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Testi ed interventi di Julian Carron (resp. CL)

Ultimo Aggiornamento: 19/01/2019 18:21
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06/04/2013 10:43
 
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16/04/2013 08:13
 
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«Francesco ci indica dove occorre fissare lo sguardo»

di Julián Carrón

16/03/2013 - «Davanti ai fedeli, con le telecamere di tutto il mondo puntate su di sé, il Papa ha mostrato, in atto, qual è il fattore che sta all’origine della Chiesa». L'articolo del Presidente della Fraternità di Cl dedicato a Papa Francesco (16 marzo)

Nel mondo dell’informazione è un luogo comune che una notizia si consumi, che non possa tener desta l’attenzione oltre un certo limite. E già il gesto imponente della rinuncia di Benedetto XVI sembrava aver “consumato” buona parte di quella attenzione, centrata sul cuore del mistero di Cristo e della sua Chiesa. Malgrado ciò, subito dopo aver visto Ratzinger scomparire con un sorriso, l’attenzione dei media si è concentrata su Roma, intorno ai cardinali elettori. È difficile sottrarsi alla domanda di che cosa nasconda la figura del successore di Pietro, tale da generare un’attenzione e un’attrattiva che vanno molto al di là delle “misure” normali degli eventi mediatici.

Durante le quasi due settimane di durata della sede vacante, si sono fatte, esplicitamente o implicitamente, molte ipotesi sulla natura del fenomeno chiamatoChiesa cattolica. Sono stati giorni in cui abbiamo rivissuto la domanda che lo stesso Gesù indirizzò ai suoi discepoli: «Chi dice la gente che io sia?» (Mc 8,27). E gli uomini hanno cercato di rispondere anche oggi, quasi con fretta, come di fronte a un fatto che esigeva una spiegazione. E hanno risposto applicando le categorie consuete delle quali ognuno dispone. Le categorie “politiche” che si sono applicate al Conclave nascondevano un’ultima incapacità di stare davanti a un fenomeno che, ieri come oggi, sorprende. Non basta che queste categorie siano state smentite diverse volte (con Giovanni Paolo II, con Benedetto XVI...) perché si cessi di applicarle: è necessaria una spiegazione esauriente del fenomeno che i nostri occhi vedono. Più propriamente, bisogna che questa spiegazione accada.

Ebbene, la Chiesa cattolica è accaduta davanti ai nostri occhi, nell’intenso dialogo fra papa Francesco e la folla in piazza San Pietro. L’attesa della gente, mentre i cardinali votavano in Conclave, rivelava un popolo fiducioso e nello stesso tempo bisognoso di un pastore, intorno al quale si produce una unità sempre sorprendente in un mondo come il nostro, abituato alla divisione. La fumata bianca ha ceduto il posto a una gioia debordante, che in più d’uno deve aver suscitato la domanda: «Come è possibile che si rallegrino, se non sanno ancora chi è stato eletto?». Con l’ondeggiare delle tende l’attesa cresceva, rivelando il desiderio di conoscere, vedere e ascoltare il pastore, come quasi duemila anni fa Aquila e Priscilla, oriundi di Roma, convertiti da san Paolo a Corinto, volevano conoscere Pietro, l’amico di Gesù, il primo Vescovo di Roma.

Il primo gesto del Papa ha preceduto il suo volto: ha deciso di chiamarsi Francesco, indicando sin dall’inizio dove occorre fissare lo sguardo. Come il poverello di Assisi, il Pontefice dichiara di non avere altra ricchezza che Cristo, e non conosce altro modo di comunicarla che la semplice testimonianza della propria vita. E subito, davanti ai fedeli, con le telecamere di tutto il mondo puntate su di sé, il Papa ha mostrato, in atto, qual è il fattore che sta all’origine della Chiesa: ha invitato la folla a raccogliersi in preghiera davanti a Dio Padre attraverso Gesù Cristo. In quel momento la Chiesa è accaduta davanti a tutti noi. Come il suo predecessore, l’impetuoso Pietro, Francesco ha confessato: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt, 16,16). Come al primo Vescovo di Roma, anche a lui Cristo consegna, davanti al suo gregge, le chiavi della Chiesa.

