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L'EVOLUZIONE ALL'ESAME DI STUDIOSI CATTOLICI

Ultimo Aggiornamento: 29/04/2017 19:57
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09/07/2010 15:18
 
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La teoria della EVOLUZIONE è in contrasto con la Fede?
Sembra ad alcuni che le scoperte sullo sviluppo progressivo degli organismi esistenti in natura, possano mettere in crisi il concetto di CREAZIONE.
Ma è così?
[Modificato da Coordin. 09/07/2010 15:24]
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09/07/2010 15:20
 
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Conferenza stampa di presentazione della Conferenza Internazionale Biological Evolution. Facts and Theories. A
Critical Appraisal 150 years after "The Origin of Species" - 10/02/2009
Intervento prof. D. Giuseppe Tanzella Nitti

INTERVENTO DEL PROF. D. GIUSEPPE TANZELLA-NITTI

 

È mio compito offrire alcuni commenti sull’interesse della comunità teologica verso il Convegno Biological Evolution: Facts and Theories, ovvero, per essere più espliciti, perché la teologia prende sul serio il pensiero scientifico in merito a questioni circa l’origine della vita e dell’uomo, come questa viene interpretata dalle diverse teorie dell’evoluzione. In linea generale, che la teologia sia interessata al rapporto fra fede e ragione è fuori di dubbio. Ed è anche fuori di dubbio che la teologia cristiana e il pensiero scientifico — al di là di singoli episodi, inevitabili in una storia lunga 20 secoli — abbiano sempre avuto feconde interazioni e reciproci sviluppi, di cui la storia ci presenta testimonianze numerose ed eloquenti. Tuttavia, il tema su cui oggi si chiede un commento è più specifico di quanto non dicano questi rapporti, importanti ma generali, ed è per certi versi più delicato.

La gente comune, infatti, per la quale il racconto biblico della creazione rappresenta ancora in larga parte l’orizzonte di comprensione dell’origine naturale del mondo e della vita, uomo compreso, desidera capire se e in quale misura l’idea di una evoluzione biologica sia compatibile con la visione trasmessa dalla Sacra Scrittura. Personalmente vedo con molto favore che si parli di questi temi perché essi riportano al centro dell’attenzione del grande pubblico i grandi temi dell’esistenza, le domande sull’origine e sul fine, domande che non possono non appassionare tutti, tanto lo studioso come l’uomo della strada.

Esiste una tradizione teologica piuttosto consolidata in grado di comporre la nozione di creazione con l’idea di un mondo che si sviluppi nel tempo e nella storia, un mondo dove sono possibili eventi che noi chiamiamo casuali, ma dove avvengono anche catastrofi, estinzioni, ed esiste un certo antagonismo fra le specie. Le prime riflessioni finalizzate a spiegare questa compatibilità cominciano già con sant’Agostino. Il Vescovo di Ippona non conosceva il termine evoluzione, ma sapeva che il pesce grande mangia il pesce più piccolo e che le forme della vita erano andate incontro a lente trasformazioni nel tempo. Con lui altri Padri della Chiesa, e poi autori come san Tommaso d’Aquino, John Henry Newman, o in epoca a noi prossima Pio XII e Giovanni Paolo II, hanno già fornito chiarimenti teologici significativi, ciascuno con il linguaggio proprio del suo tempo. Dalla prospettiva della teologia cristiana, evoluzione biologica e creazione non si escludono affatto: potremmo infatti affermare — considerando il termine evoluzione nel suo significato più ampio, senza riferimento ad uno o più specifici meccanismi evolutivi, ma inteso come progressiva diversificazione, organizzazione e complessificazione della morfologia dei viventi — che l'evoluzione è in fondo il modo con cui Dio crea.

Affermare che il rapporto fra creazione ed evoluzione sia stato già composto dalla teologia, in particolare da quella di tradizione cattolica, non vuol dire però che questo argomento sia privo di interesse. Tutt’altro. Al teologo serve infatti una conoscenza dei dati scientifici recenti per saper distinguere, nel dibattito culturale contemporaneo, quali visioni della vita e dell’uomo rispondono a risultati acquisiti e quali, invece, possono essere facilmente preda di estrapolazioni o perfino di ideologie, che usano le scienze in modo strumentale e riduttivo, spesso contro il comune sentire di buona parte della stessa comunità scientifica. Proprio in merito alla prospettiva evolutiva, un simile impiego delle scienze è avvenuto in passato con il materialismo storico, che volle fondare una dialettica della natura su una visione del mondo fisico e della vita non rispondente ai dati scientifici, ma in linea con le proprie finalità di propaganda. Non v’è dubbio che un convegno come quello che viene oggi presentato, Biological Evolution: Facts and Theories, offrirà alla teologia, e non solo alla teologia, dati e risultati importanti per operare questo discernimento.

La teologia è anche interessata ai possibili meccanismi che hanno determinato l’evoluzione. Se è vero che l’evoluzione biologica è certamente un fatto, gli aspetti da chiarire riguardano le cause che l’hanno determinata. È dovuta unicamente alla selezione naturale (sopravvivenza del più adatto) oppure dipende dall’esplicarsi di funzioni e di processi interni ai viventi? Dipende solo da errori di trascrizione nella trasmissione del DNA oppure dall’attivazione di porzioni del codice genetico che fino a poco tempo fa i biologi ritenevano ridondanti? Quale ruolo ha nell’evoluzione il progressivo strutturarsi morfologico dei viventi per ottimizzare la loro nutrizione o l’adattamento all’ambiente? Per la sopravvivenza e il ricco diversificarsi della vita è fondamentale solo la competizione o gioca un ruolo importante anche la reciproca cooperazione fra le specie? Non di rado alcuni meccanismi, piuttosto che altri, sono stati impiegati per contrastare la visione di un mondo in cui agiscono finalismo e progettualità, come è certamente quella di un mondo voluto e creato da Dio. Conoscerli meglio aiuta la teologia a capire cosa, a partire da essi, si potrebbe dedurre sul piano filosofico, e può suggerirle quali strategie oggi impiegare per continuare a comporre creazione ed evoluzione nel contesto della scienza del nostro tempo.

L’interesse della teologia per l’evoluzione biologica cresce, evidentemente, quando si ha a che fare con le origini dell’uomo. Se la lenta trasformazione della vita a partire da forme semplici ed elementari verso forme sempre più complesse e funzionalmente più progredite, grazie alla paziente opera dell’evoluzione biologica lungo i millenni, è un fatto, non va dimenticato che è anche un fatto che l’essere umano si trovi alla sommità di questo lungo sviluppo, quasi ad indicare che la nostra specie, proprio come ci insegna la Rivelazione biblica, giunge a coronare uno scopo inteso fin dall’inizio. Per quanto simpatici e incantevoli ci risultino gli altri animali, con i quali condividiamo la maggior parte della nostra morfologia e, nel caso degli scimpanzé, oltre il 97% del nostro patrimonio genetico, noi esseri umani restiamo unici sul panorama biologico del nostro pianeta. La posizione eretta, il linguaggio, e soprattutto la consapevolezza di sé, la cultura e il progresso tecnico-scientifico restano prerogative riscontrate solo nel genere umano. Come lo è anche la sua religiosità… Ricostruire questa storia grazie al contributo delle scienze è un’impresa appassionante, perché è la ricostruzione della nostra storia. Per la teologia conoscere questa storia è importante perché le consente di interpretare meglio la Scrittura e di individuare le linee di sviluppo del dogma. Essa propone così al Magistero della Chiesa nuove sintesi che, come avvenuto in passato, possono rendere l’insegnamento dogmatico della Chiesa più intelligibile agli uomini e alla cultura del suo tempo (cfr. Concilio Vaticano II: Gaudium et spes, n. 62).

Al tempo stesso, va ricordato, con il Catechismo della Chiesa Cattolica, che «non si tratta soltanto di sapere quando e come sia sorto materialmente il cosmo, né quando sia apparso l'uomo, quanto piuttosto di scoprire quale sia il senso di tale origine» (CCC, 284). Per questo motivo, ritengo che, come tali, nessuno dei meccanismi evolutivi si oppone all’affermazione che Dio abbia voluto, cioè creato, l’uomo. Non vi si oppone nemmeno l’aleatorietà di tanti eventi accaduti lungo il lento sviluppo della vita, purché il ricorso al caso resti una semplice lettura scientifica dei fenomeni, incapace di negare la sfera dei fini. Dal punto di vista scientifico, infatti, non avrebbe senso interrogarsi se a "guidare" l’evoluzione sia stato il cieco gioco del caso o l’esistenza di un finalismo. Chi potrebbe negare, ad esempio, che anche ciò che ai nostri occhi appare come puro gioco d’azzardo non segua lo scopo nascosto di chi possiede tutte le regole del gioco, cioè di un Creatore? Solo quando l’aleatorietà o l’indeterminismo di un fenomeno naturale vengono trasformati in un apriori filosofico, sostenendo che nel mondo non c’è alcuna progettualità, né avrebbe senso cercare nell’evoluzione alcun significato voluto da un Creatore, solo allora può sorgere un apparente ma fallace contrasto fra scienza e teologia.

Concludo con due brevi e osservazioni. In primo luogo mi auguro che le scienze naturali siano impiegate sempre più dalla teologia come una risorsa positiva di conoscenze, e non viste solo come una fonte di guai. Come la teologia ha già imparato ad usare i risultati fornitigli dalla storia, dall’ermeneutica, dalla psicologia, crescendo in profondità e in rigore scientifico, così è chiamata a prendere sul serio anche i risultati certi delle scienze, giovandosene per il suo lavoro e il suo servizio alla verità. In secondo luogo, ritengo che l’idea di evoluzione stia di casa nella teologia cristiana. La Rivelazione ebraico-cristiana ci insegna infatti che la storia ha un inizio, ha un fine ed incarna un significato — e noi sappiamo che affinché il cosmo e la vita evolvano è necessaria una quantità positiva di informazione. Non credo sia possibile un’evoluzione biologica in un mondo materialista, senza informazione, senza direzione, senza progetto. In un mondo creato, il compito della teologia è proprio parlarci della natura e del senso di questa informazione, del logos, in definitiva, che, come ama ripetere Benedetto XVI, è la ragione increata fondamento di tutte le cose e della storia, logos che ci è venuto incontro nel volto di Gesù Cristo. È questa, in sostanza, l’informazione più importante, che tutti, scienziati o teologi, siamo interessati a conoscere.

[Modificato da Credente 27/01/2013 15:17]
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09/07/2010 23:07
 
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13/07/2010 21:25
 
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Secondo la cultura laica, scientifica e materialista oggi dominante in Occidente, si può credere nel racconto biblico sulla creazione solo ignorando la conoscenza scientifica; sorprende che a sostenere tale tesi sia anche il padre gesuita Giuseppe De Rosa con due articoli apparsi su La Civiltà Cattolica, autorevole rivista cattolica, solitamente in forte sintonia con la Santa Sede. Gli articoli sono stati entrambi onorati con la posizione di apertura dei quaderni n. 3715 del 2 aprile 2005 (pp. 3-14), e n. 3730 del 19 novembre 2005 (pp. 319-329). 

     La tesi è sostenuta con chiarezza: «Quando un cristiano, divenuto adulto, ritorna con il pensiero a quanto gli è stato insegnato nelle lezioni di catechismo […] si chiede – scettico e sconcertato – se quello che gli è stato detto di Adamo, formato dal fango della terra […] di Eva […]dell’albero del bene e del male […] del serpente che inganna Eva […] non siano che favole per bambini da non prendersi sul serio. Se poi questo cristiano ha raggiunto un livello culturale abbastanza alto; in particolare, se conosce, anche soltanto in maniera elementare, ciò che la scienza oggi insegna sull’origine dell’uomo con la teoria dell’evoluzione, rimarrà scandalizzato dall’atteggiamento della Chiesa che continua a insegnare quella che può apparire una favola per bambini e si convincerà che c’è opposizione tra quanto insegna la fede cristiana e quanto afferma la scienza. Si pone così il problema: circa l’origine dell’uomo, davvero c’è opposizione tra quanto afferma la teoria dell’evoluzione, che la maggior parte degli scienziati ritiene fondata su prove sicure (anche se non mancano gli scienziati seri che rifiutano tale teoria), e quanto viene affermato nella Sacra Scrittura? La risposta è: no. E il motivo è che la Bibbia è un libro che vuol dare non un insegnamento ‘scientifico’, ma un insegnamento ‘religioso’. Non vuole, cioè, insegnare ‘come’ storicamente è apparso l’uomo, ma ‘chi’ è l’uomo nel suo rapporto con Dio.» (quaderno 3730, 19 novembre 2005, p. 319). 

     Ad aprire gli occhi di padre De Rosa, cioè a fargli capire che il racconto biblico della creazione è una favola, non è stata dunque una rivelazione divina, ma una teoria scientifica – la teoria dell’evoluzione – nonostante il fatto che, come De Rosa stesso ammette, «non mancano gli scienziati seri che rifiutano tale teoria». Rimane un mistero perché padre De Rosa abbia scelto di seguire gli scienziati che accettano l’evoluzione, anziché quelli che la rifiutano: forse per amore della scienza? Non ci sarebbe nulla di strano, dato che i gesuiti hanno sempre avuto un grande interesse per la scienza, anche se forse non è stata la scienza il campo nel quale si sono maggiormente distinti durante la loro lunga storia. Qui, ad esempio, l’autorevole scrittore accetta come scienza niente meno che una teoria rifiutata da molti scienziati seri, i quali la ritengono soltanto una rispettabile idea e fra i quali, a titolo di esempio, possiamo citare gli italiani Antonino Zichichi, Giuseppe Sermonti, Roberto Fondi e Giulio Dante Guerra; mentre fuori d’Italia troviamo fra gli altri Michael Denton, William Dembski, Michael Behe, Lee Spetner, Werner Gitt, Dean Kenyon, Walter Veith e molti altri. Per non parlare del libro di John Ashton, tradotto anche in italiano (L’origine dell’Universo, Milano, Armenia, 2003, per la recensione vedi http://www.creazionismo.org/articolo.asp?id=41), nel quale 50 scienziati di tutto il mondo spiegano perché credono nel racconto biblico della creazione, lo stesso racconto che per il padre gesuita è invece una «favola per bambini, da non prendersi sul serio». 

     Prosegue De Rosa: «In realtà, è fuorviante prendere alla lettera ciò che è detto circa la formazione dell’uomo e della donna nel secondo capitolo della Genesi, dando della Bibbia una lettura fondamentalista, come sta avvenendo attualmente in alcuni territori degli Stati Uniti, con la conseguenza di opporre la Bibbia alla teoria dell’evoluzione.» (quaderno 3730, 19 novembre 2005, p. 325) Si può rispondere che non è vero che a considerare il racconto non metaforico siano soltanto pochi fondamentalisti in alcuni territori degli Stati Uniti, perché i primi undici capitoli della Genesi sono ritenuti appartenenti al genere storiografico (o storico-letterario) da molti teologi e praticamente dalla totalità degli studiosi dell’Antico Testamento: sia di religione ebraica, come i rabbini Michel Yehuda Lefkovitz, Nissim Karelitz e Chaim Kanyevsky, sia cristiani di vario tipo, come lo ieromonaco Serafim Rouz e l’archimandrita Iannuarij Ivliev (russi ortodossi), mentre in Occidente abbiamo Herman Bavinck, Julius Wellhausen, G. Ernest Wright, James Barr, Gerhard von Rad (quest’ultimo citato dallo stesso De Rosa) e molti altri. 

     Come si vede, in tutte le religioni basate sulla Bibbia vi sono sia credenti “creazionisti” che credenti “evoluzionisti”. Che sappia io, nessuna chiesa – tranne alcune sette ebraiche ortodosse – obbliga i propri membri a fare una scelta netta tra “evoluzionismo” e “creazionismo biblico”, ma lascia i membri liberi di scegliere tra le diverse interpretazioni del racconto della creazione. Ed è per questo che all’interno di tutte le chiese coesistono diverse interpretazioni del testo della Genesi e questo vale anche per la Chiesa cattolica, nella quale padre De Rosa è in buona compagnia, come si può vedere dai recenti interventi “filoevoluzionisti” del cardinale Poupard e del gesuita e astronomo George Coyne e in due monumentali opere teologiche (J. Feiner & L Fischer eds., Neues Glaubensbuch. Degemeinsame christliche Glaube, Freiburg-Basel-Wien, 1973, pp. 686 e B. Chenu & F. Coudreau eds., La foi des catholiques. Catéchèse fondamentale, Paris, 1984, pp. 736), dove in riferimento alla creazione si trovano frasi come « I concetti di selezione e mutazione sono intellettualmente molto più onesti rispetto a quello di creazione » ; «La creazione come un progetto cosmico è un idea ormai sorpassata », «Il concetto di creazione è addirittura un concetto irreale»; «La creazione significa una chiamata all’uomo. Qualsiasi altra cosa venga detta di essa, persino nella Bibbia, non è il messaggio della creazione stessa, ma piuttosto la sua formulazione in parte mitologica e in parte apocalittica»; «Parlando di Dio come Creatore significa che il primo e ultimo significato della vita si trova in Dio stesso, presente intimamente nel nostro essere». Ho scelto queste precise citazioni perché sono state commentate da un teologo cattolico particolare, l’allora cardinal Joseph Ratzinger, poi divenuto papa Benedetto XVI, che ha scritto: «Tale riduzione ‘esistenzialista’ del tema della creazione determina, però, una enorme (se non completa) perdita della realtà della fede, il cui Dio non ha più nulla a che vedere con la materia.» (J. Ratzinger, In the Beginning. A Catholic Understanding of the Story of Creation and the Fall, Edinburgh, T&T Clark, 1995, p. XII). Più recentemente Joseph Ratzinger, nella sua omelia durante la Messa “Pro eligendo Romano Pontifice” del 18 aprile 2005, ha stigmatizzato la «moderna opinione» (che è anche l’opinione di molti moderni teologi), secondo la quale «avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo» (http://www.zenit.org/italian, archivio, 18 aprile 2005, codice ZI05041816).

      È evidente, dunque, come l’argomento abbia delle implicazioni sulla fede e io, data la mia incompetenza, mi sono limitato a fornire solo alcune citazioni. Torniamo però agli aspetti scientifici a me più congeniali.  Dal punto di vista della metodologia della scienza non è difficile capire il motivo del paradosso che vede, da una parte scienziati che credono nella creazione biblica, dall’altra teologi che credono nell’evoluzione. Nelle scienze naturali - fisica, chimica, biologia – abbiamo due diversi “tipi” di scienza. Una, chiamata anche scienza sperimentale o operativa, studia i fenomeni osservabili, misurabili, sperimentabili e riproducibili; l’altra, chiamata storica, studia invece eventi e fenomeni verificatisi in passato, perciò non direttamente osservabili e non riproducibili. Le teorie delle scienze operative possono essere sottoposte a verifica e quindi convalidate o  smentite (falsificate); mentre le teorie delle scienze storiche non possono esserlo, e di conseguenza non possono essere né convalidate né falsificate, quantomeno non nel modo che è invece possibile nelle scienze operative. L’evoluzione è una scienza storica, per la quale non valgono le severe regole e il rigore scientifico applicati nella scienza sperimentale e operativa, ciò rende la teoria dell’evoluzione un’idea o concezione più filosofica e ideologica che scientifica: per questo molti scienziati non si sentono obbligati a crederla. In compenso, però, la credono molti teologi.

Quanto a me, tra scienziati creazionisti e teologi evoluzionisti scelgo i primi. È una scelta intellettualmente più appagante, anche se una mia anziana zia mi ha avvertito che riuscire a smentire Darwin non avvicina necessariamente a Dio. D’altronde è l’unica scelta che posso fare, dato che la mia preparazione è più scientifica che teologica.  Quanto a padre De Rosa ed ai moderni teologi che la pensano come lui, il loro sforzo di armonizzare le Sacre Scritture con le acquisizioni scientifiche non solo è apprezzabile e lodevole, ma è addirittura indispensabile se si vuole avere una fede accettabile anche per la ragione. Per farlo occorre però conoscere bene la scienza e la natura del metodo scientifico, altrimenti si finisce per confondere le acquisizioni della scienza sperimentale con le elaborazioni mentali, le idee, i concetti, i paradigmi, le visioni del mondo e le cornici interpretative basati sui preconcetti del naturalismo (materialismo filosofico): è solo per armonizzarlo con questi preconcetti che è necessario declassare il racconto biblico a mito o favola.   La vera scienza è infatti più compatibile con il racconto biblico che con le teorie evoluzioniste; lo credeva già san Tommaso d’Aquino, che considerava la ragione e la fede come provenienti entrambe da Dio, perciò che non possono contraddirsi. Dato il livello delle conoscenze dell’epoca, per san Tommaso questa era semplicemente una dichiarazione di fede, ma dopo settecentocinquanta anni e alla luce dell’attuale livello delle conoscenze scientifiche, oggi più che fede è una constatazione. Ciò è stato percepito anche dall’allora cardinal Ratzinger che ha scritto: «Passiamo direttamente alla questione dell’evoluzione e dei suoi meccanismi. La microbiologia e la biochimica hanno portato a conoscenze rivoluzionarie in questo campo. […] Dobbiamo avere il coraggio di dire che i grandi progetti del creato vivente non sono i prodotti del caso e dell’errore. […] I grandi progetti del creato vivente indicano una Ragione creatrice ed una Intelligenza creatrice, e lo fanno oggi in modo più evidente e più chiaro che mai.» (Joseph Ratzinger, op. cit., pp. 54-56).

  Sono ormai 150 anni che gli scienziati di fede materialista cercano di inficiare il racconto della Genesi. Nonostante il grande impegno e l’importante aiuto fornito loro da molti teologi moderni, fino ad oggi tutti i tentativi in tal senso sono falliti. Con l’aumento delle conoscenze scientifiche e contrariamente alle attese, le teorie materialiste delle origini sono diventate sempre più speculative, sempre più in contrasto con i dati delle osservazioni e con le leggi naturali. Perciò coloro che hanno scelto di credere alle Sacre Scritture ebraico-cristiane hanno davvero di che essere contenti: il loro Sacro e Antico Libro non contiene solo regole morali e promesse di salvezza, ma consente loro anche di interpretare la storia del mondo meglio di tanti uomini con più alta istruzione, che però hanno scelto la cornice interpretativa della filosofia materialista e i concetti da essa derivati.

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15/07/2010 23:21
 
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Tratto dal sito "Sulle tracce delle origini"
Schönborn: Contro Darwin basta la ragione


Il dibattito sull'evoluzionismo ha ormai coinvolto anche il mondo cattolico, come testimonia dalle
pagine della rivista americana di religione e cultura First Things, contenente l'elegante e sofisticato
dialogo tra il fisico Stephen Barr e il cardinale Christoph Schönborn. Si tratta del commento di Barr
(
vai all´articolo) all'articolo del cardinal Schönborn sul New York Times  e la
replica dello stesso Schönborn
.
Ciò che Barr rimprovera a Schönborn è, principalmente, il fatto stesso di essersi occupato di un
problema interno alla scienza; poi, di non capire il neodarwinismo (o di non essere riuscito a
dimostrare il contrario nello spazio angusto concesso dal quotidiano). L'opinione del cardinale,
cioè che il neodarwinismo e la dottrina della Chiesa cattolica siano incompatibili, sarebbe frutto del
fraintendimento del neodarwinismo: un processo evolutivo, sostiene Barr, non esclude l'intervento
divino.
Rispondere a osservazioni di questo tipo non è difficile, figurarsi per cardinal Schönborn: egli ha
replicato che, sebbene possa essere immaginabile un'evoluzione guidata da Dio, non è certamente
questo tipo di evoluzione che è divulgata dai media, insegnata a scuola e nelle università. Il punto
più interessante della discussione è però l'affermazione del cardinale che, per rifiutare l'evoluzione
neodarwinista, non è necessario il ricorso alla teologia, perché è sufficiente il buon senso, cioè la
filosofia. In altre parole, l'evoluzionismo è insostenibile filosoficamente ancor più di quanto sia
inaccettabile teologicamente; prima della fede, cioè, lo rifiuterebbe la ragione.
La discussione si svolge entro i confini tracciati dall'opinione ­ incautamente e frettolosamente
espressa da autorevoli fonti cattoliche ­ che il progresso scientifico ha reso il racconto biblico della
creazione indifendibile. Se ciò fosse vero, non rimarrebbe altro che ritagliare uno spazio alla divina
Provvidenza all'interno della concezione evoluzionista di Darwin. Ma è davvero così? Non so
quanto siano importanti le opinioni dell'Enciclopedia cattolica del 1909, o di autorevoli teologi
cattolici espresse nel 1969, o del papa stesso nel 1996. Il problema non è l'autorità del pontefice,
ma l'oggetto del suo pronunciamento, cioè la scienza: di essa sono previsti periodici aggiornamenti
e resoconti, non l'accettazione dogmatica delle opinioni, per quanto autorevoli.
Con il suo articolo, il cardinal Schönborn sfida il darwinismo sul piano della ragione, non su quello
della fede: questa sembra una vera svolta. Dalla discussione è escluso il vero oggetto del
contendere, cioè il racconto biblico della storia iniziale della vita sulla Terra. Il mondo cattolico in
generale ­ e quello accademico in particolare ­ forse non è ancora pronto per una simile
discussione.
Barr dichiara: «Personalmente non sono assolutamente certo che la concezione neodarwinista sia
sufficiente in biologia. Ma anche se dovesse risultarlo, questo non invaliderebbe affatto ciò che
papa Benedetto XVI ha detto: "Non siamo il prodotto casuale e senza senso dell'evoluzione.
Ciascuno di noi è il frutto di un pensiero di Dio. Ciascuno di noi è voluto, ciascuno è amato,
ciascuno è necessario".» Da parte mia potrei dire (per stare in argomento) che anch'io non ho la
dimostrazione che la storia iniziale della Terra sia andata precisamente come descritto nella Genesi.
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19/02/2012 21:28
 
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Darwin Day 2012, il premio Nobel Phillips: «nessuna antitesi con il Creatore»

Anche oggi continuiamo la nostra celebrazione dell’anniversario di nascita del grande naturalista Charles Darwin (1809-1882), padre della teoria evolutiva delle specie animali e vegetali per selezione naturale. Circoli di scettici e razionalisti ogni anno organizzano in questo periodo incontri e convegni attraverso i quali, strumentalizzando, la teoria darwiniana, intendono trarre conclusioni filosofico-teologiche, in particolare tentando dinegare l’esistenza di un Creatore. Questo ha portato ad unintenso proliferare di movimenti creazionisti, in particolare in ambienti protestanti degli Stati Unit, i quali rifiutano ogni spiegazione evolutiva per aderire ad un’interpretazione letterale dell’Antico Testamento. Non intendendo partecipare a questa guerra tra fondamentalisti, abbiamo chiesto un commento a numerosi ricercatori e docenti universitari, attivi in diverse aree del campo scientifico. L’iniziativa è iniziata lunedì con le parole del matematico Luigi Borzacchini, ed è proseguita ieri con l’antropologo Fiorenzo Facchini.

