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ARTICOLI DI VITTORIO MESSORI

Ultimo Aggiornamento: 24/10/2018 17:21
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23/02/2013 07:54
 
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Quel mio primo incontro con Ratzinger

 

di Vittorio Messori

Mi chiedono, i colleghi, di raccontare almeno gli inizi di un incontro, che dura da più di 25 anni, con quell’uomo la cui rinuncia al ministero ha commosso un miliardo di cattolici e messo a rumore il mondo intero. E mi raccomandano di non esitare a seguire “una linea personale”. Lo faccio volentieri, ma anche con un poco di malinconia: in effetti, con la fine imprevista del pontificato di Benedetto XVI termina anche (per quel poco che vale) la parte centrale, la più impegnata del mio percorso professionale. Sento un po’ di disagio nel lasciarmi andare all’autobiografismo, ma   non aderisco così solo al desiderio del giornale: a scusarmi c’è pure il fatto che questa piccola storia si intreccia anche con  le vicende del Gruppo che edita questo settimanale.

Capitò infatti che, alla fine dell’ormai lontano 1978 lasciassi sia una città che un quotidiano che amavo (Torino e La Stampa), accettando l’invito dell’indimenticabile   don Zilli di creare il mensile religioso di Famiglia Cristiana, dandogli il nome più impegnativo. Nientemeno che Jesus: alla latina, sia chiaro, non all’inglese come, con mio disappunto, ho poi sentito tante volte pronunciare!… La convocazione a Milano era dovuta al singolare, imprevisto successo del mio primo libro, Ipotesi su Gesù  che  aveva segnalato all’attenzione quello che ero sino ad allora e che non mi dispiaceva affatto: cioè, un semplice, tranquillo redattore dell’inserto culturale del quotidiano di Casa Agnelli.  

La redazione iniziale del nuovo mensile paolino era davvero ridotta all’estremo: un direttore, don Antonio Tarzia (ritornato poi alla guida del periodico, dopo altre esperienze editoriali), il sottoscritto e una giovane e brava  segretaria, Maura Ferrari. Con don Totò, come noi  amici lo abbiamo sempre chiamato, decidemmo che il piatto forte di ogni numero fosse una lunga, approfondita intervista con i maggiori protagonisti del pensiero –sia cristiani, sia di altre religioni, sia agnostici od atei – dal titolo “Dialoghi su Gesù“. Ne nascerà, dopo anni di lavoro, un libro, che è tuttora nel  catalogo degli Oscar Mondadori, Inchiesta sul cristianesimo. Ogni mese, aggiungevo il ritratto di una persona autorevole alla mia collezione ma, a partire da una certa data, cominciai ad accarezzare un sogno: poiché tutto il mio indagare era  attorno alla fede, alla possibilità di credere ancora, perché non interrogare colui che –nella Chiesa cattolica– era il custode, il guardiano della ortodossia? Paolo VI aveva profondamente rinnovato quello che era stato il Sant’Uffizio, attorno al quale si era creata una  tenace leggenda nera. Per succedere alla temuta istituzione, era stata creata una nuova Congregazione, detta “della Dottrina della Fede“. A dirigerla, Giovanni Paolo II aveva poi chiamato l’arcivescovo di Monaco di Baviera, già professore universitario  di teologia, tal Joseph Ratzinger. Di lui avevo letto una Introduzione al cristianesimo che avevo   apprezzato, così come apprezzai le dichiarazioni e i documenti che cominciò a produrre nel suo nuovo servizio romano.

Fui colto, così, da una sorta di pensiero fisso: quel Cardinale bavarese era l’uomo che mi occorreva per completare alla grande la mia serie dei testimoni della fede ! I pochi cui ne accennai mi guardavano con un sorrisetto ironico; qualcuno mi consigliava, un po’ beffardo, un periodo di riposo, essendo evidente che cominciavo a vaneggiare.

Ma, insomma, mi rendevo conto che, malgrado il cambio di nome, quella era pur sempre l’erede diretta del Sant’Uffizio degli inquisitori, la sola Congregazione della Chiesa il cui archivio fosse ancora  rigorosamente sigillato, l’istituzione che del segreto e del silenzio aveva fatto la sua essenza? Sì, mi rendevo conto. Eppure…..Eppure, successe  che la vigilia del Ferragosto del 1984 passeggiassi davanti al portone del grande Seminario di Bressanone attendendo Sua Eminenza Joseph card. Ratzinger che mi aveva dato appuntamento non per un paio d’ore ma per, addirittura, tre giorni.

Il progetto non era una breve intervista per un giornale, ma una conversazione a tutto campo che diventasse un libro: editore, ovviamente, la San Paolo, anche perché (glielo riconosco volentieri e grato) il direttore don Totò era stato tra i pochi che non mi avesse considerato farneticante, anzi si era dato da fare lui pure per raggiungere l’obiettivo che sembrava utopico. Passeggiavo, dunque, nella piazzetta di Brixen- Bressanone, aspettando qualche nera limousine targata SCV. Invece arrivò una Volkswagen targata Regensburg, guidata da un signore dall’aria bonaria (seppi poi che era il fratello) e ne uscì un sacerdote in un modesto clergyman da parroco, con un volto da ragazzo cui faceva da curioso contrasto la corona dei capelli  già tutti bianchi, Ma sì: era “lui“. Tre giorni dopo, sarei uscito  da quel portone con, nella borsa da viaggio, una ventina d’ore di registrazione che avrebbero agitato  la Chiesa intera e che ancor oggi sono ristampate in molte lingue, sotto il titolo di Rapporto sulla fede. 
Iniziava così un incontro che, seppur in modo ovviamente discontinuo, si sarebbe protratto nel tempo, con incontri (fino ad uno piuttosto recente) che mi permisero di approfondire la conoscenza dell’ uomo. Il quale mi parve subito il contrario stesso della “leggenda nera“ creata su di lui. Invece di un temibile Grande Inquisitore trovai una persona tra le più cortesi, miti, addirittura timide che avessi mai conosciuto. Invece di un fanatico ideologo, trovai un uomo pronto ad ascoltare, a capire, a interpretare al meglio il pensiero del suo interlocutore, fermo sull’essenziale ma elastico sull’accessorio. Invece di una prete tetro e arcigno, trovai una persona dotata di un piacevole humour, pronta a sorridere e a replicare, con finezza, alla battuta. Invece di un uomo arroccato nel passato, trovai una persona curiosa e informata non solo dell’andamento degli studi teologici e filosofici ma di ciò che di importante avveniva nel mondo. Invece del cardinale arrampicatosi sino alla porpora, trovai un sacerdote sorpreso di quanto gli era successo, che aveva accettato le alte nomine solo per amore della Chiesa e che parlava con un po’ di rammarico degli studi interrotti, dei progetti editoriali rimandati sine die.

Non era facile, nel clima ecclesiale di allora, far passare questa immagine, la vera,  del presunto erede degli inquisitori, per giunta tedesco e con un passaggio (obbligato, alla pari di ogni suo coetaneo) addirittura nella Hitlerjugend. Forse, soltanto dopo l’elezione al papato la Chiesa e il mondo hanno pian piano scoperto chi fosse davvero   l’autentico Ratzinger. Molti, moltissimi, scoprendolo l’hanno amato. E ora, rispettano la sua scelta ma si rammaricano alla prospettiva  di non vederlo e sentirlo più ripetere -amabilmente, non minacciosamente- le verità che la Chiesa annuncia. 

© Famiglia Cristiana

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25/02/2013 07:52
 
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Il  comunicato della Segreteria di Stato Vaticano, denuncia come i Media sembrino avere preso il posto delle Potenze di un tempo nel cercare di stravolgere o, almeno, di condizionare il Conclave. E che ricorda come in quei Media non ci sia  alcuna consapevolezza del carattere spirituale dell’ evento, tutto essendo filtrato da una gabbia di interpretazioni del tutto profane. E’ una nota che, ovviamente, mi ha rallegrato, visto che conferma autorevolmente quanto cercavo di dire e che  non mi costringe ad alcun ritocco per ammorbidire quanto già avevo scritto. Continuo qui, dunque, con ciò che era  già pronto per la pubblicazione, senza un aggiornamento dell’ultima ora che non pare davvero necessario.    

Dicevo, dunque, che fanno  sorridere opinionisti e sedicenti  esperti di tutto il mondo che in queste settimane, con l’aria di chi la sa  lunga, disegnano sui loro media cordate, denunciano accordi, indicano  strategie più o meno occulte tra gli elettori. L’approccio di simili articoli e comparsate televisive è saccente e ammiccante. Chi scrive o parla,  sembra strizzare l’occhio, per far capire che occorre farsi furbi e che    sarà lui, lui a conoscenza dei retroscena occulti, a rivelare come stanno davvero le cose: tutta questione di potere e di soldi, altro che di religione! Sono, molte di quelle presunte analisi, vaniloqui risibili: secondo un vizio inestirpabile si applicano categorie improprie per interpretare una realtà del tutto diversa. E’ la deformazione ossessiva,  si direbbe maniacale, di chi pretende di interpretare anche la realtà religiosa usando le solite categorie politiche, le noiose e logore (e, in questo caso, del tutto fuorvianti) distinzioni fa destra–sinistra, conservatori–progressisti, passatisti-modernisti, dialoganti-integristi. 

Il risultato è l’incomprensione totale della vita ecclesiale, è l’idiozia deformante offerta come disamina acuta e brillante. <<Ogni ente>>, ammonisce Tommaso d’Aquino riecheggiando Aristotele <<va compreso e interpretato secondo enti della stessa natura>>. Che cosa può comprendere delle intenzioni profonde di uomini di fede, al vertice della Chiesa di Cristo, consapevoli che di fronte a Lui dovranno apparire per essere giudicati; che cosa può comprendere, chi vorrebbe interpretare   questi anziani sacerdoti- spesso dalle biografie eroiche, da perseguitati a causa della fede- come fossero personaggi di una qualunque Montecitorio del mondo  o come membri del consiglio di amministrazione di una qualunque multinazionale? Se usiamo termini forti per questi   artefici  della disinformazine che allignano -oggi come sempre- in tutto il media-system mondiale, è per adeguarci allo stile tagliente usato, una volta tanto, anche dal pur mite e misurato Benedetto XVI . Il quale -nell’ultimo saluto al clero della sua diocesi, Roma– ci ha dato un testo straordinario;  forse anche perché non aveva avuto il tempo e le forze per scriverlo (come ha precisato a quei preti) e, dunque, ha parlato, “a braccio“. Il tema era comunque ben definito e chiaro: il Concilio Vaticano II, dove il giovane  teologo, il professorino Joseph Ratzinger, sessione dopo sessione, si distinse come perito al punto che, anni dopo, Paolo VI lo strappò all’università e lo mise a capo della  più importante comunità cattolica tedesca : Monaco di Baviera. Parlando con  evidente nostalgia di quella splendida esperienza conciliare, Benedetto XVI ha rievocato il fervore, le speranze, l’impegno, la lealtà, il coraggio e insieme la doverosa prudenza della maggiore assise convocata dalla Chiesa nella sua storia. Tutti, in effetti, erano consapevoli di essere chiamati a rinnovare il volto della Chiesa di Cristo per un rilancio della evangelizzazione: non nova sed nove, non cose nuove ma offerte in modi nuovi, sembrava essere il motto di tutti. Un grande lavoro, ma anche una festa gioiosa, alla luce della fede; e di quella soltanto. 

Se <<invece della attesa  primavera, venne un imprevisto e rigido inverno>> (parole di un accasciato Paolo VI tra le rovine degli anni Settanta) gran parte della responsabilità grava sul fatto che, al Concilio della Chiesa, si affiancò e poi si sovrappose il Concilio dei Media. Così la denuncia di Benedetto XVI . Che ha ricordato come alla gente, compreso quella cattolica, non siano arrivati i documenti autentici, ma la loro interpretazione tendenziosa fatta da giornalisti, opinionisti, scrittori, nonché da faziosi specialisti ed esperti clericali. Ingiusto, in effetti, fare il solito vittimismo,come se la deformazione del Concilio sia stata opera di qualche complotto esterno: in realtà (Ratzinger stesso lo ha spesso ricordato) buona parte del guasto, anzi il più pernicioso, fu fatto da uomini di Chiesa. Al mondo intero e allo stesso Popolo di Dio non giunse lo slancio religioso dei Padri, il fervore dell’apostolato, il loro guardare al Vangelo di sempre e di oggi ; bensì, giunse la cupa, angusta, settaria lettura “politica“ . Quelle complesse, sapienti cattedrali teologiche in miniatura che erano, e sono, i documenti autentici del Vaticano II furono costrette nella camicia di forza di un presunto scontro senza esclusione di colpi tra progressisti e conservatori, tra l’oscura reazione in agguato e il luminoso sol dell’avvenir invocato dai gauchistes allora ancora  in tonaca ma, presto, in eskimo.

In questo suo paterno, caldo discorso al clero romano, Papa Ratzinger  non ha esitato ad usare parole di dura condanna (<< fu una calamità, ha creato tante miserie>>) per l’intrusione dei Media, guidati da  chi tutto pretendeva dividere tra “destra“ e “sinistra“, tutto voleva ridurre a una questione di lobby che si affrontavano tra loro per difendere o per conquistare il potere. Benedetto XVI ha anzi narrato, per la prima volta in pubblico, un aneddoto altamente significativo. Egli, come  neo-professore di teologia, era al seguito di Joseph Frings, cardinale arcivescovo di Colonia, presidente della Conferenza Episcopale Tedesca, uomo di grande fedeltà a Roma e al contempo uno dei leader più influenti di coloro che volevano un rinnovamento profondo della Chiesa. Un porporato “di sinistra“, dunque, secondo lo schematismo degli ideologi. Si deve a lui, tra l’altro, la clamorosa  svolta iniziale del Vaticano II, con l’accantonamento dei testi già preparati da Sant’Uffizio e che i Padri avrebbero dovuto, più che discutere, votare per alzata di mano, possibilmente all’unanimità. Ebbene, a Concilio già in corso e già consumata la “rivoluzione“ nei confronti dei progetti della Curia romana, a Frings fu chiesta una conferenza sulle prospettive della grande assise che ora si avventurava in mare aperto, senza più una rotta segnata dalla Nomenklatura vaticana. Ma dove fu invitato a parlare? Nientemeno che a Genova, feudo inattaccabile del grande (quale che sia il giudizio) cardinal Giuseppe Siri, riconosciuto leader di coloro che lo stesso schematismo di cui dicevamo definisce “di destra“. Il cardinale di Colonia – affetto da disturbi alla vista che lo porteranno alla cecità – incaricò il suo esperto, Ratzinger, di scrivere lo schema della conferenza che poi egli stesso avrebbe rivisto. Il presunto “progressista“ Frings  andò dunque nella tana del lupo del presunto “reazionario“ Siri : lesse la conferenza, che il cardinale di Genova non solo non contestò ma della quale fu talmente soddisfatto da passarne il testo, con grandi elogi, all’amicissimo papa Roncalli. Il quale era il primo tra coloro che il “partito tedesco“, di cui il cardinale di Colonia era un leader, aveva sfidato, costringendolo  a cestinare tutto il materiale preparato dalla Curia e da lui  approvato con convinzione. Dunque , quando a Frings giunse una convocazione dal Papa, pensò a un rimbrotto o almeno a un ammonimento, a un invito a un maggior rispetto della linea unanimista prevista e auspicata da Roncalli che voleva un Concilio breve, celebrato nell’entusiasmo, senza troppe discussioni. Invece , Frings trovò il papa che gli veniva  incontro con in mano il testo redatto da Ratzinger, letto da Frings e inviato a Roma da Siri . Giovanni XXIII gli abbracciò e gli disse: <<Lei, cara Eminenza, ha detto le cose che io stesso avrei voluto dire, ma non riuscivo a trovare le parole adatte>> . Aneddoto esemplare, dicevo: in esso, in effetti, esce chiara quale fosse la fraternità , l’amore comune per la Chiesa, la preoccupazione per l’ortodossia della fede tra chi (stando alle letture dei dottrinari) avrebbe fatto parte di due fazioni inconciliabili, in lotta l’una per la reazione, l’altra per il progresso.

E’ una manipolazione che –si badi!– agì sia per chi in tutto il lavoro conciliare e, soprattutto, nella interpretazione che ne diede la Chiesa docente vide un fiancheggiamento  all’odiato capitalismo; sia per chi in tutto sospettò un cavallo di Troia dell’altrettanto odiato comunismo per alcuni, massoneria per altri. Noi, invece, ha ricordato il testimone diretto Ratzinger, <<noi ci muovevamo solo all’interno della fede, cercavamo di interpretare i segni di Dio per il nostro tempo, ciò che interessava a tutti noi era   approfondire il rapporto tra ragione e credere, tra vangelo e mondo ma nella continuità con tutto il passato della Chiesa.>>

Naturalmente le  stesse analisi tanto ingannevoli quanto presuntuose si ripetono ora, prima davanti alla rinuncia al pontificato e poi nell’attesa del conclave. E ne leggeremo e sentiremo ancora molte altre nei  commenti dopo l’elezione del nuovo papa. In realtà, chi dentro la Chiesa vive – e non per stanca appartenenza sociologica ma per il dono vivo,  e   gratuito, della fede – constata la miseria e l’impotenza degli schemi che vorrebbero ridurre a prospettive solo trivialmente umane la complessa e ricca esperienza religiosa. Il credente sa che i cosiddetti schieramenti dei conclavisti, che pur esistono, non si spiegano – se non forse, in alcuni, marginalmente- con le categorie valide per la dialettica politica. Certo, anche quello politico è un aspetto importante dell’umano e la Chiesa e i suoi uomini sbaglierebbero se non lo mettessero in conto. L’errore è tentare di misurare con quel metro una realtà “altra“ come la Chiesa.

