioni gravi. Allora è il tempo di approfittare dell'umiliazione che ce ne viene” (2).

“Se fosse possibile piacere a Dio tanto coll'essere perfetti che coll'essere imperfetti, dovremmo desiderare piuttosto di essere imperfetti, a fine di coltivare con questo mezzo la santissima umiltà” (3).

Il riconoscere la propria abiezione e trarne motivo di contentezza, dice un illustre autore già citato, è una delle più grandi misericordie concesse da Dio; perché ci permette di ricavare la salvezza dalla stessa nostra perdizione, allo stesso modo che Egli sa ricavare la sua gloria dalle nostre offese. In questa luce, l'anima accetta volontariamente di assidersi sullo strame delle proprie miserie, circondata e ornata dall'umiliazione delle sue colpe, come Giobbe era circondato di dolori; e vedendosi colma di miserie e di abiezione, se ne compiace, perché con esse può onorare e magnificare la divina Bontà. Mentre da una parte l'anima è miserabile a causa della sua caduta, dall'altra può ricavare dall'abiezione che ne prova un tesoro che l'arricchisce. Ma purtroppo questa è una fortuna che rimane nascosta alla maggior parte degli uomini, poiché non la conoscono. Sono poveri e hanno un tesoro nella stessa loro povertà; ma non lo posseggono, unicamente perché non lo san cercare” (4).

Ecco come apprezzava questo tesoro una distinta Religiosa della Visitazione: “Le colpe formano una grande parte della nostra ricchezza per l'eternità, e l'amore all'abiezione che da esse ricaviamo è come la trama di tale ricchezza. Se si tesse senza trama si han presto dei buchi; così se uno, invece di amar l'abiezione, si turba e si agita, finisce con dar retta al demonio. Le colpe sono tanto utili che il loro frutto può produrre quello che non siamo stati capaci a conseguire per mezzo della forza di volontà... La vita è un susseguirsi di cadute, dopo ciascuna delle quali dobbiamo rialzarci col tagliar corto e dire: non lo farò più. Se si riparano così, le colpe non nuocciono, e uno riesce a guadagnare con l'umiltà ciò che ha perduto per rilassatezza” (5).

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10/08/2013 14:02
 
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2. - Amare la propria abiezione è amare la verità.

La verità è che noi siamo dei miserabili e che, ad eccezione dei doni di Dio, non abbiamo di nostro che il nulla e il peccato. Quando si può fare senza scandalo, dobbiamo essere contenti di riconoscerlo e di vederlo riconoscere dai nostri fratelli, allo stesso modo che un innamorato della scienza si stima felice se scopre una nuova verità scientifica e riesce a dimostrarla e farla ammettere dagli altri. Un sentimento contrario si opporrebbe sia alla lealtà che alla verità, e meriterebbe il biasimo del reale profeta: Perché amate la vanità e cercate la menzogna? (6).
“Queste macchie stan bene sopra di me”, diceva un anima santa, mirando le proprie imperfezioni; “Che cosa merita un lebbroso se non dei cenci?”. E una degna figlia di S. Francesco di Sales, praticando alla lettera l'insegnamento del Padre, esclamava: “Se si potesse far in modo che le nostre colpe non offendessero Dio, io desidererei continuamente cadere, per essere continuamente confusa e annientata” (7).
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10/08/2013 14:02
 
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3. - L'amore all'umiliazione ci ravvicina al Verbo Incarnato.

Ma non è solo per “l'amore della verità”, continua il santo Vescovo di Ginevra, che l'umiltà cristiana ispira la “gioia di essere dei nulla e d'essere stimati per tali” (8); ma è soprattutto in ossequio “alle umiliazioni del Verbo Incarnato”. Quest'Agnello divino, rivestendo la sua adorabile innocenza con la veste del peccato, si è degnato di accettare, della nostra umanità decaduta, tutto quello che non è peccato in se stesso (9). Il Vangelo dice le profonde umiliazioni alle quali si è volontariamente abbassato e gli obbrobri di cui ha voluto saziarsi; ma non basterebbero dei secoli di meditazione a farci comprendere la sete di umiliazione che divora il suo Cuore divino e che lo spingeva gioioso, incontro alle più atroci ignominie, come ad un convito sontuosamente imbandito per lui, nella sua qualità di “condottiero dei peccatori”. Ora, l'anima veramente cristiana sente il bisogno di prender posto a questo banchetto di obbrobri, accanto al suo Amato. Essa, colpevole, non può capacitarsi di lasciar lui, innocente, ad abbeverarsi da solo alla coppa delle umiliazioni, ma ne vuole la sua parte; e la fortuna di posar le labbra ove il suo Dio e Salvatore ha posato le sue, trasforma in deliziosa bevanda anche il fiele più amaro.
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4. - L'amare le umiliazioni è mezzo sicuro per acquistare l'umiltà.

Si aggiunga che le umiliazioni, secondo il rilievo di S. Bernardo, sono la via insostituibile per giungere all'umiltà, e che, per conseguenza, un anima veramente convinta della necessità di questa virtù, deve amare e andare in cerca di umiliazioni, allo stesso modo che il viaggiatore desideroso di raggiungere una mèta si pone subito con ardore sulla via che vi conduce. Infine, come vedremo nel capitolo seguente, dobbiamo amare la nostra abiezione, perché ci attira le più abbondanti misericordie del cuore di Dio.
Per ognuno di questi aspetti, i peccati possono essere utili a nutrire in noi l'amore all'abiezione. Facendola meglio vedere, essi stabiliscono col loro peso umiliante, un giusto rapporto tra la confusione che essi fanno nascere e gli obbrobri che meriteremmo. Quello che Gesù accettava e cercava con avidità per la salvezza dei peccatori, noi lo prenderemo come parte del debito rigorosamente dovuto per i nostri peccati.
Ogni colpa diverrà in tal modo uno scalino in più per scendere nella disistima di noi stessi e per rinnegare le esigenze del nostro egoismo, fino a raggiungere l'ultimo posto (Lc 14, 10) che è quello che ci conviene, ma che disgraziatamente sarà sempre troppo superiore a quello scelto da Colui che ha voluto essere l'ultimo di tutto, l'obbrobrio degli uomini e l'abiezione della plebe (Is 52; Sal 21).
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10/08/2013 14:03
 
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5. - L'anima che sa trarre profitto dalle umiliazioni può sorpassare un'altra anima meno soggetta a sbagliare.