 
 

Il prof. William Daniel Phillips è un fisico statunitense, vincitore nel 1997 (insieme a Steven Chu e Claude Cohen-Tannoudji) del premio Nobel per la fisica per «lo sviluppo di metodi per raffreddare e catturare gli atomi tramite laser». Oggi lavora presso i laboratori americani del National Institute of Standards and Technology. Egli ha cortesemente risposto così a due nostre domande, dopo averci avvertito di non essere «affatto un esperto nel campo del rapporto tra scienza e fede religiosa. E’ una domanda che mi interessa, anche se non sono un esperto»:

 

“Prof. Phillips, la teoria di Darwin può contraddire l’esistenza di un Creatore? C’è la possibilità, eventualmente, che possa contribuire alla riflessione teologico-filosofica?”
«Suppongo che qui il termine importante sia “possibilità”. Se si definisce un Creatore come un potere che ha prodotto la vita in tutte le sue forme con mezzi che sono al di fuori dei processi della Natura, allora, per definizione, la teoria dell’evoluzione contraddice quel tipo di Creatore, perché essa descrive le nostre forme di vita come derivanti da processi naturali. Dall’altra parte, se si pensa al Creatore come il potere che ha portato all’esistenza l’universo, con tutte le materie prime e le leggi naturali necessarie per creare, sostenere e sviluppare una grande varietà di forme di vita, allora non c’è contraddizione tra teoria evoluzionistica e l’esistenza di QUESTO tipo di Creatore».

“Professore, cosa ne pensa di queste giornate celebrative di Darwin? Perché, secondo lei, non accade lo stesso per altri celebri uomini di scienza?”
«Non sono d’accordo sul fatto che gli altri scienziati non abbiano ottenuto un’attenzione simile in occasione di anniversari appropriati. Nel 2005, ad esempio, abbiamo celebrato “l’Anno di Einstein” come “Anno Mondiale della Fisica”. Questo non è stato un anniversario della nascita di Einstein, ma piuttosto una ricorrenza dell’anno in cui egli ha pubblicato tre importanti opere che hanno cambiato per sempre la fisica. Einstein e Darwin hanno avuto effetti simili nei loro rispettivi campi -fisica e biologia-, e credo che entrambi hanno avuto un sacco di riconoscimento nei centenari».

                  PUO’ COESISTERE LA FEDE NELLA CREAZIONE DIVINA CON L’ADESIONE ALL’EVOLUZIONE BIOLOGICA?

 Il prof. Luigi Borzacchini, docente di Logica matematica e di Storia della Matematica presso l’Università di Bari, recensore di “Zentralblatt MATH” e già Associate Editor del “Journal of Interdisciplinary Mathematics”, ha risposto così…

 Il prof. Fiorenzo Facchini, antropologo, paleontologo e sacerdote cattolico, già docente presso l’Università di Bologna, nominato nel 2007 professore emerito di Antropologia, ha risposto così…

 Il prof. William Daniel Phillips, fisico, premio Nobel nel 1997 e responsabile di laboratorio presso il “National Institute of Standards and Technology”, ha risposto così…

 Il prof. Massimo Piattelli Palmarini, docente di Scienze Cognitive presso l’Università dell’Arizona, fondatore del Dipartimento di Scienze Cognitive dell’Istituto San Raffaele di Milano, già visiting professor presso la Harvard University, l’Università del Maryland e al MIT, ha risposto così…

 La prof. Laura Boella, docente ordinario di Filosofia morale presso l’Università degli Studi di Milano ed esperta di neurobiologia e neuroetica, ha risposto così…

 Il prof. Gerald L. Schroeder, fisico e teologo statunitense, docente presso il College of Jewish Studies Aish HaTorah’s Discovery Seminar, ha risposto così…

 Il prof. Mariano Bizzarri, docente di Biochimica e professore di Patologia Clinica presso il Dipartimento di Medicina Sperimentale e Patologia dell’Università “La Sapienza” di Roma, ha risposto così…

 Il prof. Paolo Tortora, docente ordinario di presso l’università di Milano Bicocca, dove è anche Coordinatore del Dottorato in Biologia, ha risposto così…

 Il prof. Ludovico Galleni, docente di Zoologia generale ed Etica Ambientale presso la Facoltà di Agraria dell’Università di Pisa, e di Scienze e Teologia presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose “N. Stenone” di Pisa, ha risposto così…

 

[Modificato da Credente 21/02/2012 22:41]
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12/03/2012 14:20
 
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Pontifex.RomaMi domando come mai il testo "Genetic Entropy & the Mystery of the Genome [*]" di John C. Sanford non solo sia snobbato dal mondo della scienza pilotata, ma addirittura l'autore nell'ottobre del 2005 dovette stamparlo in proprio usando la sua Fondazione (delle pecorelle smarrite). Ultimamente se ne apre la discussione più spesso e comincia ad esserci qualche ristampa, anche ad opera di piccoli editori sicuramente molto temerari. Il problema è che John C. Sanford non è uno qualsiasi ma è uno dei più importanti genetisti viventi, quindi, perché tutte queste difficoltà nella stampa e nella diffusione del testo? John Sanford, il cui curriculum è di altissimo gradimento agli evoluzionisti stessi, da 25 anni alla Cornell University, è uno dei maggiori esperti mondiali di ingegneria genetica, con molti brevetti tra i quali tre dei più importanti metodi di manipolazione genetica:1) la resistenza patogeno - derivata; 2) l’immunizzazione genetica; 3) il processo  biolistico (“gene gun”) col quale sono prodotti la maggior parte degli organismi transgenici. Per gran parte della sua vita Sanford ha cercato di ignorare i suoi dubbi circa l’adeguatezza dell’evoluzione per spiegare la genetica, ma alla fine non ha più potuto vivere l’inganno dell’evoluzione e ha riconosciuto la mano di un Progettista Intelligente nel DNA che ha ricercato per tutta una vita[1].

Sanford era un evoluzionista convinto e molti dei suoi brevetti sono tuttora utilizzati da tutti i ricercatori del mondo che, come noto, sono quasi tutti evoluzionisti; in pratica credono che l'uomo derivi dalla scimmia, alcuni sostengono che prima ancora ci fosse un brodo primordiale e da lì scaturì un anfibio, "padre" del regno animale. Insomma, si fa fatica a credere a certe fesserie; anche se fossi ateo, preferirei sapere di essere discendete di un uomo ed una donna e non di un "ramarro".

Nel suo libro Sanford dichiara che “l’assioma primario dell’evoluzione è sbagliato.” I meccanismi genetici non spiegano l’origine dell’informazione nel genoma; nemmeno come si possa conservare. La vita non è attualmente in fase né di progresso né di conservazione, ma di degenerazione, al punto che l’estinzione del genoma umano appare tanto certa e deterministica quanto l’estinzione delle stelle, come riconosciuto da altri genetisti delle popolazioni [2].

In sostanza, se il genoma degli animali complessi sta degenerando, allora nel passato aveva meno errori e quindi all’inizio deve essere stato perfetto. Questa estrapolazione è legittima ed è creazionista; da qui ne deriva il concetto molto noto anche agli stessi "darwinisti" dell'entropia genetica e, gli stessi, sono mai stati in grado di smentirlo con dati scientifici, forse lo faranno fra 100 o 200 anni, potrebbe anche esserci un oggettivo limite temporale nelle ricerche.

Nel suo testo, Sanford afferma che le mutazioni sono classificate come dannose, benefiche o neutrali. Quelle benefiche sono rarissime (come nell’esempio degli insetti senza ali: conferiscono un vantaggio solo in specifiche condizioni ambientali). A dimostrarlo sono i dati dell’osservazione. Quelle dannose tendono ad essere eliminate dalla selezione naturale. Invece quelle neutrali sono le più numerose e più facilmente si fissano nel genoma. Il risultato netto dell’accumulo delle mutazioni neutrali è la lenta e progressiva degenerazione del genoma. Una perdita d’informazione genetica che assomiglia all’aumento dell’entropia, chiamata da John Sanford “entropia genetica” [3].

Ai livelli di Sanford non può certo essere ritenuto Giuseppe Sermonti, che comunque è scrittore, saggista, già Professore Ordinario di Genetica all'Università di Perugia. Sermonti sostiene, facendo leva sul secondo Principio della Termodinamica, riconosciuto anche dai "darwinisti" e da tutti gli scienziati del mondo, che l’entropia, o principio di Carnot, anche noto come principio di evoluzione [...] ha vari enunciati. Secondo Tait, Perrin e Langevin il principio dichiara che “un sistema isolato non passa due volte dallo stesso stato (irreversibilità)”, quindi un ordine perduto non si ricostituisce più spontaneamente. Altrimenti asserisce che ”è impossibile trasportare calore da un corpo freddo su uno caldo”.

Ciò corrisponde all’affermazione che i corpi tendono ad una temperatura uniforme, cioè alla cosiddetta “morte termica”.

Più in generale l’entropia esprime la tendenza dei sistemi alla uniformità, al disordine, alla perdita di forma e complessità, alla morte. Per metafora, un castello di sabbia tende ad essere raso al suolo e mai si ricomporrà spontaneamente.

L’entropia è principio di scomposizione, di degradazione, di decadenza di ogni sistema isolato [4].

La mutazione - che per definizione è un errore di copiatura del testo genetico, un accidente puramente casuale - è un fenomeno degradativo, tendente al disordine, al caos. In virtù di essa una popolazione non può mai tornare a una condizione precedente: si tratta dunque di un processo “irreversibile”. La selezione è un processo riduttivo, censorio, che tende ad eliminare le novità, la biodiversità, a livellare la popolazione. Liberata da tutti i suoi elementi estranei, romantici e teleonomici, l’evoluzione torna ad assumere l’asciutto volto dell’entropia. Diviene un processo dissolutore, una condanna alla perdita delle forme, una “fine delle specie”, quasi in contrapposizione al titolo darviniano “L’origine delle Specie”. Entropia e evoluzione vengono ad identificarsi non solo lessicalmente, ma anche concettualmente, come comune analisi pessimistica dell’esistenza, fisica o vivente [4].

In sostanza il "ramarro" o la scimmia non può diventare uomo, viceversa potrebbe verificarsi scientificamente il contrario, se Dio lo permettesse.

Allo stato di fatto ci troviamo attualmente in una situazione di reductio ad absurdum, perché i genetisti di tutto il mondo utilizzano i brevetti di Sanford che non sono 3, ma decine, gli stessi "darwinisti" non sono in grado di smentire la teoria dell'entropia genetica (forse non ne hanno ancora avuto il tempo materiale) e, fino a prova contraria, il dna non manipolato degenera, invecchia, peggiora e non migliora. Ecco la dimostrazione indiretta per cui si nota che gli evoluzionisti e le tesi da loro sostenute sono assurde; vale a dire che l'evoluzionismo è in contraddizione con l'entropia creazionista, e sono gli stessi "darwinisti" e genetisti ad utilizzare brevetti del Sanford basati anche sulla legge di entropia, quindi indirettamente gli danno ragione. A me questo stato di cose sembra davvero una reductio ad absurdum.

Che cosa dice l'evoluzionismo?

Per evoluzionismo possiamo affermare che si intende quell'ipotesi bestemmiatrice (se intesa filosoficamente), perché contraria al dogma del monogenismo, dalla quale il cattolico deve rifuggire altrimenti manifesterebbe pubblica eresia; ipotesi non confermata dalla scienza, che sostiene che l'origine dei viventi sia da attribuire ad una sorta di processo casuale di derivazione genetica da uno o più tipi primitivi, secondo i criteri concepiti dai vari naturalisi eretici che la "puntellano".

Diciamo che l'evoluzionismo, per voler essere buoni, se contenuto nei limiti di una pura ricerca scientifica, astrae dal problema della Causa Prima del fatto, e si fonda su dati positivi messi a disposizione casomai dalla paleontologia o dall’anatomia comparata.

L’ipotesi, discussa in campo filosofico, affronta invece il problema metafisico e lo risolve in senso materialistico (ateo) o spiritualistico, che implica per il credente un Dio Creatore e Legislatore della natura.

Come uomo, anche il credente potrebbe accettare per chicchierare l’ipotesi scientifica; mentre, se fedele ai principi dell’essere, deve respingere l’evoluzionismo filosofico, inteso in senso materialistico, apertamente assurdo e contrario all'inerranza biblica (altro dogma fondamentale).

Semplificando: per conversare la bar si può anche parlare di evoluzionismo, ma mai condividerne le "verità" o nozioni filosofiche, in quanto apostate.

Che cosa dice il creazionismo?

Per creazionismo intendiamo quella dottrina filosofico teologica, confermata dalla Rivelazione e dal Magistero, secondo la quale l’anima umana, essendo per sé sussistente, è creata volta per volta da Dio non appena, nella formazione dello zigote, l’organismo è disposto a riceverla. - Ciò contro la teoria platonico-origenista della preesistenza [...], e contro il traducianismo materiale, che fa nascere l'anima dal seme dei genitori, e spirituale che la fa derivare dall'anima dei medesimi.

Noi sappiamo che:

- l’anima umana è creata immediatamente da Dio, ed è dogma di fede [5];
-  l'anima non è generata [6];
- non deriva per evoluzione da un’anima inferiore [7];
- non preesiste al corpo [8];
- non è un’emanazione della sostanza di Dio [9].

A livello scientifico il creazionismo si basa sempre sulla concezione filosofica o religiosa che attribuisce l'origine del mondo a un libero atto creativo compiuto da Dio. In una prospettiva meramente scientifica, il creazionismo è la sapienza che nega l'evoluzione delle specie viventi, sostenendo che esse sono state create da Dio così come sono e tali sono rimaste attraverso i secoli [10]

Scegliete voi, io sono creazionista, altrimenti se facessi mio un principio filosofico apostata, mi dovrei confessare perché in stato di peccato mortale, quindi privo di Grazia santificante; sarei anche obbligato a credere di discendere da un brodo o da un "ramarro" / scimmia, oppure che al mio cane dovrebbe crescere il collo se collocassi sul frigorifero la sua ciotola di crocchette :) ...

Carlo Di Pietro (M.S.M.A.)

Note:

[*] http://www.amazon.com/Genetic-Entropy-Mystery-Genome-Sanford/dp/1599190028
[1] Cfr. "ENTROPIA E MUTAZIONI" di Stefano Bertoni - Comitato "Anti evoluzionista"
[2] Cfr. Higgins & Lynch, 2001, Metapopulation extinction caused by mutation accumulation
[3] Cfr. Dr.J.C.Sanford, Genetic Entropy & The Mystery of the Genome, FMS Publications, 3rd Ed., 2008, p.27
[4] Cfr. Rivista Abstracta n° 38 (Giugno 1989), pp. 90-95
[5] Denzinger S., 190, 360, 685 S.c.G,., II, c. 87 S.th., I, q. 90, aa. 1-2; De Pot., q. 3, a. 9; Comp. th., c. 93; Quodl. III, a. 3, a. 1; IX, q. 5, a. 1
[6] Denzinger S. 360, 1007. -S.c.G., II, cc. 86, 88, 89
[7] Denzinger S. 3220
[8] Denzinger S. 403, 456. - S.th., I, q. 90, a. 4; S.c.G., II, cc. 83-84; De Pot., q. 3, a. 10
[9] Denzinger S. 190, 201, 285, 455, 685. -S.c.G., II, c. 85; S.th., I, q. 90, a. 1; Comp. th., c. 94
[10] Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/creazionismo/
[nb] Alcune citazioni sono tratte da Dizionario del Cristianesimo, Enrico Zoffoli, Sinopsis, 1992 in Cfr.


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15/03/2012 15:18
 
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L’argomento evolutivo contro il naturalismo

Nel 1993, il filosofo Alvin Plantinga, professore emerito di filosofia alla University of Notre Dame e presidente del Dipartimento di Filosofia al Calvin College, proponeva un’originale formulazione dell’idea che la negazione aprioristica di un Creatore sia fondamentalmente irrazionale. Il ragionamento di Plantinga è universalmente noto come “Evolutionary Argument Against Naturalism” -EAAN (“argomento evolutivo contro il naturalismo”). Oggi, dopo essere passato indenne attraverso quasi venti anni di severo scrutinio, Plantinga ripropone l’EAAN nel suo ultimo libro, “Where the Conflict Really Lies: Science, Religion and Naturalism” (Hardback 2011). Cominciamo con l’osservare che Plantingadefinisce il naturalismo come la posizione filosofica che non ammette l’esistenza di un Dio personale e che implica il materialismo, vale a dire l’idea che gli esseri umani non hanno “un Sé, un’anima o un ego immateriali” e che “sono fatti in tutto e per tutto di carne e sangue e ossa”. Ora, secondo il filosofo èquesta concezione, e non la fede, a essere in conflitto con la scienza. Per poter comprendere il nucleo dell’EAAN è necessaria una piccola digressione “tecnica”.

Il ragionamento dipende infatti in maniera essenziale dal concetto di “defeater”, che indica – nel contesto dell’epistemologia – una convinzione che, se provata vera, implicherebbe direttamente o indirettamente la falsità di un’altra convinzione. Per i nostri scopi, tradurremo “defeater” con l’espressione “un confutante”. Ecco un esempio: abbiamo appena comprato un termometro T – che naturalmente riteniamo affidabile – quando veniamo a sapere che esso è stato prodotto da una certa fabbrica F, che appartiene a un matto il cui unico obiettivo nella vita è di boicottare la società industriale. A tale scopo, costui introduce apposta molti strumenti difettosi nella linea di produzione. Pertanto, dato che noi non abbiamo alcun modo di conoscere il rapporto tra il numero dei termometri buoni e quello dei termometri difettosi, la logica ci suggerisce di buttare a mare tutte le temperature fin qui rilevate da T, perché non abbiamo più la ragionevole certezza che esse siano attendibili! In definitiva, l’affermazione “La probabilità P che T sia affidabile, sapendo che T è stato fabbricato da F, è molto bassa o indeterminata” costituisce un confutante della nostra convinzione iniziale che T sia un valido strumento di misura.

Passiamo adesso a esaminare l’argomento evolutivo di Plantinga. Assumeremo che le nostre facoltà cognitive (memoria, percezione, pensiero razionale e così via) si possono ritenere affidabili se le loro conseguenze risultano in maggioranza vere. Come si sa, secondo le attuali teorie evolutive tutte le innumerevoli caratteristiche delle attuali forme di vita – comprese dunque le nostre capacità cognitive – sarebbero comparse attraverso meccanismi quali la selezione naturale e la deriva genetica, che agiscono sulle fonti di variazione (come le mutazioni genetiche casuali). La selezione naturale elimina la maggior parte di queste mutazioni, ma qualcuna mostra di avere valore di sopravvivenza e aumenta l’adattamento. Queste ultime, perciò, si diffondono nella popolazione e persistono nel tempo. È bene sottolineare che, secondo Plantinga, questo schema evolutivo è perfettamente compatibile con l’idea teista che Dio ci abbia creati a Sua immagine e somiglianza, e in particolare dotati della capacità di acquisire conoscenza. La teoria dell’evoluzione, in effetti, prevede soltanto che le mutazioni genetiche siano casuali, intendendo con ciò che esse non devono essere implicite nella struttura dell’organismo, che di norma non devono giocare un ruolo positivo nella sua capacità di sopravvivere, ed eventualmente che non devono essere prevedibili; ma essa non può escludere la possibilità che tali mutazioni siano in realtà causate, orchestrate e predisposte da Dio. Come è facile capire, questa forma di evoluzione teista è totalmente equivalente a quella ateista, alla luce delle prove scientifiche oggi disponibili. Quindi, secondo Plantinga, la teoria dell’evoluzione in sé non è in contraddizione con l’idea che Dio ci abbia creati in modo tale che le nostre facoltà cognitive siano affidabili (perfettamente in grado, cioè, di“adeguare l’intelletto alla realtà”).

Ma se il naturalismo è vero, Dio non esiste, e pertanto non vi è nessuno che sovrintende al nostro percorso evolutivo. Il che ci porta dritti alla questione cruciale, quella intorno a cui ruota l’EAAN: quanto è probabile che le nostre capacità cognitive siano affidabili, data la loro origine evolutiva e supponendo vero il naturalismo? Ebbene, la risposta più logica per chi sostiene il naturalismo dovrebbe essere “molto poco”, come comprese lo stesso Darwin: «Mi sorge sempre l’orrido dubbio se le convinzioni della mente umana, che si è sviluppata dalla mente degli animali inferiori, siano di qualche valore o in qualche modo attendibili. Chi riporrebbe la sua fiducia nelle convinzioni della mente di una scimmia – se pure esistono delle convinzioni in una tale mente?». Il “Dubbio di Darwin” è stato ribadito in tempi più recenti da Patricia Smith Churchland, che lo ha sottoscritto in pieno. In sintesi, esso nasce  dalla unasemplice considerazione: dal momento che la selezione naturale si limita a premiare i comportamenti che aumentano l’adattamento, non ha alcuna importanza se le convinzioni che stanno alla base di quei comportamenti sono vere false. Basandoci solo sulla teoria dell’evoluzione, in pratica, non possiamo dire nulla di positivo sulla verità delle conclusioni a cui possono portare i nostri processi intellettivi. Se infatti accettiamo il riduzionismo materialista implicito nel naturalismo, ogni comportamento è causatoesclusivamente da processi cerebrali deterministici, quindi dalla “neurologia sottostante” (per così dire). È questa neurologia ad essere adattiva, e per il naturalismo essa è l’unica fonte delle convinzioni: dal punto di vista dell’adattamento, però, non è necessario che queste siano vere, purché consentano la sopravvivenza dell’individuo.

Un esempio divertente è fornito da Plantinga. Immaginiamo di osservare un nostro ipotetico antenato pre‑umano, Paul. Si avvicina una tigre; il comportamento più appropriato è naturalmente la fuga. Ora, Paul pensa che la tigre sia un enorme gattone amichevole, e decide di giocarci; è convinto però che il modo migliore per farlo sia di farsi inseguire senza lasciarsi mai acchiappare. Quanto alla sopravvivenza, Paul è a posto; quanto all’aderenza con la realtà, lo è indubbiamente di meno! Di fatto, per ogni comportamento che produce adattamento sono possibili diversi contenuti mentali – corrispondenti aconvinzioni diverse, alcune delle quali vere e alcune false – che, nell’ottica del materialismo, non sono in relazione causale con esso. Perciò, data la selezione darwiniana e il naturalismo, possiamo conservativamente stimare pari a circa il 50% la probabilità che fosse vera ogni data convinzione che si andava via via fissando, nel corso dell’evoluzione, nella struttura neurale della nostra specie. In effetti,dando per scontato il naturalismo, è logico concludere che l’affidabilità complessiva dei nostri processi mentali deve essere effettivamente molto scarsa. Del resto, non avendo informazioni certe su come siano andate realmente le cose, l’unica alternativa scientificamente valida che ci rimane è lasospensione del giudizio: in altre parole, dovremmo ammettere di non poter dire niente di sicurosull’affidabilità delle nostre facoltà cognitive.