Recita il numero 351 del Codice canonico: << Ad essere promossi cardinali vengono scelti liberamente dal Romano Pontefice uomini che siano costituiti almeno nell’ordine del presbiterato (che siano, cioè, già sacerdoti, ndr), distinti in modo eminente per dottrina, costumi, pietà e prudenza>>. Il fatto è che, grazie a Dio, almeno da due secoli, sembra proprio che avvenga proprio così. Si tratta di uomini con, ovviamente,  limiti e carenze ma che, in ogni caso, hanno donato a Dio tutta la loro vita; e che,  ogni volta che lasciano cadere una scheda nell’urna della Sistina,  ad alta voce invocano solennemente la Trinità  perché testimoni come il loro voto sia dato solo secondo coscienza, dopo lunga preghiera e unicamente per il bene della Chiesa. Sono, in maggioranza, uomini di età avanzata, uomini consapevoli che non è lontano il redde rationem nall’aldilà, uomini che  sanno bene che (parola di Vangelo) << molto sarà chiesto a chi molto è stato dato>>. Soprattutto se quel “molto“  è stato dato per essere strumenti in una Chiesa che non loro ma del Cristo, il quale chiederà conto del suo  secondo giustizia. Che può comprendere di questa prospettiva colui che non ne partecipa e magari si fa vanto di questa estraneità, spacciandola per garanzia di oggettività? 

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11/03/2013 13:21
 
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Gli schemi mondani dei media che deformano la Chiesa

 
di Vittorio Messori*
*da Il Corriere della Sera, 24/02/13
 
 

Lo confesso: avevo già scritto un articolo e stavo per inviarlo al giornale, quando è uscito il severo comunicato della Segreteria di Stato che denuncia come i Media sembrino avere preso il posto delle Potenze di un tempo nel cercare di stravolgere o, almeno, di condizionare il Conclave. E che ricorda come in quei Media non ci sia alcuna consapevolezza del carattere spirituale dell’evento, tutto essendo filtrato da una gabbia di interpretazioni del tutto profane.

Fanno sorridere opinionisti e sedicenti esperti di tutto il mondo che in queste settimane, con l’aria di chi la sa lunga, disegnano sui loro media cordate, denunciano accordi, indicano strategie più o meno occulte tra gli elettori. L’approccio di simili articoli e comparsate televisive è saccente e ammiccante. Chi scrive o parla sembra strizzare l’occhio, per far capire che occorre farsi furbi e che sarà lui, lui a conoscenza dei retroscena occulti, a rivelare come stanno davvero le cose: tutta questione di potere e di soldi, altro che di religione! Sono, molte di quelle presunte analisi, vaniloqui risibili: secondo un vizio inestirpabile si applicano categorie improprie per interpretare una realtà del tutto diversa.

È la deformazione ossessiva, si direbbe maniacale, di chi pretende di interpretare anche la realtà religiosa usando le solite categorie politiche, le noiose e logore (e, in questo caso, del tutto fuorvianti) distinzioni fa destra-sinistra, conservatori-progressisti, passatisti-modernisti, dialoganti-integristi. Il risultato è l’incomprensione totale della vita ecclesiale, è l’idiozia deformante offerta come disamina acuta e brillante. «Ogni ente», ammonisce Tommaso d’Aquino riecheggiando Aristotele «va compreso e interpretato secondo enti della stessa natura»Che cosa può comprendere delle intenzioni profonde di uomini di fede, al vertice della Chiesa di Cristo, consapevoli che di fronte a Lui dovranno apparire per essere giudicati; che cosa può comprendere, chi vorrebbe interpretare questi anziani sacerdoti- spesso dalle biografie eroiche, da perseguitati a causa della fede- come fossero personaggi di una qualunque Montecitorio del mondo o come membri del consiglio di amministrazione di una qualunque multinazionale?

Se usiamo termini forti per questi artefici  della disinformazione che allignano -oggi come sempre- in tutto il media-system mondiale, è per adeguarci allo stile tagliente usato, una volta tanto, anche dal pur mite e misurato Benedetto XVI. Il quale -nell’ultimo saluto al clero della sua diocesi, Roma– ci ha dato un testo straordinario;  forse anche perché non aveva avuto il tempo e le forze per scriverlo (come ha precisato a quei preti) e, dunque, ha parlato, “a braccio“. Il tema era comunque ben definito e chiaro: il Concilio Vaticano II, dove il giovane  teologo, il professorino Joseph Ratzinger, sessione dopo sessione, si distinse come perito al punto che, anni dopo, Paolo VI lo strappò all’università e lo mise a capo della  più importante comunità cattolica tedesca: Monaco di Baviera. Parlando con evidente nostalgia di quella splendida esperienza conciliare, Benedetto XVI ha rievocato il fervore, le speranze, l’impegno, la lealtà, il coraggio e insieme la doverosa prudenza della maggiore assise convocata dalla Chiesa nella sua storia. Tutti, in effetti, erano consapevoli di essere chiamati a rinnovare il volto della Chiesa di Cristo per un rilancio della evangelizzazione: non nova sed nove, non cose nuove ma offerte in modi nuovi, sembrava essere il motto di tutti. Un grande lavoro, ma anche una festa gioiosa, alla luce della fede; e di quella soltanto.

Se «invece della attesa  primavera, venne un imprevisto e rigido inverno» (parole di un accasciato Paolo VI tra le rovine degli anni Settanta) gran parte della responsabilità grava sul fatto che, al Concilio della Chiesa, si affiancò e poi si sovrappose il Concilio dei Media. Così la denuncia di Benedetto XVI. Che ha ricordato come alla gente, compreso quella cattolica, non siano arrivati i documenti autentici, ma la loro interpretazione tendenziosafatta da giornalisti, opinionisti, scrittori, nonché da faziosi specialisti ed esperti clericali. Ingiusto, in effetti, fare il solito vittimismo,come se la deformazione del Concilio sia stata opera di qualche complotto esterno: in realtà (Ratzinger stesso lo ha spesso ricordato) buona parte del guasto, anzi il più pernicioso, fu fatto da uomini di Chiesa. Al mondo intero e allo stesso Popolo di Dio non giunse lo slancio religioso dei Padri, il fervore dell’apostolato, il loro guardare al Vangelo di sempre e di oggi ; bensì, giunse la cupa, angusta, settaria lettura “politica“ . Quelle complesse, sapienti cattedrali teologiche in miniatura che erano, e sono, i documenti autentici del Vaticano II furono costrette nella camicia di forza di un presunto scontro senza esclusione di colpi tra progressisti e conservatori, tra l’oscura reazione in agguato e il luminoso sol dell’avvenir invocato dai gauchistes allora ancora  in tonaca ma, presto, in eskimo. In questo suo paterno, caldo discorso al clero romano, Papa Ratzinger  non ha esitato ad usare parole di dura condanna («fu una calamità, ha creato tante miserie») per l’intrusione dei Media, guidati da  chi tutto pretendeva dividere tra “destra“ e “sinistra“, tutto voleva ridurre a una questione di lobby che si affrontavano tra loro per difendere o per conquistare il potere [....].

[....] Naturalmente le  stesse analisi tanto ingannevoli quanto presuntuose si ripetono ora, prima davanti alla rinuncia al pontificato e poi nell’attesa del conclave. E ne leggeremo e sentiremo ancora molte altre nei  commenti dopo l’elezione del nuovo papa. In realtà, chi dentro la Chiesa vive – e non per stanca appartenenza sociologica ma per il dono vivo,  e  gratuito, della fede – constata la miseria e l’impotenza degli schemi che vorrebbero ridurre a prospettive solo trivialmente umane la complessa e ricca esperienza religiosa. Il credente sa che i cosiddetti schieramenti dei conclavisti, che pur esistono, non si spiegano – se non forse, in alcuni, marginalmente- con le categorie valide per la dialettica politica. Certo, anche quello politico è un aspetto importante dell’umano e la Chiesa e i suoi uomini sbaglierebbero se non lo mettessero in conto. L’errore è tentare di misurare con quel metro una realtà “altra“ come la Chiesa.

Recita il numero 351 del Codice canonico: «Ad essere promossi cardinali vengono scelti liberamente dal Romano Pontefice uomini che siano costituiti almeno nell’ordine del presbiterato (che siano, cioè, già sacerdoti, ndr), distinti in modo eminente per dottrina, costumi, pietà e prudenza». Il fatto è che, grazie a Dio, almeno da due secoli, sembra proprio che avvenga proprio così. Si tratta di uomini con, ovviamente,  limiti e carenze ma che, in ogni caso, hanno donato a Dio tutta la loro vita; e che,  ogni volta che lasciano cadere una scheda nell’urna della Sistina,  ad alta voce invocano solennemente la Trinità  perché testimoni come il loro voto sia dato solo secondo coscienza, dopo lunga preghiera e unicamente per il bene della Chiesa. Sono, in maggioranza, uomini di età avanzata, uomini consapevoli che non è lontano il redde rationem nall’aldilà, uomini che  sanno bene che (parola di Vangelo) “molto sarà chiesto a chi molto è stato dato”. Soprattutto se quel “molto“  è stato dato per essere strumenti in una Chiesa che non loro ma del Cristo, il quale chiederà conto del suo  secondo giustizia. Che può comprenderedi questa prospettiva colui che non ne partecipa e magari si fa vanto di questa estraneità, spacciandola per garanzia di oggettività?

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15/03/2013 00:01
 
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Un nuovo Francesco, per riprendersi il "Continente della Speranza"

 

Mi scuso di cominciare con un episodio personale. Ma, come si vedrà, sullo sfondo c’è un problema molto grave che riguarda la Chiesa intera e con il quale, dunque, Francesco I dovrà confrontarsi in modo prioritario. Spero dunque mi sia perdonato l’apparente personalismo.

Nel mese trascorso dalla fatidica ricorrenza di Nostra Signora di Lourdes, l’11 febbraio, innumerevoli colleghi sia italiani che stranieri mi hanno chiesto una previsione sul cardinale che i confratelli avrebbero eletto come successore di Benedetto XVI. Sempre, senza eccezione, mi sono schermito, a nessuno ho risposto, ricordando che a un cristiano non è lecito tentare di rubare il mestiere allo Spirito Santo; e rievocando episodi, vissuti di persona nella redazione dei giornali, in cui le indicazioni dei papabili da parte degli esperti erano state regolarmente smentite. Per questo motivo, pur scusandomi, non ho partecipato a quella sorta di divertissement dei colleghi del Corriere che, sorridendo, hanno indicato ciascuno una loro terna.

Ho fatto una sola eccezione al riserbo che mi era imposto con un collega – che è anche un vecchio amico e col quale ho scritto un libro sulla fede – Michele Brambilla, ora a La Stampa ma formatosi in questo nostro quotidiano e buon conoscitore dei problemi religiosi. Chiedendogli di tenere per sé la cosa, sino a Conclave concluso, gli ho proposto scherzosamente di farmi da notaio e gli ho affidato un nome, uno soltanto: Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires. L’amico collega mi ha telefonato anche ieri, sotto il diluvio di piazza San Pietro dove attendeva la fumata e mi ha ricordato quella previsione, chiedendomi se la confermavo: gli ho detto che mi sembrava di poterlo fare. Michele mi ha ricordato che Bergoglio non era tra coloro che la maggioranza dei colleghi dava come papabile: almeno in questo Conclave, mentre in quello che elesse Joseph Ratzinger pare sia stato colui che ebbe il maggior numero di voti dopo l’eletto. Ma otto anni sono passati, il cardinal Bergoglio ha ormai 76 anni , tutti attendevano un papa nel pieno delle forze. Un limite che qualcuno aveva fissato sotto i 65 anni. Tra l’altro, sarebbe stato il primo gesuita a divenire papa, dignità alla quale la Compagnia non ha mai mirato, secondo la raccomandazione del Fondatore Ignazio. Eppure, insistetti su quella candidatura argentina.

Doti da indovino, confidenze del Paraclito, collegamenti occulti con le Sacre Stanze cardinalizie ? Macché, non facciamola grossa, solo un poco di conoscenza della realtà della Chiesa attuale. Avevo infatti spiegato all’amico: <<In Conclave, dove si conosce la condizione della Chiesa nel mondo intero, si potrebbe decidere per una scelta “geo-politica”, come fu per Karol Wojtyla. Una scelta fortunata: non soltanto si ebbe uno dei migliori pontificati del secolo, ma si gettò nel panico la Nomenklatura dell’Unione Sovietica e di tutto l’Est che prevedeva guai, da un papa polacco. Non sbagliava nello spaventarsi. In effetti, vennero Walesa, Solidarnosh, i cantieri Lenin di Danzica, gli scioperi operai che per la prima volta un regime comunista non osò reprimere nel sangue. Fu quella la crepa che, allargandosi, alla fine fece cadere tutti i muri dell’Impero. Ma nulla sarebbe stato possibile senza un pontefice polacco, e di quale tempra e prestigio!, che sorvegliava e consigliava dal Vaticano>> . Ebbene, continuavo nel ragionamento, oggi una scelta geo-politica potrebbe rivolgersi in due direzioni: chiamare alla cattedra di Pietro il primo cinese nella storia che partecipi a un Conclave, l’arcivescovo di Hong Kong, John Tong Hon. Il panico, stavolta, non sarebbe a Mosca o a Varsavia ma a Pechino, nella capitale della superpotenza del futuro, dove il governo – non potendo estirpare i cattolici, coriacei alle persecuzioni - ha tentato di creare una Chiesa Nazionale, staccata da Roma, nominando persino i vescovi. E i credenti fedeli al papa sono ridotti alla clandestinità. Come continuare a tenerli nelle catacombe o nei lager, con uno dei loro divenuto papa?

Ma la Chiesa non ha mai fretta, giudica secondo i tempi delle “lunghe durate“, come dicono gli storici degli Annales, il turno della Cina verrà probabilmente in un prossimo Conclave allorchè, come capita in tutti i regimi totalitari, il sistema comincerà il declino e sarà indebolito, pronto per il colpo di grazia. E in questo, di Conclave? In questo, pensavo, c’era spazio per un’altra scelta geo-politica e stavolta davvero urgente, anzi urgentissima, anche se in Europa non si conosce la serietà dell’evento. Succede, cioè, che la Chiesa romana sta per perdere quello che considerava il “Continente della Speranza“ , il Continente cattolico per eccellenza nell’immaginario comune, quello grazie al quale lo spagnolo è la lingua più parlata nella Chiesa . Il Sud America, infatti, abbandona il cattolicesimo al ritmo di migliaia di uomini e donne ogni giorno. Ci sono cifre che tormentano gli episcopati di quelle terre: dall’inizio degli Ottanta ad oggi, l’America Latina ha perso quasi un quarto di fedeli. Dove vanno? Entrano nelle comunità, sette, chiesuole degli evangelicals, i pentecostali che, inviati e sostenuti da grandi finanziatori nordamericani, stanno realizzando il vecchio sogno del protestantesimo degli Usa: finirla, anche in quel Continente, con la superstizione “papista“. Occorre dire che i grandi mezzi economici di cui quei missionari dispongono attirano i molti diseredati di quelle terre e li inducono a entrare in comunità dove tutti sono sorretti anche economicamente. Ma c’è pure il fatto che le teologie politiche dei decenni scorsi, predicate da preti e frati divenuti attivisti ideologici, hanno allontanato dal cattolicesimo quelle folle, desiderose di una religiosità viva, colorata, cantata, danzata. Ed è proprio in questa chiave che il pentecostalismo interpreta il cristianesimo ed attira fiumane di transfughi dal cattolicesimo.

Dunque, i Padri del Conclave probabilmente avrebbero valutato l’urgenza di un intervento, secondo un programma proposto e gestito da Roma stessa, insediandovi come papa uno di quel Continente. Ma l’emorragia riguarda soprattutto il Brasile e l’America delle Ande: perché, se papa sudamericano doveva essere, perché un argentino, un arcivescovo di un Paese meno toccato dalla fuga verso le sètte? Probabilmente ha giocato il fatto che il cardinal Bergoglio (a parte l’alta qualità dell’uomo, la preparazione teologica, l’esperienza) è al contempo iberoamericano ed europeo. La sua è una famiglia di immigrati recenti dall’astigiano, l’italiano è la sua seconda lingua materna: poiché per la Chiesa non sono urgenti solo i problemi di oltreatlantico ma anche quelli di un riordino energico della Curia, occorreva un uomo che sapesse fronteggiare certe situazioni vaticane. Insomma, non una predizione, la mia un semplice ragionamento. Ma molti altri ragionamenti saranno necessari, a cominciare dalla scelta del nome, Francesco, inedito nella storia del papato. Ma l’ora è tarda, il tempo stringe. Ci sarà tempo per riprendere il discorso.

 
 
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18/03/2013 14:34
 
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La copertina del nuovo libro,
"LA CHIESA DI FRANCESCO"

Ecco il testo dell'aletta di copertina.

"Una Chiesa in crisi, scossa da scandali, assediata da una "cristianofobia" aggressiva anche in Occidente, ma che in altri continenti si fa sanguinosa. Eppure una Chiesa ancora ricca di carismi ed energie, sofferente ma viva, ferma nel desiderio di continuare la sua marcia nel tempo. È l'eredità che Jorge Mario Bergoglio raccoglie, con l'investitura che lo consacra papa Francesco.

Trova un gregge imponente ma che, percentualmente, non cresce. Trova una caduta
delle vocazioni alla vita religiosa che, soprattutto in Europa, ha spopolato le case canoniche delle parrocchie e i conventi. Trova un mondo che sembra sempre più secolarizzato, ostaggio della nuova ideologia egemone, il "politicamente corretto". E deve fare i conti, in seno alla Chiesa, con le rivalità, i protagonismi, i vizi e la disobbedienza.