Se dalle nostre colpe sapremo ritrarre amore all'umiliazione, avremo fatto un profitto enorme, poiché il nostro amabile S. Francesco, pone nell'umiltà il termometro della santità, e non teme d'affermare che un'anima la quale faccia servire così le sue colpe, può sorpassare un'altra che pure è meno soggetta a sbagliare: “Una suora che vedete mancare e cadere in molte imperfezioni, può essere più virtuosa e cara a Dio (sia per il coraggio che conserva, malgrado le imperfezioni, sia per l'umiltà che ne ricava e sia per l'amore alla sua abiezione) di un'altra la quale ha più virtù naturali o acquisite, ma lavora di meno e, per conseguenza, ha meno coraggio e meno umiltà. S. Pietro fu scelto a capo degli Apostoli, quantunque andasse soggetto a molte imperfezioni, tanto da commetterne anche dopo aver ricevuto lo Spirito Santo; ma poiché, sebbene difettoso, conservava sempre un grande coraggio e non s'abbatteva mai, Gesù lo fece suo Vicario e lo favorì più di tutti gli altri, e nessuno poté affermare che non meritasse d'essere preferito a S. Giovanni e agli altri Apostoli” (10).
S. Giovanna di Chantal amava ripetere questo insegnamento del suo santo Padre spirituale: “Mia cara piccola, scriveva a Suor F. A. della Croce di Fesigny, i vostri scoraggiamenti non sono altro che tentazioni; poiché, ditemi, che vantaggio vi apportano e che frutto ne ricavate? Pensate voi che sia in nostro potere l'essere sempre fissi in Dio e non commettere mai delle colpe? Bisognerebbe essere Angeli. Perciò, vi prego a rassegnarvi alla misera condizione di questa vita, ma senza ansietà e senza turbamento, e ad umiliarvi senza scoraggiarvi, quando mancate, di fedeltà. Questa umiliazione e amore alla vostra abiezione, ricevuta con pace e tranquillità, sarà a Dio più gradita che non le vostre puntigliose fedeltà” (11).
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10/08/2013 14:03
 
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6. - Nel dubbio circa la nostra colpevolezza, è meglio propendere verso la parte più umiliante, come la più meritoria.

Il santo Dottore sembra aver talmente paura di vederci trascurare le occasioni di disprezzar noi stessi, che vorrebbe lo facessimo anche quando si tratta di colpe dubbie, consigliandoci in questo caso, a scegliere il partito migliore, ossia quello che è più contrario all'orgoglio, e più vantaggioso per l'umiltà.
“In generale, scrive, io consiglio che quando non sappiamo distinguere se in una occasione abbiamo compiuto il nostro dovere o abbiamo offeso Dio, dobbiamo umiliarci, domandare perdono a Dio e implorare più lume per un'altra volta; poi dimenticare l'accaduto e rimetterci di nuovo in cammino. Perché quella curiosa e pressante voglia di sapere se abbiamo fatto bene, proviene dall'amor proprio, il quale fa desiderare di sapere se ci siamo comportati in modo impeccabile; mentre l'amor di Dio inculca: miserabile e codardo che sei stato! umiliati, appoggiati alla misericordia di Dio e chiedi perdono; fa una nuova protesta di umiltà e rimettiti a lavorare per il tuo avanzamento” (12).
E anche il pensiero dell'Imitazione: “Signore, per conseguire il perdono delle colpe, mi giova molto più la vostra infinita misericordia che non qualunque idea di giustizia ch'io possa avere per difendere la mia coscienza che non conosco a fondo” (13).
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10/08/2013 14:03
 
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7. - L'abiezione esterna accresce il pregio di quella interna.

Le colpe non solo ci svelano la nostra abiezione e ce la fanno amare nell'intimo della coscienza; ma spesso all'abiezione interna aggiungono quella esterna, perché il nostro prossimo, essendo stato testimone delle cadute, vede e scopre la nostra debolezza e miseria. Ebbene, noi dobbiamo accettare tanto l'una che l'altra, a fine di raddoppiare i nostri guadagni e tesori spirituali.
Così faceva il nobile e pio autore che abbiamo citato più volte “Voi conoscete la mia ultima impetuosità, scriveva a un amico, e ne siete stato testimone... Quel che mi dà motivo di consolazione è che ho commesso tale mancanza in presenza di amici, i quali conosceranno da essa quel che realmente io sia. Mi dispiace di aver disgustato Dio con un'infedeltà alla sua grazia; ma son contento dell'umiliazione avutane e volentieri l'accetto. L'essere avviliti di fronte agli altri è una grande fortuna e cosa ben dolce per chi vuole riparare l'ingiuria fatta a Dio. Il profitto che bisogna trarre dalle imperfezioni è appunto quello d'uscirne profondamente convinti che siamo dei nulla, debolissimi. Quanto mi è utile che la mia miseria resti svelata agli altri, dal momento che ciò mi serve a scoprire questa verità! la verità che sono nulla, infermità e corruzione, più di quanto io stesso
possa giungere a capire. E per amore di questa verità, mi tengo nel mio nulla e volentieri amo e adoro la Provvidenza che lo svela. Riconosco e dichiaro di essere un miserabile e sono contento che tutti mi riconoscano e mi trattino come tale” (14).
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10/08/2013 14:04
 
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8. - Nell'esercizio dell'umiltà bisogna salvaguardare i diritti della verità e della carità.

Non si potrebbero praticare in modo migliore i sublimi insegnamenti dell'autore di Filotea. Il Santo però grazie al suo ammirabile equilibrio, ha anche cura di salvaguardare i diritti della verità e sconsiglia quindi di simular difetti col pretesto di cercare l'umiliazione, a meno che non si tratti di un'ispirazione speciale, come nel caso di alcuni Santi. Così pure si fa scrupolo di difendere i diritti della carità e raccomanda di riparare lo scandalo e l'offesa che le nostre cadute possano aver cagionato nei fratelli. “Se per collera o leggerezza, sarò trascorso a parole di offesa a Dio o al prossimo, mi pentirò vivamente, avrò sommo rincrescimento della colpa e procurerò di rimediarvi il meglio possibile; senza però trascurare di abbracciare l'umiliazione e il disprezzo che me ne deriva.
Anzi se fosse possibile separare una cosa dall'altra, rigetterei energicamente il peccato e umilmente conserverei la sua abiezione” (15).
“Commetto una sciocchezza, ed essa mi rende spregevole: lo merito. Se cado a terra e ne vado in collera: sono dolente per questa offesa a Dio, ma sono contento che ciò sveli che sono un vigliacco, abietto e miserabile”.
“Nondimeno, figlia mia, badate a quello che sto per dirvi: per quanto dobbiamo amare l'abiezione, che è conseguenza del male fatto, non dobbiamo però tralasciare di rimediare al male. Io farò tutto il possibile perché non mi venga un cancro al viso; ma se venisse ugualmente, ne amerò l'abiezione La stessa regola vale, e con più forte ragione, in materia di peccato: ho mancato in questo o in quello; ne sono dolente, quantunque accetti di buon grado la conseguente abiezione; e se si potesse separare una cosa dall'altra, toglierei ciò che è male e peccato e conserverei umilmente l’abiezione” (16).
“E se gli sforzi per riparare l'offesa e lo scandalo dato ai fratelli, giungessero a riconquistarci pienamente la loro stima e a risollevarci nella loro primiera opinione, allora dobbiamo contentarci di stringere e celare in cuore quell'abiezione che è scomparsa dai loro occhi” (17).
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10/08/2013 14:04
 
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9. - Come anche i superiori possono trarre profitto dalle umiliazioni.