A questo punto, possiamo esprimere in forma analitica le considerazioni fin qui esposte. Indichiamo con Rla proposizione “Le nostre facoltà cognitive sono affidabili”, con N “Il naturalismo è vero”, e con E “Ci siamo evoluti in modo neo‑darwiniano” (non è difficile individuare nella congiunzione N&E quella forma discientismo che pretende di spiegare ogni aspetto della vita umana attraverso il paradigma di caso e necessità). Indichiamo infine con P(R/N&E) la probabilità che le nostre facoltà cognitive siano affidabili, dati il naturalismo e il neo‑darwinismo, e con D la proposizione “P(R/N&E) è molto piccola o indeterminata” (che, per quanto detto sopra, consegue da N&E). Ebbene, è evidente che se si accetta N&E e si comprende che D è vera, quest’ultima risulta essere un confutante di R: in altri termini, siamocostretti a dubitare di tutte le nostre convinzioni – inclusa ovviamente N&E. In quanto confutante di R, perciò, D lo è anche della stessa N&E!  Insomma, lo scientismo – nella variante N&E – risulta essere una convinzione auto‑confutante, vale a dire una concezione che non è possibile sostenere razionalmente. In sostanza, se si accetta il naturalismo non ha senso credere nell’evoluzionismo darwiniano, e viceversa. Se d’altra parte fosse vero il teismo (la negazione del naturalismo), Dio potrebbe aver predisposto e diretto l’evoluzione in maniera tale che dovessero comparire sulla Terra, a tempo debito, creature dotate di affidabili facoltà cognitive; in questo caso, non si rileverebbe alcuna contraddizione logica con le osservazioni scientifiche.

Concludendo, dall’analisi di Plantinga si deduce che naturalismo e neo‑darwinismo sono in conflitto, poiché non è ragionevolmente possibile accettare entrambi. Dato dunque che il neo‑darwinismo è una parte di fondamentale importanza della scienza moderna, dovremmo prendere atto che si comincia a delineare un profondo conflitto tra naturalismo e scienza… mentre continua a non essercene alcuno tra fede e scienza.

Michele Forastiere e Antonio Ballarò

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15/01/2013 13:00
 
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I mistici di Darwin in difficoltà

Darwin Portrait of a GeniusIl naturalista Charles Darwin è stato certamente uno dei più importanti rivoluzionari del mondo scientifico, e merita gli onori della scienza.

Il suo pensiero è, ed è stato, tuttavia frequentemente strumentalizzato da derive scientiste e ateiste, con chiari obiettivi ideologici, ed è contro essi che vuole essere indirizzata la nostra critica. Rimanendo sul piano filosofico-teologico, occorre addirittura dire che oggi il principio direttivo intrinseco (o teleonomia) che guida l’evoluzione biologica può essere accreditato come uno dei tanti indizi a posteriori del Creatore, come diversi studiosi hanno fatto nel bellissimo volumeComplessità, evoluzione, uomo (Jaca Book 2011).

Al di là di tutto questo, diverte osservare alcuni studiosi religiosamente estasiati dalla figura Darwin, i quali non riescono a concedergli alcun errore perché altrimenti sarebbero costretti a concedere qualcosa alla maggioranza dei biologi moderni, che hanno ormai abbandonato il vecchio paradigma evolutivo basato esclusivamente sulla selezione naturale, sull’onnipresente gradualismo e sulla macroevoluzione come deduzione dalla microevoluzone per estrapolazione lineare, sostenuti oggi soltanto dai numerosi neodarwinisti. Questi ultimi -non tutti!- sono promotori di una visione filosofica sull’evoluzione determinista e scientista e vorrebbero imporre alla biologia un approccio esclusivamente meccanicistico. Essi non accettano soltanto critiche “tecniche” al pensiero di Darwin, come quelle di Gould, Laurentin, Piattelli Palmarini, Eugene Koonin ecc., ma si scagliano contro chiunque osi sostenere che Darwin abbia ispirato -volontariamente o no- il pensiero eugenetico e razzista.Sentite, ad esempio, con quale sguaiatezza Telmo Pievani replica davanti a tali osservazioni: «Altri si spacciano per esperti e insistono nell’ignorare spudoratamente la storia della scienza sostenendo che Darwin fu il padre del razzismo e di chissà quali altre nefandezze. Chi conosce le tecniche di comunicazione sa che è difficile rispondere a un interlocutore in malafede che sostiene idiozie simili».

Ma perché tanto furore? Forse hanno paura che riconoscendo questo il pensiero di Darwin perda credibilità e dunque si butti via il bambino con l’acqua sporca? Paura assolutamente ingiustificata. Chissà come la prenderebbero sapendo che nel libro appena pubblicato Darwin: Portrait of a Genius (Viking Adult 2012), lo storico Paul Johnson, scrittore e a lungo giornalista per New Statesman ha, a sua volta, mostrato il collegamento diretto tra Darwin e il darwinismo sociale,  l’eugenetica, le sterilizzazioni forzate e l’igiene razziale della Germania nazista. Recentemente lo stesso ha fatto Richard Weikart, docente di storia presso la California State University, con il suo volume: ”Da Darwin a Hitler: etica dell’evoluzione, eugenetica e razzismo in Germania“.

Lo storico, oltre a far notare la grande influenza del darwinismo sociale (direttamente o indirettamente) anche sul pensiero di Mao Tse-tungStalin e Pol Potsi è lamentato verso «l’entusiasmo dei fondamentalisti darwiniani, che negli ultimi decenni hanno cercato di creare uno status divino a Darwin e abusare chi sottopone il suo lavoro al controllo critico, che è l’essenza della vera scienza»Ha quindi affermato cheDarwin ha inaugurato un nuovo modo di pensare il “miglioramento dell’umanità”, e che Engels, Marx, Lenin, Trotsky, Stalin e Mao Tse-Tung hanno tutti abbracciato in qualche misura e in vario modo «la teoria di Darwin della selezione naturale come giustificazione per la lotta di classe». Ha anche sottolineato che Pol Pot, il dittatore cambogiano, è stato introdotto alla teoria evoluzionistica di Darwin da Jean-Paul Sartre«I crimini orribili commessi in Cambogia a partire dall’aprile 1975 in poi, che hanno provocato la morte di un quinto della popolazione, sono stati organizzati dal gruppo dei borghesi intellettuali di Pol Pot, noto come Leu Angka. Otto di questi erano dirigenti, cinque erano insegnanti, uno professore universitario, un funzionario civile, e uno un economista. Tutti avevano studiato in Francia nel 1950, e non solo erano appartenuti al partito comunista, ma aveva assorbito le dottrine filosofiche di Sartre sull’attivismo e la “violenza necessaria”. Questi assassini di massa erano i suoi figli ideologici». Ciò è confermato nella biografia di Philip ShortPol Pot: Anatomy of a Nightmare (2004), in cui si sottolinea che «l’eredità intellettuale alla base della rivoluzione cambogiana era prima di tutto francese».

Anche il collegamento tra Darwin e lo stalinismo è stato tracciato da diversi autori, oltre che da Johnson. Ad esempio da Francis B. Randall in Stalin’s Russia: An Historical Reconsideration (1965), dove si afferma:«Stalin rimase per tutta la vita un ammiratore di Darwin, le cui teorie avevano così eccitato la sua gioventù». Non a caso egli impose lo studio del darwinismo durante le ore obbligatorie di ateismo scientifico all’università di Mosca. Johnson ha spiegato«Stalin aveva la lotta per la sopravvivenza del più adatto di Darwin in mente quando agì contro i kulaki». Dunque, checché ne dicano gli avvocati neodarwinisti, Darwin fornì un fondamentale supporto scientifico al razzismo e all’eugenetica, come ha spiegato anche Enzo Pennetta, anche se per lui fu un supporto “inconsapevole”.

Ma si può andare anche oltre. Diversi studiosi hanno sostenuto che Darwin non agì soltanto come ispiratore inconsapevole, ma mostrò di essere apertamente favorevole all’eugenetica. Lui stesso infatti scrisse: «Vi è motivo per credere che la vaccinazione abbia salvato un gran numero di quelli che per la loro debole costituzione un tempo non avrebbero retto il vaiolo. Così i membri deboli delle società civilizzate propagano il loro genere. Nessuno di quelli che si sono dedicati all’allevamento degli animali domestici dubiterà che questo può essere altamente pericoloso per la razza umana [...]. Dobbiamo quindi sopportare l’effetto indubbiamente cattivo, del fatto che i deboli sopravvivano e propaghino il loro genere, ma si dovrebbe almeno arrestarne l’azione costante, impedendo ai membri più deboli e inferiori di sposarsi liberamente come i sani» (C. Darwin, L’origine dell’uomo, Newton 1994, pag. 628).

Lo storico della scienza André Pichot ha mostrato l’affinità tra Darwin e suo cugino Francis Galton, padre dell’eugenetica, affermando che «Darwin sembra essere in buon accordo con suo cugino Galton, e se non ha parlato propriamente di eugenetica è stato verosimilmente perché l’eugenetica è stata teorizzata dopo la sua morte» (citato in C. Fuschetto, Fabbricare l’uomo, Armando 2004). Anche per il grande storico del razzismo, Léon Poliakov«la divisione del genere umano in razze inferiori e razze superiori era per Darwin un fatto incontestabile» (citato in F. Agnoli, Perché non possiamo essere atei”, Piemme 2009, pag. 206). Altri approfondimenti è possibile trovarli al nostro specifico dossier: “Darwinismo e razzismo”

Gli avvocati del neodarwinismo “filosofico” si mettano il cuore in pace: la visione mistica di Darwin è decisamente controversa e anacronistica. Occorre coraggiosamente saper scindere le luci dalle ombre,chiudersi in visioni ideologiche è un danno alla verità.

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01/05/2013 18:07
 
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Miti e realtà (7)
Data: Wednesday, 23 November @ 16:38:17 PST
Argomento: Chiesa


del Servo di Dio Mons. PIER CARLO LANDUCCI
(una nota biografica del Servo di Dio in fondo a questo documento)

EDITRICE LA ROCCIA

Nihil obstat quominus imprimatur
Romae, die 1 oct. 1968
Rev. Eccl. P. M. Mazzocchi O.C.D.
e Vicariatu Urbis die 10 nov. 1968
+ Hector Cunial
Archiepiscopus Soteropolitanus
Vicegerens
_________________

LA SUGGESTIONE EVOLUZIONISTA
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01/05/2013 18:08
 
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LA SUGGESTIONE EVOLUZIONISTA


SUPERFICIALITA' E CRITICA EVOLUZIONISTA

PREOCCUPAZIONE APOLOGETICA 

Quando comparvero, l'anno scorso (giugno-luglio 1966), nella Civiltà Cattolica due articoli dell'illustre professore della Università Gregoriana, P. M. Flick, sulle possibili interpretazioni moderne del peccato originale, vi fu meraviglia e alcuni ne trassero scandalo.

Ma invece era evidente, e fu anche spiegato, che lo studio di P.F. era ispirato ad alta preoccupazione apostolica e scientifica, come lo era stato quello, sullo stesso argomento, di altri studiosi cattolici. Davanti, infatti, al generalizzarsi nel campo scientifico dell'ipotesi evoluzionista - largamente penetrata anche tra gli scienziati cattolici - e davanti alla prospettiva di un suo passaggio dal piano dell'ipotesi a quello della tesi sicuramente dimostrata, sorgeva l'opportunità di preparare una possibile conciliazione della sostanza del dogma cattolico con l'evoluzionismo, per non correre il pericolo di sboccare in un infondato dissidio tra scienza e fede e di dover registrare infine una chiara sconfitta. Il dramma di Galileo - dicono - insegni. 

Ciò chiarito, a difesa soprattutto delle nobilissime intenzioni, è lecito tuttavia chiedersi, su un piano metodologico generale, se, criticamente parlando, sia opportuno che, in base a una qualsiasi possibilità del futuro affermarsi d'una tesi scientifica, in contrasto con una classica e autorevole interpretazione teologica, si infirmi quest'ultima. 

E se poi tale tesi scientifica, come sovente è avvenuto, non si affermerà o presto cambierà? Cadremmo nella psicosi del superficiale culto della scienza, ossia, in definitiva, nella leggerezza scientifica. 
 
Il caso di Galileo è assolutamente speciale, e, del resto, inquadrato bene nel contesto storico, non fa fare ai giudici ecclesiastici quella pessima figura che tanti affermano. Fu un fatale infortunio sul lavoro. I giudici, anche se avrebbero potuto essere più prudenti, non si possono propriamente definire imprudenti, visto che si appoggiarono alle generali convinzioni scientifiche del tempo. 

In via ordinaria poi una serena fedeltà a una organica impostazione dottrinale, coerentemente e limpidamente ancorata alla migliore tradizione teologica, non potrà che avvalorare, di fronte ai critici, la tradizione stessa. Né potrà suscitare ragionevole disprezzo un eventuale futuro ripensamento, se e quando sorgerà veramente la luce di contrastanti nuove acquisizioni scientifiche sicure. E' come nelle scienze fisiche. Nessuno disprezza oggi i grandi fisici del passato per il fatto che sono poi venute le diverse nuove acquisizioni della fisica quantistica, ecc. 

Mettere subito, invece, le mani avanti per non cadere, significa farsi imporre la tattica dall'avversario, disorientare i fedeli, e perdere, in definitiva, ancor più, la stima dell'avversario. 
 
UNA MODA DI PENSIERO 
 
Passiamo ora un po' al vaglio critico la fiducia, che sempre più si diffonde, circa la solidità della tesi evoluzionista, o più precisamente del trasformismo delle specie viventi. 

E' veramente fondata, cioè è scientifica, tale fiducia, o non è piuttosto il risultato della pressione psicologica d'una moda di pensiero, di una comoda, ma arbitraria sintesi? Non potrebbe cioè questa rientrare nella «moda» che «fa legge più della verità», per usare un'espressione generale di Paolo VI nel discorso alla riunione plenaria dell'Episcopato Italiano dell'8 aprile 1966? 

Mi riferisco all'evoluzione delle specie viventi, fino alla specie umana. Pur essendovi non trascurabili eccezioni, effettivamente oggi la maggioranza degli scienziati, anche cattolici, è evoluzionista, anche se, in sede di discussione, essi ammettono le difficoltà di tale teoria. Nel piano divulgativo poi l'evoluzionismo è presentato addirittura come un dogma scientifico. 

I cattolici, d'altra parte, sanno che un evoluzionismo finalizzato da Dio, mediante un divino intervento efficiente iniziale (oltre quelli richiesti poi per il passaggio alla vita, al senso e all'intelligenza, quest'ultimo mediante l'atto creativo per le singole anime), venendo a garantire la causa proporzionata delle perfezioni, via via maggiori, che successivamente emergeranno dall'evoluzione, non contrasta - almeno in astratto - con la sana filosofia e con il principio della dipendenza di tutte le cose dal Creatore; e può anche conciliarsi con la teologia
 
A riguardo però dell'ipotesi evoluzionista finalistica bisogna ricordare una attenta precisazione, assai spesso trascurata. Se l'intervento creativo iniziale venisse concepito come creazione di materia, non solo soggetta alle leggi fisico-chimiche, ma anche depositaria di potenzialità latenti, specificamente superiori (non derivanti da pura combinazione delle proprietà fisico-chimiche attuali, come sembra ritenere l'illustre evoluzionista V. Marcozzi: cfr. L'evoluzione oggi, 1966, p. 256), precontenenti virtualmente, come in germe, tutte le perfezioni che, raggiunte le opportune modificazioni ambientali, si sarebbero successivamente manifestate, allora non si avrebbe una vera evoluzione, ma un vero creazionismo. Sarebbe come un passare dall'uovo alla gallina, il che non è affatto evoluzione avendo già l'uovo tutta la specifica perfezione germinale della gallina, richiedendo soltanto l'impulso del calore ambientale per passare dalla virtualità all'attualità

Vogliamo parlare invece della vera evoluzione, nella quale il finalismo si concepisce prodotto dal solo idoneo impulso iniziale, lasciando tutto il resto al gioco delle cieche combinazioni fisico-chimiche (salvo i suddetti gradini obbligati, come e soprattutto quello dello spirito, benché alcuni più radicali evoluzionisti finalistici, come Teilhard de Ch., non ammettano alcun intervento estrinseco, nemmeno per quel passaggio culminante). 

Per comprendere ora lo stato d'animo degli evoluzionisti, conviene coglierlo nel più radicale e popolare evoluzionista moderno, quale è Teilhard de Ch., poiché esso è partecipato, benché in diversa misura, da tutti gli altri. 
P. Teilhard si sentì sempre mosso da un'innata ammirazione per la materia, al cui tangibile contatto gli sembrava appagata la sua «passione nettamente dominante: la passione dell'Assoluto» (Mon Univers, 1918). 

Questa non è che la classica suggestione della conoscenza umana, in quanto legata al sensibile, che tende a ridurre la realtà a ciò che si vede e si tocca. Essa sospinge fatalmente alla teoria evoluzionista, secondo la quale tutte le cose promanano dalla materia, ed in cui tutte le relazioni di causa ed effetto si risolvono nella visibilesuccessione delle varie specie.
 
Criticamente, appare subito logico di assumere un atteggiamento diffidente verso tale suggestionante tendenza umana, che minaccia di restringere la visione della realtà. Teilhard invece (seguito più o meno dagli altri evoluzionisti) vi si è tuffato: «La Materia era là e mi chiamava... Ella mi sollecitava perché lasciandomi andare ad essa, senza riserve, l'adorassi» (La vie Cosmique, 1916). Lo vedemmo nella precedente sezione di questo libro. 
 
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01/05/2013 18:09
 
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LA PROVA FONDAMENTALE 
 
Ricordiamo la famosa prova fondamentale del trasformismo evoluzionista. La Palentologia ha scoperto che le specie viventi quali sono state conservate negli strati fossili, sono comparse sulla terra secondo una fondamentale progressività di perfezione: alghe e funghi, invertebrati senza scheletro, invertebrati con scheletro, vertebrati nella successione di pesci senza mandibola e poi con mandibola, anfibi, rettili, uccelli, mammiferi fino all'uomo. «Ma può essere - dice T. - è un'illusione, la distribuzione ordinata, organizzata, ineluttabile, degli esseri viventi attraverso il tempo e lo spazio? Questo, lo nego con tutta la forza [!] della mia esperienza paleontologica» (Le paradoxe transformiste, 1925); 

«dal più piccolo particolare ai più vasti sistemi, il nostro universo vivente (come il nostro universo materiale) ha una struttura. E questa struttura non può essere dovuta che a un fenomeno di crescita. Ecco la grande prova del trasformismo, e la misura di quello che questa teoria ha definitivamente [!] acquisito» (Comment se pose aujourd'hui la question du transformisme, 1921). 
La prova fondamentale è dunque doppia: rassomiglianza e anzi uguaglianza dellastruttura fondamentale di ogni vivente (la cellula, dal minimo vivente all'uomo) eprogressività di organizzazione. 

Ebbene: tutto ciò non prova niente, visto che, ovviamente, le cose si sarebbero dovute svolgere nello stesso modo anche nell'ipotesi dell'intervento creativo di Dionei gradini almeno dei principali passaggi da specie a specie. Era ovvio infatti che il sapiente Creatore strutturasse le specie secondo un piano comune (corrispondente alla comune dimora) e regolasse i successivi interventi in armonia alla progressivamodificazione dell'ambiente. Una madre di quindici figli li pose ordinatamente nel dormitorio nei loro proporzionati letti, secondo l'età e l'altezza: nessuno, entrando, dedusse che il più grande era derivato dal più piccolo. 

Indotto dalla suggestione dell'esperienza sensibile, T. incalza, respingendo la prospettiva delle creazioni istantanee. Nessuno - dice - guardando questa pietra sognerebbe che sia stata creata in questo momento: «Una creazione istantanea(proprio come la creazione di un oggetto isolato) mi parrebbe un'assurdità filosofica» (Lettera al de Solage, 1935). Invece, avrebbe dovuto pensare che il fatto è certamente avvenuto al principio dei tempi e che avviene continuamente per la creazione di ogni nuova anima umana. 
 
Limitiamoci a queste sole considerazioni. Si può, su tali basi, parlare di una dottrina seria e solida? Eppure notammo la lirica certezza del T. (cui fanno eco tanti evoluzionisti): come per la «successiva aggregazione delle particelle nel seno di un cristallo o di una stalagmite, così non si deve dubitare, nemmeno per un istante, dell'origine della vita per evoluzione della materia» (Le Phén. Hum., 1940, ed. 1955, 150); v'è una «evidenza al di sopra di ogni verifica e al riparo da ogni ulteriore smentita dell'esperienza» (ivi 151); non si può nemmeno accettare una discussione in proposito perché tout court «non esiste più la questione trasformista» (ivi 152) e «gli scienziati sono tutti oggi d'accordo» (ivi 152 n.); tale dottrina «s'imponeirresistibilmente» (ivi 200); è «con­dizione generale per rendere pensabili e vere tutte le teorie... luce che illumina tutti i fatti» (ivi 242); è «certezza, che elimina ogni dubbio ragionevole» (L'App. de l'H., ed. 1956, p. 13); «certezza del radar» (ivi 340). 

Difetto di senso critico? Fanatismo pseudoscientifico? Moda di pensiero? 

Che dire poi, se si considerano le prove sperimentali, sia indirette che dirette, controquesto evoluzionismo? 

Le ricorderò subito. 
 
L'ESPERIENZA CONTRO L'EVOLUZIONISMO 

Spesso la preoccupazione critica di scienziati cattolici e di teologi si esaurisce nell'affermare che l'evoluzione delle specie viventi, anche se dovesse ritenersi probabile, non è ancora provata. Nel paragrafo precedente ho accennato appunto alla ben poca consistenza dei principali argomenti in favore. Ma se si potesse invece provare, anche sperimentalmente, la sua inammissibilità? 

Innanzi tutto bisogna tener presente che la vera concezione evoluzionista, seguita dalla scienza moderna (con la quale alcuni teologi si preoccupano di armonizzare), è caratterizzata in realtà dalla esclusione di estrinseci interventi (dopo l'impulso iniziale), anche per i gradini fondamentali: della comparsa della vita (vegetali) e poi del senso (animali) e poi dell'intelligenza (uomini). Ammesso infatti l'intervento divino in tali punti culminanti, perché dovrebbe essere escluso almeno negli altri più importanti passaggi da specie a specie superiore? Un primo scacco positivo all'evoluzionismo delle specie risulterà dunque dalla eventuale netta dimostrazione della necessità dell'intervento estrinseco in quei tre punti culminanti, a cominciare dallo sprigionarsi della vita. 

La dimostrazione di questa necessità, però, non può cercarsi, come molti pretenderebbero, nelle esperienze di laboratorio. Sarebbe questo un grande errore critico, rassomigliante a quello, per es., degli innumerevoli e secolari tentativi che furono fatti, a suo tempo, per ottenere il moto perpetuo (ossia una macchina capace di seguitare a muoversi sempre, senza bisogno di alcuna alimentazione energetica), tentativi che terminarono solo dopo la dimostrazione non sperimentale, ma teorica, della sua impossibilità, data dalla termodinamica nel s. XIX (impossibilità teorica che era stata però già intuita e solennemente proclamata dall'Accademia delle scienze di Parigi, nel 1775). 

Nel nostro caso l'impossibilità dello sprigionarsi spontaneo della vita (e poi, ancor più, del senso e della intelligenza) risulta dalla meditazione filosofica delle proprietà primarie della materia non vivente (cioè della materia considerata nella sua pura realtà fisico-chimica), confrontate con quelle della materia vivente. Basta rilevare anche solo l'eterogeneità essenziale che intercorre, rispettivamente, tra le attività fisico-chimiche, transitive, che modificano il soggetto e fanno scendere la materia verso stati più uniformi e stabili (secondo la crescita dell'entropia) e le attività vitali,immanenti, che conservano il soggetto e fanno per esso salire la materia verso stati più differenziati e instabili. 

Qualunque scoperta di laboratorio di composti e fattori fisico-chimici caratteristici della vita (per es. l'acido desossiribonucleico, DNA), riguarderà necessariamente gli elementi che accompagnano e condizionano, ma non costituiscono la vita. Quanto agli altri due gradini, vi sarà poi l'impossibilità della spontanea elevazione della materia al piano sensitivo e infine l'impossibilità, assolutamente radicale, dello spontaneo prodursi del pensiero, non potendo la materia produrre un'attività totalmente immateriale, quale è il pensiero (anche se bisognosa del concorsostrumentale della materia: il cervello per pensare). 