Vittorio Messori - cattolico fedele all'ortodossia ma allergico al clericalismo e al trionfalismo - in questa analisi veloce e informata ci ricorda che le ombre ecclesiali convivono con ampi squarci da cui filtra la luce.

Come ci conferma una storia due volte millenaria, la Chiesa può contare su un'energia enigmatica capace di rianimarla anche al fondo delle crisi peggiori: per i credenti, infatti, la sua struttura terrena è affidata a uomini sempre limitati e peccatori, ma la sua essenza è divina. La sfida che attende il nuovo papa è attingere, nella preghiera e nell'azione - sulla scorta dei suoi grandi predecessori - a questa forza per l'impegno più grande: una nuova evangelizzazione".
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07/04/2013 00:17
 
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Fra Vaticano e Quirinale: la sorprendente vitalità della Chiesa

 

Sin dalla prima riunione generale in vista del Conclave, i Cardinali si erano posto un obiettivo inderogabile: dare alla città di Roma un vescovo - e, dunque,  dare un papa alla Chiesa- prima della Pasqua. Non sembrava ammissibile che si fosse ancora in regime di Sede Vacante quando la liturgia raggiunge il suo culmine, e al contempo il suo inizio,celebrando quella risurrezione di Gesù su cui tutta la fede si basa. Obiettivo non solo raggiunto ma largamente superato: stamani il successore di Benedetto XVI dà  la sua benedizione “all’Urbe e all’Orbe“, avendo potuto condurre   con doverosa calma anche tutte le celebrazioni previste per la Settimana Santa. Altrettanto hanno potuto fare i suoi elettori della Sistina, molti dei quali arcivescovi delle maggiori città del mondo, diocesi che non potevano essere disertate dai loro Pastori proprio nel tempo più importante del ciclo liturgico. 
Una tentazione istintiva porterebbe al raffronto con le istituzioni italiane, incapaci di dare un governo al Paese e probabilmente anche di eleggere un Presidente della Repubblica. Un stallo per il quale non si vede una via d’uscita, neppure ripetendo le elezioni che potrebbero ricreare la stessa situazione di blocco insuperabile. Naturalmente, il confronto è improponibile (da un lato l’ultima monarchia davvero assoluta, dall’altro una democrazia parlamentare) ma può almeno servire per comprendere qualcosa in più della Chiesa. Il suo corpo elettorale, infatti, ha esso pure un primato nel globo: è il più ristretto e al contempo il più cosmopolita , venendo i votanti, letteralmente, da tutti e cinque i Continenti. Molti non si conoscono tra loro, si incontrano a Roma,  per la prima volta, nelle riunioni che precedono il Conclave e lì solo hanno modo di vedersi in volto e di confrontarsi. In quegli incontri (sia detto en passant) da tempo la lingua franca non è più il latino ma l’italiano, spesso eccellente poiché  tutti, o quasi, i sacerdoti che nella Chiesa raggiungono posti elevati hanno nei loro curricula lauree o, almeno, specializzazioni negli atenei pontifici romani. Coloro  che collezionano motivi di rancore che il nostro Paese dovrebbe nutrire verso “il Vaticano“, dimenticano che è proprio grazie ad esso se  il mondo  cattolico è il solo in cui l’italiano sia lingua internazionale. Parliamo qui, anche per esperienza personale: ovunque, nel mondo, non solo vescovi ma anche teologi e laici studiosi di questioni cristiane, conoscono e praticano il nostro idioma. Il quale, tra l’altro, deve al Papato anche il suo sviluppo come mezzo col quale i diversi popoli della Penisola potessero intendersi tra loro. In effetti, nell’Italia spezzettata in molti stati, soltanto nella  grande Curia romana lavoravano -a centinaia se non migliaia- funzionari e addetti alla funzioni più diverse, provenienti da ogni angolo tra le Alpi e la Sicilia. E’ anche grazie a loro che il volgare toscano divenne la lingua quotidiana che ancora pratichiamo. Nelle Congregazioni, i “ministeri“ vaticani, si scriveva in latino ma si parlava –unico ambito nella penisola– in una lingua che via via si adattava alla vita concreta, da idioma quasi solo letterario che era. Era ciò che il cattolico Alessandro Manzoni tentava di ricordare al massone Francesco De Sanctis, patriottico inventore dello schema di una letteratura “nazionale“ che ancora seguiamo, ma che sembrò dimenticare il ruolo decisivo della Corte e del Governo papale nella creazione dell’idioma in cui  quella letteratura si esprime .   
Ovviamente, la lingua è essenziale per comprendersi ma, per accordarsi su una persona da eleggere a Capo della Chiesa intera, occorre soprattutto un concordia di intenti che sembrerebbe utopica in una istituzione sparsa sulla terra intera e dove tutte le culture e le situazioni sociali sono rappresentate. Ma è necessario accordarsi, per giunta,  adeguandosi a una legge che esige per l’elezione una maggioranza di ben due terzi dei votanti. Eppure, anche questa volta ciò che sembrava improbabile si è realizzato presto e bene: pochissime votazioni, meno di due giorni di conclave ed ecco la fumata bianca, ecco che la Chiesa aveva il suo nuovo papa, ecco la fila dei Grandi Elettori passare uno ad uno davanti al non più arcivescovo di Buenos Aires per giurargli obbedienza. Ecco, stamane, il già monsignor Bergoglio, ora papa Francesco, rinnovare il lieto annunzio della Risurrezione, a nome di tutta la Chiesa e in tutte le lingue del mondo. La rapidità di questa  elezione (alla pari, peraltro, di quella di molti   conclavi precedenti)  è un buon segno, per il credente: è una conferma che, malgrado ogni crisi, la fede che quegli uomini condividono,   costituisce un legame che opera al di là di ogni umana divisione. Discordi, i cardinali, non solo per origine ma anche, spesso, per prospettive sulla organizzazione della istituzione ecclesiale: eppure, saldamenti uniti sul Credo, base di ogni scelta, e sulla indicazione di chi, tra loro, dia  speranze  ragionevoli e fondate di meglio viverlo e difenderlo.   
Ma ci sono altri pensieri che suscita la prima Pasqua del primo sudamericano divenuto Pontefice con una simile rapidità di elezione. Dalle finestre del  Palazzo Apostolico da cui oggi Francesco dà la sua benedizione, si vede benissimo un altro palazzo, quello del Quirinale, dove  i papi  avevano abitato per secoli e la cui serratura fu scassinata una sera di settembre del 1870 da un paio di  bersaglieri del Genio militare  italiano, su ordine del generale Raffaele Cadorna. Bisognava far presto,  sgombrare tutti quegli altari, sostituire i troppi quadri religiosi, esorcizzare la sacralità: quella doveva divenire la nuova reggia del re d’Italia, Vittorio Emanuele II. Il papato era ormai un fantasma, nessun potenza pur formalmente “cattolica“ si era scomodata per difenderlo, da Porta Pia aveva fatto irruzione, a suon di cannonate, la modernità .  Il  decrepito, anacronistico pontefice avrebbe potuto andarsene in esilio (l’Inghilterra anglicana offriva, un po’ beffarda, ospitalità a Malta per quella reliquia del Medio Evo) ma, anche se fosse restato in Vaticano, non avrebbe disturbato più di tanto: la Chiesa non aveva futuro, nessuna persona colta ed aggiornata poteva più prenderla sul serio. Ma proprio nella Torino dei Savoia un prete, tal  don Giovanni Bosco, scuoteva il capo, ricordando ai suoi giovani una profezia che aveva sentito da qualche parte: <<La dinastia di chi ruba alla Chiesa di Dio, non giunge alla quarta generazione>>. Guarda caso, proprio una sera di un otto di settembre –la   grande festa popolare della Natività di Maria- il terzo rappresentante di quella dinastia che si era installata al Quirinale scardinando il portone,    scappava tra paura e caos, mentre la “Nuova Italia“ si disfaceva e i generali scappavano, travestiti in borghese, lasciando i soldati al loro destino. Nella Roma abbandonata, solo il Papa restava al suo posto e non a caso, nel luglio dell’anno seguente, tutta la città, spontaneamente,  correva  acclamante in piazza San Pietro. Oggi, grazie a Dio, la situazione è ben diversa, ma ancora una volta l’Italia –proprio in quel Quirinale-  è bloccata, incapace di uscire dalla sua crisi , mentre la Chiesa che i nostri avi davano per spacciata è in crisi anch’essa, ma ha reagito con prontezza    all’imprevisto di una inedita “rinuncia“ di un Papa, ha eletto prontamente un successore ed è di nuovo pronta ad affrontare le sfide del futuro.   
Ma sì, ne siamo consapevoli: sembrano pensieri curiosi in un giorno di Pasqua, ma proprio l’istituzione che oggi celebra la Risurrezione del Cristo è quella che ha la più lunga storia alle spalle. In fondo, è naturale che susciti riflessioni del genere in chi della storia è curioso. Quel papa dall’inedito nome di Francesco, che stiamo imparando a conoscere e che benedice stamani il mondo, non è che l’ultimo anello di una catena ininterrotta, destinata ad allungarsi quanto l’intera vicenda umana. 

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16/06/2013 12:06
 
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Che cosa c'insegna l'enciclica a quattro mani

di Vittorio Messori

AI portavoce vaticani avevano cercato di smussare la realtà, avevano parlato di un documento di cui Benedetto XVI aveva abbozzato qualche parte e che Francesco avrebbe ripreso e completato; dicevano di una traccia del papa emerito che il papa regnante avrebbe sviluppato di persona. Invece, sarà proprio <<una enciclica a quattro mani>>: così, testuale, lo schietto annuncio di Bergoglio in un’occasione ufficiale, il discorso alla Segreteria Generale del Sinodo dei vescovi. Dunque, ecco un’altra “prima volta“ del pontefice argentino: un documento dottrinale di primaria importanza, addirittura sulla fede –dunque, sulla base stessa della Chiesa– voluto, pensato e in gran parte scritto da un papa e firmato da un altro. Un altro che ha annunciato nella stessa occasione che non mancherà di dire subito ai destinatari della lettera circolare alla  cristianità (tale il significato di enciclica) di <<avere ricevuto da Benedetto XVI un  grande lavoro  e di averlo condiviso, trovandolo un testo forte >>. 
Certo, ogni papa nei documenti a sua firma ha sempre citato i suoi predecessori: ma in nota, come fonti, non certo come coautori. Anzi, viene subito da pensare –con un po’ di ironia amara– che nel caso della rinuncia di Celestino V al pontificato, il suo successore Bonifacio VIII lo fece incarcerare in un luogo nascosto per paura di uno scisma e poi braccare quando fuggì.  

Ma cerchiamo di capire come si sia  giunti a questa situazione inedita. Preoccupazione primaria di Joseph Ratzinger –come studioso, poi come cardinale e infine come papa– è stata sempre quella di tornare ai fondamenti, di ritrovare le basi del cristianesimo, di riproporre un’apologetica adatta all’uomo contemporaneo. Per questo, aveva progettato una trilogia sulle virtù maggiori, quelle dette “teologali“: così, ecco un’enciclica sulla carità e una sulla speranza. Restava quella sulla fede, che contava di pubblicare entro l’autunno di questo 2013, al termine cioè dell’anno che aveva voluto dedicare proprio alla riscoperta delle ragioni per credere nel Vangelo. Il lavoro era  già avanzato, quando ha dovuto constatare che l’avanzare dell’età non gli permetteva più di portare sulle spalle  il fardello del pontificato. Forse –libero dagli impegni di vescovo di Roma-  le forze gli sarebbero bastate per concludere il testo e pubblicarlo, “declassandolo“ da enciclica pontificia  a opera di semplice studioso, come già ha fatto con i tre volumi dedicati alla storicità di Gesù. Volumi che non hanno valore magisteriale ma che sono aperti al dibattito degli esperti. E’ probabile che si sia consultato al proposito con Francesco ed è altrettanto probabile che sia stato lui ad assumersi ben volentieri il compito di utilizzare il lavoro già compiuto, portandolo a termine e firmandolo con il suo nome.

In qualche ambiente ecclesiale  c’è  sconcerto: l’idea di un documento papale di questa importanza e su un tema tanto decisivo redatto insieme  lascia perplessi molti . A noi invece, per quanto vale, la cosa piace, la novità ci sembra preziosa perché     potrebbe aiutare a ritrovare una prospettiva che anche molti credenti sembrano aver dimenticato. Quella prospettiva di fede , cioè, secondo la quale ciò che importa non è il papa  in quanto persona, dunque con un nome, una storia, una cultura, una nazionalità, un carattere. Ciò che importa è il papato, l’istituzione voluta dal Cristo stesso con un compito: quello di condurre il gregge, da buoni pastori, nelle tempeste della storia, senza deviare dal giusto percorso. Il papa (ovviamente sempre per gli occhi del credente) esiste perché sia  maestro di fede e di morale, ma non dicendo  cose sue, bensì aiutando  a comprendere la volontà  divina, annunciando la vita eterna che attende ciascuno al termine del cammino terreno, vigilando perché non si cada nel precipizio dell’errore. E per questo gli è assicurata l’assistenza dello Spirito Santo che lo preservi dallo smarrire egli stesso la strada. Nel suo insegnamento , il pontefice romano non è “un autore“, di cui apprezzare le qualità: anzi tradirebbe il suo ruolo  se dicesse cose affascinanti e originali ma fuori dalla  linea indicata da Scrittura e Tradizione. A lui non è concesso il “secondo me“, che è invece proprio dell’eresia. 
Semplificando all’estremo, potremmo dire che “un papa vale l’altro“ in quanto alla fine non conta la sua personalità ma la sua docilità e fedeltà come strumento dell’annuncio evangelico. L’aneddotica sui pontefici, sulla loro vita quotidiana, può essere interessante, ma non è influente sulla loro missione. Ciò che importa davvero , lo dicevamo, è il papato come istituzione perenne sino alla Parusia, sino alla fine della storia e al ritorno del Cristo;  istituzione, che per il cattolico non è un peso da sopportare ma un dono di cui essere grato. Ci sia o no, il pontefice del momento, “simpatico“ a viste umane, amiamo o no il suo carattere e il suo stile,  
Joseph Ratzinger e Jorge Bergoglio hanno, come ogni uomo, grandi diversità tra loro ma non possono divergere (e il Cielo veglia proprio perché  questo non avvenga) allorché parlano del Cristo e del suo insegnamento da maestri di fede e di morale. In quanto strumenti – <<semplice e obbediente operaio nella vigna del Signore>> , disse di sé  Benedetto XVI nel suo primo discorso –sono in qualche modo intercambiabili.

Possono approfondire il significato del Vangelo, aiutare a comprenderlo meglio per il loro tempo,  ma sempre nel solco di Scrittura e Tradizione: non è loro lecito essere “creativi“. Non sono “scrittori“ ma guide, guidate a loro volta da un Altro.

Proprio per questo non ci dispiace affatto, anzi ci sembra preziosa l’occasione offerta  ora da una di  quelle che Hegel chiamerebbe “le astuzie della storia“: proprio per  un documento che riannuncia la fede, cioè la base di tutto, un pontefice emerito e uno  regnante mostrano che gli uomini sono diversi ma che la prospettiva di chi è chiamato a condurre la Catholica è eguale, la direzione è la stessa. Ed eguali sono, in fondo,  anche le parole per riproporre la scommessa sulla verità del cristianesimo. Dunque, nessuno scandalo per le “quattro mani“.  

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31/07/2013 20:07
 
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Così vicino alla gente , così difficile da conoscere

di Vittorio Messori

Mentre scrivo, ho sul tavolo il penultimo numero di Time . La sua celebre copertina è interamente occupata da un'immagine di Jorge Bergoglio, sul cui profilo campeggia lo «strillo», per dirla in gergo: The people's Pope , il Papa della gente. Una «svolta epocale», naturalmente, «una novità storica», secondo il settimanale americano, cui si riconosce ovunque una inappellabile autorità. Leggendo l'articolo si ha il sospetto che - per guardare solo al recente passato - un Giovanni Paolo II fosse un cupo misantropo, chiuso nel suo palazzo, interdetto alla mitica «gente».

Peccato, per i giornalisti sempre in cerca di «svolte inedite», che una curiosa classifica abbia stabilito come, nel quarto di secolo del suo pontificato, papa Wojtyla sia stato il personaggio della storia - ma sì, della storia intera - che ha incontrato più persone, nel maggior numero di Paesi nel mondo. Non solo la sua vita ma anche la sua morte, con i funerali mai visti e, poi, con l'oceanica cerimonia di beatificazione, confermarono che attorno a lui non si erano assiepate semplici folle di curiosi. È del Pontefice polacco un altro record: mai un assembramento umano - neppure quello dell'altro giorno sulla spiaggia di Copacabana - mai ha raggiunto i cinque milioni di partecipanti, come avvenne nella messa alla Giornata della Gioventù a Manila. Ma chi ricorda le folle immense di Colonia, Sydney, Madrid sa bene che in quelle Giornate la «gente», in particolare quella giovane, non disdegnò certo di accorrere acclamante anche attorno a quel Benedetto XVI che molti media presentavano come un introverso teologo, un amico dei libri più che dei rapporti umani, un inquisitore e non un capo carismatico.