Negli altri casi, il Santo vuole che, per quanto permette la carità e il dovere del buon esempio, non ci priviamo del beneficio dell'abiezione esterna. “Riguardo ai difetti, vorrei che non ci preoccupassimo tanto di coprirli, giacché non diventano più piccoli per il solo fatto che non si lasciano vedere. Né per questo le consorelle crederebbero che non ne avete, ma in più, i vostri difetti, si farebbero più dannosi che se fossero manifesti e recassero confusione, come capita in coloro che son più facili a lasciarli apparire all'esterno. Non dobbiamo quindi restar perplessi né scoraggiarci se commettiamo mancanze in presenza delle consorelle, ma dobbiamo essere contenti di vederci riconosciute per quel che siamo” (18).
Anche a chi è costituito in autorità e che per conseguenza sembra più tenuto a salvaguardare la propria riputazione di fronte agli inferiori, S. Francesco di Sales consiglia, con le debite riserve, ad accoglier con gioia l'abiezione, ovunque la trovino: “Mi chiedete se la Superiora o la Direttrice non debba mostrarsi scontenta, quando le suore vedono i suoi difetti, e che cosa deve dire se una sua figlia si accusa candidamente di qualche pensiero o sospetto avuto a suo riguardo, ad esempio d’ aver pensato che la Superiora abbia fatto una correzione perché spinta dalla passione.
“In tal caso io dico che essa deve umiliarsi e cercare l'abiezione. Ma se la suora si mostrasse turbata nel dir la cosa, essa svierà il discorso senza farsene avvedere, ma conserverà in cuore l'umiliazione ricevuta. Bisogna guardarsi bene dai pretesti dell'amor proprio, il quale vorrebbe farci perdere tante belle occasioni di constatare le nostre imperfezioni e umiliarcene. Perciò, sebbene esternamente non si faccia nessun atto di umiltà, per timore di turbare maggiormente quella povera suora, si faccia però nell'intimo del cuore. Se invece la suora si mostrasse franca e tranquilla nell'accusarsi, la Superiora confessi schiettamente d'aver sbagliato, se è vero; se invece il giudizio è falso, lo dica con umiltà e abbracci ugualmente l'umiliazione che le viene nel vedersi giudicata male.
“L'amore alla nostra abiezione non deve mai allontanarsi dal cuore, perché ne avremo sempre bisogno, anche se fossimo molto avanti nella perfezione, tanto più che le nostre passioni si ridestano talvolta dopo molti anni di vita religiosa e dopo aver fatto molto progresso nella virtù.
“Né le suore però devono stupirsi dei difetti della Superiora, dal momento che lo stesso S. Pietro, Capo della Chiesa e di tutti i cristiani, commise degli sbagli, e, come ci attesta S. Paolo (19), dovette essere corretto. Allo stesso modo la Superiora non deve meravigliarsi che i suoi difetti siano notati dagli altri, ma deve comportarsi con quell'umiltà e dolcezza con cui S. Pietro ricevette la correzione da S. Paolo, nonostante che gli fosse superiore. Io non so se ammirare più la fermezza e il coraggio di S. Paolo nel riprendere S. Pietro, oppure l'umiltà con cui S. Pietro si sottomise alla correzione, su una cosa che a lui era sembrata buona e che aveva fatto con retta intenzione” (20).
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10/08/2013 14:05
 
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10. - Godere di essere disprezzati e comportarsi come gli Apostoli.

S. Maria Maddalena de' Pazzi, vedendo l'alta stima in cui era tenuta da una delle sue novizie, un giorno si mise a raccontarle fra i singhiozzi i suoi difetti e tentazioni, e dopo essersi dipinta come la più colpevole delle donne: “Io vi ho detto questo, aggiunse, per farvi comprendere sotto quale superiora siete caduta. Se Dio non mi avesse condotta in un chiostro, forse avrei finiti i giorni in prigione o sotto la scure del carnefice. Pregate dunque per me, affinché un giorno possa ottenere la salvezza dalla grande bontà di Dio”.
Più vicina a noi per il tempo in cui visse, è una Figlia di S. Francesco di Sales la quale, eletta superiora del suo monastero, diceva in confidenza a una suora: “Ciò che mi consola è che il grado che occupo servirà a tenermi nell'abiezione, poiché i miei difetti si troveranno più in vista sul candeliere che nella oscurità di una celletta” (21).
Con più ragione il santo Vescovo di Ginevra insisteva che, se si ha la fortuna di essere sudditi, si abbraccino con premura le umiliazioni esterne; e canzonava senza pietà chi si mostrava schizzinoso a questo riguardo: “Sono disprezzato e me ne affliggo? imito le scimmie e i pavoni. - Sono disprezzato e me ne rallegro? imito gli Apostoli” (22).
“Sapete quel che bisogna fare quando si è corretti e mortificati? Bisogna prendere l'umiliazione come una gemma preziosa, metterla nel cuore e baciarla e accarezzarla il più teneramente possibile” (23).
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10/08/2013 14:05
 
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11. - L'anima peccatrice tanto più piace a Dio quanto più si stima vile.

Crediamo di aver dimostrato sufficientemente, alla scuola di S. Francesco di Sales, come le nostre colpe possono essere utili per la nostra umiltà. Esse, facendoci conoscere e amare l'abiezione possono elevarci dall'abisso che ci hanno scavato al grado più prezioso della virtù più necessaria, e segnare per l'anima convinta del proprio nulla, il principio di un nuovo splendore. Secondo il testo di Giobbe (24) e il pensiero di S. Bernardo “l'anima peccatrice apparirà tanto meno vile agli occhi di Dio, quanto più lo sarà ai propri, ricordando i peccati commessi” (25).