Comunque, dato anche e non concesso che in laboratorio sì potesse produrre un grumetto di materia vivente, resterebbe ancora essenzialmente invalicabile il gradino all'effettivo regno della vita, quale risulta concretamente nel cosmo. Questo rilievo, sul quale purtroppo si suole sorvolare, è insieme elementare e di suprema importanza. 

Non v'è infatti soltanto da considerare il passaggio dalla materia amorfa alla minimaorganizzazione della materia vivente, ma alla stupefacente organizzazione dei viventisuperiori. Non si tratta più solo della sproporzione tra attività fisico-chimica e attività vitale, immanente, ma tra caotico disordine e mirabile ordine di parti e organi funzionali; ed essendo questo ordine mirabilmente finalizzato, costituendo cioè un'opera mirabilmente intelligente, richiede un artefice mirabilmente intelligente, necessariamente estrinseco alla cieca materia. 

Non si tratta di maggiore o minore probabilità, ma d'impossibilità metafisica e quindi assoluta che un'opera intelligente nasca da una causa non intelligente, impossibilità che resta integralmente, qualsiasi ipotesi venga fatta circa la durata della evoluzione. Dalle cieche forze fisico-chimiche, per es., mai potrà sgorgare la meraviglia dell'occhio umano, e così via. L'appello al cieco caso potrebbe valere per una disordinata, sia pur complessa, combinazione, non per una ordinata combinazione. Facendo un mucchio disordinato di tutte le parole della Divina Commedia, non ripugna metafisicamenteche il cieco caso riproduca tale mucchio, ma ripugna che le riordini secondo l'intelligenza della Divina Commedia (8).

Siccome il fatto della superiore attività immanente e della mirabile organizzazionedella vita (come pure della trascendenza del senso e dell'intelligenza) risulta dall'analisi filosofica di osservazioni sperimentali, già quanto ho detto si può considerare, in un certo senso, una prova sperimentale, benché indiretta, contro l'evoluzionismo delle specie viventi. 

Ma v'è una prova direttamente sperimentale (anche se di tipo negativo), che nasce proprio dalla paleontologia. Se fosse vero infatti il trasformismo evolutivo delle specie (qualunque sia il modo di concepirlo e di spiegarlo, o si tratti di evoluzione continua o di improvvise mutazioni, e qualunque sia la distanza tra l'una e l'altra specie), tra l'una e l'altra specie perfetta si dovrebbero trovare delle forme intermedie, in fase di sviluppo e quindi rudimentali, rispetto a quelle perfette poi raggiunte. 

Il salto improvviso e totale di tutto il gradino tra una specie e l'altra non è ammesso infatti da nessun evoluzionista. Di solito si cercano, a conferma dell'evoluzione, i gradini intermedi di altre specie perfette; ma queste darebbero solo la prova dell'esistenza di un maggior numero di gradini, senza provar niente quanto allo spontaneo passaggio dall'uno all'altro. Probanti invece sarebbero le suddette specie intermedie rudimentali (gambe ancora non bene idonee a camminare, polmoni ancora incapaci di adeguata respirazione, ecc.). La loro esistenza pertanto, corrispondendo a una esigenza assolutamente generale dell'evoluzione, supposta vera, dovrebbe essere generalissima e non potrebbe non aver lasciato traccia nel grande museo della storia dei viventi, che sono gli strati geologici, studiati appunto, a tale scopo, dalla paleontologia; anzi dovrebbe presumibilmente trovarsene traccia anche tra le attuali specie viventi. 

Invece assolutamente niente: non si trova che una scala di diversi gradi di perfezione, ma tutte perfezioni (perfetto nel suo genere il mo­scerino, perfetta l'aquila, ecc.). 

Alcuni citano tra i rudimentali viventi l'ornitorinco. E, certo, se aspetti rudimentali si dovessero trovare, sarebbero proprio da attendersi in questo paradossale animale australiano che congiunge in sé le più disparate caratteristiche, a cominciare da quella di essere un mammifero che fa le uova e che allatta i piccoli senza mammelle. Ma invece si resta stupiti a considerare la sua perfetta adeguazione istintiva, anatomica e fisiologica all'ambiente. Basta, per es., pensare all'ermetica possibile chiusura delle sue narici, degli occhi e degli orecchi che gli permette di stare parecchi minuti sott'acqua a cercare sui fondali sabbiosi e melmosi vermi, molluschi, ecc. di cui si nutre, magnificamente aiutato per questa ricerca dal largo becco d'anatra che, contro le apparenze, ha un rivestimento non corneo ma di pelle morbidissima e sensibilissima che costituisce per la ricerca stessa un prezioso organo sensorio. Ma i particolari mirabili sono innumerevoli. 

Comunque il fenomeno non dovrebbe ridursi a casi isolati, ma dovrebbe essere generale. Il simbolo di un reale processo evolutivo sarebbe una fabbrica di automobili nei cui successivi padiglioni si vedessero, per es., prima i telai senza ruote, poi con le ruote senza pneumatici, poi con i pneumatici, ecc. Invece nei vari padiglioni della natura è come se si vedessero prima biciclette, poi motociclette, poi automobili, tutte macchine perfette: non fabbrica trasformatrice, ma sale di esposizione.

Teilhard ha cercato di evadere da questa radicale osservazione antievoluzionista, adducendo, come motivo per la sparizione di quegli stadi non perfetti ossia rudimentali, la loro debole consistenza, similmente a quella, per es., dei germi e degli embrioni degli individui maturi di oggi, e similmente a quella di tutte le civiltà iniziali, certamente esistite, ma delle quali non si conserva alcuna traccia (cfr. Le Phén. Hum.,129; L'App. de l'H., 192): 

«Che si tratti d'un individuo o di un gruppo, di una città o d'una civilizzazione, gli embrioni non si fossilizzano» (Le Groupe zoologique humain, 1949, 82). Ma, con il suo consueto sempli­cismo critico, nutrito di pure analogie, pare che non abbia riflettuto che nel caso dello sbocciare di nuovi individui si hanno entità molli, ovviamente distruttibili, mentre nel caso del transito verso specie superiori si hanno le robuste basi delle specie di partenza (quanto poi al paragone delle nuove civiltà è falso, perché molte tracce dei loro albori si sono ritrovate benissimo). 

Si riuniscano ora insieme i precedenti rilievi circa rinconsistenza dei principali argomenti evoluzionisti e questi rilievi antievoluzionisti, fondati sulla obiettiva esperienza e si rifletta se è il caso, per i pensatori cattolici, di prendere tanto sul serio questa così detta verità scientifica e di sacrificare per essa solide e classiche dottrine teologiche.

L'evoluzionismo, ovviamente, non può non costituire la strada obbligata per tutti coloro che partono dall'idea preconcetta del non intervento e della non esistenza di Dio. Chi crede in Dio e guarda spregiudicatamente all'esperienza, non ha invece nessuna necessità d'imboccarla. 

La verità non è democratica. Non dipende dalla maggioranza, non è creata dalla moda, neanche quando questa assume nome di scienza. 
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FILOSOFIA ED EVOLUZIONE 

La Humani Generis. - Dal 1950, quando uscì l'Enciclica Humani Generis di Pio XII, non vi sono stati apporti scientifici o filosofici capaci di spostare i termini e la soluzione del grande problema dell'evoluzionismo delle specie viventi. Ciò che è cambiato è lo stato d'animo, la psicologia, l'orientamento, la moda scientifica, che si sono andati sempre più generalizzando - anche in campo cattolico - in senso favorevole all'evoluzionismo biologico. 

Non è vero che la H. G. si mantenga simmetricamente neutra di fronte alle due opposte opinioni, cioè lasci completamente liberi. Essa soltanto «non proibisce che... sia oggetto di ricerche e di discussioni...  la dottrina dell'evoluzionismo... sull'origine del corpo umano», lamentandosi che «però alcuni oltrepassano questa libertà di discussione, agendo in modo come fosse dimostrata già, con totale certezza, la stessa ori­gine del corpo umano dalla materia organica preesistente» (37); l'Enciclica non eleva simmetricamente un lamento inverso; essa inoltre nega il diritto a tale «medesima libertà» (38) a riguardo «dell'altra ipotesi, cioè del poligenismo» (il quale però sgorga fatalmente dall'ipotesi evoluzionista). 

Esigenza imprescindibile dell'evoluzione. - Per il P. Filippo Selvaggi S. J., in un importante articolo della Civiltà Cattolica (20 genn. 1968), il problema, sul piano filosofico, pare invece risolto: «l'evoluzione, in tutta la sua estensione, dalla materia inanimata fino all'uomo [salvo, come dirà solo dopo, la necessaria infusione dell'anima]... prima che un dato o un'ipotesi scientifica, è una esigenza imprescindibilepresupposta dalla scienza in quanto tale e un principio filosofico richiesto dalla stessa ragione» (114). 

Dunque piena e solenne adesione all'evoluzionismo, «come se - lamentava la H. G. - nelle fonti della divina Rivelazione non vi fosse nulla che esiga in questa materia la più grande moderazione e cautela» (H. G. 37). P. S. inoltre, nonostante il dichiarato intento di restare soltanto sul piano filosofico, si appella esplicitamente anche alla scienza.

I dati di osservazione che giustificherebbero tale adesione sarebbero, secondo l'illustre articolista, l'ordinata «molteplicità gerarchica degli esseri materiali dagli elementi fino all'uomo», la «fondamentale unità - statica e dinamica - degli ultimicomponenti materiali» [si poteva anche parlare della ancor più significativa unitàstrutturale: basta pensare alla presenza universale, nel mondo vivente, della cellula e alla funzione universale del principale costituente del suo nucleo, il DNA] e la «successione progressiva di forme dei viventi nel tempo» svelata dalla paleontologia.

Ora è evidente - prosegue P. S. - che «ogni fenomeno naturale, universale e costante, deve avere anche una causa naturale, cioè un principio intrinseco nell'essere e nell'attività delle cose della natura» (113), in modo che tutto ordinatamente si svolga mediante il gioco delle cause seconde, senza l'intrusione dell'intervento immediato di Dio, salvo sapienti giustificazioni di tale immediato intervento divino, come «ad esempio, nella storia salvifica soprannaturale dell'umanità» (114). Ciò senza escludere, ovviamente, l'intervento diretto universale di Dio per la metafisica necessità della iniziale creazione, della continua conservazione dell'essere primo delle creature e dell'influsso della Causa prima e del motore primo in ogni attività delle cause seconde. 

La realtà dell'evoluzione sarebbe anche confermata dal fatto che essa è fuori discussione per la pura realtà materiale terrestre e astronomica. Ora sarebbe strano che in essa non rientrassero «proprio i viventi, che nel loro essere individuale sono soggetti ad una evoluzione continua e profonda di forme e di strutture dalla nascita alla morte, nella vita la cui essenza è il movimento e il cambiamento» (113).

P. S. passa poi a risolvere la grande obiezione filosofica contro l'evoluzionismo, che fa leva sull'inammissibile passaggio «dal meno ontologico al più ontologico» (115), che violerebbe il principio di causalità. La risoluzione consiste nell'inserire e livellare il passaggio da specie a specie più perfetta nel generale fenomeno del divenire di tutte le cose in movimento ed in trasformazione. Questo generale divenire implica sempre un passaggio dal meno al più ontologico e trova la sua ragione sufficiente nel trascendente influsso dell'Essere infinito, causa prima di ogni realtà e azione creata, cioè nell'influsso universale meta fisico della Causa prima, sopra accennato.

Vano sarebbe invece - precisa P. S. - l'appello che «spesso si fa» dagli evoluzionisti alla «virtuale» presenza nell'essere inferiore dello essere superiore, «come il seme contiene virtualmente la pianta» (115). P. S. non si ferma qui a distinguere l'ontogenesi (sviluppo dell'individuo dal germe) dalla filogenesi (produzione di specie superiore dalla inferiore), bensì, alla luce del livellamento suddetto, osserva genericamente che «questa virtualità intrinseca dell'essere inferiore non solo si ridurrebbe ad una qualità occulta, che offre solo una soluzione verbale, ma non risolverebbe affatto la difficoltà, giacché la semplice virtualità intrinseca dell'inferiore rimane sempre ontologicamente inferiore rispetto alla perfezione formale e al suo attuale possesso» (11. 5). 

Esposto così il fondamentale pensiero dell'illustre scrittore, passo a qualche modesta riflessione in merito, riprendendo uno ad uno i capoversi suddetti, in successivi corrispondenti punti. Come P. S. così anch'io prescinderò dal problema teologico. 

I dati di osservazione. - Cominciamo dai dati assunti quali punto di partenza. Essi in realtà non fanno che esprimere il sapiente ordine che vige nel creato - nello spazio e nel tempo - ordine rivelatore della sapienza del Creatore. Pertanto, astrazione fatta da altre considerazioni, tale dato di osservazione non depone a favore dell'ipotesi evoluzionista più che non deponga a favore di quella creazionista. 

Anzi il pieno ordine che si riscontra, nello spazio e nel tempo, rende meno presumibile una evoluzione spontanea della cieca materia e più attendibile un opportuno intervento diretto del sapientissimo Creatore. Il costruttore di un edificio prepara il materiale, adattandolo volta a volta alle successive esigenze, comincia dal lavoro grossolano delle fondamenta e ordinatamente su su si eleva e progredisce verso la finale perfezione. 

A rigore, nel caso del mondo vivente, l'intervento fondamentale, immediato ed estrinseco del Creatore potrebbe anche concepirsi limitato soltanto ai tre gradini principali, della vita, della sensazione e della intelligenza. Potrebbe poi anche ammettersi che il Creatore della prima cellula vivente abbia creato delle strutture così mirabili di cromosomi del nucleo, cioè delle catene di geni costituenti i cromosomi (e quindi delle strutture del DNA costitutivo dei geni), tali che tempestive modificazioni dei geni stessi (o per nuovi diretti interventi estrinseci o per speciali e penetranti fenomeni ambientali) implicassero il successivo prodursi delle specie. 

Queste, in tale ipotesi, sarebbero state già virtualmente precontenute in quei costituenti iniziali, come virtualmente sono precontenute nei corpuscoli della nostra cellula germinale le singole parti meravigliosamente organizzate del nostro corpo. Tra poco spiegherò ulteriormente il vero significato di virtualità. Comunque non si tratterebbe più di evoluzione spontanea della materia, ma la comparsa successiva delle specie, via via più perfette, potrebbe paragonarsi alla successiva accensione degli stadi d'un unico razzo fabbricato e lanciato fin dall'inizio dal Creatore. 

L'esperienza contro l'evoluzione. - V'è, d'altra parte - a prescindere da altre considerazioni - un dato d'osservazione che costituisce la nota prova sperimentale del succedersi di perfezioni direttamente create (o virtualmente, all'inizio, o nel corso dei tempi). Non basta infatti rilevare genericamente il comparire nel tempo delle specie sempre più perfette. Bisogna anche notare l'assenza completa, negli strati paleontologici, di stadi di transizione tra una specie perfetta e l'altra, che inevitabilmente dovrebbero esservi nella ipotesi della spontanea evoluzione.

Tali stadi, rispetto all'equilibrio biologico ed ecologico (d'ambiente) dovrebbero comparire come non ancora adatti, ossia rudimentali. Non si tratterebbe di anelli intermedi, costituenti vere specie perfette (come sarebbero, per fare un paragone meccanico, la motocicletta, tra la bicicletta e l'automobile), ma di specie avviate a quella superiore senza averne ancora acquistato la piena idoneità (come, nel passaggio da un carro a una automobile, l'aggiunta dei pneumatici e poi del motore, ecc.). 

Un grande equivoco è racchiuso poi nella affermazione, in sé giustissima, che «ogni fenomeno naturale, universale e costante» deve avere la sua intrinseca spiegazione. Ciò equivale a dire che le creature hanno (subordinatamente alla causa prima) una loro propria attività di cause seconde, il che è come affermare la verità delle cose (per il cui dinamismo quindi giustamente Laplace cercava, la spiegazione immediata in esse e non in Dio).

Ma ciò riguarda le operazioni delle cose, non la loro storica comparsa, per la quale vale sempre l'alternativa o della derivazione da altre cose o della creazione diretta da Dio. Ora, per gli individui, la cui nascita è sperimentabile, risulta provata la derivazione; per le specie invece, la cui apparizione non è sperimentabile, non si può postulare senz'altro la derivazione se non si vuol cadere nella petizione di principio di dare per provato ciò che devesi dimostrare. Vi è anzi il dato di osservazione suddetto che suggerisce il contrario. 

Il fatto che l'ipotetico intervento di Dio per la produzione delle nuove specie (intervento direttamente svolto nel tempo, o attuato inizialmente nella creazione di tutte le virtualità) sfugga a qualsiasi diretta esperienza - il che costituisce per gli evoluzionisti un motivo per negarlo - non costituisce alcuna difficoltà contro tale ipotesi stessa per tre fondamentali motivi: il primo perché tale produzione riguarda tempi non direttamente sperimentabili; il secondo perché anche il radicale interventoestrinseco di Dio che sta continuamente avvenendo per la conservazione dell'essere primo di tutto l'universo creato si compie senza alcun rilievo sperimentale; il terzo perché pure senza alcun rilievo sperimentale deve necessariamente ammettersi l'intervento estrinseco creativo di Dio per la produzione dell'anima spirituale umana, nel «fenomeno naturale universale e costante» della nascita di ogni uomo. 

Sicuri interventi di Dio. - Quest'ultimo punto è particolarmente istruttivo. P. S., che prima aveva solo esemplificato un possibile intervento creativo di Dio «nella storia salvifica soprannaturale dell'umanità» (114), facendo quasi pensare che non fosse da parlarne nel piano naturale che è invece quello in questione, poi ammette la creazione e infusione della «anima di ogni uomo che viene al mondo», come «dottrina oggi comunemente ammessa dai filosofi e teologi cattolici» (poteva anche dirla, con la H. G., 37, di «fede cattolica»; cfr. D-S 685, 902, 1440). 

Anche l'illustre evoluzionista P. Vittorio Marcozzi S. J. decisamente lo afferma (cfr.L'evoluzione oggi, 1966, p. 256). Ora, tale fatto innegabile è in evidente contrasto con la vera e piena concezione evoluzionista che ne risulta profondamente infirmata. Più coerentemente infatti - anche se, come al solito, confusamente - esso è negato da Teilhard de Chardin (cfr. Le Phén Hum. 78, 149, 188, 210; L'Appar. de l'H. 192; cfr. B. de Solages, Teilhard de Ch., 270); e si sa quanto sia reticente in proposito il dolorosamente celebre Catechismo olandese (cfr. 449 s., 554 s., 562). 

E quale è la ragione per ammettere, in questo fenomeno della generazione umana, che avviene continuamente sotto i nostri occhi, l'intervento estrinseco di Dio? E' la considerazione filosofica della immaterialità intrinseca e assoluta del pensiero. Questo non può quindi derivare dalla materia. Analogamente, se si considera soprattutto latrascendenza dei fondamentali gradini della vita e della sensazione rispetto, specificamente, alle pure forze fisico-chimiche della materia (non dico, genericamente, alla materia), debbo escludere il loro spontaneo sorgere evolutivo, in conseguenza del puro gioco di tali forze. Debbo quindi postulare un intervento estrinseco che sollevi la materia al di sopra del suo puro dinamismo fisico chimico

Per la vita, ad es., la trascendenza rispetto al puro dinamismo fisico-chimico risulta e dalla mirabile organizzazione del vivente (quale tanto più risalta nei viventi superiori che l'ipotesi evoluzionista deve ugualmente ritenere frutto spontaneo della evoluzione) e dal dinamismo vitale che sospinge la materia verso stati più complessi emeno probabili (contro la tendenza fisico-chimica verso stati più probabili, corrispondenti alla degradazione energetica) e dall'equilibrio attivo immanente

Per la sensazione la trascendenza è ovviamente maggiore, per il pensiero è assoluta. 

Ammessi questi interventi per questi fondamentali gradini non apparisce più alcuna difficoltà ad ammetterli anche nei passaggi, almeno i più importanti, da una specie all'altra. 

L'appello di P. S. al bellissimo testo di S. Tommaso (C. G. III, c. 22) circa la «potenzialità della materia» all'«anima vegetativa», ecc., per cui «l'uomo è il fine di tutta la generazione naturale» (112), non reca alcun contributo all'ipotesi evoluzionista, perché l'Angelico, con perfetta logica (benché con la ingenuità scientifica consona al tempo) postula per il passaggio dalla materia inanimata alla vita l'influsso dei corpi celesti (concepiti come incorruttibili, ossia bensì ancora materiali, ma in un piano superiore a quello fisico chimico terreno) in quanto strumenti degli spiriti angelici che li muovono (cfr. Summa Th. 1, 70, 3 c. ad 2, ad 3). 

Evoluzione cosmica e biologica. - La conferma dell'evoluzionismo biologico che P. S. poi trae dal parallelo che vi sarebbe tra la innegabile evoluzione della materia cosmica inanimata e la profonda evoluzione continuamente sperimentata negli «individui» viventi, che continuamente nascono, vivono e muoiono, lascia davvero perplessi. Il confronto infatti sottolinea piuttosto l'opposto. 

Il problema dell'evoluzionismo non è un problema puramente di trasformazione, più o meno profonda, delle cose. Nessuno sogna che tutte le cose materiali non siano in continua trasformazione. Chi nega l'evoluzionismo nega soltanto che tale trasformazione assuma spontaneamente, per il puro, cieco gioco del dinamismo fisico-chimico, la via del dinamismo mirabilmente organizzato sempre più perfetto e immanente (con le tre caratteristiche cioè, opposte a quelle del piano puramente fisico-chimico: della organizzazione, del meno probabile e dell'immanenza ). 

Le trasformazioni del materiale geocosmico pertanto le vediamo (anche solo considerandole nell'ordine macroscopico, che è sufficiente a caratterizzarle) costantemente orientate verso la degradazione energetica e la maggiore stabilità, con la modificazione continua dei soggetti (azioni non immanenti). Quando esplode la bomba atomica avviene lo stesso. Quando invece in seno alla materia si pone la realtà individua di un seme vivente, l'orientamento del dinamismo materiale viene come capovolto, pur restando, in tutti gli scambi, sul piano fisico-chimico i consueti bilanci energetici. 

La materia viene cioè condotta da quel principio vivente al servizio del seme in sviluppo, sollevandosi con un continuo flusso metabolico, contro il suo spontaneo orientamento, alle forme meno probabili e meno stabili della mirabile organizzazione del vivente maturo. Proprio quel sempre rinnovato ciclo in ogni individuo - nascita, vita e morte ­confrontato con la linea stabile delle trasformazioni geofisiche, mette in risalto tale elevazione della materia allo stato meno probabile e meno stabile della organizzazione vivente. Risalta quindi la differenza essenziale e la inconciliabilità delle due evoluzioni. 
 
Potenzialità e virtualità. - Risulta sottolineata anche la essenziale differenza tra lapotenzialità alla trasformazione della materia inanimata e la virtualità alla trasformazione del seme vivente. Mentre la prima corrisponde ad una disponibilità a qualunque deterministico influsso, accozzamento e combinazione casuale (sempre nella linea della degradazione energetica e del più probabile), la seconda implica un determinato preciso programma secondo la specie, che nel previsto intervallo di tempo dovrà identicamente realizzarsi nella produzione e nella temporanea conservazione dell'individuo maturo. Nella cellula germinale cioè è come concentrata la memoria di tutto il deterministico sviluppo futuro. In essa era predeterminata la meraviglia del mio occhio e lo stupefacente intreccio dei miliardi di cellule del mio cervello, il colore dei capelli, tutto. 

Ma, come dicevo, tutti i bilanci delle reazioni fisico-chimiche che porteranno un corpuscolo di materia esterna a diventare una molecola del cristallino del mio occhio si compiranno secondo le ordinarie leggi fisico­chimiche. Se il principio vitale (al primo gradino, anima vegetativa) le modificasse, si porrebbe sul loro stesso piano, e la vita si appiattirebbe al livello della pura realtà fisico-chimica, dal cui cieco determinismo mai potrebbe sgorgare la mirabile organizzazione del vivente, con tutte le sue originali proprietà. Invece non le modifica e non vi si aggiunge perché le trascende, sapendole però utilizzare per la costruzione vitale.

Non è concepibile quindi che la vita derivi da una autonoma evoluzione delle forze fisico-chimiche stesse. L'autore del creato o ve l'ha nascosta fin dall'inizio (cosa però difficilmente ammissibile dato lo stato disgregato della primitiva materia, antecedente ad ogni evoluzione complessificatrice) o l'ha prodotta al momento opportuno.

Considerazioni proporzionatamente analoghe possono valere per gli altri gradini e perfezionamenti. 
 