Continuando a fare, da Papa, ciò che ha sempre fatto e che per lui è «naturale»(per usare un termine che ha impiegato più volte anche con i giornalisti al ritorno da Rio) Francesco, e lo ha fatto capire chiaramente, è il primo ad essere stupito dell'enfasi data dai media a ogni suo gesto. Quanto a lui, per dirla alla romanesca, «ci è» e non «ci fa». Da qualche parte ho già ricordato che, in un talk show televisivo cui partecipavo, si parlò a lungo - traendone insegnamenti edificanti - delle grosse scarpe nere che il nuovo eletto continuava a portare, invece di leggeri ed eleganti mocassini. Suscitai forte irritazione quando mi permisi di ricordare quanto mi aveva rivelato poco prima un vescovo che ben lo conosceva. Bergoglio soffre da molto tempo di problemi alla schiena e proprio nell'intervista in aereo ha detto, con un sorriso agrodolce: «La cosa peggiore che mi è capitata, proprio all'inizio del pontificato, è stata un attacco di sciatica. Dolorosissima, da non augurare a nessuno!». In quel dibattito, dunque, mi permisi di dire (tra il fastidio generale) che quei vistosi scarponi erano in realtà calzature ortopediche, confezionate su misura da un artigiano di Buenos Aires. Precisazione fondata eppure sgradita, per tanti media.

Ma, buon conoscitore della storia della Chiesa come ogni gesuita (non si è accettati nella Compagnia se non dopo avere percorso e superato un lunghissimo cursus studiorum ), pensiamo che papa Francesco sorrida anche della «svolta epocale» che gli è attribuita per la sua decisione di stare il più possibile tra la gente. The people's Pope , per dirla con gli americani. L'isolamento dei Papi nei palazzi vaticani risale a Porta Pia, all'occupazione di quella loro città in cui erano così invisi alla «gente» che quella dei Pontefici non è soltanto la catena dinastica più lunga della storia, ma è anche quella in cui nessuno di quei singolari monarchi è mai morto in un attentato popolare. Per stare agli ultimi tempi prima della breccia di Cadorna, ogni sera Pio IX (alla pari dei suoi predecessori) amava fare, prima di cena, una passeggiata per il centro di Roma. Accompagnato solo dal segretario e talvolta da qualche prelato, senz'ombra di gendarmi, camminava, salutava, si informava dei prezzi, si intratteneva con chi voleva consegnargli una supplica, lanciava battute dialettali, con il suo fare cordiale ed arguto. Per dire il clima di quei giri quotidiani: un giorno vide un ragazzo che piangeva sotto un portone. Interrogatolo, seppe che, mandato dai genitori a comprare del vino, era inciampato, rompendo la bottiglia, e non osava più rientrare a casa. Si vide allora il Papa Re, il vicario di Cristo, il successore di Pietro, entrare dal vinattiere lì accanto, comprare un fiasco del miglior bianco dei Castelli e ordinare al segretario di pagare, non avendo con sé un borsellino, e consegnarlo di persona al giovanetto.
Il caso di Pio IX si iscrive in una lunghissima serie di Pontefici che mai hanno pensato di muoversi tra la loro gente in una carrozza blindata: il rifiuto della papamobile a prova di mitra e bombe è dunque il ritorno alla tradizione di sempre. Anche se, come lo stesso Francesco ha riconosciuto, con qualche rischio in più. Una novità vera è stata, piuttosto, la decisione di restare in albergo e di lasciar vuoto l'alloggio pontificio. Chi ne ha fatto esperienza, ha un ricordo un po' soffocante delle visite in quelle stanze papali del palazzo Vaticano, tra blocchi per il riconoscimento dell'identità, telefonate interne di conferma, guardie svizzere e gendarmeria, successioni di anticamere popolate da personaggi da film in costume. Possiamo ben capire il «problema psichiatrico» di Francesco per la reclusione in simili ambienti e la sua decisione di non lasciare la suite a Santa Marta. Ma, qui pure, egli sa bene come questo sia un retaggio dei tempi in cui la passeggiata serale per Roma, senza alcuna scorta, fu forzosamente interrotta e sostituita dalla chiusura in Vaticano, mentre la città attorno era occupata con le armi. Il Papa fu sempre il più accessibile dei sovrani fino a quando non fu costretto a barricarsi. Con la sua decisione imprevista, Bergoglio ha avuto il merito di mostrare che c'è una questione che occorre esaminare.

Ma il problema vero sta, forse, in un paradosso: assetato di «personaggi», quel media system internazionale che, sino a Paolo VI compreso, sembrò snobbare il papato come cosa anacronistica e opprimente, si è impadronito della figura del Pontefice argentino, rivestendolo di panni spesso non suoi. Una incursione su Internet mostra che si giunge sino all'invenzione pura e semplice di episodi di cui è protagonista e che vogliono mostrarlo ben diverso dai suoi predecessori. Da una parte «umiltà e candore» (parole testuali dalla copertina di Time ), dall'altra l'attaccamento a una tradizione trionfalista e insostenibile. Papa Francesco non fa che ripetere parole di stima, affetto, fedeltà intellettuale ai suoi predecessori, ma l'aneddotica su di lui, vera o spesso falsa, vigoreggia. Chi ne scapita è il suo insegnamento, ridotto troppo spesso (almeno nei titoli) a slogan da omelia sempliciona, a pillole di scontata saggezza da Bertoldo paesano. Il Bergoglio vero non è affatto così. Ma così vuole il personaggio che gli si è ormai costruito attorno e che, almeno sinora, sembra rendere in share televisivo e in tiratura di periodici. 

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09/10/2013 12:11
 
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Le parole di Francesco che turbano i cattolici

di Vittorio Messori

Occupandomi, in libri e giornali, di cose cattoliche sin dai tempi di Paolo VI, succede che non pochi – magari sconcertati o confusi- insistano nel chiedermi opinioni sui primi mesi del nuovo pontificato. Di solito me la cavo con una battuta che parafrasa la   risposta data ai giornalisti, sull’aereo che tornava dal Brasile, proprio da papa Bergoglio: <<Chi sono io per giudicare?>>. Se siamo tenuti a non giudicare alcuno – parola di Vangelo – figurarsi un pontefice, la cui scelta, per i credenti, è fatta dallo Spirito Santo stesso. Certo, ci furono secoli in cui sembrò che gli uomini si fossero sostituiti al Paràclito : conclavi simoniaci o pilotati dalle grandi potenze dell’epoca, con candidature e veti imposti dalla politica. Eppure, chi conosce davvero la storia della Chiesa – condizione che non è dei troppi faciloni e orecchianti – chi sappia cogliere la dinamica della “lunga durata“ distesa su ben venti secoli, finisce col sorprendersi. Scoprendo, cioè, che san Paolo sembra avere davvero ragione quando afferma che omnia cooperantur in bonum, tutto coopera al bene. Anche quello della Chiesa che, per la fede, non è soltanto guidata dal Cristo ma ne è addirittura il “corpo mistico“.

Comunque, se stiamo al nostro tempo, non c’è bisogno di fidarsi, malgrado tutto, di una Provvidenza che talvolta può sembrarci incomprensibile. Non c’è bisogno, perché a tutti è evidente la qualità umana di coloro che si sono avvicendati negli ultimi decenni nel ruolo di pontefici romani. Per stare soltanto alla successione di questo dopoguerra, ecco le figure di Pacelli, Roncalli, Montini, Luciani,Wojtyla, Ratzinger e, ora, Bergoglio. Chi, pur lontano o avverso alla Chiesa, chi potrà negare che si tratta   di personalità di insolito rilievo, unite dalla stessa fede e dalla stesso impegno nel loro ufficio ma  con grandi differenze caratteriali, diverse storie e culture, diversi  stili pastorali ? Ed è proprio questo il punto che a molti, anche cattolici, non sembra essere chiaro: quale che sia, cioè, l’uomo giunto al papato, quali che siano le nostre consonanze o dissonanze umorali nei suoi confronti, resta pur sempre il successore di Pietro, il garante e custode dell’ortodossia. Dunque, un uomo di Dio non solo da accettare, ma per il quale pregare e al quale ubbidire con rispetto e amore filiale.

Cose che dovrebbero essere chiare oggi soprattutto, con questo Vescovo di Roma “giunto quasi dalla fine del mondo“, uomo dalla personalità prorompente, istintivamente impulsiva e magari autoritaria (ammissione sua, nell’intervista allaCiviltà Cattolica) e segnata, malgrado le origini italiane, da un cultura diversa dalla nostra come quella sudamericana. Un papa, per giunta, venuto – per la prima volta in quasi due secoli – non dal clero secolare ma da un ordine religioso contrassegnato da una formazione difforme  da ogni altra, nella Chiesa stessa. Una Compagnia (nome militare di un fondatore venuto dalla vita militare) da cinque secoli amata e detestata , ammirata e temuta. Al punto che, caso unico, finì coll’essere soppressa - “propter bonum Ecclesiae“, dice la bolla -da un papa francescano, per essere poi risuscitata,  appena possibile, da un papa benedettino.

Verità impone di ammettere che, soprattutto dando uno sguardo a molti siti e blog sulla Rete, non mancano i  nostalgici della sobrietà, del rigore dottrinale, della profondità culturale, del rispetto delle tradizioni, dell’attenzione alla liturgia di Benedetto XVI. E nessuno ha dimenticato il quarto di secolo di quello straordinario   ciclone che fu Giovanni Paolo II, di cui già è stata riconosciuta la santità. C’è da capire, i sentimenti sono cosa umanissima. Ma, va ripetuto: ogni confronto tra papi è irrilevante, in una prospettiva cristiana; la sintonia di ogni credente con lui è basata su ben altro che su personali simpatie. La comunità che il successore di Pietro guida e governa ha da sempre e sempre avrà un fine ultimo (e unico) da cui tutto deriva e che è ricordato esplicitamente dal Codice di Diritto Canonico: << Suprema legge della Chiesa è la salvezza delle anime>>. Anche se talvolta sembra che lo si dimentichi, da questo tutto deriva e l’intera istituzione ecclesiale esiste per questo: annunciare la vita eterna promessa dal Vangelo  e aiutare ogni uomo -  con la predicazione e con i sacramenti - a seguire la strada che porta al traguardo della morte, in realtà nascita alla vita vera. Tutto il resto è solo strumento, sempre riformabile e destinato a passare, a cominciare dalla pur indispensabile burocrazia curiale: Dio stesso ha voluto aver bisogno di una istituzione umana, con i suoi organi e le sue leggi. Ogni papa è, ovviamente convinto di questa priorità della salus animarum ma Francesco, si direbbe, con un’urgenza particolare, tanto da fare di tutto perché clero, religiosi , laici tornino essi pure a esserne  consapevoli. Una scelta, questa del pontefice argentino, che sembra dare risultati sorprendenti: per quanto conta, io pure misuro ogni giorno  l’’interesse, anzi la simpatia se non addirittura l’adesione di tanti che pur parevano inamovili nella loro indifferenza se non, persino in un  laicismo polemico e aggressivo . Il ritorno alla successione naturale , eppur spesso dimenticata (prima la fede, la   morale ne verrà come necessaria conseguenza); l’appello alle raisons du coeur prima che alle raisons de la raison, per usare i termini pascaliani; l’uscita dalla gabbia di un credere ridotto a inflessibile norma codificata; le braccia aperte a tutti , ricordando  la misericordia del  Dio di Gesù, il cui mestiere è perdonare e accogliere i figli, senza eccezione,  anche quelli “ prodighi “.Tutto questo sta provocando risultati positivi  che richiamano il  criterio di valutazione indicato dal Vangelo stesso: << Dai frutti conoscerete l’albero>>. Se il raccolto spirituale si annuncia tanto buono, non sarà altrettanto  buona la pianta da cui viene?

Questo ancor vigoroso settantasettenne, con il suo stile da “parroco del mondo“,   vuole  impegnare la Chiesa intera in quella sfida di rievangelizzazione dell’Occidente che fu centrale anche nel programma pastorale dei suoi due ultimi predecessori.

Nessuna frattura, dunque, bensì continuità, pur nella diversità di temperamenti. Questa Chiesa bimillenaria mostra anche così di non avere alcuna intenzione di ridursi a setta rancorosa, non solo minoritaria ma anche marginale. Con Roma e i suoi vescovi, il mondo intero dovrà ancora misurarsi. Così come accade dai tempi dell’Impero romano, quando tutto cominciò.  

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11/11/2013 07:55
 
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La "chiesa delle origini"
e le (indispensabili) strutture

di Vittorio Messori

Alcune delle molte cose dette da papa Francesco e alcune sue scelte inedite -a cominciare dal rifiuto del palazzo vaticano e della villa di Castelgandolfo- stanno risvegliando un mito antico e sempre ricorrente tra i cattolici. Il sogno, cioè, di un    ritorno alla Chiesa primitiva, tutta povertà, fraternità, semplicità, assenza di    strutture gerarchiche, di leggi canoniche. Uno snello, democratico “movimento“, insomma, non una pesante Chiesa, soffocatrice dello Spirito. Si smantelli l’istituzione clericale, basta con il Vaticano, la sua curia, le sue banche, i suoi diplomatici, si torni finalmente alla comunità di Gerusalemme dopo la Pentecoste!

In verità, il mito delle origini è smentito già dagli stessi Atti degli Apostoli: due tra i primissimi convertiti, i coniugi Anania e Saffira, fanno i furbetti sul prezzo del campo che dicono di avere venduto per la comunità e Pietro assiste addirittura alla loro  morte immediata. Le lettere di Paolo sono roventi verso i comportamenti riprovevoli  delle comunità da lui fondate o, in ogni caso, sorte da pochissimo. Chi conosce la storia della Chiesa primitiva sa che è anche una storia di lotte tra correnti, di  mutue accuse di eresia, di scismi, talvolta di violenze interne, di martiri ma pure di disertori  in tal numero che divenne centrale la disputa se e come riammettere nella comunità la folla dei lapsi, quelli che rinnegavano la fede per paura. Sin dall’inizio, secondo l’avvertimento di Gesù stesso, il buon grano si mescolò con l’infestante zizzania.

Ma la nostalgia ricorrente, e che oggi sembra rilanciata, per una Chiesa delle origini     egualitaria, povera, dove la fede sia libera da sovrastrutture –a cominciare dalla Curia vaticana- non va solo contro la testimonianza della storia. Va anche contro una legge implacabile che i sociologi ben conoscono. La legge per la quale le grandi realtà       sociali nascono come “movimenti“, di solito ad opera di una persona carismatica, ma si dissolvono sempre e presto se, raffreddati gli entusiasmi iniziali, non accettano di trasformarsi in istituzioni gerarchiche, in strutture solide e ordinate. Solo queste assicurano la durata e la possibilità di incidere sulla società.

La politica fornisce continue conferme di quanto siano illusori i bollori di chi si scaglia contro la istituzione-partito, bollata come gerarchica, burocratica, dogmatica, costosa. Occorre  liberarsi da capi, tessere, cassieri, disciplina interna! Di quelle  chimere abbiano proprio ora l’esempio vistoso nello show-man passato alla politica, Beppe Grillo. Costui ha predicato, e predica, come novità dirompente (mentre è vecchia e logora come il mondo) la possibilità di opporre ai malefici partiti un “movimento“, nato e guidato dal basso, avendo oggi, tra l’altro, a disposizione la Grande Rete, dove tutti possono illudersi di essere eguali. Grillo, però, è stato subito vittima del peggior infortunio per un tribunus plebis: un successo elettorale inaspettato ed eccessivo. Finché si trattava di appellarsi alle viscere delle folle nelle piazze, tra urla e insulti, sembrava -almeno ai semplici– che il “movimentismo“ fosse la soluzione. Ma si  può essere gratificati dagli  applausi solo quando si è al riparo in una nicchia, quando si grida  no a tutto e si sta ai margini. Quando, non avendo   responsabilità di governo, ci si può permettere di non fare i conti con la realtà. E, invece, allo sfortunato Grillo proprio questo è capitato: una fastidiosa responsabilità,  che ha subito mostrato che il “movimento“ non funziona, non può funzionare e che due sole sono le prospettive. O l’inazione e poi la dissoluzione coll’esodo dei delusi e   coll’anarchia di sètte l’un contro l’altra armata; oppure, rassegnarsi e trasformarsi in uno di quei partiti già coperti di insulti.

Tutte le ideologie politiche che hanno devastato il secolo scorso (comunismo, fascismo, nazionalsocialismo), tutte si presentarono, agli inizi, come “movimenti“, contro la perfida casta partitica. E tutte divennero assai presto partiti unici, crearono regimi oppressivi, totalitari, come mai si era visto. In nome degli entusiasmi “movimentisti“, crearono nomenklature privilegiate e gerarchie intoccabili come mai si erano viste.

Ma allora, per tornare alla Chiesa: nella prospettiva di  fede, nella logica dell’incarnazione, Dio ha voluto avere bisogno degli uomini, ha affidato loro la Parola e i Sacramenti della salvezza perché li annunciassero e li gestissero con  una comunità.

Comunità che –sempre per la dialettica del Deus incarnatus– nella sua struttura visibile, esterna non è esentata dalle dinamiche che reggono ogni altra realtà umana.

Dunque, all’inizio fu il “Movimento del Cristo”, fu il “Gruppo del Nazareno“,     animato direttamente dagli apostoli, tra grandi entusiasmi. Ma, terminato lo “stato nascente“, si passò rapidamente e necessariamente alla istituzione, alla struttura con una comunità gerarchica e, via via, organizzata con leggi interne ed esterne, e con proprietà mobili e immobili. Così come, in politica, il movimento iniziale -se vuol durare e contare- diventa necessariamente partito, qui si passò alla Chiesa come struttura stabile, organizzata, docente con autorità. Non fu, come pretendono gli utopisti, una deviazione, una deformazione, un tradimento del Cristo servo e povero,  fu una evoluzione inevitabile, anzi  doverosa per la realtà umane. E la Chiesa cattolica è una di esse, anche se qui –caso ovviamente unico- la struttura istituzionale non è che un contenitore, esiste solo per servire il Mistero di un Dio che insegna e redime.