12. - Come l'umiliazione alimenti la virtù dell'umiltà.

Sappiamo approfittare così delle nostre colpe, e, come dice Fénelon, ci saranno più utili esse con l'umiliarci, che non la gioia che si prova al pensare alle buone opere compiute. “Le colpe sono sempre colpe, ma esse ci mettono in uno stato di confusione e di ritorno a Dio che ci fa tanto bene”.
Certe sostanze sembrano macchiare i vestiti, e invece li puliscono. Lo stesso fanno i giusti, detestando i propri peccati: se ne servono per purificare l'anima dall'orgoglio, che è il più grave dei peccati (26). “Così, continua S. Bernardo, il giusto ricade nelle mani di Dio e avviene, in maniera sorprendente, che lo stesso peccato commesso contribuisce a giustificarlo... Chi infatti potrebbe negare che la mano di Dio sostiene colui che cadendo si aggrappa all'umiltà?” (27).
Impariamo a utilizzare così le nostre colpe, non appena ci accorgiamo d'averle commesse e poi quando le laviamo con la penitenza (28). Utilizziamole ugualmente quando il loro ricordo ci rattrista. Vi sono delle erbe che esalano pessimo odore, ma che fatte seccare per bene, emanano un aroma delicatissimo. Facciamo che avvenga lo stesso della nostra vita miserabile. Una santa Religiosa dell'Ordine della Visitazione conservava gelosamente un piccolo sacchetto di carta che fu scoperto dopo morte nella sua celletta e che portava scritto: Questo è per profumare il mio cuore con l'odore prezioso della mia abiezione. In esso aveva posto tutto quello che le era stato detto o scritto di umiliante, i difetti di cui era stata avvertita, quello che i confessori le avevano detto di più duro, e tutte le mancanze di cui era stata ripresa (29).
A noi non costerebbe molto fare questo sacchetto: dando uno sguardo alla vita passata, troveremmo, purtroppo, tante erbe cattive di innumerevoli colpe, che ci serviranno a riempirlo. Mettiamolo a profitto in questo modo, e ripetiamo le parole del Padre C. de la Colombière: “ O fortunate miserie, che mi fate arrossire davanti a Dio e mi umiliate davanti agli uomini! Se voi mi siete necessarie, io non vorrò cambiarvi neppure coi meriti e le virtù degli altri. Preferisco essere tale da poter restare nell'umiltà. Rinunzio a tutte le grazie che potrebbero privarmi di questo vantaggio, e per non perderlo acconsento a restar privo di tutto il resto”.
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10/08/2013 14:06
 
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CAPO III

 

UTILIZZARE LE PROPRIE COLPE

PER ACCRESCERE LA CONFIDENZA IN DIO

 

1. - Il problema del peccato si risolve con la misericordia divina.

 

Se la nostra abiezione merita amore perché ci porta a rendere omaggio alla verità e ci facilita l'imitazione del Verbo Incarnato, essa ci apparirà ancora più amabile se la considereremo nei suoi rapporti con la misericordia infinita di Dio.

Già nel capitolo terzo della prima parte di questo libro, abbiamo visto, e S. Francesco di Sales ce l'ha detto e ripetuto, che le nostre colpe non ci devono mai gettare nella disperazione o nello scoraggiamento, e che il dolore d'averle commesse dev'essere accompagnato sempre da incrollabile fiducia nella divina Bontà. Le considerazioni che ora faremo, ci dimostreranno come i nostri peccati e imperfezioni, lungi dal diminuire questa fiducia, ne sono uno dei più fecondi elementi.

Qui soprattutto, i testi del nostro Santo sono così numerosi e chiari, che ci dispensano da ogni commento: ci limiteremo a copiarli. Tuttavia non sarà inutile prendere prima alcune riflessioni da altre fonti che ci mostreranno, in sintesi, le prove teologiche di questa consolante dottrina.

E prima lasciamo che l'illustre autore contemporaneo già citato, ci esponga e sviluppi in una splendida pagina, pregna della dottrina di S. Tommaso, il principio fondamentale di questo nuovo aspetto dell'arte di utilizzare le nostre colpe: “Dio, dice Mons. Gay, riportando le parole di S. Giovanni, Dio è amore (1 Gv 4, 8), Dio ama, Dio ci ama: ci ama perché è amore! Esistere, amare, amar noi, è per lui tutt'una stessa cosa e necessità, dal momento che noi esistiamo. E non sarà allora la speranza un dovere per tutti? Che timore ci potrà essere di eccedere in essa? E come potrà essere ancora scusabile la sfiducia?

“Si dirà: ma si tratta del peccato! Sì, è purtroppo vero, il peccato si trova dappertutto, e dappertutto impone un problema, porta una complicazione e solleva un ostacolo: problema per noi, complicazione in noi, ostacolo davanti a noi. Ma vi potranno essere anche dei problemi per Dio? Si potrà intralciare mai le sue vie, opporgli delle barriere? Egli si ferma solo se vuole, e unicamente perché vuole; e ovunque gli piacerà passare, passa. Il peccato colpisce Dio nel senso che l'offende, e non nel senso che operi in lui qualche mutamento. Esso modifica i suoi atti, ma non la sua essenza e non cambia per nulla la primitiva e fondamentale disposizione che ha verso di noi, ossia l'amore che ci porta. Or come di fronte al nostro nulla la sua bontà diventa amore, così di fronte al peccato il suo amore diventa misericordia. Sì, è proprio così; ma a condizione che il peccatore confidi e speri. E sotto certi aspetti nessuno ha tanto motivo di sperare nella misericordia di Dio come il peccatore. Senza dubbio la santità divina odia tanto il peccato, da obbligare la sua giustizia a punirlo con pene tremende; ma appunto per questo la Misericordia resta immensamente più commossa dal peccato che non da qualunque altra disgrazia che possa accaderci. Se infatti lo si considera in relazione al castigo che merita, il peccato è la perdita di Dio, ossia il massimo male e la misericordia assoluta. Dove quindi potrà rivolgersi la più grande compassione se non alla più grande miseria? Questo è perciò il motivo per cui la misericordia divina, qui più che altrove, si esercita affinché il peccatore si penta, abbia fiducia e si salvi. Donde vedete che l'ardore stesso della collera diventa in Dio nuova e viva sorgente di pietà e di bontà, e per noi tutti il fondamento di una nuova speranza” (1).

 

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10/08/2013 14:06
 
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2.- Il Card. Pie applica a Dio stesso la 5a Beatitudine.