Influsso universale e specifico della Causa prima. - Quanto alla necessità dell'influsso della Causa prima per giustificare metafisicamente ogni acquisizione ontologica e ogni movimento - come pure afferma P. S. - non v'è alcun dubbio.

Tale considerazione generica però viene a nascondere il vero problema dell'evoluzione. L'affermazione della metafisica necessità dell'influsso della causa prima per ogni divenire è cioè insignificante quanto al nostro problema, appunto perché riguarda qualsiasi trasformazione, in qualunque modo si concepisca, secondo l'ipotesi evoluzionista o no. Tale influsso superiore infatti è necessario per qualsiasi divenire, ossia per qualsiasi movimento e qualsiasi azione creata: è tanto richiesto cioè, per es., per la spontanea formazione delle stalattiti, come per l'opera dello scultore che trae la statua dal marmo, o come per il processo evolutivo ontogenetico, dall'embrione all'adulto.
 
Il problema dell'evoluzione pertanto non può essere posto in tali termini trascendenti. Esso riguarda le azioni delle cause seconde e si concretizza nella domanda se la materia con le pure sue forze fisico-chimiche (certo, ricevute e conservate, insieme al suo essere, dal Creatore, rese capaci di esercizio e quindi di accrescimento ontologico per la mozione del Motore primo, e accompagnate nell'azione dal concorso della Causa prima) può elevarsi da sé al superiore piano della vita, ecc. Si tratta cioè di sapere se la materia, come da sé (con il suddetto ausilio generale e immancabile della Causa prima) può cambiare di stato fisico e combinarsi chimicamente in tanti modi, così possa diventare vivente ed ascendere poi fino alle forme superiori di vita, fino all'uomo pensante.

Si ricordi pertanto, al riguardo, quanto abbiamo già visto. Come non dall'esperienzadiretta, ma dalla considerazione della totale superiorità del pensiero si esclude la possibilità che esso possa sgorgare dalla materia dovendosi quindi postulare la diretta creazione dell'anima spirituale, così, proporzionatamente, considerando la superiorità dei dinamismi vitale e sensorio (e degli altri essenziali superamenti specifici) rispetto al puro dinamismo fisico-chimico, si deve escludere la possibilità che essi possano sgorgare da questo e si deve postulare qualche idoneo, diretto ed estrinseco intervento elevatore di Dio (o svoltosi nel tempo o virtualizzato fin dall'inizio). 
 
Virtualità filogenetica e ontogenetica. - Da questa mancata impostazione del problema dell'evoluzione sul piano attivo delle cause seconde sembra che derivi anche la svalutazione che P. S. fa della soluzione che alcuni evoluzionisti danno del problema ontologico corrispondente, ipotizzando una iniziale presenza virtuale degli esseri superiori negli inferiori di partenza, come la pianta è virtualmente precontenuta nel seme: «giacché - osserva P. S. - la semplice virtualità intrinseca dell'inferiore rimane sempre antologicamente inferiore rispetto alla perfezione formale e al suo attuale possesso» (115).
 
Questo è vero; ma la proporzionata causa, metafisicamente necessaria, del passaggio dalla virtualità alla attualità è data precisamente dall'influsso trascendente generale della Causa prima. Quanto invece al piano fisico delle cause seconde, tale passaggio avverrà mediante l'esercizio delle attività virtualmente contenute nell'inferiore, al semplice contatto e influsso dell'idoneo ambiente fisico chimico. Così, per il caso dello individuo, cioè dell'ontogenesi, il chicco di grano che precontiene virtualmente (non solo potenzialmente) la spiga, attende solo, per sbocciare, i succhi del terreno e il calore.
 
Quella soluzione dunque per la filogenesi, supposta (prescindendo dal modo) una veravirtualità di preesistenza (e non solo potenzialità), filosoficamente sarebbe valida. Ma essa equivarrebbe a un vero e proprio creazionismo iniziale, distruggendo il vero concetto di evoluzione. La soluzione cioè sarebbe filosoficamente valida, per lafilogenesi come per la ontogenesi, essendo tolta in entrambe la vera evoluzione.
 
Per il seme, ciò che non può attribuirsi al puro effetto delle forze fisico chimiche (per la contrapposizione suddetta delle caratteristiche) e che deve quindi essere virtualmente precontenuto non è il passaggio alla attività germinale, ma il complessodi quelle caratteristiche vitali (che i vitalisti attribuiscono all'anima vegetativa). E' questo complesso che, al contatto fisico chimico ambientale saprà guidare il metabolismo della materia fino alla produzione della spiga matura. Così sarebbe per la specie. 

Né si può parlare, riguardo all'anima vegetativa, di «qualità occulta, che offre solo una soluzione verbale», come non lo si può dire dell'anima sensitiva e infine dell'anima intellettiva: con la differenza che le prime due si distanziano successivamente solo dalle proprietà fisico­chimiche della materia, mentre la terza si distanzia semplicemente e totalmente dalla materia stessa, essendo quindi sussistente e spirituale. Né posso qui fermarmi ulteriormente sulla questione. 
 
Concretamente tale virtualità, per tutte le specie future, dopo la primordiale creazione della vita, potrebbe concepirsi, come ho già accennato sopra, come racchiusa nella struttura dei geni dei cromosomi, già preparata a subire, nel corso dei tempi geologici, in condizioni particolari, le attualizzazioni corrispondenti alle successive specie. Sarebbe come un razzo a stadi successivi, tutto creato inizialmente dal Creatore cosmico.
 
Chi volesse escludere, d'altra parte, la possibilità naturale della intrinseca e trasmissibile modificazione della struttura cromosomica capace di determinare l'ordinato succedersi delle specie viventi, potrebbe postulare tempestivi interventi estrinseci del Creatore. Saremmo comunque sempre nel vero creazionismo. 
 
Dove invece il concetto astratto di virtualità sembra perdere la sua concretezza e possibilità è per l'inizio della vita, ossia per il mirabile formarsi della prima struttura cellulare. 

Essa richiede necessariamente il colpo di pollice del Creatore. 
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01/05/2013 18:11
 
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GENERAZIONE CHIMICA DELLA VITA? 
 
Ecco come Epoca della fine di dicembre 67 ha presentato - nella solenne rubrica «Italia domanda» - quello che qualcuno ha definito l'avvenimento più importante del 1967, ossia la riproduzione chimica dell'acido desossiribonttcleico (DNA) compiuta dai dottori Meahran Goulian della università di Chicago, Robert Giusheimer e Arthur Kornberg (premio Nobel per la medicina nel 1959) direttore dell'Istituto di biochimica della Università di Stanford: «Si negava sperimentalmente che la vita potesse avere una creazione spontanea dovuta a semplici fenomeni chimici. Invece l'altro giorno quella creazione è avvenuta nelle provette di quel laboratorio americano. E' come se si fosse andati dal farmacista, si fossero comprati i soliti intrugli... si fossero messi in un bicchiere e mescolati, agitati, riscaldati, raffreddati, pasticciati in vari modi; poi in fondo al bicchiere fosse apparso qualche cosa che si muoveva, poi si metteva a fare figli, ed era la vita».
 
La produzione sintetica del DNA è senza dubbio una grandissima conquista della scienza. Ma la interpretazione datane da molti è un grossolano equivoco, come tra poco mostrerò.
 
Giustamente il predetto articolista, partendo dalla sua errata comprensione del fatto, parla di creazione spontanea. Sarebbe in realtà - con tale interpretazione - provata sperimentalmente la famosa generazione spontanea della vita, secondo cui la natura avrebbe da sé, nel corso della sua evoluzione, sprigionato la vita. Infatti, come per pura azione chimica si sarebbe prodotta in laboratorio la vita, così particolari condizioni ambientali naturali avrebbero potuto produrre le stesse interazioni chimiche, ottenendo gli stessi effetti. 
 
Il miraggio della generazione spontanea. - Prima di entrare in merito a questo risultato di laboratorio, conviene ripensare un momento, in generale, secondo il profilo storico, al grande problema dell'origine della vita. 

Si sarebbe dunque tornati, secondo questi commentatori, alla vecchia teoria, già rigettata dalla scienza, dello spontaneo sgorgare della vita dalla materia, come agli antichi sembrava suggerito dalla immediata osservazione. Al tempo di Aristotele (IV s. a. C.), quando la meditazione filosofica era profonda, ma la scienza sperimentale della natura era semplicetta, si riteneva che i vermi sgorgassero dalle sostanze inorganiche, le anguille dal fango, ecc. perché si vedevano infatti venir fuori da lì. S. Tommaso e tutto il Medio Evo seguitarono a credere che gli animali inferiori nascessero dalle sostanze putrefatte (salvando tuttavia la coerenza filosofica, ossia la proporzione tra causa ed effetto, supponendo che tali generazioni avvenissero in grazia di misteriosi influssi di entità superiori, motrici dei corpi celesti). Shakespeare, nell'Enrico IV, fa trovare a un suo personaggio l'origine di certi insetti nella segatura.
 
Ma finalmente Francesco Redi (1668) fece crollare quella supposta generazione spontanea per gli insetti, osservando che le mosche non nascono dalla carne putrefatta, ma dalle loro uova ivi deposte; Lazzaro Spallanzani (1748) provò la non generazione spontanea per gli infusori; Luigi Pasteur (1861) l'escluse anche per i batteri. Le sostanze organiche sterilizzate che servirono al Pasteur per provare la non spontanea generazione dei batteri, credo che siano conservate, opportunamente isolate, ancora incorrotte al Museo di Parigi. 
 
Naturalmente per gli evoluzionisti materialisti lo spontaneo superamento da parte della materia del gradino della vita viene ad essere, invece, un postulato assoluto, una tesi necessaria, antecedentemente a qualsiasi prova. Pensarono che la generazione spontanea sarà potuta avvenire in speciali e non più ripetute condizioni ambientali naturali e supposero che tali condizioni poterono forse trovarsi in fondo ai mari. Nel 1868 si ebbe un colpo di scena nella scoperta fatta da Tommaso Huxley scandagliando alle profondità dai 4 agli 8.000 metri di una sostanza colloidale, gelatinosa, trasparente, con lenti movimenti. 

Il grande zoologo la interpretò come il primo formarsi della materia vivente. Egli la chiamò, in onore del famoso suo collega tedesco, grande - e addirittura fanatico - apostolo del darwinismo, E. H. Haeckel, Bathybius (dal gr. «bathys - bios, profondo - vita»,: «vivente delle profondità») Haeckelii (di Haeckel). Ma la celebre spedizione oceanografica promossa dalla Royal Society (1872-1876), sul Challenger, comandata da W. Thomson, provò che si trattava di un semplice precipitato colloidale di solfato di calcio, prodottosi per l'aggiunta di alcole all'acqua marina per la conservazione del materiale raccolto. Huxley ne prese atto, ma non così il fervido Haeckel (il cui ardore evoluzionista ebbe un famoso e penoso sigillo di slealtà scientifica, quando egli ritoccò artificiosamente certi schemi e fotografie embriologiche sperimentali), che seguitò a insistervi e a costruirvi sopra un vero romanzo scientifico. 

Inutile infine fermarsi sui giocherelli di artificiale vitalità (1910-1912) di S. Leduc, i cui apparenti semi di gelatina, solfato di rame e zucchero, gettati in soluzione di gelatina e ferrocianuro di potassio, emisero delle specie di radici foglie e fronde come una vera piantina. Non si trattava che di un semplicissimo effetto fisico di osmosi progressiva e di pura incorporazione della soluzione, senza alcuna trasformazione e assimilazione di sostanza. 
 
Il segreto del DNA naturale. - Avviciniamoci ora al famoso DNA e ai moderni esperimenti. 

Non sarebbe credibile, se non fosse vera, la confusione delle valutazioni. Le suddette affermazioni di Epoca ne sono un bel saggio.
 
Do prima qualche spiegazione per i meno informati. La sigla DNA con cui si indica l'acido desossiribo-nucleico è formata dalle iniziali di queste tre parole (lette, a modo inglese, conacido al terzo posto). Tale acido è detto nucleico perché si trova prevalentemente neicromosomi e geni dei nuclei delle cellule (da dove fu isolato per la prima volta dal fisiologo J. F. Miescher nel 1868), ma si trova anche fuori del nucleo, nel citoplasma cellulare, nelle cellule batteriche senza nucleo differenziato e nei virus. 

E' detto desossiribo-nucleico dal nome del desossimonosaccaride desossiribosio (cioè:desossi [genato] ribosio) che ne è un costituente fisso e specifico ed è così chiamato perché ottenuto per desossi [dazione] cioè eliminazione di un atomo di ossigeno dal monosaccaride ribosio (il quale è C5-H10-O5). Ma la composizione e strutturazione di questo acido DNA, come risulta dalle brillanti ricerche di J.D. Watson e F. C. Crick (1953) e dalle fotografie del microscopio elettronico, è alquanto complessa. 

Una molecola di DNA è polimera, cioè formata da una ripetizione a catena, strutturata ad elica, di una unità fondamentale costituita da tre elementi: due fissi, il suddettodesossiribosio e un fosfato, e uno variabile, che è sempre una delle quattro basi azotateAdenina, Guanina, Citosina, Timina. L'intera molecola può essere costituita da una lunghissima sequenza di circa 100.000 di queste unità. Il diametro di questa lunga elica è di circa due millesimi di micron (ossia di millesimi di millimetro). Si tratterebbe anzi di una lunga elica doppia, ossia di due specie di costole ad elica che si avvolgono l'una entro il passo dell'altra (come i due fili attorcigliati degli antichi conduttori elettrici). 

Ogni elica è costituita dalla successione del desossiribosio e del fosfato. Le basi azotateinvece si ritiene che siano disposte, due a due, trasversalmente (ossia perpendicolarmente all'asse della doppia elica); ed essendo quelle di ogni coppia legate chimicamente tra di loro e inoltre legate l'una al desossiribosio di una elica e l'altra al desossiribosio dell'altra elica, esse vengono a legare mutuamente le due eliche stesse. La diversa sequenza e struttura di tali coppie di basi azotate crea le innumerevoli diversificazioni del DNA determinanti i diversi caratteri ereditari dei diversi organismi viventi, dai più semplici virus all'uomo e le diversificazioni anatomico-fisiologiche delle singole parti dell'individuo (eufemisticamente si parla di informazione genetica scritta nel DNA). 
 
Questa attribuzione - secondo la concezione oggi prevalente - alla macromolecola del DNA della fondamentale determinazione delle varie strutture e funzioni di tutti gli organismi viventi animali e vegetali costituisce già, secondo alcuni, una ragione per cui il DNA può essere considerato il segreto della vita e la sua produzione in laboratorio la produzione della vita. Un'altra ragione è il suo automoltiplicarsi, che vedremo dopo. 

Ma in realtà già da molti anni i citologi avevano scoperto nei geni dei cromosomi dei nucleicellulari gli elementi determinanti delle strutture viventi capaci di fissarne le caratteristiche specifiche e, nell'individuo, le differenziazioni organiche. 

La scoperta del DNA pertanto non costituisce, a tale riguardo, una essenziale novità.
 
La novità sta ora solo nel fatto di avere scoperto che cromosomi e geni sono essenzialmente fatti di DNA; e siccome si sapeva che variazioni cromosomiche determinano variazioni genetiche, queste debbono dunque corrispondere a variazioni del DNA. 

E' chiaro, d'altra parte, che qualsiasi analisi chimico microscopica, presente o futura, potrà condurre a scoprire strutturazioni sempre Diù intime fisico chimiche della materia vivente, ma non la vita in quanto tale. Si scopriranno cioè sempre meglio i fenomeni fisico chimicicondizionatori e accompagnatori della vita, non - se la vita è veramente su un piano superiore al piano fisico chimico - il mistero intrinseco della vita. 

In un certo senso la vita apparirà anzi più misteriosa e sorprendente. Quando, per es., si è scoperto che dalla posizione di quei determinati atomi della molecola di DNA dipende l'ingranamento di tutta quella serie intermedia di attività fisico-chimico-biologiche, che determineranno tutte le innumerevoli e svariatissime strutture e funzioni organiche delle diversissime specie, resta integro e tanto più sorprendente il mistero del perché e del modo di tale influsso: ed è in questo che consiste precisamente il segreto della vita. Analogamente, nessuno direbbe che avendo scoperto il pulsante che mette in moto una macchina, è spiegata la macchina. 
 
V'è poi l'altra ragione che - secondo alcuni - sembra far risolvere nel DNA la vita: il fatto del suo auto-riprodursi; giacché la riproduzione per generazione è una caratteristica della vita. 

Questo fenomeno è stato scoperto e accuratamente studiato nel batteriofago (dal gr. «baktérion, bastoncino, bacillo - phagos, phagein, mangiare» perché mangia ossia distrugge i bacilli: così chiamato da F. D'Herelle, nel 1917). Esso è un virus parassita del bacillo della dissenteria, capace appunto di moltiplicarsi entro di esso, determinandone la distruzione (come altri batteriofagi sono similmente attivi, distruggendo altri batteri). Il microscopio elettronico ha dimostrato chiaramente che tale virus è corpuscolare ed ha la forma, che è stata fotografata, di una testa o capsulina prismatica con una coda lunga un poco più della capsula (lunghezza complessiva, circa due decimi di micron; lunghezza del bacillo della dissenteria circa un micron). Ebbene, si è ora trovato che il contenuto della capsulina è costituito appunto dal DNA, mentre la membrana è costituita da altri composti proteici. 

Si è potuto seguire il batteriofago in tutte le sue fasi di attività. Esso si attacca con la coda tubulare al batterio e vi scarica dentro il suo contenuto, ossia il suo DNA, restandone fuori solo le spoglie ormai svotale e inerti. Esso è con ciò distrutto comeindividuo batteriofago, non essendo più reperibile né fuori, né dentro il batterio. Il DNA penetrato però modifica profondamente l'attività biologico-chimico-energetica della cellula batterica, facendone cessare la normale crescita e moltiplicazione, mentre opportunienzimi (sostanze chimiche attivizzatrici) vengono sintetizzati dalla cellula stessa per sintetizzare a loro volta, a spese del citoplasma della cellula, sia altro DNA, sul preciso stampo di quello introdotto dal batteriofago, sia altro materiale proteico idoneo a formare la membrana delle capsule e delle code dei nuovi batteriofagi. 

Finalmente nell'interno del batterio si formano le nuove capsule riempite del nuovo DNA, così da comparire (dopo circa 20 minuti) dentro il batterio tanti altri batteriofagi: A questo punto il batterio si squarcia, distruggendosi, ed escono fuori quei nuovi batteriofagi, pronti ad attaccare altri batteri di quella stessa specie. 
 
Questa scoperta suscitò già a suo tempo molto scalpore, come se in laboratorio si fosse assistito allo sprigionarsi spontaneo della vita, rappre­sentata da quei moltiplicati batteriofagi. Ma, in realtà, prima di tutto, è dubbio che i virus siano veramente dei viventi, perché oltre mancare di organizzazione non hanno nemmeno la elementare forma di riproduzione (per accrescimento e scissione) dei batteri: i nuovi individui infatti si formano quando l'individuo invasore è ormai distrutto. Mancano anche della elementare respirazione che hanno i batteri. Uno speciale gioco di pure tensioni fisiche (come nei composti organici in stato cosiddetto di cristallo liquido) e di attività chimiche potrebbe quindi spiegare la moltiplicazione della struttura del DNA nella cellula invasa e di quei nuovi prismetti per involucro. 

Ma supponendo pure che i batteriofagi siano dei viventi elementari, non vi sarebbe stata né alcuna filiazione, essendosi prodotti i nuovi individui dopo la distruzione del padre, né alcuna generazione spontanea dalla materia inerte perché essi non sono che il frutto della vitalità della cellula, giacché solo nel suo interno (come è di tutti i virus) essi si moltiplicano. 
 
Ma ecco che alcuni tendono ad attribuire la vita al puro DNA contenuto nel batteriofago, proprio per il fatto che esso si è identicamente moltiplicato, per riempire poi le teste di quei nuovi batteriofagi; e si è moltiplicato - secondo l'ipotesi di Watson e Crick (1953), brillantemente confermata dalle esperienze di M. Meselson e F. Stahl (1958), proprio perdivisione progressiva lungo l'asse della doppia elica della molecola del DNA, in modo che le due molecole figlie posseggono ciascuna una delle due eliche, mentre l'altra viene formata mediante la sintesi di altro materiale proteico. 

Ma questa sintesi del nuovo DNA naturale, non è che giustapposizione di altro materiale preso dal citoplasma della cellula batterica e fissaggio chimico allo stampo dell'elica preesistente, il tutto sotto l'azione chimica energetica e catalizzatrice degli enzimi cellulari (A. Kornberg). Le nuove sintesi chimiche e il vitale dosaggio di questi enzimi sono puro frutto della vitalità della cellula

La produzione di altro materiale con la corrispondente saldatura chimica secondo lo stampo del precedente DNA mantiene il consueto carattere estrinseco delle attività fisico chimiche, senza l'immanenza della riproduzione vitale, in cui l'individuo maturo dona qualcosa restando se stesso o anche (nel caso infimo della riproduzione per divisione, come nei batteri) quando l'individuo maturo compie il proprio sdoppiamento determinando da se stesso altri due individui completi. 

Qui il processo di replicazione del DNA ricorda solo la replicazione dei cristalli, con l'aggiunta della reazione chimica. 
 
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01/05/2013 18:13
 
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Il DNA artificiale. - Vediamo ora la portata degli ultimi esperimenti del 1967 di Arthur Kornberg e dei suoi collaboratori, frutto di 11 anni di ricerche. 

Già nel 1965 Sol Spiegelman aveva prodotto in laboratorio una catena attiva di acido nucleico, non però di DNA che è il vero portatore dei caratteri ereditari, ma di RNA che ha un'altra funzione subordinata (ed è caratterizzato, invece che dal Desossiribosio dalRibosio: da ciò l'iniziale R, invece di D). Il Kornberg a sua volta, insieme a Severo Ocha, nel 1959, era già riuscito a produrre una catena artificiale di DNA (ottenendo il premio Nobel); ma questo non risultò attivo, ossia non si moltiplicò, come quello del virus, entro le cellule. 

Ora invece, scelto appositamente un virus estremamente elementare, costituito da puro DNA, senza involucro, con molecole formate da spirale semplice (non doppia, come di consueto) chiusa ad anello, esso è stato isolato. A tale DNA sono stati poi aggiunti, in provetta, tutti gli opportuni ingredienti di enzimi cellulari che, per la moltiplicazione nahlrale, gli avrebbe fornito il corrispondente batterio vivente in cui il virus fosse penetrato. Questi scienziati sono riusciti in tal modo a riprodurre, prima parzialmente e poi completamente, questo DNA, secondo lo stampo del DNA naturale di partenza, attivocome quello, ossia capace come quello di riprodurre il virus nell'interno del batterio e di distruggere il batterio. Tutto ciò operando con tecniche mirabilmente raffinate. 
 
Due fatti dunque tecnicamente clamorosi sono avvenuti in laboratorio. Il primo è la produzione del DNA del virus in provetta, cioè fuori della cellula batterica (mentre naturalmente, come si è visto, esso si riproduce soltanto dentro il batterio). Il secondo è il fatto che questo DNA artificiale si è poi riprodotto attivamente entro la cellula batterica, come quello naturale (a differenza del DNA prodotto nel 1959). E' stata una produzione artificiale della vita?
 
Quanto al primo fatto, innanzi tutto, non si può parlare di sintesi totalmente artificiale del DNA avendo esso richiesto lo stampo iniziale del DNA naturale ed enzimi tratti da cellule vive. Inoltre tale DNA, così sintetizzato in modo parzialmente artificiale, non può in sé considerarsi - come si è visto sopra per ogni DNA - vivente. 

Quanto al secondo fatto, una volta che è stato riprodotto l'identico DNA del virus, era naturale che esso si riproducesse nel batterio come avrebbe fatto se vi fosse stato inoculato dal virus stesso. Ma tale riproduzione, come si è detto sopra, oltre a non avere i segni intrinseci della vera riproduzione d'un vivente, si è ottenuta in virtù della vitalità della cellula ospitante. 

Non si può quindi parlare di produzione della vita. 
 
Trascendenza invalicabile. - Infine è da ripensare se sia criticamente ammissibile l'ostinata ricerca della produzione chimica della vita e se non siamo di fronte a una situazione simile a quella dell'antica ricerca assillante del moto perpetuo che ha tormentato tante intelligenze e non è cessata se non quando si è dimostrato teoricamente - mediante la termodinamica - la sua impossibilità. 

In realtà si può dimostrare con analisi teoriche, ma fondate sulla esperienza, che il piano della vita supera essenzialmente il piano materiale puramente fisico-chimico e non può quindi mai riprodursi in base al puro impiego di forze fisico chimiche. 