Insomma, è una illusione quella dei cristiani che, oggi più che mai numerosi,   auspicano il ritorno alla semplicità degli inizi. Indietro non si può tornare. Dunque, non vi è posto per certa animosità pregiudiziale verso la Curia vaticana, verso coloro che, giorno dopo giorno, gestiscono la struttura ecclesiale . Non ha senso il manicheismo di chi volesse distinguere tra un “Pontefice buono“ e una “Curia cattiva“.  Papa Francesco, gesuita, viene dal più compatto ordine ecclesiale ed è il primo a rifiutare una simile contrapposizione: anzi, ha più volte ringraziato i suoi collaboratori, verso i quali si dice pienamente solidale. Certo, Ecclesia semper reformanda, almeno nella sua struttura umana:  la “macchina vaticana“ va di continuo adattata ai tempi, semplificata nei metodi, migliorata (se possibile) nel suo personale, dal cardinale sino al minutante. Non dimenticando però che, senza la trasformazione in solida   istituzione, del “Movimento di Cristo“ sarebbe rimasto solo un cenno in qualche testo   di storia antica dell’ebraismo.          

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19/01/2014 08:41
 
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Imitatio Christi e non "documentite" per rilanciare la vita religiosa





di Vittorio Messori





Il ciclone Bergoglio si è abbattuto stavolta sui frati, monaci e consacrati in genere che partecipavano alla periodica assemblea della Unione dei Superiori Generali degli Istituti religiosi maschili . Il programma del Convegno prevedeva solo una breve esortazione del papa ma, in realtà, l’incontro è durato tre ore, in un susseguirsi di domande e di lunghe risposte. Offerte, queste, con una tale foga da concedere diritto di cittadinanza – di certo per la prima volta sotto le volte di una sala vaticana- a un termine che qualche dizionario registra ancora facendolo precedere da un cautovolg., “volgare“. In effetti, Francesco ha insistito sul ruolo profetico dei religiosi, avvertendo però, testualmente, che <<la profezia fa rumore, chiasso, qualcuno dicecasino>>.


Papa Francesco era particolarmente a suo agio : è infatti il primo pontefice, dopo 183 anni, a provenire non dal clero secolare ma da quello religioso. Parlava dunque per esperienza personale di conventi, comunità, regole, statuti . Grandezze e miserie, speranze e difficoltà degli “istituti di perfezione“, come vengono chiamati, sono stati per lui vita quotidiana, non astrazioni da biblioteca teologica.


La Civiltà Cattolica, sul cui sito è apparsa ieri la trascrizione dei punti salienti del dialogo, lo ha riassunto con l’esortazione papale: <<Svegliate il mondo!>> . A chi conosce la situazione di molti istituti verrebbe da pensare –con un pizzico di amara ironia– che l’esortazione adeguata potrebbe essere uno <<Svegliate il frate! >>. In effetti, la vita religiosa è stata tra le più colpite dal travaglio postconciliare, anche come fervore di vita. A livello di  numeri, a cominciare proprio dalla Compagnia ignaziana,  è stata severamente falcidiata da uscite di professi e da mancate nuove  entrate di novizi. Provinciale dei Gesuiti per l’Argentina, padre Bergoglio stesso  ha vissuto il dramma – cui ha accennato nell’incontro con i Superiori – dell’abbandono di case e di funzioni per mancanza di personale.


Giusto a proposito di vocazioni mancanti – alludendo agli istituti femminili -  Francesco  ha denunciato quella che i vescovi del Terzo Mondo definiscono “la tratta delle novizie“. Religiose  europee, cioè, che si sono dedicate – in Africa, in Asia, nella stessa America Latina-  alla “caccia“ a  presunte vocazioni, al reclutamento di ragazze da trasformare in suore che riempiano almeno in parte i vuoti tra le loro fila. Un comportamento condannabile che riguarda peraltro anche certi ordini e  congregazioni maschili.


Il problema numerico esiste ed è grave -sia per gli uomini che per le donne- tanto che molti istituti registrano oggi  meno della metà dei membri che contavano alla fine del Vaticano II e i superstiti sono quasi tutti in età avanzata. I grandi collegi costruiti negli anni Cinquanta per accogliere e formare i novizi, se non sono stati  venduti  sono stati trasformati in ricoveri per religiosi e religiose anziani e malati. Le varie famiglie religiose stringono patti per unire i loro invalidi e le loro invalide, non avendo più né personale né mezzi per fare da sole. Molte istituzioni hanno più  case e opere che consacrati in grado di occuparle e gestirle. Sul mercato delle vendite immobiliari di Roma stanno riversandosi le sedi, spesso imponenti e circondate di grandi parchi, di Case generalizie ormai sovradimensionate. Certo, la creatività evangelica continua ad operare e  dal vecchio albero nascono rami nuovi ma ciò non toglie che inesorabili proiezioni statistiche mostrino come (almeno a viste umane) sia inesorabile il declino, sino forse all’estinzione, di Istituti che furono  per secoli abbondanti di frutti.


Tuttavia, fedele al suo stile di ottimismo, pur realistico, papa Francesco non si è soffermato sulla quantità ma sulla qualità dei consacrati . Non ha parlato di crisi numerica,  bensì della formazione spirituale  e della  vita concreta dei religiosi , tanti  o pochi che siano. Ha ricordato che la fede non si propaga per proselitismo ma per testimonianza personale; non tanto per predicazione quanto per attrazione. Ha ribadito che  la vita religiosa ha un aspetto profetico : testimoniare cioè , sin da ora , il Regno futuro che attende ciascun uomo e il mondo intero. Senza   giri di parole ha ricordato -qui pure per esperienza personale– le difficoltà, talvolta la durezza della vita comunitaria, tanto che, stando persino  alla parola dei santi, proprio quel tipo di vita costituisce il primo motivo di penitenza. Ma ha ammonito che << la vita senza conflitti, anche con i fratelli, non è vita >>.


I noviziati, lo dicevamo, sono spesso semivuoti, almeno in Occidente. Ma a  chi ancora presiede a  quegli ambienti ha rivolto parole severe: << La formazione è opera artigianale, non poliziesca. Dobbiamo formare il cuore. Altrimenti formiamo piccoli mostri. E poi questi piccoli mostri formano il popolo di Dio. Questo mi fa venire davvero la pelle d’oca >>. Per aggiungere : << Non dobbiamo formare amministratori o gestori ma padri, fratelli, compagni di cammino per l’uomo concreto >>. Parole durissime, poi, alludendo ai casi di abusi sessuali : << Tutti siamo peccatori ma non tutti siamo corrotti . Nella Chiesa si accettano i peccatori, non i corruttori >>.


Che dire, in complesso? Per chi conosce questi temi, la reazione alle esternazioni di papa Bergoglio può essere di sollievo. La grande débacle della vita religiosa fu determinata  anche, se non soprattutto , dall’alluvione di sociologismi e psicologismi e dal manifestarsi di una malattia preoccupante: la “documentite“. Un susseguirsi continuo, cioè, di incontri, dibattiti, convegni , confronti che partorivano inesorabilmente un “documento“, tanto dotto e complesso quanto sterile. Mentre gli esperti discettavano sulla sua essenza, la vita religiosa svaniva. Ora, Francesco sembra indicare la via di una possibile ripresa. Una  via di semplice buon senso e come tale spregiata da una certa intellighenzia clericale: essere frati e monaci è pensabile  solo in una dimensione di fede vera e profonda, solo nell’accettazione di una esistenza talmente  permeata dal Vangelo  da divenire essa stessa segno e motivo di stupore , dunque di attrazione. Nella sua terribile semplicità, è la imitatio Christi -pur mettendo in conto la condizione umana, dunque l’inevitabile peccato- non è la relazione  dello “specialista“ che può ancora indicare a chi ne sia chiamato la via di conventi e monasteri. 




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06/05/2014 20:39
 
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Quattro Papi in Piazza San Pietro


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di Vittorio Messori


Anche stavolta – come già  per padre Pio o  Escrivà de Balaguer, per non parlare del giubileo del Millennio  –vada  innanzitutto  un pensiero riconoscente a Marcello Piacentini. Ma sì, proprio alla bestia nera  degli architetti post-fascisti, all’uomo accusato di ogni infamia perché capofila dell’ edilizia del regime. Piacentini, in realtà , era e restò un Alto Grado della Massoneria;  eppure fu a lui che Mussolini affidò i   progetti più rilevanti  , non ultimo lo “ sventramento “ da San Pietro al Tevere,  per dare prospettiva e respiro  alla prima basilica della Cristianità    Sotto il piccone rovinò, così,  la vecchia  “spina di Borgo“ e nacque la via della Conciliazione : deprecarla con sdegno è da allora  dovere ineludibile  di ogni professionista che non voglia essere espulso dalla congregazione . Eppure le riprese dall’alto, ieri , della liturgia per la doppia canonizzazione  erano eloquenti : grazie a questo massone in orbace, la Chiesa può  offrire  spazio ai suoi fedeli nelle occasioni maggiori. E non solo per  la creazione  di una  via rettilinea e  ampia,  ma anche per la  trovata astuta di allargare la capienza  dell’ellissi berniniana  con la piazza Pio XII .   Se ne è avuta , ieri, la riprova, con  la folla   straripante  sino al fiume  :  non si sa come avrebbe potuto essere contenuta dal  pur gigantesco spazio  porticato.  L’accorrere di una massa umana enorme era data per scontata  in questa sorta di  inedito raduno , tra Cielo e Terra , di quattro pontefici tra i più popolari ed  amati: due papi vivi che canonizzavano due confratelli defunti  e non di un’età remota,  ma che essi stessi avevano ben conosciuto.


E’ davvero singolare:  statistiche e sondaggi  sono impietosi nel confermare  il declino, a viste umane, della maggiore  Chiesa della Cristianità  che  ha perso (e in Occidente continua a perdere ) praticanti, clero , influenza sociale  e pure    prestigio , tra scandali sessuali e finanziari. Per stare al papa gesuita  che ha proceduto alle canonizzazioni, dalla morte di quel Giovanni XXIII che ieri ha elevato agli altari, la sua Compagnia ha perduto   la metà dei membri. E  l’emorragia continua , non compensata da “ vocazioni “ terzomondiali spesso dubbie e fragili. Ma c’è di peggio : sia Paolo VI che Giovanni Paolo II – proprio lui !  – più volte si lagnarono, e duramente , per quanto i gesuiti dicevano e facevano dopo il Concilio , commissariarono  la Compagnia e giunsero persino a meditare una seconda soppressione, dopo quella di fine Settecento, propter bonum Ecclesiae. Quanto al papa emerito, al momento della ordinazione sacerdotale la sua  Baviera era di esempio edificante alla cattolicità intera , per adesione   totalitaria a quella Roma il cui solo nome, ora, provoca in molti tedeschi, bavaresi in primis ,  una violenta reazione   allergica.  Mezza piazza san Pietro ,  ieri,  era occupata dai polacchi, le bandiere biancorosse sventolavano numerose , le diocesi avevano organizzato – era per loro una questione di onore -  colonne di pullman e flotte di charter .        Ma, dal suo   paradiso , il nuovo santo della  Polonia sempre  fidelis , come la   chiamavano ,  guarda di certo  con amarezza alla   amatissima patria, adeguatasi di  gran corsa   a edonismi, consumismi , agnosticismi dell’Occidente. Il Sud America di papa Francesco , il Continente cattolico per eccellenza , la speranza della Chiesa,  sta passando a ritmi impressionanti a sètte evangeliche giunte dagli Stati Uniti ricche di mezzi e di avversione verso quell’Anticristo che presiede alla nuova Babilonia : il pontefice romano e la sua bottega, che chiamano Cattolica .


Eppure , ecco il paradosso : proprio questa Chiesa -  di cui chi la vive dall’interno misura troppo spesso il grigiore ,  la mediocrità , le forze carenti – attira l’ attenzione crescente del mondo  intero , anche al di fuori dei tradizionali confini cristiani. Impressionante l’elenco dei collegamenti televisivi in diretta  per la liturgia di ieri : moltissime , tra l’altro,  le emittenti  che avevano pagato l’oneroso pedaggio per i diritti   non solo in Africa  ma  persino in quell’Asia che -  Filippine e   Corea del Sud  a parte -  è da sempre refrattaria se non ostile alla predicazione cristiana. Negli  Stati Uniti, la cultura egemone che controlla i  media che contano è ancora quella di un protestantesimo duramente anti-papista , con forte influenza  di un ebraismo liberal ,  dunque di solito    non ostile , ma  e disinteressato a un cattolicesimo numericamente forte eppure, qui, pure,  in declino di forze e di prestigio. Ma ecco che  , poco più di  sei mesi dopo l’elezione, il papa con l’inedito nome di Francesco era già proclamato negli USA  “ Uomo dell’anno “, con doverosa  copertina di Time. Non è un caso che -  se sei un astuto Dan Brown , e vuoi costruire a tavolino un best seller di sicuro successo  mondiale -  devi ambientarlo tra papi, cardinali , monaci ,  palazzi vaticani .


Forse, il paradosso trova,  in parte almeno , un inizio di spiegazione  proprio nella grande liturgia di ieri. Una truppa falcidiata e,  in qualche regione del mondo, addirittura  quasi sbandata, ha alla testa generali straordinari .  Per usare una immagine non militaresca ma  evangelica , l’albero non è poi così  guasto, se continua a dare    frutti che – oggettivamente , al di là di  ogni apologetica clericale – hanno  tali qualità da attrarre a sé l’attenzione , anzi  l’ammirazione di tanti uomini nel mondo intero. Quale istituzione ha avuto al vertice persone di grande diversità   per storia personale e temperamento  e al contempo di grande omogeneità per vasta  cultura  e per  coerenza della vita con il pensiero come ( stiamo solo a questo dopoguerra ) Pacelli, Roncalli, Montini, Luciani, Wojtyla, Ratzinger e, ora, Bergoglio ?


Qualcuno , nella Chiesa stessa, ha mugugnato, giudicando eccessiva la serie di pontefici recenti  per i quali è iniziato o concluso il processo di beatificazione e di canonizzazione. Quasi che il papato volesse esaltare se stesso : è la critica che è stata rivolta soprattutto  alla liturgia solenne  di ieri. Ma il fatto – ratificato, del resto, dal giudizio del “ mondo “, anche se incredulo o  non cristiano – il fatto è che quei pontefici  meritano  davvero di essere presentati a ogni uomo di buona volontà  come esempio di chi   ha cercato di far vincere il bene sul male , di tenere a bada il peccato e di coltivare la virtù. A cominciare da se stessi . Chi – quale che sia la sua fede o la sua  incredulità -  chi non vorrebbe come amico, come confidente, come aiuto spirituale  nelle durezze delle  vita  un  Giovanni XXIII o  un Giovanni Paolo II, da ieri santi  ? Ma anche , lo si dica , un Benedetto XVI o  un Francesco ? La Chiesa può sbandare ma Pietro mostra  di   essere fedele  al nome che il Cristo stesso gli diede :  una  “ pietra “ salda ,   che sorregge   la fede che in altri sembra spegnersi.



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27/05/2014 08:10
 
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L’intervista proibita e perduta
maggio 25, 2014/0 Comments/in 2014 /by sebamal
Quanto segue è la versione di un libro-intervista scomparso e messo al bando trent’anni fa: il controverso colloquio di Vittorio Messori e Hans Urs von Balthasar, é stato pubblicato da pochi giorni dal sito Papale Papale ed integralmente ricopiata dal suo direttore, Antonio Margheriti Mastino. Il quale racconta -e fa raccontare a Vittorio Messori- nella succosissima prefazione al testo dell’intervista i retroscena ed i postscena di questo caso editoriale che non potè diventarlo. Un racconto che potrete leggere direttamente qui. Ringraziamo PapalePapale.com e Antonio Margheriti Mastino per il contributo di questo prezioso (ed attualissimo ) testo a questo nostro archivio messoriano.

***

“Mi raccomando – dice congedandoci dopo un lungo colloquio –. Non fate di me una vedette. Ciò che importa sono i problemi, non la mia persona”. Deve partire, l’abbiamo trattenuto più del previsto, ma con un tocco che rivela la sua attenzione alle persone, si informa del nostro programma, vuole darci alcune indicazioni concrete. “Tenete presente il buffet della stazione: il prezzo è buono e non si sta male”.

Alto, asciutto, vestito austeramente di scuro, lucidissimo: a 80 anni il “grande vecchio di Basilea”,“l’uomo più colto del secolo”, l’autore di quasi settanta libri che hanno segnato a fondo il nostro tempo (e il recente Premio Paolo VI lo ha riconfermato), Hans Urs von Balthasar, insomma, è più attivo e presente che mai.

Per molti, quest’uomo sembra rappresentare la sintesi vivente di ciò che dovrebbe essere il teologo secondo lo spirito del Vaticano II. Eppure, fu escluso dai lavori di quel Concilio per il quale aveva profondamente contribuito a creare un clima propizio.

Anche nella Roma di Papa Giovanni si diffidava dì lui e delle sue aperture, della sua attenzione ai sogni del tempo. Soltanto nel 1969 finiva il suo lungo esilio “ufficiale”, con la chiamata — fattagli da Paolo VI — alla Commissione teologica internazionale che affianca la Congregazione per la Dottrina della Fede. Pensatore tra i più moderni, e insieme incrollabilmente radicato nella grande tradizione della Chiesa, il destino di von Balthasar è stato quello di altri grandi vecchi della teologia cattolica, da Maritain al suo amico e maestro De Lubac in odore di “progressismo” prima del Vaticano II, in sospetto di “moderatismo” dopo, stando almeno alle lobbies che controllano e manipolano gran parte dell’attuale informazione ecclesiale. Nessuno però, né prima né dopo, ha mai messo in discussione la sua straordinaria statura teologica e, quel che più conta, spirituale. I molti volumi di Gloria, la sua opera maggiore, sono già tra i classici: ma è ben noto anche il suo coinvolgimento nella teoria e nella pratica della mistica in cui vede il vertice dell’esperienza religiosa.

