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CANTICO SPIRITUALE (s.Giovanni della Croce)

Ultimo Aggiornamento: 02/08/2013 18:38
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02/08/2013 18:38
 
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STROFA 36
1. È strana quella caratteristica degli innamorati per cui preferiscono godersi l’un l’altro in solitudine, separati da ogni creatura, piuttosto che in compagnia di altri. Difatti, anche se stanno insieme, basta la presenza di altre persone perché non godano a loro agio, benché non intendano trattare né parlare in loro assenza di qualcosa d’altro che in loro presenza, e le stesse persone estranee non trattino e parlino di nulla. Questo perché, essendo l’amore unione di solo due persone, da sole queste vogliono stare per comunicare tra loro. Una volta che l’anima è arrivata a questo vertice di perfezione e di libertà di spirito in Dio, cessate tutte le ripugnanze e le contrarietà della parte sensitiva, non ha altra cosa a cui pensare né altro esercizio in cui occuparsi se non dedicarsi alle delizie e alle gioie dell’amore intimo dello Sposo. Del santo Tobia, nel libro omonimo, è scritto che, dopo essere passato attraverso le sofferenze della povertà e delle tentazioni, Dio lo illuminò, così che egli consumò il resto della sua vita nella gioia (Tb 14,4 Volg.). La stessa cosa accade ormai all’anima di cui sto parlando: i beni che vede in sé le procurano tanta gioia e diletto, come lascia intendere Isaia, che, essendosi esercitata nella conquista della perfezione, è arrivata a quel vertice del quale trattiamo qui.
2. Parlando con l’anima di questa perfezione dice dunque: Brillerà fra le tenebre la tua luce, le tue tenebre saranno come il meriggio. Ti darà riposo per sempre il Signore, ti riempirà di splendori l’anima, preserverà le tue ossa; sarai come un giardino irrigato e come una sorgente le cui acque non inaridiscono. La tua gente riedificherà le antiche rovine, ricostruirai le fondamenta di epoche lontane. Ti chiameranno riparatore di brecce, restauratore di case in rovina per abitarvi. Se tratterrai il piede dal violare il sabato, dallo sbrigare affari nel giorno a me sacro, se chiamerai il sabato delizia e venerando il giorno sacro al Signore, se lo onorerai evitando di metterti in cammino, di sbrigare affari e di contrattare, allora troverai la delizia del Signore. Io ti farò calcare le alture della terra, ti farò gustare l’eredità di Giacobbe (Is 58,10-14). Fin qui sono parole di Isaia; l’eredità di Giacobbe è Dio stesso. Per questo, ripeto, l’anima non pensa se non a gustare le delizie di questo nutrimento. Le rimane un’unica cosa da desiderare: goderle perfettamente nella vita eterna. Nella strofa che segue e nelle altre che rimangono, si adopera, allora, per chiedere all’Amato questo nutrimento che rende beati nella chiara visione di Dio. Perciò dice:
Orsù, godiam l’un l’altro, Amato,
a contemplarci in tua beltade andiam
sul monte e la collina
dove pura sorgente d’acqua scorre,
dove è più folto dentro penetriam.
SPIEGAZIONE
3. Ora che l’unione perfetta tra l’anima e Dio è compiuta, l’anima vuole dedicarsi all’amore ed esercitarsi in tutto ciò che è proprio dell’amore. È, dunque, l’anima che parla in questa strofa con lo Sposo, chiedendogli tre cose che sono proprie dell’amore. La prima di godere dell’amore e di assaporarne la dolcezza, come dichiara nel verso: godiam l’un l’altro, Amato. La seconda di diventare simile all’Amato, come glielo manifesta quando dice: a contemplarci in tua beltade andiam. E la terza, di conoscere le ricchezze e scrutare i segreti dell’Amato, come mostra quando dice: dove è più folto dentro penetriam. Si commenta il verso: Orsù, godiam l’un l’altro, Amato.