L'affermazione attribuita da una rivista al Premio Nobel A. Kornberg, secondo cui «per uno scienziato la distinzione tra la materia vivente e la materia inanimata non è reale, non essendovi una linea di frattura netta», non è scientifica perché presuppone senza prove e aprioristicamente che tutta la realtà si risolva, in definitiva, nei fenomeni sperimentabili fisico chimici, il che, per non dire altro, obbligherebbe a livellare a tale piano anche il fenomeno del pensiero. 

Nell'ipotesi invece - che la serietà scientifica proibisce di escludere aprioristicamente - che il piano della vita, pur non raggiungendo la totale immaterialità spirituale, superi essenzialmente il puro piano fisico chimico, ogni ricerca sperimentale potrà bensì approfondire i fenomeni fisico chimici concomitanti e condizionanti la vita, ma non trovare l'essenza della vita. Analogamente, del resto, tali fenomeni concomitanti vi sono anche per il pensiero, in quanto si serve dello strumento del cervello, ma non costituiscono il pensiero. 
 
Per valutare criticamente la netta trascendenza del piano della vita dal piano puramente fisico chimico non è logico, d'altra parte, spingere la ricerca e l'analisi alle primordialissime forme di vita, perché in esse inevitabilmente i contorni si fanno più sfumati e le deduzioni più incerte.
 
L'analisi va portata invece sulle forme della vita pienamente organizzate e superiori, dove le sue caratteristiche risultano più chiare. L'evoluzionista che crede alla produzione puramente chimica della vita non può, d'altra parte, non supporre che per tale via la vita si sia svolta fino alle forme superiori. Qualunque sia cioè il lungo itinerario evolutivo, anche queste ultime deriverebbero, in definitiva, dalla pura attività fisico chimica. Quindi se questa attività spiegasse la vita semplice dovrebbe spiegare anche quella superiore; se non può spiegare la superiore non può spiegare nemmeno la semplice.
 
Sotto tre aspetti fondamentali pertanto - come si è visto nel paragrafo precedente e possiamo più attentamente considerare - la vita trascende il puro piano fisico chimico: per la organizzazione finalistica delle parti e delle funzioni, per l'attività immanente, per il suo equilibrio di complessificazione. Non sono aspetti che indichino soltanto un di più nel piano stesso delle attività fisico chimiche, ma una specifica trascendenza, un superiore piano di attività. 
 
Quanto all'organizzazione, il vivente si presenta più complesso e meraviglioso (già nella cellula e tanto più chiaramente nel vivente superiore maturo) della più meravigliosa macchina. Come questa pertanto non può essere il risultato del puro cieco dinamismo fisico chimico, così e tanto meno può esserlo la macchina vivente. 

Da questo punto di vista, anche supposto che tutta la vita si risolvesse in pure forze fisico-chimiche, apparirebbe indispensabile che, almeno inizialmente, un principio superiore le abbia così intelligentemente ordinate e finalizzate. 

Dato però che tale finalizzazione deve continuamente attualizzarsi nello sviluppo dell'individuo vivente e nel continuo rinnovamento della sua materia, cioè nel continuometabolismo (dal gr. «metabolé, mutazione»), è abbastanza naturale pensare che nel vivente vi sia permanentemente, oltre la pura materialità fisico chimica, un principio immanente, animatore (anima vegetativa) che non si aggiunga, nel loro stesso piano, alle attività fisico chimiche (e quindi non ne modifichi i bilanci energetici), ma le trascenda (non essendo quindi direttamente sperimentabile) e le guidi, quale immanente e inconsapevole depositario del piano finalistico organizzativo dato al vivente da Dio. 
 
Quanto all'immanenza (già implicata dall'esistenza del suddetto principio animatore), essa risalta subito dal confronto appunto con una perfettissima macchina, sia pure completamente automatizzata con i moderni mezzi elettronici. L'immanenza è caratterizzata infatti dal conservarsi della stessa individualità nella generazione, nutrizione, crescita, riparazione, nel metabolismo, nel movimento.
 
La macchina solo metaforicamente può dirsi una; in realtà è stata costruita e resta formata per pura giustapposizione di parti; similmente sono giustapposti gli eventuali autocontrolli elettronici. N ella cellula germi naie del vivente è virtualmente precontenuto l'individuo maturo, le cui caratteristiche sono appunto scritte, per misterioso dinamismo vitale, nella sequenza del DNA; nel primo pezzo di ferro della macchina invece non è precontenuto e non è scritto niente. 

L'immanenza del vivente risalta anche quanto agli interscambi con la restante materia, nei confronti con le pure reazioni chimiche, nelle quali i due componenti si trasformano nel composto; il vivente invece si accre­sce e si conserva in base a molteplici reazioni chimiche, trasformando però tutto nelle antecedenti sostanze proprie. 
 
Infine, quanto alla complessificazione, mentre le interazioni puramente fisico chimiche tendono alla degradazione energetica, alla semplificazione e stabilità maggiore (statisticamente parlando, a stati più probabili), l'attività vitale solleva la materia a stati più complessi e delicati, a partire dalla delicatissima cellula germinale (la solleva, statisticamente parlando, verso stati meno probabili). E questo fa l'attività vitale pur mantenendosi la consueta degradazione energetica nelle varie reazioni fisico chimiche sollecitate dalla vita e concomitanti alla vita. 
 
Questa organizzazione, immanenza e complessificazione, contrapponendosi agli equilibri fondamentali fisico chimici, non può derivare da essi e deve trascenderli. 

Tanto più poi si dovrà parlare di trascendenza per la vita sensitiva e intellettiva, pur non mancando anche per esse l'attività concomitante fisico chimica. 
 
Il radicale evoluzionismo di Teilhard de Chardin si sbriga con molta disinvoltura degli invalicabili gradini della vita vegetati va, sensitiva e intellettiva postulando, semplicemente e gratuitamente, l'esistenza, al di là delle note proprietà fisico chimiche della materia, di altre sue spontanee proprietà, che si andrebbero via via manifestando, come, per es., della complessificazione, della concentrazione e della riflessione cosciente. 

Ma non è che un superficiale modo di evadere dal problema. Sono parole e niente più. Lo vedemmo nella prima parte del libro.
 
Supponiamo comunque che esistessero tali proprietà. Resterebbe sempre vero che esse trascendono le pure attività fisico chimiche che specificano i corpi materiali in quanto tali e che soltanto possono essere direttamente sperimentabili e utilizzabili in laboratorio. Tali ulteriori proprietà quindi non possono essere sgorgate dalle pure attività fisico-chimiche. Vuol dire dunque che queste attività non potranno mai produrre artificialmente quelle altre e che nemmeno le potranno produrre naturalmente, partendo soltanto dal piano fisico chimico. 

Bisognerebbe sempre cercare chi abbia eventualmente infuso alla materia anche quelle altre proprietà. 

 
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01/05/2013 18:14
 
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PALEONTOLOGIA ROMANTICA 
L'UOMO DI PILTDOWN 
 
E' quasi normale nelle nostre cattedre di teologia e di S. Scrittura, e non di rado anche di filosofia, affrontare i fondamentali problemi dell'accordo tra religione, filosofia e scienza, partendo dai presupposti scientifici correnti, unanimamente diffusi dai libri di volgarizzazione, gli unici, come è ovvio, ordinariamente accessibili ai professori non specificatamente competenti in materia. In particolare l'evoluzionismo, applicato alle specie viventi, fino all'uomo, viene presentato dai volgarizzatori e accettato in genere dai teologi e dai biblisti (salvi il finalismo c, almeno, la necessaria infusione dell'anima) come praticamente certo, mentre sono note le gravissime obiezioni scientifiche che gli si possono opporre. 

Tale credulo atteggiamento verso le ipotesi scientifiche in voga, se era comprensibile al tempo di S. Tommaso, quando si ignoravano gli accurati metodi sperimentali di controllo e non si aveva l'esperienza del continuo avvicendarsi delle ipotesi scientifiche, non lo è ugualmente oggi. E' vero che la dottrina del trasformismo delle specie è restata fondamentalmente stabile da Darwin in poi, ma sono spesso cambiate le ipotesi sul meccanismo che avrebbe prodotto tale evoluzione delle specie viventi. Tale dottrina ha potuto fondamentalmente mantenersi per il suo carattere essenziale extrasperimentale. Soprattutto la paleoantropologia si rifiuta ostinatamente di soddisfare l'ansiosa ricerca delle forme intermedie tra gli antropoidi (dal gr. «anthropoidés, simile a uomo»), ossia tra le forme animali rassomiglianti all'uomo, e l'uomo attuale - forme, rispetto all'uomo,rudimentali - che, nell'ipotesi trasformista, dovrebbero essere, negli strati geologici, largamente conservate. 
 
Il primo rinvenimento di ossa fossili, riconosciute umane (una calotta cranica), avvenne nel 1856, nello scavo di una grotta nella angusta «valle di Neander» (Neandertal) della Prussia renana. 

Ne seguirono molti altri (nel 1908 fu trovato uno scheletro quasi completo, nella Francia centrale, a, Chapelle-aux-Saints), che risultarono del medesimo tipo, detto appunto l'«uomo di Neandertal» (di cui se ne sono trovati oggi oltre cento individui, più o meno frammentari), che risale al Pleistocene (prima e più lunga parte dell'era Quaternaria) medio, ossia verso 200.000 anni fa. Ma nonostante le caratteristiche più grossolane, tale tipo è risultato un perfetto uomo, con capacità cranica anzi superiore alla media degli uomini attuali e con la testa regolarmente eretta: non pendente in avanti, a modo scimmiesco (come è rappresentato ancor oggi nei libri di volgarizzazione) secondo la primitiva rico­struzione del grande M. Boule (cfr. V. Marcozzi, L'evoluzione oggi, 99), che è stata poi scientificamente corretta. Esso è risultato cioè, non un antenato in via di evoluzione verso la forma umana attuale, ma un autentico uomo, in linea collaterale al tipo umano attuale.
 
Ma v'è di più. In scavi più profondi, che potrebbero corrispondere anche a 300.000 anni or sono, si è trovato nel 1935, a Swanscombe, sulla riva destra del Tamigi, una calotta umana ancora più simile a quella dell'uomo attuale; nel 1947 poi, in strati dello stesso periodo, a Fontéchevade, nella Francia sud-occidentale, sono stati reperiti due frammenti cranici rispettivamente di due individui, più rassomiglianti a quelli dell'uomo attuale che non i crani Neandertaliani.
 
Dunque, non solo nessuna prova di forme in progressiva evoluzione verso l'uomo attuale, ma anzi l'opposto. 
 
Altri clamorosi reperti però, ossia, in concreto e soprattutto, la scoperta dell'uomo fossile di Piltdown (1912-1915) e dell'uomo di Chou­koutien, vicino a Pechino (1927-1939), dettoSinanthropus (cioè «Uomo della Cina») è parso che abbiano fornito finalmente la testimonianza della esistenza di antichissimi tipi umani (di centinaia di migliaia di anni fa) diversi, ma prossimi all'uomo attuale, in fase cioè evidentemente evolutiva verso di esso. I ritrovamenti in luoghi così distanti, Inghilterra, Cina, costituiva anche una bella conferma del poligenismo. Come potevano essi derivare dal medesimo ceppo? Nel Dictionnaire de Théol. Cath., alla voce «Polygénismo» (anno 1932) la difficoltà scientifica contro ilmonogenismo teologico è ridotta tutta qui (XII, 2533). 

Non erano ignoti i metodi d'inganno già usati da grandi scienziati per avallare ad ogni costo la teoria evoluzionista. Si ricordano le falsificazioni del grande E. Haeckel, che ritoccò artificiosamente le fotografie sperimentali di embrioni (a conferma della sua Legge biogenetica fondamentale) e fu smascherato da A. Brass e A. Gemelli nel 1911, e quelle compiute da P. Kammerer che esibì le sue false prove della trasmissione ereditaria dei caratteri acquisiti (cfr. Landucci, Il mistero dell'anima umana, 33 n.). Eppure nessuno dubitò di questi pubblici e clamorosi ritrovamenti fossili. 
 
Quanto all'uomo di Piltdown, si accesero grandi dispute sulla interpretazione, non sullaverità dei fatti. Chi non ha la terza appendice della Enc. Treccani testa con la convinzione della sicurezza di questo reperto, ampiamente trattato nel v. XXVI p. 10. Chi ha la terza appendice è fortunato se riesce ad imbattersi in un semplice rigo a carattere piccolo, in cui è detto, senza ombra di spiegazione, che quel «famoso» ritrovamento è il «prodotto di una mistificazione». L'Encicl. Catt. riporta ancora (1952) l'affermazione credula del grande paleontologo cattolico P. Leonardi (alla voce Paleoantropologia). L'illustre antropologo P. V. Marcozzi S. J. non avanza, in proposito, alcun dubbio, nell'ampia trattazione che ne fa in La vita e l'uomo 1946, p. 328 ss.; nel successivo libro poi, L'evoluzione oggi, 1966, si limita, se ho visto bene, a non parlarne più. Quanto al P. Teilhard de Chardin S. J., che fu parte attiva in questa avventura, seguitò ingenuamente, anche dopo il chiarimento dei fatti, non solo a scagionare il «povero caro Dawson», ma a spiegare qualsiasi volontaria frode di altri (L'App. de l'H., 17 n.).
 
Dirò ora come si svolse questo romanzo, che costituisce la più colossale truffa scientifica del secolo, e il più tipico caso di credulismo scientifico moderno. E fu un pieno credulismo anche nel campo degli apologisti cattolici, antievoluzionisti, come l'Arcivescovo di Sheehan, che si guardò dal mettere in dubbio i fatti, pur cercando di dar loro una spiegazione cattolica. 
 
Alcuni operai che scavavano uno strato di ghiaia presso Piltdown nel Sussex orientale (Inghilterra meridionale), nel 1909, avrebbero trovato a m. 25 di profondità un cranio che descrissero poi come una specie di noce di cocco, che spezzarono, gettandone i frammenti. Essendo stato dato uno di questi al biologo e geologo dilettante di Piltdown Charles Dawson, questo, coadiuvato in seguito da Arthur Smith Woodward, direttore del British Museum, ricercò e ritrovò in buona parte gli altri pezzi di cranio, compiendo anche il rinvenimento di un ramo di mandi­bola e di selci lavorati. In tali ricerche che durarono qualche anno s'inserì anche il P. Teilhard de Ch., allora studente nello scolasticato dei Gesuiti della vicina Hasting. A lui toccò l'onore di rinvenire un dente canino della mascella. 
 
Nonostante la difficoltà di calcolare con esattezza la capacità cranica (che per il Woodward era di soli 1070 cc., mentre per altri poteva giungere a 1500, superiore alla media dell'uomo attuale), la calotta risultò di forma nettamente umana, con caratteri primitivi semplificati, mentre la mandibola risultò nettamente scimmiesca. Questa ibrida congiunzione di così diversi caratteri suscitò decise opposizioni in grandi paleontologi esteri (così M. Boule in Francia e F. Osborn in America). Ma prevalse la tesi dell'appartenenza al medesimo individuo, già clamorosamente esposta al pubblico dal Dawson e dal Woodward fin dal 1912. 

Essa si consolidò quando nel 1915 furono trovati a 3 km. di distanza altri resti fossili analoghi, e quando tali reperti vennero autorevolmente accolti nel Museo Britannico, diventandone la gloria. Anche il tedesco Weinert, in uno studio accurato e diretto, condotto circa 20 anni dopo, giunse alle medesime positive conclusioni. Si era dunque scoperto il tanto ricercato esemplare umano semiscimmiesco evolutivamente precedente allo attuale uomo che il Woodward chiamò Heoanthropus (dal gr. «éos, (aurora - anthropus, uomo»: «uomo dell'aurora») Dawsoni (in onore dello scopritore). L'età geologica restò molto dibattuta e fu additata in 300.000 anni e più. 

Questa credulità proseguì per circa quarant'anni. Ciò è tanto più sorprendente, perché da tempo si andava riservatamente dicendo che vi erano alcuni nella zona, tra cui il Capitano Guy St. Barbe, che possedevano le prove della falsificazione, compiuta da chi aveva appositamente messo in sito frammenti, opportunamente trattati, per fingere poi di scoprirli. Non solo. Erano pure note le intrinseche difficoltà che erano state avanzate contro la possibile appartenenza del cranio e della mascella, di tipo così disparato, al medesimo individuo. Ma nonostante ciò, fuori dell'ambiente, vi fu credulità piena. 
 
Le voci però dell'ambiente contro l'autenticità dei ritrovamenti minacciavano di trapelare. 

Per troncare ogni dubbio contro di essi, o eventualmente per scartare quei fossili salvando la faccia con la nobiltà di un chiaro ricorso alla scienza, si decise finalmente di controllarne l'epoca con la prova del fluoro (che le ossa sotterrate assorbiscono dal terreno; la sua misura può quindi indicare il tempo in cui vi sono rimaste). Una prima esperienza sembrò confermare la identica età del cranio e della mandibola, ma ridotta soltanto a 50.000 anni, il che già avrebbe distrutto il valore probante di quella forma umana, quale stadio antecedente all'uomo attuale. Ma altri esami ripetuti, con metodi ancora più esatti, diedero invece risultati diversi per le rispettive età dei due fossili (anno 1953). 

Scatenatesi, in conseguenza, nuovamente, le dispute, avendo in particolare reagito al verdetto negativo di questi ultimi controlli il favorevole Weinert (Dawson era morto nel 1916), i resti fossili vennero finalmente sottoposti a un altro diretto accurato esame da un gruppo di qualificati rappresentanti di alti Istituti scientifici di Londra, Oxford e altrove. 

Il verdetto definitivo fu unanime. Si trattava di un colossale falso. Il cranio era un fossile umano relativamente recente (età Neolitica). La mandibola era di un giovane orango morto da pochi anni, con i denti limati per sembrare umani; il dente canino trovato da Teilhard de Chardin era stato limato nell'atto di applicarlo alla mandibola perché vi si adattasse; il pomello di articolazione (condilo) era stato spezzato di fresco per adattare la mandibola al cranio; il tutto era stato usurato artificialmente per simulare il rimaneggiamento e colorato chimicamente per simulare l'antichità. Gli altri fossili e i manufatti di selce erano stati presi altrove. 

A tutto ciò si aggiunse la confessione del mistificatore (cfr. Nature, Londra, 28 nov. 1953, p. 981; Sapere, 31 gen. 1954, p. 26; J.S. Weiner, The Piltdown Forgery, Londra 1955). 

L'uomo di Piltdown per la scienza non esiste più. 
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01/05/2013 18:15
 
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IL SINANTHROPUS 
 
Il cugino del Sinantropo. - Teilhard de Ch. chiama il Sinanthropus (dal lat. «sina, della Cina» e dal gr. «anthropos, uomo») «cugino dell'Uomo di Giava» (L'App. de l'H., 146). Prima di parlare del Sinantropo non ci sta male dunque una parolina sul suo «cugino». Questo altro tipo di fossile, antecedentemente scoperto dal naturalista olandese Eugène Dubois nell'isola di Giava tra il 1890 e il 1897, è stato chiamato da tale naturalista stessoPithecantropus (dal gr. «pithekos, scimmia - anthropos, uomoerectus, essendo così vicino all'uomo da averne la posizione eretta

Tale nome il Dubois lo prese dall'Haeckel, che ne aveva ipotizzata l'esistenza come forma evolutiva, prossima al vero uomo. Il Dubois pretese d'identificarlo e descriverlo in base a una piccola calotta cranica a cui egli attribuì una cubatura intermedia tra quelle delle scimmie e dell'uomo, e a un femore certamente umano, che egli attribuì al medesimo individuo (che doveva avere quindi la posizione eretta).
 
Ma questa attribuzione dei due reperti al medesimo individuo è arbitraria ed è da quasi tutti i paleontologi oggi negata. Tali reperti infatti non solo furono trovati a 15 m. di distanza tra loro ma, inoltre, come osserva l'antropologo evoluzionista V. Marcozzi, quell'ipotetico individuo sarebbe stato «un autentico mostro... di m. 1,75 circa (in base alla lunghezza del femore) e dalla testa piccolissima: un vero gigante microcefalo, che non avrebbe trovato posto in nessun phylum evolutivo umano» (L'evoluzione oggi, 120). Tutto suggerisce quindi che il femore appartenga a forme fossili certo umane, assai più recenti, come altre trovate in seguito nella stessa isola. 
 
Tale ipotetica scoperta del Dubois perde d'altra parte ogni peso scientifico alla luce del contesto storico della scoperta stessa. Basta tenere presenti l'essenziale disparità dell'opinione dei paleontologi, il ripetuto cambiamento di parere del Dubois stesso (cfr. Enc. Treccani, XXVI, 6 ss.), la sua volontà preconcetta di trovare ad ogni costo l'anello evolutivo scimmia-uomo, l'avere egli nascosto per trenta anni un contemporaneo ritrovamento di due crani di capacità normalmente umana, l'avere ammesso, alla fine, che il pezzo di cranio in esame era di un gibbone, il giudizio scritto dal dotto R. Thompson (nella prefazione dell'Edizione Everiman's dell'Origin of species di Darwin) sull'Uomo di Giava, come di una evidente frode. 

Il credulismo paleontologico del Teilhard, già manifestatosi per il falso di Piltdown, ricompare però anche qui. Egli si limita solo ad ammettere delle incertezze sui ritrovamenti del Dubois, incertezze, però che ritiene risolte da altri rinvenimenti del 1935, nella stessa isola (compiuti dal Koenigswald). Ma, in realtà, questi ultimi sono dei crani tanto rotti da rendere incertissime le misure. Per il T. invece, appena compiuti tali altri rinvenimenti... «sprizzò il raggio della luce» (L'App. de l' H., 175)! 
 
Il Sinantropo. - Solo il Sinantropo resta, in definitiva, il ritrovamento che potrebbe sembrare veramente serio. Esso è stato forse anche il più studiato. Le opinioni degli autori concordano in gran maggioranza «nel considerare questo Primate un Uomo, dai caratteri estremamente primitivi e inferiori» (così V. Marcozzi in L'evoluzione oggi, 1966, p. 115, aderendo a tale maggioranza di studiosi; l'anno dopo però in Civiltà Catt. del 10 luglio 1967, scrive che «i pezzi osteologici che rappresentano il Sinantropo non differiscono da quelli dei babbuini», p. 60). 

Teilhard de Ch. ha legato la sua gloria di paleontologo alla scoperta del Sinantropo, partecipando alle ricerche di Choukoutien, presso Pechino (1927-1939), benché in qualità di osservatore non ufficiale. In tali ricerche egli manifestò però purtroppo la consueta assolutezza superficiale. 

Ecco i fatti molto significativi. Si tenga presente che si tratta forse del più importante argomento della paleontologia in favore della produzione evolutiva dell'uomo. Secondo il T., Choukoutien costituisce «la più importante accumulazione di depositi archeologici giammai rimossi per la preistoria» e il Sinantropo è «uno degli uomini fossili attualmente (1937) meglio identificati dalla paleontologia umana» (L'App. de l'H., 123, 127). Più sicuro di così! 
Volendo entrare brevemente e imparzialmente in merito alla clamorosa scoperta, bisogna porre essenzialmente il doppio problema: quello dell'età geologica dei frammenti fossili degli oltre 30 individui disseppelliti dalla cava di C. e quello della loro natura. Il primo problema non presenta eccessive difficoltà e si può accettare la soluzione orientativa, che porterebbe l'antichità dei reperti all'ordine di centinaia di migliaia di anni (T., L'App. de l'H., 141).

Il secondo problema è quello decisivo. Esso si apre alla doppia soluzione: o gibboni e macachi, o individui intelligenti, di forme primitive, in effettiva evoluzione verso le attuali.

La seconda soluzione, evoluzionista, è totalmente condizionata, a sua volta, alla doppia prova sperimentale della cubatura cerebrale intermedia tra le scimmie e l'uomo attuale, e dei segni di attività operative intelligenti, come quella, decisiva, dell'uso del fuoco. 

Quanto alla cubatura cerebrale, essa viene effettivamente presentata dai difensori del Sinantropo come intermedia; ma tale opinione è espressa in un contesto critico che ne infirma ogni sicurezza scientifica. 

Si rifletta infatti imparzialmente ai seguenti dati obiettivi. Tale valutazione poggia fondamentalmente sull'autorità del primo capo della spedizione scientifica, il giovane medico e biologo canadese dotto Davidson Black, professore di anatomia nel collegio medico di Pechino. Egli si era già impaniato nello studio del falso cranio di Piltdown. Egli era tanto preso dalla brama di trovare la nuova specie uomo-scimmia, che ebbe il coraggio di dichiararla già provata in base al ritrovamento di un solo dente (1927: Paleontologia sinica). Egli finalmente trovò, non si sa bene se un intero cranio o la sola calotta.