Dimostrato in modo così evidente che la misericordia non è altro che la bontà, ossia l'essenza stessa di Dio, nei rapporti colla miseria della sua creatura, si comprende subito come ognuna delle nostre colpe può diventare, se vogliamo, una magnifica occasione a questo divino Attributo, per manifestarsi ed essere glorificato. Come le labbra dell'agnello alleggeriscono le mammelle della madre col succhiarne il latte benefico, così le nostre colpe accostate al cuore di Dio, con la confidenza e il pentimento, gli procurano la gioia di poter versare qualche effluvio in più di quella misericordia che sovrabbonda nel suo seno materno.
Ascoltiamo la parola di uno dei Pastori più eloquenti del nostro secolo: “Beati misericordes! Pronunziando questo oracolo si può dire che il Figlio di Dio fatto uomo, ci abbia rivelato la beatitudine sua e del Padre celeste. Poiché se la misericordia praticata da un semplice mortale, diventa per lui sorgente di felicità, che dire della infinita misericordia che Dio solo può esercitare? qual trasporto di felicità non nutre essa di continuo nel seno della divinità? - Beati i misericordiosi: Dunque, beato sopra tutti Colui che solo ha il diritto di essere chiamato buono: unus est bonus, Deus (Mt 19, 17).
Colui che è la carità per essenza e la cui misericordia e bontà non ha che l'eternità per confine: confitemini Domino quoniam bonus, quoniam in aeternum misericordia eius (Sal 35). Nella natura di Dio non v’è rigore, e quando egli cede alla collera ed esercita la giustizia, fa una cosa che è a lui estranea: irascitur ut faciat... alienum opus eius (Is 27, 21). E la sinistra che tiene la verga del castigo, e Dio presto si stanca di operare con essa: peregrinum opus eius ab eo (Ibid.), mentre la destra che è lo strumento preferito del suo cuore, compie le opere del suo amore... e di un peccatore cieco e incorreggibile sa fare, in un batter d'occhio, un penitente risoluto: haec mutatio dexterae Excelsi (Sal 46, 11)” (2).

3. - Come la moltitudine stessa delle colpe deve indurci a sperarne maggiormente il perdono.

Di più: la misericordia può solo esercitarsi sulla miseria; e quale miseria è più grande del peccato? quale oggetto è più pietoso di fronte alla infinita pietà? Queste colpe che ci schiacciano col loro peso e ci rendono vittime della collera divina, possono diventare davanti a Dio occasione per fargli manifestare un attributo che, a quanto sembra, gli è più caro della giustizia; la bontà, l'amore. Non dipende che da noi l'avvicinarci al suo cuore e dirgli con Davide: Tu, o Signore, mi perdonerai e cancellerai le mie iniquità, per glorificare la tua perfezione più cara: propter bonitatem tuam, Domine; e siccome la potrai glorificare tanto meglio quanto più saranno numerosi i delitti da cancellare, la moltitudine delle mie colpe mi fa sperare il tuo perdono: propitiaberis peccato meo, multum est enim (Salmo 24, 7.11).
Dio, aggiunge un antico autore (3) troppo dimenticato, Dio non è forse quel Maestro che insegna a non lasciarci vincere dal male, ma a vincere il male col bene? (Rm 12, 20), a non rendere male per male, maledizione per maledizione (1 Pt 3, 9) ma a colmare di benefici i nostri nemici, per accumulare dei carboni ardenti sul loro capo? (Rm 12, 20). Ora il discepolo non è da più del maestro, né il servo più del padrone (Mt 10, 24). Se dunque vediamo che i discepoli di questo Maestro divino, non solo hanno mostrato benevolenza e dolcezza coi loro crudeli persecutori e tiranni ma hanno reso bene per male, fino a dar la vita per la loro salvezza, che diremo del Maestro da cui essi ricevettero una dottrina così sublime?
“La carità di tutti i discepoli, messa a paragone con quella di Gesù Cristo, è meno che una goccia d'acqua di fronte all'oceano. Se dunque una scintilla di carità è stata in quelli così potente, che cosa farà l'incendio della sopraeminente carità di Dio?”.
“Ah, esclama il Crisostomo, come Gesù ha detto a noi: che merito avrete, se amate solo quelli che vi amano? non fanno lo stesso i pagani? (Mt 5, 41), così noi possiam dire di Dio: se egli esaudisce solo i giusti suoi amici, non mancherà forse qualcosa alla sua bontà?”.
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10/08/2013 14:07
 
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4. - Soave industria di Dio per separare il peccato dal peccatore, risparmiando questo e annientando quello.

La santità infinita di Dio si unisce alla sua Bontà e perseguita il peccato coll'odio e, più ancora, il peccatore colla misericordia. “Dio, dice il P. Segneri, aborrisce tanto il peccato, che per toglierlo dai cuori umani non solo si è umiliato sino alla morte quando era in carne mortale, ma anche ora, glorioso in Cielo, si umilia fino a farsi supplichevole per noi. Laboravi rogans (Ger 15, 16). Ma considerate a qual fine. Osservaste mai un cacciatore nell'atto di voler ferire una fiera? Vedete come si muove pian piano, come tace, come si abbassa talora e si impicciolisce fino a terra: e perché? perché vuole ammazzare la fiera. Ebbene, ecco dove mirano tante umiliazioni del Signore, tanta pazienza, tanta placidità, tanto silenzio nelle nostre trasgressioni: tutto è per trafiggere con mortal colpo il peccato, e distruggerlo totalmente.
Se il Signore precipitasse subito nell'Inferno ogni peccatore, il colpevole resterebbe sempre castigato, non c'è dubbio, ma non si distruggerebbe giammai la colpa: anzi la colpa prenderebbe nuova lena dal suo castigo, e diverrebbe perpetua. Ora, perché l'odio del Signore va direttamente contro la colpa e, solo a cagione di essa, indirettamente contro 'il colpevole, per questo usa tante arti, tante amorevolezze e tante varie maniere di umiliazione, affinché di separare il peccato dai peccatori, e distruggere quello salvando questi.
Tale è il motivo della Bontà divina nell'aspettarci a penitenza, nell'invitarci, nell'accoglierci; e perciò Davide che bene conosceva tale disposizione di Dio se ne valeva a meraviglia con dirgli: Tu propitiaberis peccato meo; multum est enim: Signore, la Vostra Bontà si moverà pure questa volta alla remissione del mio fallo, poiché esso è grande. Chi non intende il calcolo divino crederà che il profeta avrebbe dovuto chiamare grande la misericordia di Dio, e non la propria mancanza; anzi che avrebbe dovuto scusarla come commessa inconsideratamente, improvvisamente e per un assalto gagliardo della tentazione; e per questa via chiederne e conseguirne più facilmente il perdono. Ma Davide l'intendeva meglio di noi. Sapeva egli che la grandezza del peccato è motivo alla divina Bontà di sterminarlo più facilmente, e perciò si rivolgeva alla medesima Bontà e le diceva: Grande è il mio peccato: Multum est enim, per muoverlo a volerglielo svellere affatto dall'anima. Così il contadino, a cui un cinghiale abbia rovinato la vigna, descrive a orribili colori la ferocia e la forza di questo animale, affinché il cacciatore, più si animi a dargli morte. Tu propitiaberis peccato meo: multum est enim” (4).
E se già Davide usava questo linguaggio col Dio degli eserciti, con qual raddoppiata fiducia non potremo usarlo noi col Verbo Incarnato, per la salvezza dei peccatori? Con Colui che ha voluto assumere la nostra natura ut misericors fieret (5), precisamente per dare una più larga estensione, una più generosa espansione alla sua misericordia? Bossuet non esitava a dire: “Sebbene Gesù Cristo, come Figlio di Dio e santità per essenza, si compiaccia di vedere ai suoi piedi un peccatore che torna sulla buona strada, ama tuttavia di più l'innocente che non si è mai smarrito... Quando però si fece nostro Salvatore, prese altri sentimenti per amor nostro. Sì, questo Dio dà preferenze agli innocenti; ma, rallegratevi o cristiani, perché questo Salvatore è venuto a cercare i colpevoli; Egli non vive che per i peccatori, poiché fu mandato appunto per essi” (6).
“La sua vocazione è di essere Salvatore” riprende S. Francesco di Sales (7). “Egli è il Dio dei miserabili (8), continua la veneranda Madre Chappuis. Ogni volta che gli offriamo una colpa da riparare, noi gli ridoniamo il titolo di Salvatore”.
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5. - Non i sani, ma i malati hanno bisogno del medico.