4. Cioè nella comunicazione delle dolcezze dell’amore, non solo in quelle che già possediamo abitualmente in virtù dell’unione, ma anche in quelle che provengono dagli atti d’un amore effettivo e attuale, sia interiormente quando la volontà produce atti d’amore, sia esteriormente quando si compiono azioni che riguardano la gloria dell’Amato. Come si è detto, questa infatti è la caratteristica dell’amore: dove dimora, ivi cerca sempre di gustare le sue gioie e dolcezze, che consistono nell’amare interiormente ed esteriormente. L’anima agisce in questo modo per rendersi più simile all’Amato. E aggiunge subito: a contemplarci in tua beltade andiam.
5. Ciò significa: facciamo in modo che per mezzo di questo esercizio d’amore arriviamo fino a contemplarci nella tua bellezza nella vita eterna; cioè che io possa essere talmente trasformata nella tua bellezza che, essendo simile in bellezza, ci vediamo entrambi nella tua bellezza, poiché ormai io ho la tua stessa bellezza. E così, guardandoci l’un l’altro, ognuno veda nell’altro la propria bellezza, essendo la bellezza d’entrambi l’unica tua bellezza, dal momento che io sono stata assimilata alla tua bellezza. In questo modo, io ti vedrò nella tua bellezza e tu mi vedrai nella tua bellezza, io mi vedrò in te nella tua bellezza e tu ti vedrai in me nella tua bellezza; e così io sembrerò te nella tua bellezza e tu sembrerai me nella tua bellezza, la mia bellezza sarà la tua bellezza e la tua bellezza la mia bellezza; e così io sarò te nella tua bellezza e tu sarai me nella tua bellezza, perché la tua stessa bellezza sarà la mia bellezza; e così ci vedremo l’un l’altro nella tua bellezza. Questa è l’adozione dei figli di Dio, i quali in verità diranno a Dio ciò che lo stesso Figlio dichiara, in san Giovanni, all’eterno Padre: Tutte le cose mie sono tue, e tutte le cose tue sono mie (Gv 17,10). Egli lo dice essenzialmente, in quanto Figlio naturale del Padre, noi per partecipazione, in quanto figli adottivi. Il Figlio non ha pronunciato queste parole soltanto per sé, che è il capo, ma per tutto il suo corpo mistico, che è la Chiesa. Questa parteciperà della stessa bellezza dello Sposo nel giorno del suo trionfo, quando vedrà Dio faccia a faccia. Per questo motivo, qui l’anima chiede che lei e lo Sposo arrivino a vedersi nella sua bellezza, sul monte e la collina.
6. Cioè nella conoscenza mattutina ed essenziale di Dio, che è conoscenza nel Verbo divino, qui rappresentata, per la sua sublimità, dal monte. Ciò è quanto dice Isaia, quando invita a conoscere il Figlio di Dio: Venite, saliamo sul monte del Signore (Is 2,3). E ancora: Il monte del tempio del Signore sarà eretto sulla cima dei monti (Is 2,2). Quanto alla collina, si tratta della conoscenza vespertina di Dio, che è la sapienza di Dio riversata nelle sue creature, nelle sue opere e nella sua straordinaria provvidenza. Tale conoscenza è qui rappresentata dalla collina, più bassa del monte, quindi è una sapienza inferiore a quella mattutina. Ma qui l’anima, dicendo sul monte e la collina, chiede sia la conoscenza vespertina sia quella mattutina.
7. Quando, dunque, l’anima dice allo Sposo: a contemplarci in tua beltade andiam sul monte, chiede di essere trasformata e di essere simile alla bellezza della sapienza divina che, come dicevo, è il Verbo Figlio di Dio. E dicendo la collina, intende chiedergli che le dia anche la bellezza dell’altra sapienza minore, presente nelle sue creature e nelle sue opere misteriose; anche questa è bellezza del Figlio di Dio, sulla quale l’anima desidera essere illuminata.