Lo studio è dominato da una grande statua in legno della Vergine mentre, proprio sopra la porta, è collocata quella tragica Crocifissione di Grunewald davanti alla quale Dostoewskij cadde nel delirio epilettico: forse l’immagine pittorica più consona a illustrare il “Gesù sarà in agonia sino alla fine del mondo” di cui parlò quell’altro grande, Blaise Pascal, carissimo a von Balthasar. Assieme alla Trinità, a Maria, alla Chiesa, al centro della sua riflessione vi è da sempre“il caso serio” della Croce che giudica ogni ottimismo umano troppo facile e superficiale.

Sulla scrivania, sotto una piccola foto di Giovanni Paolo II, è aperta la Basel Zeitung, uno dei tanti giornali del mondo che hanno pubblicato l’ultima, furibonda aggressione di Hans Kung al Papa e ai suoi diretti collaboratori.

Iniziando il colloquio, viene spontaneo chiedergli se ha già letto il testo di quel suo collega nato, come lui, nel cantone di Lucerna. Scuote il capo, come rattristato, parla a voce bassa, guardando fisso negli occhi:

***

Kung non è più cristiano da un pezzo
“Sono almeno dieci anni che quest’uomo ripete sempre le stesse cose. Il solo fatto nuovo è il crescere del tono polemico. In realtà, sin dai tempi del suo libro ‘Essere cristiani’, Hans Kung non è più cristiano”.

Vorrà dire non più cattolico.

No, non è più cristiano. Basta leggere i suoi ultimi libri, anche quello recentissimo sulle altre religioni: Kung non è più cristiano. Per lui, Gesù non è altro che un profeta; il problema, dunque, si riduce a una discussione se sia stato o no un profeta maggiore di Budda, di Confucio, di Maometto. Non a caso è stato invitato da Khomeini in Iran per delle conferenze, dove ha ribadito che c’è un solo Dio e tanti profeti. Ormai, per lui — lo dice chiaro, appunto, in quel suo libro non ancora tradotto in italiano — il cristianesimo è una via di salvezza tra le tante.

Se davvero è così, è inutile attardarsi in quel “dialogo” che pur pretende con toni tanto urlati dalla gerarchia cattolica.

“Kung si situa ormai fuori per sua scelta, dalla Chiesa: dunque, non ha più nulla da dire ai vescovi. In realtà, non ha più nulla da dire neanche ad altri, a cominciare dai protestanti. In effetti, da quando il suo Istituto di teologia ecumenica non è più riconosciuto come cattolico, Kung rappresenta solo sé stesso. Forse, anche per questa situazione in cui si è trovato, ha spostato il discorso dall’ecumenismo tra cristiani a quello con le religioni non cristiane”.

Eppure, si ha l’impressione che continui ad esercitare una notevole influenza: tutti i grandi quotidiani borghesi del mondo opulento hanno dedicato pagine e pagine alla sua requisitoria contro il Papa e Ratzinger.

“Il settore che rappresenta è quello di una certa intelligencija, ma con sempre minor peso: in Germania ha perso influenza ed è di rado invitato per conferenze, soprattutto nelle università. Così, viaggia all’estero: è conosciuto come un buon oratore e, soprattutto, come un nemico di Roma. Questo gli attira molte simpatie, in certi ambienti”.

La virulenza dell’attacco all’attuale prefetto della Congregazione per la Fede ha stupito anche coloro che conoscevano i suoi rapporti tesi con il professor Ratzinger, quando entrambi insegnavano a Tubinga.

“Credo che sia esasperato anche dalla progressiva perdita di ascolto. Tra l’altro, è una menzogna l’accusa a Ratzinger di essere cambiato da quando ‘ha fatto carriera’, come dice lui. Io conosco Ratzinger da sempre e sempre è stato così, sempre l’ha pensata così. In ogni caso, non è Ratzinger ma Kung che attacca il Vaticano II giudicandolo ancora ‘clericale’, angusto, insufficiente, chiedendo dunque un Vaticano III. Ratzinger è fedele al Concilio e il suo ‘Rapporto sulla fede’ lo dimostra”.

Ratzinger ha ragione su tutto
L’edizione tedesca è uscita da poche settimane. L’ha già letta?

“Certo che l’ho letta. Che ne penso? C’è poco da dire: Ratzinger ha ragione. Qualcuno chiama pessimismo quello che non è che realismo: chi ha il coraggio della verità deve riconoscerlo. Nessuno parla di questa immensa, spaventosa defezione di preti e di suore: se ne sono andati, e continuano ad andarsene a migliaia”.

Dunque, Lei si riconosce nella lettura data da Ratzinger di questi ultimi vent’anni?

“Ci si può chiedere se la colpa di ciò che è successo è del Concilio (e Ratzinger l’esclude) o se c’erano già prima le condizioni che avrebbero provocato lo scatenarsi della crisi. È certo che Giovanni XXIII (quello autentico, non quello di un certo mito creato dopo la sua morte) non si aspettava che le cose sarebbero andate in questo modo”.

Eppure, Lei è tra coloro che prepararono il clima che avrebbe portato al Concilio. Il suo libro “Abbattere i bastioni” è del 1952 e le procurò grossi problemi con Roma.

“C’è stato un equivoco attorno a quel libro. Io volevo che si ‘abbattessero i bastioni’ non certo perché si scappasse dalla Chiesa, ma per permettere alla Chiesa stessa di essere sempre più missionaria, di annunciare con ancor maggiore efficacia il Vangelo”.

Anche l’intenzione primaria dei Padri conciliari era missionaria ma si ha l’impressione che, invece di proiettarsi ad extra, ci si sia ripiegati ad intra, in una interminabile discussione tra noi a uso interna.

“Ma sì, tutti questi documenti che nessuno legge, questa carta che io stesso sono costretto ogni giorno a cestinare, tutte queste strutture, questi uffici delle nostre conferenze episcopali e delle nostre diocesi! Gli stessi che chiedevano lo snellimento della Curia romana hanno contribuito a creare una miriade di mini-curie alla periferia della Chiesa”.

La burocrazia clericale che soffoca la missione cristiana
Dunque, lei concorda anche con le denunce del pericolo che la Chiesa con lo sviluppo ipertrofico delle strutture clericali si trasformi in un’enorme burocrazia fine a sé stessa.

“Certo. Rileggiamoci anche qui il Vangelo: Gesù ha sempre designato a un servizio delle persone, mai delle istituzioni. Della struttura fondante della Chiesa fanno parte le persone dei vescovi, non gli uffici burocratici. Niente di più grottesco che pensare a un Cristo che volesse istituire delle commissioni! Dobbiamo riscoprire una verità cattolica: nella Chiesa, tutto è personale, niente deve essere anonimo. Sono invece delle strutture anonime quelle dietro le quali si nascondono ora tanti vescovi. Commissioni, sottocommissioni, gruppi e uffici di ogni tipo… Si lamenta [sic!] che mancano i preti, ed è vero; ma migliaia di ecclesiastici sono addetti alla burocrazia clericale. Documenti, carte che non sono lette e che comunque non hanno alcuna importanza per la Chiesa viva. La fede è ben più semplice di tutto questo”.

Ma perché, a suo avviso, questo avviene?

“Forse, hanno l’impressione di fronteggiare così la crisi, di fare qualcosa. Siamo in un mondo tecnico e allora ci si rivolge ai computer. Nelle nostre diocesi adesso è arrivata anche l’elettronica, si sfornano tabulati con le statistiche della frequenza alla Messa, delle comunioni distribuite… Il che, oltretutto, non ha proprio alcuna rilevanza: questo tipo di conti può e deve tenerli solo Dio per il quale una sola comunione vera vale più di mille superficiali registrate dal computer”.

Secondo molti il problema più urgente oggi è quello della crisi del concetto autenticamente cattolico di Chiesa. Dicono che occorrerebbe parlarne al Sinodo.

“Forse, il Vaticano II si è fermato troppo a parlare della struttura della Chiesa. La Lumen gentium di cui parla la Costituzione conciliare non è la Chiesa, è Cristo. È certo che, con una lettura parziale del Vaticano II, si è fatta della Chiesa più un gruppo sociale che non misterico, sacramentale. Vediamo invece che sin dagli inizi la comunità cristiana ha una struttura, una gerarchia, volute dal Cristo e basate sul collegio apostolico. Certa, quello che la gente d’oggi cerca è il Cristo non la Chiesa, che nel suo volto visibile non sembra credibile a molti che ne sono all’esterno. Nella nostra predicazione, occorre mettere più che mai in rilevo l’unicità di Gesù, la sua persona: è Lui che attira gli uomini di sempre. Ma poi come ricorda giustamente il Vaticano II, non dobbiamo dimenticare che non c’è Cristo senza la Chiesa e quindi dobbiamo mostrarne l’assoluta necessità”.

Oltre a questo tema dell’ecclesiologia, quale argomento vedrebbe volentieri al centro dei lavori del prossimo Sinodo straordinario?

“Ci si potrebbe ricordare di quanto diceva il mio amico Karl Barth, il grande teologo protestante che, in una conferenza alla radio nei suoi ultimi anni ammonì: ‘Cattolici, non fate le betises, le sciocchezze, che noi protestanti abbiamo fatto a partire da un secolo fa!’”

Scegliendo tra queste betises, quale, secondo Lei, la più urgente da sottoporre all’attenzione del Sinodo?

“Forse, è il problema di cui si è parlato molto al recente convegno romano su Adrienne von Speyr. Il problema cioè dello studio della Bibbia, dell’esegesi cosiddetta ‘scientifica’. Questi specialisti hanno fatto molto lavoro, ma è un lavoro che non nutre la fede dei credenti. Bisogna riscoprire una lettura più semplice della Scrittura, mettere l’esegesi ‘scientifica’ in equilibrio con quella ‘spirituale’, non tecnica, della grande tradizione patristica. Non credo che il Sinodo potrebbe risolvere questo problema: potrebbe però fare un auspicio in tal senso”.

Rifare catechismo
Non si può, peraltro, impedire con un decreto il lavoro degli esegeti.

“Infatti non dico questo. C’è però il dramma degli stessi specialisti, spesso cristiani buoni e pii, che devono però fare un lavoro al livello di quelle università in cui sono inseriti. E’ una condizione non sempre facile da vivere. C’è infatti il diritto degli studiosi a guardare la Scrittura come a un vecchio libro tra tanti e quindi da studiare con le stesse tecniche impiegate per gli altri testi. Ma la Scrittura che conta per la fede non è questa: ciò che conta è la Bibbia vista come il luogo dove lo Spirito Santo parla del Cristo, in modo nuovo, a ciascuna generazione”.

L’approccio “scientifico” alla Scrittura sembra avere un fall-out, una ricaduta sconcertante nella pastorale quotidiana.

“In effetti le ipotesi degli specialisti giungono diluite se non deformate ai preti, ai laici, e fanno dei guasti. Anche di recente ho ascoltato un’omelia dove un parroco spiegava l’incontro dei discepoli col Cristo, sulla via di Emmaus, sentendosi in dovere di avvertire i suoi ascoltatori che non si tratta di un episodio ‘storico’. Questo dubbio coinvolge persino la realtà, la materialità della radice stessa della fede: il racconto della Risurrezione”.

Forse, questo sconcerto tra la gente comune è aggravato dal fatto che molti non sono più raggiunti dalla catechesi. C’è qualche insegnante che segnala come molti laici affollino i suoi corsi di teologia senza però conoscere la base. E cioè, il catechismo.

“Sì, bisogna tornare a dei catechismi seri, autentici. Anche qui Ratzinger ha ragione, dobbiamo ritrovare la struttura ineliminabile di ogni vera catechesi: il Credo, il Pater, i Sacramenti, il Dio creatore, il Dio redentore, lo Spirito che vive nella Chiesa. Non è più ammissibile che ciascuno si faccia un testo a suo gusto: da noi, nell’area germanica, ne circolano a centinaia. Spesso non sono neppure autenticati dai. vescovi”.

TdL. Gesù per loro non è che un profeta fallito
Ma ci sono catechismi ufficiali (come Pierres Vivantes in Francia) che sono stati approvati da tutta intera la Conferenza episcopale nazionale. Eppure sono stati criticati da Roma e si è dovuto rivederli.

“Torniamo qui al discorso sulle strutture anonime: spesso sono delle anonimità, degli uffici, delle commissioni. non dei vescovi con nome e cognome che danno quelle approvazioni. E poi, temo proprio che presso certi vescovi vi sia come paura per certe minoranze aggressive. Si dice che quattro o cinque persone padroneggino intere conferenze episcopali, e tra le più importanti e numerose”.

Occorre pur riconoscere che i problemi di fronte ai quali si trovano certe Conferenze sona talmente spinosi da rendere difficile l’unanimità. La Conferenza episcopale brasiliana, per esempio, deve gestire un caso complicato come quello di Leonardo Boff.

“Leonardo Boff, come Hans Kung, non è più cristiano”.

Quello che lei dice è grave. ‘

“Non lo dico io, Io dice lui. Nel suo libro, ‘Passione di Cristo, passione del cristiano’, decima edizione, ammette di non credere alla divinità di Gesù. Sostiene quanto già sosteneva, agli inizi del secolo, Albert Schweitzer. Come lui, Boff dà per scontato che la divinizzazione di Gesù sia stata fatta dai discepoli dopo la Passione. Dunque, Gesù non era che un profeta che predicava il Regno imminente. Il Regno non è venuto, lo scacco è stato totale. In questa luce, il grido sulla croce (‘Dio mio, perché mi hai abbandonato?’) esprime la disperazione di un uomo che ha fallito”.

Anche questo revival di vecchie tesi del liberalismo della Belle Époque europea potrebbe confermare il sospetto di molti: certe teologie della liberazione come esportazione verso il Terzo Mondo di prodotti ormai démodés di intellettuali occidentali.

“C’è del vero. Il nocciolo di quelle teologie della liberazione viene dall’Europa ma certa elaborazione in senso violento è poi stata concepita sul posto. Uno dei padri della teologia della liberazione, il tedesco J.B. Metz, ha fatto conferenze in America latina, ma a molti, laggiù, è sembrato troppo astratto: le sue teorie volevano trasformarle in rivoluzione armata. Credo che il documento della Congregazione per la Fede abbia ragione: non ci si può servire delle analisi marxiste solo come una sorta di ‘strumento’ tecnico”.

Si discute anche del vero influsso sul popolo di certe teologie della liberazione: alcuni affermano che si tratta ancora di un fenomeno elitario.

“Molti pensavano che la rivoluzione marxista si sarebbe realizzata in pochi anni. Questo non è avvenuto, ma ora si indottrina il popolo, ‘coscientizzandolo’ con delle pubblicazioni al cui centro c’è il Cristo libertadòr, il ‘sovversivo nazareno’. Ratzinger ha dato la precedenza a questo fenomeno perché qui si toccano i punti decisivi della fede. É urgente che laggiù si faccia qualcosa. I teologi non devono più improvvisarsi sociologi ed economisti. Mi sembra che tutte le teologie della liberazione dimentichino che l’essenziale del Nuovo Testamento è la carità: non occorre altro, basta viverla”.

Ma molti le obietterebbero che carità è proprio aiutare i poveri a fare la rivoluzione.

“Anche il Papa ha detto che bisogna privilegiare i poveri (questo è Vangelo), ma a Puebla ha ribadito anche chiaramente che il cristiano deve rifuggire dalla violenza, che il clero non deve in alcun modo mescolarsi con una politica di parte. I ‘poveri di Jahvè’ della Bibbia non sono affatto il proletariato di Marx”.

I problemi sono tali e tanti che qualcuno, basandosi anche su quanto avviene in questi mesi, teme che la Chiesa possa divenire ingovernabile da Roma.

“Il Vaticano II impiega il termine di ‘comunione gerarchica’ per indicare la comunione di tutti i vescovi con Roma, simbolo visibile dell’unità. C’è da chiedersi se certi episcopati abbiano ancora con il Papa quella ‘comunione nell’amore’ di cui parla, ad esempio, un san Cipriano”.

Lefebvre e i suoi non sono i “veri cattolici”
Il suo discorso ritorna così alle Conferenze episcopali.

“Ad esse, il Concilio dedica una piccola frase. Alcuni ne hanno fatto invece il centro di tutto. Quando la struttura diventa troppo pesante, il vescovo finisce con l’essere paralizzato“.

Qual è il suo giudizio sullo stato attuale della liturgia?

“Se giudico dall’area germanica, ho l’impressione che sia sobria e che, se fatta bene, (cioè in modo davvero pio rispettosa del sacro [sic!] ) sia ben accetta alla maggioranza di quelli che vanno ancora in chiesa.

Una risposta che conforta perché replica a certi ambienti integristi che della riforma liturgica hanno fatto il loro cavallo di battaglia. E il centro del movimento lefebvriano è proprio qui, in Svizzera. Si dimentica troppo spesso che attacchi durissimi al Papa e a Ratzinger continuano a giungere proprio da quella direzione.

“Monsignor Lefebvre e i suoi non sono i veri cattolici. L’integrismo di destra mi sembra ancor più incorreggibile del liberalismo di sinistra. Credono di sapere già tutto, di non avere nulla da imparare. D’altro canto è contraddittoria la loro conclamata fedeltà ai Papi, ma solo a quelli che gli danno ragione. Ma questo attacco a tenaglia, su due fronti, è tipico di ogni fase dopo un Concilio“.