Dio ci guardi dal cadere in esagerazioni e paradossi; ma involontariamente ci tornano in mente le parole di un grande Vescovo ad alcuni missionari che si lamentavano delle iniquità di cui li rendeva testimoni il loro ministero: “Ma, e quale sarebbe ancora la vostra ragione di essere, miei buoni padri, se non ci fossero più dei peccati?”. O Gesù, eterno Sacerdote e Salvator nostro, permetteteci di dirVi così: Quale sarebbe il motivo della vostra vita terrena, delle vostre inaudite sofferenze, e che cosa fareste quaggiù nei vostri Sacramenti, nelle vostre chiese, se non ci fossero dei peccati da perdonare? A che cosa servirebbe la vostra misericordia, se non ci fossero dei miserabili?
“Quando Gesù, ha detto S. Gertrude, non trova più anime abbastanza pure per venire in esse come sposo, egli le lascia cadere ammalate, per venirvi come medico”. La gioia, l'onore che il malato procura al medico, affidandogli le sue piaghe e ogni speranza di guarigione, il peccatore le procura al Divin Samaritano, offrendogli le proprie colpe da guarire. Se egli, come Dio, è stato offeso dalla colpa, come Salvatore viene glorificato dal perdono che la distrugge. E sono tanti i favori coi quali colma i figli prodighi che a Lui tornano, che sembrerebbe quasi che voglia ringraziarli d'avergli data occasione di assecondare i desideri, i bisogni della sua clemenza.
“Dunque, o anima mia, conclude l'Autore citato sopra (9), dal momento che ti riconosci malata, non temere di presentarti al medico. Ma va con tanta più confidenza, in quanto egli, per venire a te, si è slanciato dal tuo talamo nuziale e a passi da gigante si è mosso dall'alto dei Cieli (Sal 28)”. E venuto a liberarti dalla malattia del peccato, sapendo che hanno bisogno del medico i malati, anziché i sani (Mt 9, 12). O quale funesta pazzia è quella dei peccatori che trovano motivo di fuggire il medico in ciò che dovrebbe spingerli ad andare a Lui con più fiducia! Insensato colui che teme di trovare un nemico indignato in chi è venuto a guarirlo!
“L'empio fugge senza che nessuno l'insegua (Pro 28, 1). E strano che si scappi senza essere inseguito; ma è ancora più strano che l'empio fugga quando non solo nessuno l'insegue, ma la Bontà divina lo chiama e gli corre dietro per offrirgli misericordia, per donargli rimedio ai suoi mali, promettendo e giurando che gli darà tutto quel che gli piacerà chiedere per la sua eterna salvezza”.
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6. - Le rivelazioni del Cuore di Gesù animano il peccatore alla confidenza.

E qual dolce luce irradiano su questi pensieri le rivelazioni di Paray-le-Monial! Un santo religioso ha detto che “dopo la venuta di Gesù, la confidenza dev'essere la virtù propria dei peccatori” (10), ma dopo che il S. Cuore di Gesù si è manifestato al mondo, può questa confidenza non spingersi fino all'audacia? Non è forse questo lo stesso Cuore divino che al colpo di lancia di Longino rispose versando su di lui non solo il perdono, ma anche la santità e la grazia del martirio? Non è lo stesso Cuore che nutre i peccatori col sangue che essi gli fanno versare squarciandogli i fianchi, come il pellicano fa con i suoi piccoli? (11), quel Cuore che, secondo S. Vincenzo Ferreri (12), ha voluto essere ferito e squarciato, solo per mostrare ai colpevoli la fonte del perdono? Non è, infine, lo stesso Cuore che dal fondo del tabernacolo, grida: Venite a me, voi tutti che siete affaticati, e io vi ristorerò ? (13). Non è egli divorato da una sete ardente di assolvere e guarire? e questa sete non s'estingue forse col presentargli colpe da perdonare?
Per questo le anime più intime del Cuore di Gesù sono state le apostole più zelanti della confidenza dopo il peccato, e dell'arte di utilizzare le proprie colpe. La vita di S. Gertrude presenta dei tratti commoventi a questo riguardo e S. Margherita Maria vi torna sovente: “Il Cuor di Gesù, dice ella, è il trono della misericordia e i più miserabili sono i più accetti, purché, nell'abisso delle loro miserie, si presentino accesi d'amore.
E quando avrete commesso delle colpe, non vi turbate, perché il turbamento, l'inquietudine e la troppa premura allontanano l'anima da Dio e scacciano Gesù Cristo dai nostri cuori. Domandiamogli invece perdono e preghiamo il S. Cuore a soddisfare per noi, rimettendoci in grazia colla divina Maestà. Rivolgetevi con tutta fiducia al Cuore amabilissimo di Gesù e ditegli: O mio unico amore, pagate per il vostro povero schiavo e riparate il male che ha fatto. Fatelo servire per la vostra gloria, per l'edificazione del prossimo e per la salvezza dell'anima mia. In questa maniera, le colpe servono ottimamente a umiliarci e a farci comprendere ciò che siamo, e quanto ci sia utile nasconderci nel nostro nulla.
Dopo esservi umiliata, ricominciate di nuovo a mostrarvi fedele, perché al S. Cuore piace un tal modo di operare che mantiene la pace nell'anima” (14).
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10/08/2013 14:08
 
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7. - Il P. de la Colombière esorta alla confidenza l'anima carica di colpe.