E qui proprio il terreno diventa sempre più infido. Questo reperto originale (come quelli di tutti gli altri individui, poi trovati, quali pretesi Sinantropi) è, a un certo punto, misteriosamente sparito, e le misure sono state prese non sull'originale e nemmeno su calco, ma su un modello artificiale, fatto dal Black stesso.

Di questa totale sparizione degli originali è stata data l'insostenibile spiegazione che li avrebbero portati via i giapponesi (e la nave sarebbe affondata). Si sa invece che durante l'occupazione militare giapponese i lavori di ricerca fossile proseguirono senza ostacoli; alla resa poi (1945) i giapponesi non erano più in grado di compiere tale trafugamento. Quanta garanzia, a sua volta, possa dare, circa l'autenticità dei reperti e contro l'ipotesi d'una distruzione dolosa degli originali, il paleontologo cinese dotto Pei Wen-Chung che sorvegliò gli scavi anche sotto il regime comunista, può capirlo chi conosce il totale asservimento, in quel paese, di ogni attività anche scientifica alla propaganda comunista, per la cui ideologia l'evoluzionismo è un dogma (a differenza del cattolicesimo, che invece è libero o di respingerlo o di accettarlo moderatamente). 

I motivi che infirmano la sicurezza delle misure del Black si moltiplicano poi da ogni lato. Egli non segna nel suo modello un grosso buco, che era stato caratteristicamente notato dagli osservatori su tutti gli originali. I calcoli della capacità - sempre compiuti sul modello artificiale - oscillano tranquillamente dai 960 cc. del Black ai 915 del suo successore Weidenreich e agli oltre 1000 del T. (L'App. de l'H., 127). Tutt'e tre le misure contrastano anche nettamente con la valutazione della capacità stessa, compiuta a occhio dal T. sull'originale (poi sparito), secondo il quale essa era: «probabilmente piccola a causa delle dimensioni relati­vamente piccole del cranio e del considerevole spessore delle ossa parietali» (ivi, 92); «rassomiglia da vicino alle grosse scimmie» (Anthropologie, 1931). 

Quanto a H. Breuil, dopo un accurato sopraluogo egli espresse fortissime obiezioni contro quella interpretazione dei reperti (Anthropologie, marzo 1932). Il grande M. Boule, anch'egli recatosi là, chiamò anzi quella interpretazione una «fantastica ipotesi», opinando che quei crani appartenevano invece a qualche specie di grosse scimmie, colpite, come altra selvaggina trovata associata negli scavi, dal cacciatore uomo. Quest'ultima interpretazione risulta confermata dalla notizia data dal Boule stesso, che tutti quei crani avevano il suddetto buco all'occipite, probabilmente per estrarne il gustoso cervello, e che la morte era stata prodotta con un colpo contundente alla testa, rivelato dall'esame dei fossili (Anthropologie, 1937, p. 21). 

Va infine notato che il dott. Black, compiuto il modello della testa, lavorò anche al modello della mandibola e ne plasmò due, una di giovane e una di adulto, vantandone la sorprendente rassomiglianza con le mandibole umane. Ma il successore Weidenreich trovò che quella di adulto derivava dalla riunione di due eterogenee porzioni, una di giovane e una di adulto (Vallois, Les Hommes Fossiles, 1952, p. 141 s.). 

Ma il più grave indice d'una orchestrazione preconcetta degli scavi, in cui si lasciò coinvolgere più o meno consapevolmente anche il T., riguarda l'imbarazzante ritrovamento, insieme ai suddetti fossili, di altri fossili chiaramente appartenenti all'attuale specie umana, ritrovamento che costituì una clamorosa conferma della interpretazione del Boule, che cioè quei crani col buco erano di bestie uccise da uomini. La notizia della scoperta, fatta dal dott. Pei, fu così precisata dal T., in un articolo subito mandato allaRevue des Questions Scientifiques (1934): «Dell'Uomo - un vero Homo sapiens - sono stati raccolti: tre crani di adulti, assolutamente completi... ecc. » (L'App. de l'H., 107). Tali fossili di attuali uomini salirono poi a dieci. La notizia fu ampiamente confermata in seguito e corredata di fotografie dal Weidenreich, in Paleontologia sinica (1939); il medesimo ne parlò anche all'Università di California in una conferenza del 1945 (Apes, Giants and Men, 86). Anche il Pei lo affermò ufficialmente in un articolo conclusivo, nel 1954 (cfr. L'App. de l'H., Nota dell'Editore, 145 s.).
 
Nel darne per primo notizia, T. credette di eludere le imbarazzanti conseguenze del ritrovamento - che avvalora decisamente la tesi del Boule - distinguendo nettamente le zone e i tempi geologici del ritrovamento dei Sinantropi e del ritrovamento di questi fossili umani. Questi ultimi sarebbero stati trovati - dice il T. - in quella che egli chiama «caverna superiore», la quale sarebbe molto più recente (L'App. de l'H., 106 ss.). 

Ma è una distinzione che sa di netta forzatura. Weidenreich infatti, che diresse i lavori dal 1930 al 1940 esclude l'esistenza di particolari «caverne» naturali a qualsiasi livello. T. stesso, nel descrivere le differenze materiali e strutturali di questi depositi superiori rispetto a quelli inferiori che egli definisce più antichi, enuncia diversità di nessun rilievo, eccetto l'ovvia minore compressione del materiale della zona superiore per naturale effetto della minore altezza (e quindi minor peso) del terreno sovrastante; e conclude la sua analisi geologica con espressioni vaghe come queste: «hanno l'aria decisamente più giovane» (ivi 106), «natura relativamente fresca dei depositi» (ivi 108); anzi si contraddice, parlando, in seguito, unitariamente, di tutto il luogo degli scavi, che corrisponde «a un'antica caverna [vedremo: cava]... simultaneamente... colmata, per disgregazione continua della volta» (ivi 124: anno 1937); quando dà poi la sezione del terreno, afferma che i Sinantropi sono stati rinvenuti in tutta l'altezza di quella collina di cinquanta metri, in cima alla quale è segnata quella sacca che sarebbe dovuta essere più recente, mentre essa è in piena continuità con gli strati inferiori, e un resto di Sinantropo è segnato proprio presso la superficie, accanto alla sacca (ivi 126: anno 1937; 140: anno 1943); né mancano anche nella sacca le caratteristiche ceneri, di cui parlerò (ivi 107).

Le personalità ufficiali furono più prudenti. Il dottor Pei, e l'allora sovrintendente Weidenreich, non parlarono degli imbarazzanti ritrovamenti di quei fossili di uomini moderni. Il Weidenreich tacque su di essi per ben cinque anni, decidendosi a darne notizia solo nel 1939 (nella succitata Paleontologia Sinica) e poi ancora in seguito. Sarebbe stato invece leale e ovvio di comunicare subito a tutti quell'inaspettato colpo di scena.

In questo frattempo però T. sembra essersi pentito della comunicazione data per primo, nel 1934, di quei ritrovamenti sconcertanti di resti umani pienamente maturi. Certo si ha la pena di rilevare il suo inqualificabile totale silenzio su di essi, in un articolo riassuntivo di tutta la questione del Sinantropo, del 1937 (L'App. de l'H., 121-131). Scrivendo infine sull'argomento nuovamente e ampiamente, nel 1943 egli ancora omette di ricordare quei fatti, contentandosi di farne un fugace cenno solo nella leggenda della figura di tutti gli strati fossili di Choukoutien (ivi 140). 

Le cose poi si complicano ulteriormente. E' in questo equivoco contesto storico scientifico che, in quell'articolo riassuntivo del 1937, il T. annuncia il ritrovamento di altri tre crani di Sinantropo nel 1936 (ivi 126, 129). L'annuncio è dato anche dal Weidenreich, nello stesso 1937, in Nature. (Mentre però T. parla di crani «quasi interi», eccetto la «faccia incompleta», il W. ne pubblica le fotografie in cui li mostra incompleti: altro saggio di inesattezza). Ma frattanto il W. seguita a tacere (fino al 1939) circa i ritrovamenti dei crani di attuali uomini, nella sacca superiore, già avvenuta nel 1934. 

E' precisamente su uno di tali altri tre cani di presunti Sinantropi, del 1936 (dal più grande, di 1200 cc.: cubatura di tipo umano) che il W. fece il suo modello di cranio di donna, mentre, d'altra parte, come si sa, questi tre crani e tutti gli altri originali sono spariti.

Tenendo pertanto presente che dalla sacca superiore venivano intanto estratti quei fossili della specie umana matura - di cui Pei e W. avevano continuato a tacere e di cui T. aveva accuratamente cessato di parlare sorge il fondato dubbio che quegli altri tre craniappartengano a quella stessa specie pienamente umana.

Comunque, in tale contesto, non è possibile attribuire sicurezza scientifica a tali pretesi ritrovamenti. 

V'è poi, se si ricorda, il secondo problema, cioè la prova dell'uso del fuoco e della presenza di manufatti come segno d'intelligenza di quel presunti pre-uomini (L'App. de l'H., 146 nota). 

Con sorprendente semplicità T. addita tale prova nei pochi utensili trovati, nelle pietre rozzamente squadrate e nelle tracce di fuoco. Ma è una semplicità che sembra animata da un partito preso, cioè dalla brama di aver trovato un pre-uomo intelligente, ma tanto primitivo da non aver lasciato che segni primordialissimi di attività umane. Nelle ripetute descrizioni che T. fa degli scavi, negli anni 1930, 1934, 1937, 1943, prima egli ignora le tracce di fuoco e poi tende a ridurre il più possibile la misura di esse e delle altre testimonianze di attività intelligenti (cfr. L'App. de l'H., 90, 106, 126, 145).

Anche il cinese Pei, in un articolo del 1954, volutamente parla solo di «tracce di fuoco». 

Invece, come risulta dalle ampie descrizioni degli altri scienziati, a cominciare da quella inAnthropologie (marzo 1932) del Breuil, grande conoscitore dell'età paleolitica, a Choukoutien furono trovate molte centinaia di pietre di quarzo, ivi trasportate da altro luogo, con strati di fuligine da un lato, che dovevano essere servite per costruire fornaci, ed enormi mucchi di ceneri. Vi era stata quindi, anziché un'attività primordiale, una grandiosa cava e una grande industria di fabbricazione di calce dalle pietre calcaree ivi esistenti. Gli enormi mucchi di cenere trovati si spiegano con l'uso di alimentare le fornaci con paglie, canne ecc. Probabilmente il materiale serviva per la vicina capitale mongola Khanbalik, divenuta poi Pechino. Tutto ciò suppone un'età molto più tarda del paleolitico e un pieno sviluppo umano. 

Quei resti fossili della zona superiore, pienamente umani, erano dunque, molto probabilmente, di artigiani; gli altri crani più piccoli, colpiti con un mezzo contundente, erano con ogni probabilità di grosse scimmie, cadute sotto i colpi di quelli. Traverso il famoso foro trovato in quei crani i cacciatori molto probabilmente estraevano il prelibato cervello. 

E' ciò che aveva supposto il grande M. Baule, già nel 1937 (Anthropologie, 21), prima ancora della comunicazione ufficiale del ritrovamento dei crani pienamente umani nella zona superiore (1939). Non era, in fondo, che la supposizione del buon senso e della vera imparzialità scientifica. 

Così il Boule: «Contro questa fantastica ipotesi che i proprietari dei crani simili a quelli delle scimmie fossero gli autori di quella industria grandiosa, io mi permetto di proferire un'opinione più conforme alle conclusioni derivate dai miei studi, che cioè il cacciatore (che ruppe i crani) era un vero uomo, e che le pietre tagliate ecc., erano opera sua».

Il Sinantropo molto probabilmente resta solo nella fantasia. 
 
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 POLIGENISMO E PECCATO ORIGINALE

ESEGESI SBRIGATIVA
 
 
Coerentemente, per molti evoluzionisti cattolici, Adamo sarebbe un nome collettivo. E' la teoria del poligenismo, prospettata, in omaggio alla scienza, da apologisti cattolici che vogliono essere aggiornati. Li sostengono illustri biblisti un po' sbrigativi. Si veda, per es., P. Ortensio da Spinetoli in Famiglia Cristiana (9 aprile 1967), la grande Rivista che mira ad essere di vera formazione cristiana, come è testimoniato dall'impegnativo nome. P. Ortensio è stato coerente a presentare il poligenismo, perché forse egli crede nell'evoluzionismo.

L'evoluzionismo applicato alle specie viventi porta, infatti, molto spontaneamente al poligenismo. Perché, nel processo evolutivo, un solo individuo animale dovrebbe essere giunto alla soglia della specie superiore, e non tutti gli altri individui della stessa specie, almeno quelli situati nella stessa regione? Come oggi pertanto Iddio infonde infallibilmente l'anima ad ogni individuo capace di riceverla in quanto nato da coppia umana, perché non avrebbe dato il suo tocco ultimo perfettivo (supposto necessario) e infuso l'anima a tutte quelle bestiole, maschi e femmine (non avrebbe quindi senso parlare di produzione di Eva dal fianco di Adamo), giunge a giusta cottura di evoluzione? 

Il contrario, è vero, potrebbe sempre ritenersi possibile, potendo Dio liberamente infondere l'anima a una coppia sola. Ma per un evoluzionista ciò sa di stiracchiatura; un vero evoluzionista come Teilhard de Chardin non se lo è nemmeno sognato. S'immagini poi l'imbarazzo che avrebbe l'ipotetica unica coppia belluina, sola promossa alla dignità umana, nell'incontrarsi con gli antichi loro simili: «Che siano anch'essi uomini, magari un po' tardivi?». 

Ecco perché teologi ed esegeti debbono essere molto cauti, prima di accettare senz'altro l'evoluzionismo. 
 
P. Ortensio sembra invece assai sbrigativo. Quanto ha armonizzato con le ripetute raccomandazioni della Chiesa circa la prudenza da usare negli insegnamenti di volgarizzazione, prudenza che era tanto più necessaria in uno scritto per quella Rivista di formazione per famiglie?
 
Basta ricordare l'Istruzione della Pont. Comm. per gli Studi Biblici del 21 aprile 1964: «Si astengano in modo assoluto dal proporre novità vane o non abbastanza provate... Si facciano scrupolo di non dipartirsi mai dalla comune dottrina o dalla tradizione della Chiesa neanche in minime cose... E' loro severamente proibito... un qualsiasi tentativo per la risoluzione di difficoltà, senza una scelta prudente e un serio esame, turbando così la fede di molti». 
 
Il denso articolino di P. O. è nato dal particolare problema della primordiale liceità del matrimonio tra fratelli carnali, quali erano necessariamente, secondo la S. Scrittura, i primi uomini in quanto figli di Adamo ed Eva. Esso suggerisce però molti densi rilievi, che inquadrano una mentalità oggi molto diffusa. Eccone alcuni.
 
Il dotto articolista ha poca stima dei «manuali di Teologia» che giudica evidentemente poco aggiornati (il che nelle antiche edizioni è ovvio, benché non sia difficile integrarli; però quanta organicità, talora, e quanta chiarezza di analisi e di sintesi - chiarezza scolastica! - che lascia a desiderare in tanti moderni articoli). Essi risolverebbero quel problema del matrimonio tra fratelli, all'inizio dell'umanità, con il diritto supremo di Dio di dispensare, nei singoli casi, dagli obblighi naturali, mentre al P. O. sembra inammissibile che Dio possa trasformare il «cattivo» in «buono». P. O. ha ragione; ma dubito assai che vi siano manuali che dicano così. 

So invece che distinguono sapientemente (distinzioni scolatiche!) tra la legge naturale primaria sostanziale, necessaria per conservare l'ordine morale e quella secondaria, necessaria soltanto per migliorare l'attuazione di tale legge. Ora Dio può permettere temporaneamente, per un fine superiore, un modo difettoso di attuare la legge naturale, modo dipendente dalla particolare situazione. Nel caso, si trattava della necessità della propagazione iniziale del genere umano. 

P. O. preferisce invece eliminare quell'ostacolo della parentela proponendo appunto il possibile poligenismo. Egli elude, a tale riguardo, il contrario e circostanziato raccontobiblico, affermando che veri intenti di esso sono soltanto «teologici, spirituali e morali, non etnologici» e osservando che basta salvaguardare l'«unità del genere umano» c la «realtà, universalità e trasmissione del peccato originale». Ma, non è proprio per salvaguardare questa unità, universalità e trasmissione che bisogna prestar fede al sostanziale senso letterale del racconto biblico? Non è su di esso che poggia il dogma? 

E a che serve, in questa questione, appellarsi alla scienza, come fa P. O.? Essa non potrà mai provare il poligenismo. Lo potrà solo affermare, come conseguenza della ipotesi, non dimostrabile, dell'evoluzionismo; ma il teologo potrà comunque sempre sottrarvisi, affermando la infusione dell'anima a una coppia sola (potendo anche rivendicare il modo eccezionale della nascita di Eva). 

Inutile pure appellarsi al nome Adamo, il quale in ebraico significa genericamente «uomo». Giusto: ma è così chiamato appunto perché è il primo. Come doveva chiamarsi? Ed anzi l'etimologia iniziale pare che rimandi a un nome accadico, che significa «produrre, generare», come si conviene proprio al capostipite. E così Eva in ebraico vuol dire «madre dei viventi», proprio come si conviene alla prima donna. 
 
Inutile rimandare ai futuri studi teologici, quando si sa che nella esegesi va «tenuto debito conto della viva Tradizione di tutta la Chiesa e dell'analogia della fede», come ha ribadito il Concilio (R 12: deh. 893). Esse parlano già chiaro. La Teologia non è fatta né di contraddizioni, né di stiracchiamenti. Così pure l'Esegesi. 

Si ricordi, per esempio, la genealogia di Gesù del terzo vangelo (Lc 3, 38). 
Si ricordi la unanimità dei Padri. 

Ed ecco S. Paolo: «Egli trasse da uno solo tutte le stirpi degli uomini» (At 17, 26); «divenne il primo uomo Adamo anima vivente» (l Cr 15, 45); « se per il peccato di uno solo la morte ha regnato ...» (Rm 5, 17).
 
Ecco il Tridentino: «Si quis non confitetur, primum hominem Adam... sanctitatem et iustitiam... amisisse ...» (D-S 1511); «si quis Adae praevaricationem sibi soli et non eius propagini asserit nocuisse...» (ivi 1512); «si quis hoc Adae peccatum, quod origine unum est et propagatione, non imitatione transfusum omnibus inest unicuique proprium ...» (ivi 1513); «in eis [parvulis] regeneratione mudetur, quod generatione contraerunt (ivi 1514); «revera homines, nisi ex semine Adae propagati nascerentur, non nascerentur iniusti... ita nisi in Christo renascerentur, numquam iustificarentur» (ivi 1523). 

Ecco Pio XII: dopo aver dato prudente libertà di ricerca quanto allo evoluzionismo, delpoligenismo invece dice: «Non appare in alcun modo come queste affermazioni si possano accordare con quanto le fonti della Rivelazione e gli atti del Magistero della Chiesa ci insegnano circa il peccato originale, che proviene da un peccato veramente commesso da Adamo individualmente e personalmente, e che, trasmesso a tutti per generazione, è inerente in ciascun uomo come suo proprio» (Humani Generis, 1950, n. 38: D-S 3897). 

Ecco il Vaticano II: «Tutti, infatti, creati ad immagine di Dio, "che da un solo uomo ha prodotto l'intero genere umano affinché popolasse tutta la terra" (At 17, 26)» (CM 24: deh. 1393); «Adamo, infatti, il primo uomo» (ivi 22: deh. 1385; cfr. 1360); «tutti gli uomini,... hanno la stessa natura e la medesima origine» (ivi 29: deh. 1409); «tutti i giusti a partire da Adamo, "dal giusto Abele fino all'ultimo eletto", saranno riuniti presso il Padre nella Chiesa universale» (C 2: deh. 285). 

Ecco Paolo VI, parlando a un qualificatissimo gruppo di teologi e di esegeti, che si apprestavano a tenere a Roma un convegno, proprio per «fare il punto, come si suol dire, sullo stato attuale dell'esegesi e della teologia cattolica a riguardo del peccato originale, con speciale riferimento ai risultati delle scienze naturali moderne, quali l'antropologia e la paleontologia» (precisamente il nostro argomento): «Vi sono... dei limiti, che l'esegeta, il teologo, lo scienziato, che vogliono veramente salvaguardare ed illuminare la propria fede e quella degli altri cattolici, non possono e non debbono imprudentemente oltrepassare... E' evidente, perciò, che vi sembreranno inconciliabili con la genuina dottrina cattolica le spiegazioni che del peccato originale danno alcuni moderni, i quali, partendo dal presupposto, che non è stato dimostrato, del poligenismo, negano, più o meno chiaramente, che il peccato, donde è derivata tanta colluvie di mali nell'umanità, sia stato anzitutto la disobbedienza di Adamo "primo uomo", figura di quello futuro (Conc. Vat. II, Const. Gaudium et spes, n. 22; cfr. anche n. 13) commessa all'inizio della storia» (Oss. Rom. 16 luglio 1966). Sarebbe sleale insistere, come qualcuno fa, sulla moderazione di queste espressioni. Esse erano ovviamente suggerite da sì qualificata assemblea e dal fine tatto del S. Padre, il cui pensiero tuttavia è chiaramente espresso. 

Tale pensiero è stato solennemente ribadito da Paolo VI nella Professione di Fede del 30 giugno 1968: «Noi crediamo che in Adamo tutti hanno peccato. Il che significa che la colpa originale da lui commessa ha fatto cadere la natura umana... [dallo] stato in cui si trovava all'inizio dei nostri progenitori... in cui l'uomo non conosceva né il male né la morte... Noi dunque professiamo, col Concilio di Trento, che il peccato originale viene trasmesso... «non per imitazione, ma per propagazione». 
 
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IL POLIGENISMO DI K. RAHNER S. J

Forzare analiticamente qualche lato soltanto dei problemi non è acutezza, ma unilateralità e superficialità disgregatrici della solida indagine teologica. 

Sentiamo K. Rahner, sulla problematica del poligenismo, particolarmente sintomatica di tutta una metodologia analitica, in Concilium 6, 1967. 

«Se si determina nella maniera giusta il genere letterario di Gen. 1-3... l'Antico Testamento non contiene affermazione alcuna sul monogenismo» (74). - E' una petizione di principio. Si assume come «giusto genere letterario» quello che si concilia con il preconcetto evoluzionismo e poligenismo. Tale «giusto genere» invece deve essere determinato tenendo ben presente il Magistero, secondo il quale «gli undici primi capitoli del Genesi... appartengono al genere storico in un vero senso... [riferendo] con parlare semplice e metaforico... sia le principali verità... per la nostra salvezza, sia anche una narrazione popolare della origine del genere umano e del popolo eletto» (Hum. G., 39: D-S 3898) (9). E tra tali «principali verità» il Magistero ha ripetutamente ribadita - come si è visto nell'ultimo punto del paragrafo precedente - quella strettamente collegata col peccato originale, ossia il monogenismo

«Quando Paolo... usa l'espressione dell'unico primo uomo Adamo [bisogna vedere se non ripeta]... la formulazione dell'Antico Testamento [senza offrire quindi] per sé nessuna dottrina inequivocabile sul monogenismo» (75). - Invece: sia la natura di approfondimento teologico dei testi paolini, sia la Tradizione, sia il Magistero, non possono lasciare dubbio prudente sul valore chiarificatore dei testi paolini, a conferma della affermazione monogenista dell'Antico Testamento.

Come avrebbe potuto esprimersi S. Paolo - secondo il R. - per indicare che intendeva positivamente confermare, con l'infallibile autorità della divina ispirazione, il senso letterale della formulazione dell'Antico Testamento? 

«Il concilio di Trento... [presuppone] un solo Adamo fisico... ma parlando del peccato originale, ripete semplicemente le formulazioni della Scrittura e della Tradizione e non ha voluto dare alcuna definizione del monogenismo... Non si può parlare di un dogma formale sul monogenismo a partire dal Concilio di Trento... Anche per quanto riguarda il magistero ordinario». - Quanto al «dogma formale» del Concilio bisognerebbe distinguere l'implicito dall'esplicito. Inoltre, come può essere negata, in proposito, resistenza del «Magistero ordinario»?

Comunque, oltre al dogma, c'è la dottrina teologicamente sicura, la noncuranza della quale impedisce di «sentire con la Chiesa» e disgrega la mentalità teologica e il senso dell'ortodossia, snervandoli con un problematicismo di timbro razionalista. E non si tratta di un «sentire con la Chiesa» libero, ma obbligatorio in coscienza, come è detto, per es., esplicitamente, per gli insegnamenti non definitori delle Encicliche, nella Hum. G. (19, 20).