La fede che si manifesta nel gesto di Francesco, nella richiesta al suo popolo che chieda mendicando per lui la benedizione di Dio, è in modo commovente la stessa che abbiamo colto in Benedetto XVI allorché ricordava al mondo intero che la Chiesa è di Cristo. Lasciando i cardinali, Ratzinger ricordava, citando Guardini, che la Chiesa «non è un’istituzione escogitata e costruita a tavolino…, ma una realtà vivente… Essa vive lungo il corso del tempo, in divenire, come ogni essere vivente, trasformandosi… Eppure nella sua natura rimane sempre la stessa, e il suo cuore è Cristo». Ricordando l’Udienza del giorno precedente in piazza San Pietro, concludeva: questa «è stata la nostra esperienza, ieri, in Piazza: vedere che la Chiesa è un corpo vivo, animato dallo Spirito Santo e vive realmente dalla forza di Dio» (28 febbraio 2013).

Anche noi possiamo dire: «Lo abbiamo visto ieri». E adesso lo diciamo con Pietro, di cui conosciamo il volto, che ci invita, come ognuno dei Papi ha fatto con il suo popolo dell’Urbe e dell’Orbe, a incominciare un cammino insieme.

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27/12/2014 17:20
 
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NATALE 2014                        Quella apparente fragilità che continua a interrogarci



di Julián Carrón*


23/12/2014 - Dalla nascita Gesù «in periferia» all'accoglienza di papa Francesco, il metodo di Dio ci chiede: cerchiamo la salvezza scendendo a patti col potere o nella «debolezza» del Mistero? (Corriere della Sera, 23 dicembre 2014)





Caro Direttore,
papa Francesco non smette mai di stupirci. Parlando all’udienza generale del 17 dicembre, ha detto: «L’incarnazione del Figlio di Dio apre un nuovo inizio nella storia […] in seno a una famiglia, a Nazaret […], in uno sperduto villaggio della periferia dell’Impero romano. Non a Roma, che era la capitale dell’impero, ma in una periferia quasi invisibile. […] Gesù è rimasto in quella periferia per trent’anni. L’evangelista Luca riassume questo periodo così: Gesù “era loro sottomesso” [cioè a Maria e Giuseppe]. E uno potrebbe dire: “Ma questo Dio che viene a salvarci, ha perso trent’anni lì, in quella periferia malfamata?”». Il Signore sempre scombina i piani sfidando il nostro modo di intendere che cosa sia veramente utile per la vita, per la storia e per i processi in corso. Chi di noi avrebbe mai scelto un uomo come Abramo, un semplice pastore, per cambiare il mondo? Chi avrebbe immaginato che sarebbe bastato? 

Malgrado il popolo d’Israele abbia visto in tante occasioni questo modo di fare del Signore - a cominciare da quando Mosè aveva liberato gli ebrei dalla schiavitù degli egiziani -, davanti a una nuova prova, l’esilio, lo scetticismo riaffiora. Geremia si fa eco della diceria del suo tempo: sì, Dio ha fatto uscire gli Israeliti dal paese d’Egitto, ma adesso? Ora?

E proprio in quel momento il profeta lancia una nuova sfida, nella quale si ripete lo stesso metodo di Dio: «Susciterò da Davide un germoglio giusto, che regnerà da vero re […] ed eserciterà il diritto e la giustizia sulla terra» (Ger 23,5). Su quel germoglio poggia tutta la Sua promessa. Infatti «verranno giorni - dice il Signore - nei quali non si dirà più: “Per la vita del Signore che ha fatto uscire gli Israeliti dal paese d’Egitto”, ma piuttosto: “Per la vita del Signore che ha fatto uscire e che ha ricondotto la discendenza della casa di Israele dalla terra del settentrione e da tutte le regioni dove li aveva dispersi; costoro dimoreranno nella propria terra”» (Ger 23,7-8). Il Signore si mostrerà ancora presente facendo ritornare il popolo dall’esilio. 