Il venerando Direttore di S. Margherita, il P. de la Colombière, non cessava di insistere sullo stesso argomento. Vogliamo riportare il seguente passo di una sua lettera a un'anima che si trovava oppressa dal peso delle colpe: vi si troverà un'eco fedelissima e un riassunto pratico degli insegnamenti che ci darà tra breve S. Francesco di Sales.
“Se io fossi al vostro posto, scriveva il P. de la Colombière, ecco come mi consolerei. Mi rivolgerei a Dio con fiducia e gli direi: Signore, ecco un anima che è al mondo per esercitare la vostra ammirabile misericordia e per farla risplendere davanti al cielo e alla terra. Altri vi glorificheranno facendo risaltare la meravigliosa forza della vostra grazia attraverso la loro fedeltà e costanza, facendo vedere come siete dolce e generoso con chi vi è fedele. Io invece vi glorificherò facendo conoscere come siete buono coi peccatori e come la vostra misericordia sia superiore a ogni nostra malizia; come nulla vale ad esaurirla e come nessuna ricaduta, per quanto vergognosa e colpevole, deve condurre il peccatore a diffidare del perdono. Vi ho gravemente offeso, o mio amabile Redentore, ma sarei peggiore, se vi facessi l'orribile ingiuria di pensare che non siete tanto buono da perdonarmi. Invano il mio e vostro nemico tenterà ogni giorno nuove insidie: mi farà perdere tutto il resto, ma non la speranza che ho nella vostra misericordia. Quand'anche cadessi per altre cento volte, e i miei delitti fossero cento volte più orribili di quel che sono, io spererò ancora in voi. Mi sembra che nulla valga meglio di questo a riparare le colpe e anche lo scandalo che avessi dato... Fatto questo, ricomincerei subito a servire Dio con più fervore di prima e colla stessa tranquillità che se non l'avessi mai offeso” (15).
La venerata Madre Maria di Sales Chappuis, già nominata in questo libro, e che si teneva occupata, com'essa diceva, “nel frugare il Cuore di Dio”, non temeva di dire queste altre parole: “Quando anche commettessimo una mancanza per ogni respiro, se altrettante volte uno si ridà a Dio per ricominciare a far bene, le mancanze non nuocciono. Il Signore non guarda tanto alle mancanze, quanto al profitto che ne ricaviamo e se le utilizziamo per abbassarci davanti a lui e farci piccoli, umili e dolci. Oh, allora esse non nuocciono, né indeboliscono affatto la volontà! E per l’anima una grande grazia il constatare le proprie mancanze: questa conoscenza le fa scoprire la bontà di Dio e il valore dei meriti del divin Salvatore ”.
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10/08/2013 14:09
 
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CAPO IV

 

UTILIZZARE LE PROPRIE COLPE

PER ACCRESCERE LA CONFIDENZA IN DIO

(continuazione)

 

1. La nostra miseria è il trono della divina misericordia.

 

Abbiamo sentito il linguaggio della Teologia e dei Santi sulla confidenza che le colpe devono ispirarci verso la divina misericordia.

Lasciamo ora parlare il nostro soave Dottore di Annecy: “Voi mi chiedete, carissime figlie, se anima consapevole della propria miseria possa rivolgersi a Dio con una grande confidenza. Vi rispondo che non solo può essa avere questa confidenza, ma che anzi nessuno avrà una vera confidenza se prima non riconosce la sua miseria perché è precisamente questa conoscenza e confessione del nostro nulla che ci introduce alla presenza di Dio.

Tutti i grandi Santi, come Giobbe, Davide ed altri, cominciavano le loro preghiere con la confessione della propria miseria e indegnità. E quindi ottima cosa riconoscersi povero, vile, abietto, e indegno di comparire alla presenza di Dio.

Il motto Conosci te stesso, tanto celebre tra gli antichi, oltre a essere interpretato: conosci la grandezza e l'eccellenza dell'anima, per non avvilirla né profanarla con cose indegne alla sua nobiltà, si può anche interpretare in quest'altra maniera: conosci la tua indegnità, imperfezione e miseria. Infatti quanto più miserabili ci stimeremo, tanto più avremo fiducia nella bontà e misericordia di Dio, poiché tra miseria e misericordia esiste un tale legame che l'una non può esercitarsi senza dell'altro. Se Dio non avesse creato l'uomo, sarebbe stato sempre ugualmente buono, ma non avrebbe potuto essere misericordioso in atto, poiché la misericordia si può solo esercitare verso dei miserabili.

Vedete dunque che quanto più siamo miserabili, tanto più abbiamo occasione di confidare in noi stessi. La diffidenza di noi stessi proviene dalla conoscenza delle nostre imperfezioni. Va quindi molto bene diffidare di noi stessi; ma a che ci servirà, se non per farci mettere tutta la fiducia in Dio e affidarci alla sua misericordia?

I difetti e le infedeltà in cui cadiamo ogni giorno, devono procurarci vergogna e confusione per quando vogliamo avvicinarci a nostro Signore; perciò si legge che vi furono grandi Sante, come S. Caterina da Siena e S. Teresa di Gesù, le quali quando cadevano in qualche difetto, ne conservavano poi grande confusione. Ed è ragionevole che, avendo offeso Dio, ci teniamo un po' indietro per umiltà; allo stesso modo che ci vergogneremmo di avvicinarci ad un amico, subito dopo averlo offeso. Però non bisogna fermarsi qui, perché l'umiltà, l'abiezione e la confusione sono virtù intermediarie che devono portare l'anima all'unione con Dio. Non basta spogliarsi di se stessi (ciò che si fa con la confusione): bisogna anche donarsi totalmente a Dio, secondo che insegna S. Paolo: Spogliatevi dell'uomo vecchio e rivestitevi del nuovo (Col 3, 9-10). L'indietreggiare un po' nella propria stima non si fa che per meglio slanciarsi in Dio con un atto d'amore e di confidenza.