La Chiesa è femmina: Maria viene prima di Pietro
Girando tra Europa e America del Nord si ha l’impressione che le religiose, le suore, siano tra le più sconcertate da certa predicazione, magari le più sofferenti davanti alla crisi

“Per una giusta risposta ai problemi della donna nella Chiesa bisogna ridare il posto che merita a una mariologia molto sobria e insieme molto buona. Bisognerebbe ricordare a tutti i cattolici – a cominciare dalle donne – che, nella Chiesa, Maria ha un posto ancor più alto che quello di Pietro. La Chiesa è una realtà femminile ed è posta davanti ai successori, maschi, degli apostoli: il principio-Maria (dunque, il principio femminile) è più importante di quello gerarchico stesso, affidato alla componente maschile. Alcune suore – spinte spesso da certa teologia di uomini – non vedono che i curés, i preti, pensano cosi che l’ordinazione sacerdotale rappresenti il massimo del potere nella Chiesa. Ma questo è clericalismo. Maria – e non si tratta di fare del sentimentalismo – è il cuore della Chiesa. Un cuore femminile, che dobbiamo rivalutare come merita, in equilibrio con il servizio di Pietro. Questo non è devozionismo: questa è teologia della grande tradizione cattolica”.

Dunque, la devozione mariana così singolare di Giovanni Paolo II ha anche un significato teologico preciso?

“È così. Il Papa sa che il perno nascosto della Chiesa non è lui, è Maria; non è a caso che abbia voluto ‘Totus Tuus’ come motto del suo pontificato. Non c’è bisogno, forse, di proclamare nuovi dogmi mariani, ma dobbiamo riscoprire la ricchezza di quelli che già ci sono e che sono essenziali all’equilibrio delia fede autentica”.

Tornare al modello tridentino di seminario
Le suore sono spesso in crisi. Ma anche il disagio dei preti non è stato e non è da poco. Quali sono le cause principali?

“È spesso estremamente duro essere inviati in parrocchie scristianizzate, dove il curato non conta più nulla. Una volta era il centro di tutto, ora deve correre dietro a qualcuno per cercare di trattenerlo. Ma per fronteggiare e sopportare questa situazione occorrerebbe un’altra formazione dei preti.

Che intende dire?

Bisogna tornare al modello tradizionale, direi ‘tridentino’, seppur prudentemente aggiornato, di seminario. Io sarei d’accordo di non permettere alla maggior parte dei giovani seminaristi di studiare nelle università, come attualmente avviene. Devono studiare in seminari autentici, che siano seri, ‘clericali’: che li formino, cioè, ad essere ‘clero’, che li preparino al loro sempre più duro servizio. Le università esterne non possono fare questo. Il vescovo deve avere la possibilità di ricreare i seminari secondo le indicazioni date da Roma e nominarvi professori di sua fiducia. Ma spesso, anche se volesse farlo, ne è impedito da tutte le strutture che gli sono state create intorno”.

Il suo bilancio del post-Concilio sembra a chiazze: zone di luce e zone di ombra. Come, in effetti, sembra essere in realtà.

“Dopo ogni Concilio c’è stato il caos. Bisogna mettere nel bilancio anche certe cose che stanno nascendo e che sono come pianticelle; piccole per ora ma già vigorose, i cui semi sono stati piantati dal Vaticano II. Oggi, sulle cattedre di teologia, giunge una generazione che aveva 18-20 anni nel ’68 e che spesso porta nel suo insegnamento uno spirito liberale, di contestazione. Intanto, i grandi teologi di un tempo non ci sono più. Ma c’è anche una generazione nuova che si sta formando, giovani che si ribellano a certo conformismo, che intendono fare una teologia che sia insieme aperta alla Scrittura e alla grande tradizione cattolica. Anche tra i teologi già in cattedra, ci sono persone solide che stanno ripensando in modo nuovo l’intera fede. Un buon lavoro in questo senso è stato fatto anche dal teologo Ratzinger. Lasciamo che Io Spirito lavori: ci sono dei virgulti che ‘spingono’, che stanno nascendo e che non sono certo contro il Concilio autentico, anzi sono nati da esso”.

Non bisogna ragionare troppo di Chiesa, ma viverla
Tra questi segni di speranza, il prefetto della Congregazione per la Fede mette anche i nuovi movimenti ecclesiali.

“E ha ragione. Essi sono, tra l’altro, la possibilità per la Chiesa di fare una teologia vivente. Ma in alcuni, a uno slancio magnifico fa riscontro una tentazione di chiusura. Il pericolo, per alcuni, è di divenire quasi delle sètte, di chiudersi in se stessi, mentre occorre più che mai ‘abbattere i bastioni’: essere, cioè, proiettati nella missione, verso il mondo”.

Non è, forse, un chiudersi istintivo per cercare di salvaguardare un’identità cattolica che sentono minacciata?

“Io cerco di costruire un istituto secolare al quale intendo comunicare uno spirito molto cattolico, un’identità precisa di Chiesa. Ma, posta questa base, desidero che sia aperto al massimo, a tutti. La casa va sorvegliata e tenuta in ordine, ma le porte devono restare spalancate a chiunque voglia entrare”.

Lei si è formato e ha lavorato per molti decenni nella Chiesa pre-conciliare. Ha poi vissuto, sempre come teologo, questo ventennio di post-Concilio. Che differenze avverte tra le due fasi?

‘Ha ragione il mio amico e maestro De Lubac e ha ragione Ratzinger quando rifiutano di parlare di Chiesa ‘pre’ o ‘post’ conciliare. C’è una sola chiesa. Vedo i pregi e i difetti del prima e del dopo ma ciò che mi è sempre importato è vivere il centro della Chiesa: questo non cambia e non cambierà mai. Non bisogna ragionare troppo sulla Chiesa: bisogna innanzitutto viverla. Essendo al contempo consapevoli che essa sempre è stata — e sempre sarà — un piccolo gregge”.

Sul suo tavolo c’è una foto del Papa. Questo mi conferma quanto è ben noto: la sua amicizia, la sua stima profonda per Giovanni Paolo II. E si sa che i suoi sentimenti sono ricambiati.

“Sì, amo molto questo Papa. Ma in fondo, non è questo che importa. Importante per tutta la Chiesa è piuttosto il fatto che quest’uomo vive di preghiera. Quando torna da quei suoi viaggi massacranti, tutto il suo seguito — dai prelati ai giornalisti — è stordito dalla fatica. Lui no, lui è raggiante: è la preghiera che Io nutre. Quando è venuto qui in Svizzera, qualcuno a Einsiedeln lo ha ingiuriato. Lui ha taciuto e poi, non si sa come, è sparito. Dopo un po’ Io hanno ritrovato: era in una cappella, prosternato davanti al tabernacolo. Al suo ritorno l’ho visto a Roma: era più che mai fresco, riposato. ‘Santità – gli ho chiesto – come fa a non essere mai stanco?’. Mi ha risposto ridendo: ‘Questo viaggio in Svizzera non è stato che un allenamento per prepararmi alla visita in Olanda’ [dove infatti la contestazione clerico-progressista arrivò al paradosso dei domenicani che lanciavano sassi contro il papa. Ndr]. Il suo segreto è l’orazione in cui è continuamente immerso”.

Il cristianesimo non è “anonimo”, come vorrebbe Rahner
Tra le cose che sembrano più preoccupare il Papa, nei suoi viaggi al di fuori dell’Europa, sembra esservi soprattutto la caduta della tensione missionaria verso i non cristiani.

“Sì, e di questa caduta è responsabile anche una certa versione, diluita e forse mal digerita, della teologia di Karl Rahner, con la sua teoria del ‘cristianesimo anonimo’. Rahner ha forse fornito l’occasione a certi teologi di esprimere ciò che essi avevano latente: secondo loro, in ogni uomo, qualunque sia la sua credenza (o la sua non credenza) c’è già la grazia, compito del cristiano sarebbe solo quello di fortificarlo nelle sue convinzioni. Poi, c’è stata un’attenzione esclusiva, in ogni caso eccessiva, per la promozione socioeconomica: è il Vangelo, in realtà, la prima ricchezza che dobbiamo donare ai poveri. Non si può rimandare l’annuncio del Cristo morto e risorto a quando saranno stati risolti i problemi economici”.

Dialogare, senza illusioni
Come svizzero di lingua tedesca, lei è da sempre molto attento ai problemi dei rapporti tra le varie confessioni cristiane. Che giudizio dà dell’attuale momento ecumenico?

“Purtroppo, il dialogo si è rivelato un fantasma, una chimera. Non è possibile dialogare con le Chiese che non hanno quel centro di unità visibile, concreto, che è il Papato. Le Chiese protestanti sono talmente frantumate in tante denominazioni e divise poi al loro stesso interno, che ci si può intendere con una persona, con un teologo; ma tutto si ferma lì perché certamente altri verranno a dire che non la pensano allo stesso modo. Ne ho avuto esperienza personale con Karl Barth: con molti incontri, con molto lavoro ci sembrava di essere giunti a una possibile base di accordo. Ma quando l’abbiamo resa pubblica, ecco insorgere subito un altro professore di teologia di Zurigo, e poi un altro e un altro ancora, anch’essi protestanti ma in completo disaccordo con quanto diceva Barth. E ciò vale per tutto il mondo nato dalla Riforma; nessuno, ad esempio, potrà mai far sì che l’anglicanesimo sia una Chiesa, diviso com’è da sempre in vari tronconi”.

Una situazione deludente. Ma che, ci si augura, non vale però per le Chiese delI’Oriente ortodosso.

“Purtroppo vale anche per loro. Hai un bell’abbracciare Atenagora: ci sarà sempre un altro metropolita, un altro archimandrita, un altro vescovo che non è d’accordo. Anche nel discorso ecumenico, dunque, occorre realismo: la situazione (lo abbiamo visto di recente con il documento di Lima su Battesimo, Eucaristia, Matrimonio costato molto lavoro e respinto da molte Chiese) non permette di farsi illusioni”.
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27/05/2014 08:14
 
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Vivaio – Maggio 2014
maggio 10, 2014/0 Comments/in 2014, Vivaio /by sebamal
Ancora una volta, diamoci a una sorta di slalom tra cronaca e storia, per cercare la prospettiva che rispetti quella verità la cui ricerca è dovere primario del credente.

Per cominciare leggo , tra mille esempi : << Il diritto di sciopero fu una grande conquista della Rivoluzione francese e , ovunque altrove, della sinistra >>. Che sfacciataggine ! E’ vero il contrario : la sanguinaria Convenzione dominata dai giacobini ( la prima “ sinistra “ , della storia , sin dal nome, fino ad allora sconosciuto in politica ) , la Convenzione , dunque , approvò nel 1791 una legge detta di “ Chapelier “ , dal relatore . Con quel provvedimento - la cui sanzione era la sola comminata in quegli anni : la ghigliottina - si proibiva ogni sciopero e si vietavano tutte les coalitions , tutte le associazioni tra lavoratori , quelli che noi chiamiamo “ sindacati “. Una simile proibizione si inquadrava nella prospettiva rivoluzionaria di eliminare tutte le realtà intermedie tra lo Stato e le citoyen. Il quale , così, era indifeso di fronte alla volontà, deificata , dei sedicenti “ rappresentanti del popolo “ , mentre, da secoli, il lavoratore era stato tutelato – dall’apprendistato sino al ritiro per vecchiaia e alla morte stessa – dalle corporazioni e dalle confraternite cattoliche . Privi di ogni aiuto comune , operai e braccianti agricoli ( i milioni di contadini senza terra ) erano così esposti all’arbitrio di industriali e di proprietari terrieri . I ricchi, insomma, difesi da quella Rivoluzione che , come si sa, non fu certo del popolo ma della borghesia che voleva prendere il posto dell’aristocrazia come classe dominante .

Il divieto giacobino di coalition, di creazione di sindacati , faceva troppo comodo ai privilegiati per essere abrogato quando anche a Robespierre e sodali toccò di salire sulla carretta che li portava verso la ghigliottina. Sancito, lo dicevano , nel 1791, all’inizio del Grande Terrore , il diritto ( pur strettamente limitato ) di sciopero e di associazione sindacale fu abrogato soltanto da Napoleone III, nel 1864. In Italia addirittura nel 1890 , col Codice di Zanardelli. Ma ecco allora un altro paradosso su cui tacciono gli storici “ progressisti “ : invece di rallegrarsi , i dirigenti del nascente socialismo si preoccuparono. E’ quanto si verificherà anche nei decenni successivi , sino a noi. I “ rivoluzionari” , infatti, temono soprattutto che migliorino le condizioni del popolo di cui si sono proclamati rappresentanti e difensori . Se le richieste dei lavoratori sono accolte dai governi e dagli odiati “ padroni” , che ci stanno a fare quelli che campano sulle loro proteste , sulle loro miserie, sull’odio sociale che in ogni modo cercano di fomentare? Io stesso , se è lecito rifarsi a un’esperienza personale, vidi quanto successe nella Torino della Fiat guidata dal massone esplicito e insieme anticomunista di ferro Vittorio Valletta. Questi – vuoi per politica aziendale , vuoi per autentica sensibilità sociale – fece delle decine di migliaia di operai della grande azienda , la maggiore d’Italia , dei privilegiati rispetto a tanti altri . Case popolari , una mutua sanitaria autonoma, ospedali riservati, premi di produzione , colonie estive per i figli , provvidenze per i pensionati anziani, scuole professionali, 500 e 600 a condizioni straordinarie e molte altre misure assistenziali . A ciascuna di queste , il Partito comunista rispondeva rabbiosamente , mettendo in guardia i lavoratori da quello che chiamava “paternalismo ipocrita “, “ inganni del padrone “, “ astuzie del capitalismo “, ” tentativi di fiaccare la tensione rivoluzionaria “.

Insomma , avvenne nella mia città di allora quanto già si era visto nella Francia di Napoleone III : l’abolizione del diritto di sciopero e di organizzazione sindacale, venendo dal governo e non dalle “ lotte operaie “, fu bollata come << dangereux socialisme césarien >>, pericoloso socialismo cesareo e fu chiesto ai lavoratori non di gioirne ma di diffidarne.

Tornando, dunque, a ciò con cui abbiamo iniziato : altro che un fondamentale diritto strappato dalle generose lotte della gauche !

XXXXXX

Per stare a cose francesi e a paradossi storici . Così come ho l’età per ricordare la Torino di Valletta , ho l’età anche per ricordare la Parigi ( vi andai da ragazzino , la prima volta ) déchirée , “ lacerata “ tra chi sosteneva e chi malediceva la guerra che l’esercito francese combatteva in Algeria contro lo FLN , il Fronte di Liberazione Nazionale. Guerra dove entrambi i contendenti gareggiavano in ferocia e in torture : soldati e insorti erano al contempo vittime e carnefici . Non ho particolare ammirazione, anzi ho una giustificata diffidenza verso De Gaulle ma , con realismo cristiano temo – soprattutto in politica - ogni idealismo che implacabilmente ottiene effetti contrari alle buone intenzioni. Dunque , comprendo bene perché , malgrado il suo nazionalismo, si sia visto costretto ad abbandonare quella terra, provocando una catastrofe umana e sociale . L’esodo, cioè, di un milione e mezzo di europei che vi avevano duramente lavorato, amandola e trasformando il deserto in fertili campagne . Ma se, per varie ragioni che qui non è il caso di trattare , poco ammiro quel Grand Charles, come lo chiamavano i suoi seguaci, mi infastidisce anche il solito schematismo ideologico di quelle sinistre che – capitanate allora da Jean Paul Sartre – non avevano che ammirazione e solidarietà per i partigiani algerini e disprezzo e odio per i pieds-noirs ,gli europei immigrati che volevano restare là dove erano nati non solo essi stessi ma, spesso, anche i loro padri e nonni.

Vediamo , dunque , come le cose siano andate , in quegli inizi che nessuno, anche tra i francesi, sembra ricordare : come sempre , la storia , quella vera, ribalta tanti luoghi comuni. L’Algeria fu conquistata dalla Francia nel 1830 non per ragioni colonialistiche , sapendo bene che l’impresa sarebbe costata assai più di quanto avrebbe reso , ma per ragioni di sopravvivenza. Non a caso , l’attacco deciso da Parigi fu approvato dall’Inghilterra , dalla Spagna, dal Regno delle Due Sicilie, dall’Austria e da tutti gli altri Stati del Mediterraneo settentrionale . Il fatto è che Algeri era divenuta sempre più la capitale di quella pirateria saracena che da secoli infestava il Mediterraneo . Il Paese solo nominalmente dipendeva dalla Turchia , in realtà era un vero e proprio Stato di corsari che nella razzie e nei riscatti trovava la sua ricchezza . Sembra incredibile ma a poca distanza dall’Europa ottocentesca , sulle piazze algerine si vendevano a migliaia gli schiavi cristiani catturati in raid nei villaggi sulle coste . Anche le navi europee erano assaltate , l’equipaggio messo esso pure in catene e offerto in vendita , mentre si esigeva un altissimo riscatto ad armatori e governi per riavere almeno le imbarcazioni. Molti maschi venivano castrati per servire in quegli harem dove finivano le più giovani e belle battezzate catturate , mentre bambini e ragazzi erano convertiti all’Islam ed allevati perché essi stessi diventassero pirati. Qualche volta si era provato a bombardare i porti ma, a parte la reazione delle artiglierie costiere degli agguerriti pirati , i danni venivano subito riparati e gli schiavi non erano liberati : anzi, si infieriva ancor più su di loro, per vendetta. Successe persino che si legassero decine di battezzati davanti alle bocche da fuoco , straziandoli con i proiettili sparati : davanti a ricatti così feroci , agli ammiragli delle flotte europee non restava che ritirarsi.