Tornando alla definizione del Tridentino, è perfettamente vero che l'intenzione definitoria esplicita riguarda il peccato originale e non il monogenismo; ma riguarda essenzialmente oltre il fatto anche il modo, gli effetti, la trasmissione, per i quali l'affermazione monogenistica costituisce un fattore essenziale e inseparabile dall'affermazione della caduta. Il Concilio quindi, assumendo interamente la sostanziale narrazione del Genesi, ne fornisce l'ispirata interpretazione

Il R. riconoscerebbe come «dottrina implicita» tridentina il monogenismo, solo se questo risultasse indispensabile per salvare la dottrina tridentina «sul peccato originale». - Basta invece che sia indispensabile per salvare il modo di trasmissione, definito dal Concilio. E lo è perché il monogenismo si inserisce essenzialmente in tale modo.

In tutto il resto dell'articolo il R. prosegue aprioristicamente a ritenersi vincolato solo quanto al fatto e non quanto al modo, trascurando il tenore ovvio delle affermazioni tridentine e tutti gli altri insegnamenti del Magistero - ultimamente confermati dallaProfessione di Fede di Paolo VI (30 giugno 1968) - relativi non solo al fatto, ma anche almodo.

Anzi, preoccupato solo della dogmaticità - del fatto, invita il Magistero a non «intromettersi nella discussione sul poligenismo» (87; cfr. 77). Egli sapeva però che già il Magistero si era ripetutamente intromesso. E' quindi un implicito rimprovero che fa al Magistero. Siamo davanti a una specie di capovolgimento delle parti: non è il «Magistero, che nella Chiesa rappresenta la persona di Gesù Cristo Maestro» (Paolo VI al Convegno dei teologi, ottobre 1966), a guidare i teologi, ma viceversa. 

Per prendere lo slancio verso la libertà di affermare anche il poligenismo, R. così presenta la dottrina della Hum. G. (37) sull'evoluzionismo: «La Chiesa... considera libera la teoria dell'evoluzione antropologica» (78); e R. dà il giusto riferimento: D-S 3896. - Ma il vero testo esprime invece tutt'altro che pura libertà, limitandosi a dire che la Chiesa «non prohibet» che il problema «de humani corporis origine... pertractetur», pronti sempre a rimettersi «Ecclesiae iudicio», non essendo il problema estraneo «divinae revelationis fontibus» ed esigendo quindi «maximam moderationem et cautelam».

Dopo tale inesatta premessa il R. passa non a imparare, ma ad insegnare come la Chiesa debba coerentemente contenersi su tale argomento: «la teologia rifletta seriamente se la Chiesa [concessa tale presunta libertà per l'evoluzionismo]... possa... condannarelogicamente il poligenismo». Ma R. si guarda dal citare il n. successivo della Hum. G., in cui il poligenismo viene escluso. Il R. inoltre conosce bene gli altri numerosi interventi del Magistero contro di esso. Sarebbe stato dunque un Magistero illogico

Dall'evoluzionismo infatti, secondo il R. verrebbe necessariamente il poligenismo, a cominciare fatalmente dalla prima coppia, in cui già sono due: «ogni altra soluzione sarebbe solo un compromesso pigro e inaccettabile» (78). Direi che la «pigrizia» è piuttosto di chi non vuole adeguatamente distinguere. Il monogenismo scientifico si è sempre riferito a «una coppia» (e non a un solo individuo); esso ha trovato validissime conferme nell'antropologia comparata, e non è esatto dire che «la maggioranza schiacciante degli scienziati» è poligenista (ivi 77). 

Il monogenismo filosofico, anche quando ammette l'evoluzionismo, reclama, alla soglia dell'intelligenza, l'intervento estrinseco del Creatore, per la creazione e infusione dell'anima spirituale, intervento che, convenientemente, può ammettersi compiuto su una sola coppia. Il monogenismo teologico aggiunge il dato della rivelazione e perfeziona l'origine monogenica con la speciale derivazione della donna dall'uomo, derivazione che, nel quadro dell'intervento ormai necessario e diretto del Creatore, non crea logicamente alcuna difficoltà.

Non ho lo spazio per seguire il grande teologo negli ulteriori tentativi per giustificare una solidarietà umana anche nell'ipotesi poligenista e per inquadrarvi il peccato originale. Tutto comunque è minato dalla errata premessa di risolvere il mistero della caduta originale, che è un dramma inserito nell'economia soprannaturale, staccandosi dagli essenziali dati scritturali, dalla tradizione, dal magistero, ossia dalla rivelazione. 
 
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04/04/2015 15:27
 
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A guidare l’evoluzione non è il caso
ma «precisi percorsi interni»

Diversi altri evoluzionisti, da diverso tempo, stanno riconoscendo una direzionalità internaall’evoluzione biologica, mettendo da parte quella casualità estrema assunta a divinità da certi polemisti antiteisti. Ad esempio, lo zoologo dell’Università di Pisa Ludovico Galleni, ha parlato del «chiaro segno della presenza di vincoli interni, morfologici e/o genetici che, una volta raggiunta una soluzione morfologica, condizionano i passi successivi, ben al di là del gioco sconnesso mutazione-selezione» (L. Galleni in “Complessità, evoluzione, uomo”, Jaca Book 2011, pag. 162).

Insomma, a guidare l’evoluzione (anche umana) non è soltanto casualità ma, sopratutto, una misteriosa direzionalità. La celebre rivista “New Scientist” si è occupata di questo nell’ultimo numero -ripreso anche sui media- raccontando come «il caso domina il nostro mondo» e come, in ultima analisi, esso appaia sempre meno casuale. Lo ha fatto dando la parola a Andreas Wagner, biologo dell’Università di Zurigo e del Santa Fe Institute che da dieci anni studia le mutazioni casuali dell’evoluzione ed è giusto a questa conclusione nel suo libro “Arrival of the Fittest: Solving Evolution’s? Greatest Puzzle” (Current 2015): più che di «sopravvivenza del più adatto» bisognerebbe parlare di «arrivo del più adatto». Un arrivo non derivato dal frutto della casualità su un numero enorme di tentativi, ma da precisi «percorsi» attraverso i quali l’evoluzione trova l’innovazione in modo più efficiente e sempre più lontano dalla casualità.

Ritornano alla mente le parole del celebre biologo e genetista statunitense Richard Lewontin, quando ha spiegato che «il segreto, ancora largamente misterioso dell’evoluzione, risiede senz’altro in proprietà interne, nell’organizzazione dei sistemi genetici, non nella selezione naturale». Il principale argomento della propaganda scientista, questo vorremmo far notare, è dunque semplicemente una vecchia ed errata credenza. «La selezione naturale è l’orologiaio cieco, cieco perché non vede dinanzi a sé, non pianifica conseguenze, non ha in vista alcun fine», scriveva Richard Dawkins nel 1996. Erano affermazioni anacronistiche già allora, figuriamoci oggi.

Ma anche se avesse avuto ragione Dawkins, se l’evoluzione biologica non fosse teleologica, dove sarebbe il problema? Non ci sarebbe, come ha spiegato il filosofo tedesco Robert Spaemann, della Ludwig-Maximilians-Universität di Monaco: «non è necessario che il processo evolutivo venga inteso come processo teleologico, vale a dire che in esso il generatore del nuovo non sia il caso. Ciò che è il caso visto dal punto di vista della scienza naturale, può essere intenzione divina tanto quanto ciò che è riconoscibile per noi come processo orientato verso un fine. Dio agisce tanto attraverso il caso quanto attraverso leggi naturali» (R. Spaemann, “Dio oggi. Con Lui o senza lui cambia tutto”, Cantagalli 2010, p.75).


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01/08/2015 17:25
 
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Una via che conduce a Dio

Le scoperte scientifiche confermano che l'universo è opera di un Creatore intelligente.
Con buona pace del caso: che non ha logica e manca di buon senso.


di EUGENIO CORTI

Secondo il filosofo Gianni Vattimo la scienza sarebbe nel nostro tempo il luogo in cui risulta più evidente il naufragio del pensiero metafisico, tanto che proprio essa darebbe oggi senso e compimento al programma nietzscheano della morte di Dio.

L' affermazione mi sorprende, anche se da tre secoli ormai in pratica dal tempo delle prime scoperte astronomiche moderne sentiamo parlare d'incompatibilità tra scienza e fede. Nella Bibbia tali scoperte non sono contemplate, e ciò inficiava, a giudizio di più d'uno, l' intero testo sacro, anzi inficiava la stessa esistenza di Dio, almeno del Dio della Bibbia.

Purtroppo tale discorso ha turbato in passato la fede di diversi credenti, i quali convenivano che in effetti la Bibbia avrebbe dovuto tener conto delle scoperte fatte dalla scienza nei secoli successivi alla sua stesura, in particolare nel Milleseicento e nel Millesettecento. Ma ci chiediamo noi perchè non anche delle scoperte fatte nel nostro secolo allora (il big bang, le galassie, le macrocelle, le nane bianche, le supernove, i "buchi neri" al cui margine il tempo si arresta, nonchè i quasar, i neutrini, i muoni, i pulsar, gli spin, e tante altre ancora)?
E perchè la Bibbia non avrebbe dovuto tener conto, anche delle scoperte che verranno fatte nei secoli e millenni a venire, finchè l'uomo abiterà la terra? In questo caso però le parole del sacro testo non sarebbero state comprese dai lettori cui erano rivolte: sia da quelli contemporanei alla sua stesura, sia da quelli venuti dopo mille, o duemila anni, e neanche da noi: per millenni tali parole avrebbero semplicemente costituito una cabala incomprensibile.

Oggi sappiamo che l'universo al suo inizio, cioè al momento del big bang (da 10 a 20 miliardi di anni fa) era composto di materia oscura ultracompressa, che mentre si espandeva divenne luminosissima. Fu quella la prima luce, e raggiunse un tale intensità, quale non si sarebbe più avuta in seguito. Quanto al nostro sole, sappiamo che - essendo una stella di seconda o terza generazione, si è formato diversi miliardi di anni più tardi.

Affascinante oltre ogni immaginazione è in realtà la storia dell'universo che la scienza ci propone oggi. Gli scienziati com'è giusto hanno effettuato il loro lavoro di ricerca senza farsi condizionare dal presupposto dell'esistenza o no di Dio. Ed ecco: nei credenti di oggi, incluso l'estensore delle presenti note, l'impressione è che il procedere scientifico (forse perchè consiste in continue individuazioni di frammenti della verità) riporti di continuo a Dio. Certo - come i cristiani sanno - le cose sono organizzate in modo che l'uomo non sia costretto, quasi obbligato fisicamente, a dichiarare che crede (la libertà, infatti che nella sua fase più alta è libertà di aderire a Dio, o di respingerlo fa parte costitutiva della natura umana: senza tale libertà l'uomo sarebbe snaturato).
Comunque oggi non meno di un tempo, mano a mano scopre nuovi aspetti della realtà che lo circonda, l'uomo si trova puntualmente davanti all'evidenza di un'azione pregressa di Dio creatore. La vita è comparsa sulla terra circa 3,7 miliardi di anni fa; per tre miliardi di anni dopo la sua comparsa gli unici esseri viventi sul nostro pianeta sono stati i batteri e le alghe azzurre.

Come si è formata la vita? Per creazione diretta di Dio, oppure per una "legge" che Dio aveva iscritta nel cuore della materia fin dal momento in cui l'aveva creata? La Bibbia, mentre è chiara ed esplicita in merito alla creazione diretta ad opera di Dio tanto della materia, che dell'anima dell'uomo (rispettivamente all'inizio e al termine del suo processo creativo), circa la comparsa della vita non è altrettanto univoca. Riporta infatti alcuni comandi del Creatore: "La terra produca esseri viventi... Le acque brulichino di esseri viventi...", ecc., ma dice anche: "Dio creò i grandi mostri marini..." ecc. Tuttavia, che la comparsa della vita non sia stata lasciata unicamente al caso ci sembra risulti evidente da diverse constatazioni scientifiche. Per esempio da quanto scrive Grichka Bogdanov: "Una cellula vivente è composta di una ventina di aminoacidi che formano una 'catena' compatta. La funzione di questi aminoacidi dipende a sua volta da circa duemila enzimi specifici... I biologi giungono a calcolare che la probabilità che un migliaio di enzimi differenti si raggruppi per caso in modo ordinato fino a formare una cellula vivente (nel corso di una evoluzione di diversi miliardi di anni) è dell'ordine di 1 seguito mille zeri contro 1".

Bogdanov ci mette anche davanti al tempo necessario perchè si verifichi uno solo dei diversi passaggi necessari per arrivare alla prima cellula vivente: "Affinchè la formazione dei nucleotidi porti 'per caso' all'elaborazione di una molecola di RNA (acido ribonucleico) utilizzabile, sarebbe stato necessario che la natura moltipllcasse i tentativi a caso per un tempo di almeno anni 1 seguito da 15 zeri (cioè un milione di miliardi di anni), il che è un tempo centomila volte più esteso dell'età complessiva del nostro universo" (Grichka Bogdanov, Igor Bogdanov, Jean Guitton, Dio e la scienza, Bompiani, Milano 1992, p. 44). Non meno illuminante è quanto ha detto il prof. Bucci del campus biomedico universitario di Roma, nel corso di un congresso internazionale avente per tema "La probabilità nelle scienze": "Supponiamo che io vada in una grotta preistorica, e vi trovi incisa, su una parete, una scritta, per esempio: 'Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, che la dritta via era smarrita', e che io dica ai miei colleghi: in quella grotta, a causa dell'erosione dell'acqua, della solidificazione dei carbonati e dell'azione del vento, si è prodotta, per caso, la prima frase della Divina Commedia. Non mi prenderebbero per matto? Eppure non avrebbero nulla da ridire se dicessi loro che si è formata per caso la prima cellula vivente, che ha un contenuto d'informazioni equivalente a 5000 volte l'intera Divina Commedia".

Nonostante constatazioni come queste, c'è chi non vuol riconoscere che a monte di ogni cosa ci sia un'Intelligenza e un'azione creatrice, e propone che il tutto provenga dal caso. Francamente non possiamo dire che sia una proposta costruita sulla logica, nè sul buon senso.

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Obiettivamente è difficile accettare che questo nostro stupefacente ordine cosmico, capace di ospitare e dar forma alla straordinaria complessità della vita e dell'intelligenza, sia frutto di un fortunato lancio dei famosi dadi di Einstein. Anzi, a ben vedere, la similitudine del gioco dei dadi appare perfino sottodimensionata rispetto all'altissima improbabilità che si verifichino spontaneamente tutte le coincidenze indispensabili per la formazione dell'attuale universo. Come dice Trinh Xuan Thuan: «Si potrebbe paragonare la precisione di questa regolazione all'abilità di un arciere che riuscisse a ficcare la sua freccia al centro di un bersaglio di un centimetro quadrato da una distanza di 15 miliardi di anni-luce, l'età del cosmo»". (Roberto Timossi, Dio e la scienza moderna. Il dilemma della prima mossa, Mondadori, Milano 1999, p. 328).

Bibliografia

Eugenio Corti - Giancarlo Cavallari, Scienza e Fede, Mimep-Docete, Pessano (MI) 1995.

Jean Guitton - Grichka Bogdanov - Igor Bogdanov, Dio e la scienza, Bompiani, Milano 1991.

Antonino Zichichi, Perchè io credo in Colui che ha fatto il mondo. Tra Fede e Scienza, II Saggiatore, Milano 1999.

Rene Laurentin, Dio esiste: ecco le prove. Le scienze erano contro. Ora conducono a Lui, Piemme, Casale Mon.to (AL) 1997.

Roberto Timossi, Dio e la scienza moderna. Il dilemma della prima mossa, Mondadori, Milano 1999.

Stanley L. Jaki, Dio e i cosmologi, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1991.
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25/01/2017 22:43
 
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Evoluzionisti e cattolici?
Si può e si deve, secondo il prof. Fiorenzo Facchini

Libri di Fiorenzo FacchiniSi può essere evoluzionisti e credenti? Una domanda così superficiale è ancora presente nel dibattito pubblico anche a causa di gruppi atei, da una parte, e del movimento creazionista dall’altra, i quali rispondono all’unisono di “no”.

Eppure un cattolico non dovrebbe avere più dubbi nel rispondere, già nel lontano 1969 il teologo Joseph Ratzinger concludeva una sua famosa trattazione sul tema scrivendo: «La teoria dell’evoluzione non annulla la fede, e nemmeno la conferma. Ma la sfida a comprendere meglio se stessa e ad aiutare in questo modo l’uomo a capire sé e a diventare sempre più quello che deve essere: l’essere che può dire tu a Dio per l’eternità» (J. Ratzinger, Wer ist das eigentlich – Gott?, 1969).

D’altra parte, sono tanti i cattolici (e i credenti, in generale) che hanno fatto dello studio dell’evoluzione biologica il loro oggetto di ricerca professionale, dagli americani Kenneth R. Miller, Martin A. Nowak e Joan Roughgarden, ai premi Nobel cristiani Peter Agre e Werner Arber, quest’ultimo attuale presidente della Pontifica Accademia delle Scienze.

In Italia uno tra i più noti cattolici che si occupano dell’evoluzione è il prof. Fiorenzo Facchini, sacerdote bolognese, professore emerito di Antropologia all’Università di Bologna, autore di circa 400 pubblicazioni su riviste nazionali e internazionali e membro di importanti società scientifiche (tra cui l’Istituto Italiano di Antropologia e la New York Academy of Sciences). E’ anche conosciuto al grande pubblico per i suoi libri divulgativi sul rapporto tra evoluzione e fede (consigliamo in particolare Le sfide dell’evoluzione. In armonia tra scienza e fede, Jaca Book 2008, Evoluzione. Cinque questioni nell’attuale dibattito, Jaca Book 2012).

Recentemente è stato oggetto di critica su un sito web cattolico di stampo sedevacantista-creazionista, dove si è sostenuto che la sua posizione sarebbe complice del tentativo di chi usa l’evoluzione della specie per «uccidere Dio», per questo «cercare di mettere assieme una visione evoluzionista con una in cui vi è l’esigenza di Dio è un errore sia a livello scientifico sia a livello di credente».

 

Non essendo d’accordo con questa obiezione, abbiamo voluto dare l’opportunità a mons. Facchini di replicare: ecco la nostra intervista.

Prof. Facchini, il tema evolutivo rimane al centro del dibattito tra scienza e fede: da un lato gli “anti-teisti” e dall’altro i creazionisti e gli esponenti del Progetto Intelligente. Ci sono posizioni intermedie? Qual è l’errore dei primi e quale quello dei secondi?
Nel dibattito sulla evoluzione le difficoltà e gli equivoci nascono dalla pretesa di escludere altri approcci di conoscenza che non siano quelli della scienza empirica, prima ancora che dalla utilizzazione del concetto di evoluzione in senso antireligioso in contrapposizione a creazione. E’ la posizione dello scientismo. Anche rimanendo sul piano puramente scientifico, l’evoluzione è un fatto su cui è difficile dissentire, ma le modalità con cui si è svolto il processo evolutivo non sono ancora tutte chiarite. Tenendo conto degli sviluppi della biologia evolutiva dello sviluppo e della paleontologia sono tanti i punti ancora oscuri. Ma le oscurità non possono mettere in dubbio il fatto, e cioè che l’universo, le forme viventi hanno avuto una propria storia evolutiva. Non si sono formati dal nulla, quasi per magia.

Qui entra il concetto di creazione, che fa chiaramente difficoltà agli atei, una creazione di realtà che cambiano nel tempo e manifestano un disegno superiore. Ma anche quello di disegno è un concetto filosofico, su cui la scienza non può dire nulla. Argomentare dalla sintonia delle forze e del sistema della natura per un disegno superiore è plausibile, ma siamo in un campo filosofico. Introdurre la causalità divina nel corso della evoluzione per realizzare direttamente strutture complesse (come si afferma nell’Intelligent design) non è corretto. Per un credente è meglio non esprimersi, se non siamo in grado di spiegare tutto, attendere nuovi studi, senza ricorrere a interventi esterni diretti, pur riconoscendo un universo ordinato e ben funzionante, voluto da Dio con proprietà e leggi che stiamo ancora esplorando.

2) Recentemente lei è stato oggetto di una piccola critica da parte di un saggista antievoluzionista cattolico, per il quale è impossibile credere in Dio ed essere evoluzionisti, che è più o meno lo stesso giudizio che hanno Richard Dawkins e i famosi “new atheist”.
Si può credere in Dio ed essere evoluzionisti. Basta ammettere che la realtà dell’universo è stata voluta da Dio. Come? Quando? Sta alla scienza ricercarlo. Ma sul significato di tutto, sul perché delle cose, è la parola di Dio che ci può guidare. Questi non sono problemi affrontabili con i metodi della scienza empirica. Nessuna opposizione tra creazione ed evoluzione. Se in passato vi sono stati contrasti è perché si voleva ricavare dalla scienza quello che essa non può dire o trarre dal testo biblico quello che non vuole dirci. Da Pio XII a Benedetto XVI, a Papa Francesco non ci sono dubbi su questa impostazione.

3) Entrando più nel tecnico, il suo critico sembra ammettere una selezione naturale intraspecie ma si oppone alla macroevoluzione, rigettando però l’origine comune e tutta la spiegazione evoluzionistica. Cosa vorrebbe rispondere, a lui e ai tanti credenti che la pensano in questo modo?
Alcuni ammettono una microevoluzione a livello di popolazioni e non una macroevoluzione. E’ vero. Il modello darwiniano, suffragato dalla genetica delle popolazioni, viene esteso a tutto lo sviluppo della vita. E questo è discutibile. Forse bisogna ammettere meccanismi e modalità diverse per la formazione (e il ripetersi) nel tempo, in linee anche diverse, di nuove strutture. Il paradigma evolutivo in gran parte potrebbe essere lo stesso nel senso che si realizza una congruenza fra le novità evolutive che si formano (ma come? Non solo le variazioni spontanee della specie come intendeva Darwin) e la selezione operata dall’ambiente. Meglio ammettere che vi sono cose che non conosciamo ancora, piuttosto che negare tutto a priori.

4) Nel suo ultimo libro, “Sessualità e genere. Si può scegliere?” ha trattato per la prima volta un nuovo argomento, affrontando dal punto di vista antropologico e biologico la questione del “gender”, un ottimo e documentato strumento per genitori ed educatori. Cosa l’ha portata ad occuparsene e qual è il messaggio che vorrebbe trasmettere?
Alla questione del genere ho dedicato la mia attenzione in questi ultimi tempi perché mi sono sentito interpellato in quanto antropologo. La sessualità in natura non è un optional, è fondamentale nella vita e nella evoluzione della specie. Fa parte della struttura biopsichica dell’uomo. La sessualità nella specie umana diventa relazione simbolica e fonda la società. E’ una mistificazione ideologica negarla o ricondurla a scelte soggettive. Il fatto che socialmente si siano creati stereotipi che portano a discriminazioni fra i sessi va superato. L’omofobia va contrastata, le persone vanno sempre rispettate, ma sarebbe deviante e diseducativo ricondurre la sessualità a un scelta soggettiva di genere o per rispettare varianti individuali negare o mistificare la realtà naturale. Al fondo c’è una ideologia individualista e libertaria che disintegra la famiglia e la società umana.


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29/04/2017 19:57
 
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Se si vogliono vedere, ci sono delle prove che smentiscono l'evoluzione: ci sono dei geni, chiamati geni orfani che esistono solo in una specie e non in un'altra, e questo dimostra che non c'è stato passaggio da un gene ancestrale che si è modificato lentamente attraverso variazioni casuali da una specie ad un'altra. Ci sono geni comparsi improvvisamente, senza precursori. e cosi' è avvenuto per i microrna.


I microrna sono dei piccoli RNA formati da circa 20-24 basi nucleotidiche che si attaccano a grosse macchine molecolari, si uniscono ad altri RNA presenti nei ribosomi, le macchine proteiche di traduzione, regolando cosi' la traduzione delle proteine. E' stato fatto uno studio in varie specie di alghe brune e si è visto che in ciascuna specie i microrna che regolano la traduzione sono completamente differenti da una specie ad un'altra di alghe. Non esiste un solo nucleotide che sia posto in modo eguale nella sequenza del microrna tra una specie e l'altra. In questo caso, come in tantissimi altri casi in biologia vige la legge del tutto o niente; l'evoluzione richiede invece piccoli passi successivi casuali e ci dovrebbero essere traccia di questi passaggi per tracciare la storia della vita. Ma questo, per i microrna, non avviene. Gli evoluzionisti dicono che questi microrna si possono essere evoluti in modo indipendente, ma questo cosa vorrebbe dire? Non vi è nessuna dimostrazione di questo. Spesso si parla di evoluzione come qualcosa di acquisito, pregiudizialmente acquisito, la teoria evoluzionistica è una teoria circolare. Per dimostrare l'evoluzione si invoca l'evoluzione; questo non è scientifico. Per spiegare i microrna 'orfani' è perfettamente inutile ricorrere all'evoluzione, è molto più razionale pensare ad  altri meccanismi, per esempio partendo dalla teoria del disegno intelligente?




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