8. L’anima non può vedersi nella bellezza di Dio se non trasformandosi nella sapienza di Dio, in cui sa di possedere le cose celesti e quelle terrene. La sposa anelava salire a questo monte e a questa collina quando diceva: Me ne andrò al monte della mirra e alla collina dell’incenso (Ct 4,6); intendendo per il monte della mirra la visione chiara di Dio e per la collina dell’incenso la conoscenza nelle creature, perché la mirra di montagna è di qualità più elevata dell’incenso di collina. Dove pura sorgente d’acqua scorre.
9. Intende dire: dove riceve la conoscenza e la sapienza di Dio, che qui chiama acqua pura per l’intelletto, conoscenza limpida e spoglia di tutto ciò che è accidentale e immaginario, priva delle tenebre dell’ignoranza. L’anima nutre sempre questo desiderio di comprendere chiaramente e in tutta la loro purezza le verità divine. Quanto più ama, tanto più desidera addentrarsi in esse. Per questo chiede la terza grazia, in questi termini: dove è più folto dentro penetriam.
10. Penetriamo nel folto delle tue opere meravigliose e dei tuoi profondi giudizi! La loro moltitudine è tanto grande e così varia da potersi chiamare folto. Ivi si può scoprire una sapienza traboccante e così ricca di misteri che non solo possiamo chiamarla folta, ma anche pingue e feconda, come dice Davide: Mons Dei, mons pinguis, mons coagulatus: Il monte di Dio è un monte pingue e fecondo (Sal 67,16 Volg.). Questa profondità della sapienza e della scienza di Dio è talmente immensa che, per quanto l’anima ne possa conoscere, può sempre più penetrarvi, perché la sapienza divina è immensa e le sue ricchezze insondabili, come esclama san Paolo: O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto imperscrutabili sono i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie! (Rm 11,33).
11. Ora l’anima desidera entrare in questa profondità e incomprensibilità dei giudizi e delle vie di Dio, perché muore dal desiderio di addentrarsi più profondamente nella loro conoscenza; conoscerli, infatti, è gioia inestimabile che supera ogni sentimento. Per questo, quando Davide parla della loro soavità, si esprime così: I giudizi del Signore sono tutti fedeli e giusti, più preziosi dell’oro, di molto oro fino, più dolci del miele e di un favo stillante. Anche il tuo servo in essi è istruito (Sal 18,10-12). Ecco perché l’anima desidera ardentemente inabissarsi in questi giudizi e conoscerli più a fondo; pur di riuscirci, sarebbe disposta ad accogliere, con grande serenità e gioia, tutte le asperità e le fatiche del mondo, tutto quanto le potrebbe servire come mezzo a tale scopo, per quanto difficile e penoso le possa essere, e persino le angosce e le amarezze della morte, pur di addentrarsi nel mistero di Dio.
12. Il folto, in cui l’anima desidera addentrarsi, rappresenta, più propriamente, la profondità e la moltitudine delle prove e delle tribolazioni in cui l’anima desidera penetrare, in quanto ritiene la sofferenza molto soave e di grande profitto. Difatti la sofferenza le permette di addentrarsi sempre più nelle profondità della sapienza divina, fonte di ogni delizia. Più la sofferenza è pura, più procura una conoscenza intima e pura e, di conseguenza, un godimento più puro e sublime, perché nasce da un più intimo sapere. Pertanto, non contenta di una sofferenza qualsiasi, dice: dove è più folto dentro penetriam. Cioè fino alle angosce della morte, per vedere Dio. Ecco perché il profeta Giobbe, desideroso di soffrire per vedere Dio, ha detto: Oh, mi accadesse quello che invoco, e Dio mi concedesse quello che spero! Colui che ha cominciato mi finisca, stenda la mano e mi sopprima! Ciò mi sarebbe di conforto, che in mezzo ai mali non mi risparmi (Gb 6,8-10 Volg.).
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