Come conclusione di questo primo punto, diciamo che è bene confonderci quando conosciamo la nostra miseria e imperfezione, ma non bisogna arrestarsi lì e scoraggiarci: è necessario elevare subito il proprio cuore a Dio, mediante una santa confidenza, il cui fondamento dev'essere posto in Lui e non in noi, poiché noi mutiamo mentre egli non muta mai, ma è sempre buono e misericordioso, tanto quando siam deboli e difettosi, come quando siam forti e perfetti.

Io son solito dire che la nostra miseria è il trono della misericordia di Dio (1). Perciò quanto più grande sarà la nostra miseria, altrettanto maggiore dev'essere la nostra fiducia” (2).

 

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10/08/2013 14:09
 
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2. - Le nostre miserie sono un motivo per non diffidare dell'amore di Dio.
Non avete motivo di dubitare che Dio non vi guardi più con amore, poiché egli mira sempre amorosamente anche i più grandi peccatori, per poco che abbiano vero desiderio di convertirsi; egli ha un cuore tanto dolce, tanto soave, tanto condiscendente e tanto amoroso, verso le misere creature, purché esse riconoscano la loro miseria!... è tanto premuroso verso i miserabili e tanto buono verso i penitenti!... Chi non amerà un cuore così regale e paternamente materno verso di noi?...
“Le nostre imperfezioni non devono piacerci, ma farci dire col grande Apostolo: O me infelice! chi mi libererà da questo corpo di morte? (Rm 7, 24). Però non devono neppure meravigliarci o scoraggiarci, ma infondere sommissione, umiltà, diffidenza verso noi stessi e mai scoraggiamento o amarezza di cuore, e tanto meno dubbio sull'amore che Dio ci porta. Non già che Dio ami le nostre imperfezioni e peccati veniali, ma ama noi, nonostante queste deficienze. Come una madre, pur provando dispiacere per la debolezza e infermità del suo bambino, non cessa di amarlo, ma anzi l'ama con più tenerezza e compassione; così Dio, benché gli dispiacciano le nostre imperfezioni e peccati veniali, tuttavia continua ad amarci teneramente. Perciò Davide aveva ragione di dire al Signore: Abbiate, o Signore, pietà di me, perché sono infermo (Sal 6, 2).
Perciò basta, figlia mia; vivete contenta!
Il Signore continua a guardarvi, e vi guarda con tanto più amore e tenerezza in quanto che siete inferma. Non permettete che il vostro animo nutra volontariamente dei sentimenti contrari, e quando venissero, non degnateli d'uno sguardo; stornate prontamente gli occhi dalla loro bruttezza; tornate con coraggiosa umiltà verso Dio e parlategli della bontà ineffabile con la quale egli ama la nostra misera, povera e abietta natura umana, nonostante le sue infermità” (3).
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10/08/2013 14:10
 
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3. - Una più grande miseria merita una più grande misericordia.

“Godete di essere un nulla e siatene molto contenta, poiché la vostra miseria offre a Dio occasione di esercitare la sua misericordia.
Fra i pezzenti sono stimati più bisognosi e più meritevoli di elemosine quelli che sono più miserabili e che hanno piaghe peggiori. Anche noi siamo dei pezzenti, e i più miserabili si trovano in condizione migliore, poiché Dio li rimira volentieri.
Umiliamoci, ve ne supplico, e alla porta del tempio della pietà divina non mostriamo altro che le nostre piaghe e miserie; ma ricordatevi di mostrarle con gioia, consolandovi di essere tutta sola e bisognosa, affinché il Signore vi ricopra della sua protezione” (4).
“La più bella preghiera che i mendicanti possano rivolgerci è di mettere sotto i nostri occhi le loro piaghe e i loro bisogni” (5).
“Riguardo alla soluzione che mi domandavate sui peccati di tanti anni passati, dovete sapere, mia carissima figlia, che Dio nella sua bontà ve li avrà cancellati dal momento stesso in cui gli donaste il cuore, col proposito di vivere unicamente per lui. Tuttavia, sorella cara, potrete sempre utilmente ripetere la preghiera di Davide che diceva: O Signore, lavami ancor più dalla mia iniquità e purificami dalla mia colpa (Sal 50, 4), purché lo facciate con piena e umile fiducia nella divina Bontà, sicura che non vi sarà negato mai il perdono” (6).
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10/08/2013 14:10
 
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4. - Applicazione del testo di S. Paolo: “Volentieri mi glorierò delle mie infermità”.

“Sollevate spesso il cuore verso Gesù Redentore e, con santa fiducia accompagnata da profonda umiltà, ditegli: Io sono miserabile, o Signore, ma voi prenderete la mia miseria nel seno della vostra misericordia, e con mano paterna mi ammetterete al gaudio del vostro regno! Io son vile, abietta, ma voi, in quel giorno (della mia morte) mi amerete ugualmente perché ho sperato in voi e ho desiderato di essere vostra” (7).
“Orsù, ve ne scongiuro per il comune nostro amore che è Gesù Cristo, vivete contenta e tranquilla anche in mezzo alle infermità. Mi glorierò delle mie infermità, scrive il grande S. Paolo, affinché abiti in me la potenza del Salvatore (1 Cr 12, 9). Sì, poiché la nostra miseria serve di trono per far riconoscere la somma bontà di Nostro Signore” (8).
“Possa Dio essere esaltato dalle nostre miserie, sul trono della sua bontà e sul palcoscenico della nostra umiltà sincera!” (9).
“State tranquilla, mia cara figlia; non badate alle imperfezioni, ma fissate gli occhi ben alti all'infinita bontà di Colui che, per tenerci umili, permette che viviamo nelle imperfezioni. Rimettetevi completamente alla sua bontà, ed egli avrà dell'anima vostra e di ciò che la riguarda una cura tale che voi non potete immaginare.
Che se finora non avete corrisposto, ottimo rimedio sarà il corrispondere d'ora in avanti. Le vostre miserie non devono meravigliarvi: Dio ne ha viste ben altre, e la sua misericordia non rigetta i miserabili, ma si compiace di far loro del bene, mutando la loro abiezione in trono di sua gloria” (10).
“Davvero che le nostre miserie e debolezze, per grandi che siano, non ci devono scoraggiare, ma umiliarci e farci gettare fra le braccia della divina misericordia, la quale sarà tanto più glorificata quanto maggiori saranno le colpe da cui riusciremo a risorgere: ciò che noi dobbiamo sperare di fare, con la grazia di Nostro Signore” (11).
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Questa è la vita: che conoscano Te, solo vero Dio, e Colui che hai mandato, Gesù Cristo. Gv.17,3
 
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