Dio è testardo nel far vedere al Suo popolo che il metodo dell’inizio è anche quello che consente di incidere su tutti i processi successivi della storia. È così che Lui sfida lo scetticismo del popolo e cerca di sostenerne la speranza. Ma a noi questo sembra troppo poco, troppo debole, troppo inincidente, quasi ridicolo e sproporzionato rispetto alle dimensioni dei problemi con cui ci dobbiamo confrontare ogni giorno. È la ragione per cui spesso anche l’antico popolo d’Israele soccombeva alla tentazione di scendere a patti con il potere - qualsiasi fosse: Egitto o Babilonia, questo è secondario - per cercare qualcosa su cui poggiare la propria sicurezza. 

Dio non cambia strada e, per continuare il suo disegno di cambiamento del mondo, ai tempi dell’Impero romano si affida al Figlio di una vergine, Maria. Senza il suo sì, che insieme a quello di Giuseppe dà credito alla promessa di Dio, non sarebbe accaduto niente. Di conseguenza, in questi giorni non ci sarebbe niente da festeggiare. E invece possiamo fare festa anche quest’anno, avendo davanti ai nostri occhi la portata della scelta di Abramo sulla scena del mondo e la profezia di quel germoglio che si è compiuta in Gesù. E passando di secolo in secolo, Lui è rimasto nella storia e oggi ci raggiunge nella vita della Chiesa, come allora, attraverso un germoglio: papa Francesco, che ci abbraccia costantemente senza avere paura di tutte le nostre fragilità e infedeltà, e senza temere il cammino della nostra libertà, proprio come fa il padre con il figliol prodigo. E rinnova la profezia antica: «Il Verbo, che trovò dimora nel grembo verginale di Maria, nella celebrazione del Natale viene a bussare nuovamente al cuore di ogni cristiano: passa e bussa. […] Quante volte Gesù passa nella nostra vita […] e quante volte non ce ne rendiamo conto, perché siamo tanto presi, immersi nei nostri pensieri, nei nostri affari» (Francesco, Angelus, 21 dicembre 2014). 

È per questo che il Natale ci invita a convertire prima di tutto la modalità di concepire da dove può venire la salvezza, cioè la soluzione dei problemi che la vita quotidiana ci pone. Sfida ciascuno di noi con la grande domanda: da dove ci aspettiamo la salvezza? Dalle alleanze che facciamo l’un l’altro e dai nostri calcoli per sistemare le cose o da questo segno apparentemente impotente, una presenza quasi inosservabile ma reale, testarda, irriducibile, che il Mistero pone davanti ai nostri occhi? Tutto si gioca lì, dal primo momento fino ad ogni passo dello sviluppo di quel disegno: il nostro sì a Colui che ci chiama e che ha fatto tutto ciò che esiste, è l’unica modalità per sperare di incidere sui processi del mondo. 

Come diceva don Giussani all’inizio del Sessantotto: «Veramente siamo nella condizione d’essere […] i primi di quel cambiamento profondo, di quella rivoluzione profonda che non starà mai - dico: mai - in quello che di esteriore, come realtà sociale, pretendiamo avvenga»; infatti, «non sarà mai nella cultura o nella vita della società, se non è prima […] in noi. […] Se non incomincia tra di noi […] una rivoluzione di sé, nel concepire sé […] senza preconcetto, senza mettere in salvo qualche cosa prima».
Buon Natale a tutti.

*Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione

 

 

  • Scarica in PDF Quella apparente fragilità che continua a interrogarci - Julián Carrón, Corriere della Sera, 23 dicembre 2014 (PDF) (1,97 MB)

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