Bisognava , dunque , risolvere il problema alla radice : non spedizioni punitive dal mare ma uno sbarco massiccio , per ridurre all’impotenza la casta corsara, distruggere completamente la flotta e gli arsenali e ridare la libertà agli schiavi. Il compito fu assunto dalla Francia ma , come si diceva , con l’incoraggiamento di tutti i governi, a cominciare da quello della Gran Bretagna : la Royal Navy era costretta a scortare in forze i convogli carichi di merci . Tra l’altro : come chiesto proprio dall’Inghilterra , l’occupazione francese avrebbe dovuto essere temporanea ma , effettuato lo sbarco e sbaragliate le forze terrestri del governo piratesco , successe l’imprevisto. Buona parte della popolazione dell’interno, cioè, accolse con entusiasmo i Francesi e li scongiurò di restare, perché gravati dalle tasse imposte dai Turchi e dalle prepotenze dei corsari che detenevano il potere ad Algeri . Ancor più : dalle montagne scesero in armi le tribù dei berberi, da secoli oppresse dalla minoranza araba : quelle truppe “ private “ chiesero di aggregarsi all’esercito francese . Accolti, divennero famosi come zouaves , quegli zuavi che da allora non solo combatterono con i Francesi ma furono considerati tra i più valorosi e fedeli al tricolore gallico. Decine di migliaia di loro , tra l’altro, morirono combattendo contro i Tedeschi nella Grande Guerra . Insomma , gli “ invasori “, acclamati al loro arrivo dalla maggioranza come liberatori , furono in qualche modo costretti a restare.

L’inquadramento storico può servire per comprendere come siano andate davvero le cose in Algeria : in effetti, la guerriglia – iniziata nel 1954 - per espellere gli europei che consideravano ormai quella terra come la loro, è stata mitizzata dai comunisti . E presentata come una sorta di caso esemplare di liberazione di un Paese oppresso dal colonialismo europeo . In realtà, le cose sono sempre molto più complesse di quanto non vogliano le ideologie , a cominciare da quella marxista : all’inizio dell’occupazione ci fu ( innanzitutto ) non un calcolo economico, anche se il danno al commercio era enorme , ma la legittima difesa dalla barbarie delle razzie e della schiavitù. L’occupazione permanente fu chiesta dalla maggioranza degli algerini stessi . L’immigrazione dall’Europa, inoltre ( non soltanto francese ma anche italiana e spagnola ) non fu di biechi capitalisti venuti per dissanguare gli sventurati indigeni. Fu ,invece, di povera gente , soprattutto di contadini che trasformarono terre desertiche o malariche in un giardino e fecero di Algeri e di Orano le città più moderne dell’intero continente .

Ma, dicono : resta il fatto che i “ bianchi “ appartenevano a una casta che si credeva superiore, visto che gli “ indigeni “ non godevano, come gli immigrati dall’Europa , della cittadinanza francese . Ebbene , qui pure si realizzò un paradosso come quelli cui accennavamo sopra : infatti, la cittadinanza finì per essere estesa a tutti , in Algeria, ma tra le resistenze violente di quelli che guidarono poi la rivolta. Diventare francesi significava sì acquisire diritti, significava avere accesso a ogni impiego, ma proprio questo temevano gli ideologi , il cui impegno consisteva nell’aumentare l’odio verso i “ colonialisti “ , gli algerini di origine europea. Insomma, anche ad Algeri ( come nella Torino di Valletta ) l’interesse concreto del popolo fu sacrificato allo schematismo politico,



XXXX



La conoscenza della storia eviterebbe tanti errori e tante iniziative dannose. Per stare a un caso d’oggi : un gruppo non sai se di scriteriati o di macchiette di provincia ha tentato, per la seconda volta, di “ liberare il Veneto “ sventolando il vessillo di Venezia. Volevano ( e vogliono ) essere di nuovo sudditi non di Roma ma della Serenissima. Non entro, qui, in questioni politiche . Mi interessa solo ricordare che Venezia fu sempre una città stato , in un isolamento non solo fisico , tra le lagune, ma anche dettato dall’orgoglio . Venezia dominò un impero multietnico , mai pensò di essere la capitale di una “ nazione veneta “. Quello che ora chiamiamo “ Veneto “ era per i veneziani solo la “ Terraferma “ , guardata con superiorità , comunque non considerata diversa degli altri dominii come la Dalmazia e le isole dell’Egeo. Quella terra serviva alla Serenissima per controllare il corso dei fiumi perché non insabbiassero la lagune ; per mettere una distanza tra la città e nemici invasori ; per ricavare legname per le navi dalle foreste . Serviva anche ai superbi nobili del Maggior Consiglio per feudi agricoli dove tenere alla fame i contadini, tra paludi e allagamenti su cui non ci si curava di intervenire, se non minacciavano Venezia . Quando giunse l’esercito di Napoleone, la Serenissima cercò di salvare la città-stato e abbandonò al suo destino la Terraferma, lasciando senza aiuti i contadini che insorgevano al grido di “ Viva San Marco “ . Ma la fine fu rapida e disonorevole , una resa senza condizioni e senza gloria. Io , come tutti, ammiro Venezia, anzi la amo, apprezzo molti aspetti del suo sapiente sistema di governo, finito senza neppure un gesto di difesa ma che si era mostrato efficace per oltre mille anni. Ma scuoto il capo vedendo veneti attuali che , sventolando il Leone alato , pensano che quella sia stata anche la loro bandiera e ne sono nostalgici .



XXXXX



Mi giunge un libro edito dalle Edizioni del Laterano . Spiacevole, va detto , che l’Università cattolica per eccellenza , quella “ pontificia “ per vincolo diretto con la Santa Sede, abbia assunto per le sue pubblicazioni il nome di Lateran University Press. Riconoscendo così , alla pari del mondo degli affari , che la lingua universale è – ed è soltanto – l’anglo-americano. Peccato , visto che l’idioma ufficiale della Chiesa è , malgrado tutto , il latino : credono davvero , i preti, che il prestigio dei loro libri sia aumentato , e non, piuttosto, diminuito , rimuovendo una tradizione millenaria e presentandosi col nome editoriale non nell’idioma di Roma – universale per eccellenza – ma con quello del business internazionale ? Mica si pretende, certo, che i testi siano nella lingua che fu dei Padri della Chiesa e di san Tommaso , ma si vorrebbe che il marchio fosse un semplice Lateranenses Editiones . E invece , ecco un biglietto da visita , questo Lateran University Press che è segno semmai di provincialismo, di complesso di inferiorità rispetto alla cultura egemone e non di apertura al moderno .

Quale che sia il marchio editoriale , mi arriva( lo dicevo ) dal Lateran un denso ma svelto volume – 200 pagine – dal titolo Umanesimo cristiano e modernità, sottotitolo Introduzione alle encicliche sociali . Ne è autore Maurizio Ormas, docente presso quell’Ateneo Pontificio proprio di Magistero Sociale . Posso segnalarlo con libertà, visto che di persona non conosco quel professore , dunque non sono sospettabile di favoritismo amicale. Credo che potrà interessare in particolare i lettori de il Timone in quanto, pur nel rigore accademico, ha una intenzione sanamente apologetica. In effetti , esaminando il magistero sociale della Chiesa , quale si esprime nelle encicliche papali e nel Concilio ultimo , sono indicati in esso ( cito dalla quarta di copertina ) << gli ideali che fanno ormai parte del patrimonio etico di gran parte dell’umanità e sono sanciti nelle convenzioni internazionali >> . Ma si dimentica spesso che << è anche grazie al magistero sociale cattolico se quegli ideali vengono indicati come fondamenti del vivere civile e, quindi, come mete cui aspirare >>.

Vediamo , allora , l’ elenco sintetico di alcuni di quegli ideali che, spesso , i Papi proposero per primi, rimanendo talvolta quasi soli. E’ un elenco che vale la pena di esaminare con attenzione : << L’ideale della fraternità e della solidarietà tra i singoli e tra i popoli ; la pace come frutto della giustizia ; i diritti dell’uomo che precedono gli ordinamenti positivi degli Stati; l’equità come fondamento della giustizia e della legalità ; il valore del lavoro per la realizzazione di sé in senso personale e sociale ; la sussidiarietà come condizione di una soggettività sociale più ricca ; il prevalere del bene comune rispetto agli interessi di parte ; i diritti educativi della famiglia di fronte allo Stato ; l’impegno della religione a favore della pace >>. . E’ impressionante sino a che punto sia giunta la profondità se non il profetismo di un insegnamento che non ha mai smentito se stesso , malgrado certe apparenze. In realtà , a un esame più attento , si scopre che non c’è stato cambiamento ma approfondimento . Come avvenuto, del resto non solo con la dottrina sociale ma pure con la dogmatica , come dimostrò John Henry Newman.

L’analisi di Maurizio Ormas è basata soprattutto sulle encicliche , la cui storia non è più lunga di due secoli. Leggendo , mi veniva in mente l’ultima intervista strappata , – forse approfittando del suo stato di prostrazione e non a caso pubblicata postuma per evitare smentite – strappata , dunque, al cardinal Carlo Maria Martini ormai morente . Il già arcivescovo di Milano , avrebbe detto che la Chiesa << deve recuperare un ritardo di duecento anni >>. E’ proprio lo spazio temporale coperto da questo Umanesimo cristiano e modernità che dimostra come in realtà spesso sia stato il mondo e non il magistero ecclesiale ad essere in ritardo. Magari proprio di un paio di secoli.
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13/10/2014 12:06
 
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Il Timone, di Vittorio Messori
Vedemmo la volta scorsa come Stalin, sino ad allora impegnato nel genocidio del cristianesimo , per salvare se e il regime minacciati dai tedeschi non esitò a prendere sul serio – andando addirittura al di là delle indicazioni celesti – una apparizione mariana ad personam, indirizzata proprio a lui. L’ex-seminarista passato dal Vangelo di Gesù a quello di Marx e Lenin, sapeva bene come da mille anni il cristianesimo impregnasse ogni fibra della Russia , unendosi all’amore per la terra natale : dunque , per cercare di arrestare i nazionalsocialisti, bisognava fare appello non ai “ compagni e compagne “ ma ai << fratelli e sorelle >>. Solo così poteva sperare in una reazione energica anche di coloro – ed erano la stragrande maggioranza – la cui fede aveva perseguitato . << Il popolo russo >> è stato osservato << è per Dio ma può essere anche contro Dio : in ogni caso, mai è senza Dio >>. In questa “ossessione“ del divino ( da venerare o da combattere ) che porta ai miracoli della santità o alle stragi contro i credenti , i due estremi d’Europa , Russia a Oriente e Spagna a Occidente, sembrano assomigliarsi. La storia mostra che , se decide di tagliare i legami col Trascendente , il russo finisce in un nichilismo feroce che assume i tratti del satanismo : e nessuno, come si sa, pensa giorno e notte a Dio come Satana.

E’ misteriosamente significativo che proprio la Russia e il suo destino facciano parte importante del messaggio di Fatima . Maria profetizza (era il 1917 , Lenin stava conquistando il potere ) un ruolo nefasto per quel Paese che << spargerà i suoi errori per il mondo >> e << distruggerà varie nazioni >> . Ma segue il risvolto positivo della profezia : << Il Santo Padre mi consacrerà la Russia , che si convertirà >>. In effetti, come tutti sanno bene, Giovanni Paolo II fu ferito all’addome in un modo tale che solo << per intervento di Maria che deviò il proiettile >> parole sue) non fu mortale, proprio nella sessantaquattresima ricorrenza della prima apparizione di Fatima. Dunque, il 13 maggio del 1981 . Nel giorno dell’Annunciazione, il 25 marzo di quattro anni dopo , il Papa procedeva alla consacrazione del mondo, coinvolgendo tutti i vescovi di ogni continente , con chiaro , riferimento alla Russia . Cinque anni dopo, ecco – imprevisto da tutti , servizi segreti di ogni Paese compreso – quel collasso mortale , senza alcuna speranza di ripresa , del’Unione Sovietica e dei suoi satelliti .

Lasciamo stare ogni discussione sulla << conversione >> che, in effetti si è davvero realizzata , visto il passaggio subitaneo da uno Stato persecutore della fede a uno che , in nome della fede , ha ricostruito a sua cura e spese cattedrali, chiese, monasteri distrutti dal regime precedente . Uno stato il cui attuale capo, Putin, porta in omaggio a papa Francesco una copia della Madre di Dio di Wladimir che è, come dicevamo la volta scorsa , uno dei simboli stessi non solo della fede ma della nazione intera. Singolare il fatto – testimoniato dal filmato sull’incontro – che il pontefice abbia ammirato l’icona, ma evidentemente non abbastanza , come un po’ distratto, allontanandosi subito. Tanto che Putin lo ha richiamato e , cercando maggior interesse per il dono prezioso, ha detto al pontefice : << Bella, eh ?>> . Francesco ha annuito e allora il leader politico, per ribadire una devozione anche personale che voleva testimoniare in pubblico, ha alzato l’icona dal tavolo dove era deposta , l’ha portata alle labbra e l’ha delicatamente baciata .

Francesco ha capito e si è deciso egli pure a dare un bacio alla sacra tavola. Insomma, un ex-ufficiale del KGB, la tenebrosa polizia segreta sovietica, che – diciamolo pure – è sembrato dare lezione di devozione a un pontefice, poco propenso a dar segni di omaggio che, forse, gli sembrano eccessivi . Un suo stile, pare, ben diverso da quello così appassionato di Giovanni Paolo II : uno slavo egli pure , e non per caso. Sta di fatto che non è difficile parlare di “ conversione “, davanti al leader della Russia attuale, che non porta al Capo della Chiesa romana un dono “ burocratico “ ma un oggetto di devozione anche per lui, gia spia del Partito e , come tale, avverso a ogni segno di religiosità.

Per tornare a Fatima: alla luce di quella profezia, paiono lanciare segni misteriosi anche le date : si ricordino l’accordo per lo scioglimento dell’Urss, firmato l’8 dicembre del 1991 e, nello stesso anno, la bandiera con la falce e martello ammainata per sempre dalla cupola più alta del Cremlino, per far posto all’antica con l’aquila zarista , il 25 dicembre. Date “ cattoliche “ , va pur detto: il dogma dell’Immacolata Concezione, festeggiato dal 1854 in quel fatidico 8 dicembre, non è accettato dalla Chiesa russa , anche se per ragioni più polemiche che teologiche e forse anche per fraintendimenti su ciò che quel dogma davvero significa. In effetti , sia nella liturgia che nel popolo ortodosso appare chiaramente la fede in una Madre di Dio senza peccato sin dal concepimento Ma i teologi si sono chiusi nella loro ostinazione , quasi per un bisogno ormai millenario di opporsi per principio a colui in cui vedono, al massimo, il Patriarca di Roma , senza alcuna autorità di proclamare un dogma: cosa che, semmai, toccherebbe a un Concilio ecumenico che radunasse Oriente ed Occidente e desse a ciascun vescovo diritto di voto. Sempre per ragioni di polemica verso Roma , l’ortodossia russa non ha voluto accettare , nel calendario liturgico , la riforma gregoriana , restando al computo detto giuliano, quello della Roma imperiale e non papale , così che la data del Natale non coincide con quella cattolica. In questi “ segni “ cattolici, ci sarà un significato? Ci si può meditare ma non pretendere di penetrare l’enigma: ancora una volta, Deus scit.

Ma sarà bene dire qualcosa che aiuti a capire questa fede russa con la quale dovremo sempre più confrontarci: dopo la caduta del comunismo, i contatti sono divenuti assai frequenti, anche nella vita quotidiana, a causa dell’immigrazione. Tra l’altro, per la prima volta , a Roma è stata costruita da pochissimi anni una chiesa voluta e finanziata non dal patriarcato di Mosca ma ( sempre a proposito di “ conversione “ dell’apparato pubblico) direttamente dallo Stato russo che ha concesso come prestigioso terreno per edificare il parco della lussuosa ambasciata che fu dell’Urss. Mai i diplomatici sovietici devono avere sospettato un simile esito finale dell’ ateismo da materialismo dialettico! Mi dicono che, la domenica, la bella chiesa con le cupole e cipolla e le innumerevoli icone, è sempre gremita non solo da ortodossi ma anche da cattolici, attratti dalle splendide – e lunghissime- liturgie .

Va detto innanzitutto – non ci si pensa quasi mai – che quella che noi chiamiamo oggi Russia e quelle che chiamiamo Ucraina e Bielorussia , all’inizio strettamente unite, sono entrate nella cristianità quando essa era ancora , malgrado tutto, indivisa . In effetti, già da molto tempo i rapporti tra Roma e il Patriarcato di Costantinopoli erano sempre meno stretti e talvolta burrascosi . Ma lo scisma tra i cattolici e coloro che si dissero “ ortodossi “ , in quanto pensavano di essere i soli a seguire l’antica dottrina dei primi Concili ecumenici , quello scisma, dunque, si verificò nel 1054 . Il 16 luglio di quell’anno, i legati pontifici giunti da Roma a Costantinopoli , vista l’impossibilità di vincere l’ intransigenza del patriarca Michele Cerulario, duramente antiromano , deposero sull’altare di Santa Sofia il decreto papale di scomunica. Al quale , naturalmente il bizantino replicò con un controdecreto, esso pure di scomunica. Da allora , non ci fu più legame, almeno canonico , tra Bisanzio e Roma. Ma la “ conversione “ di Wladimir , principe di quelle che sarebbero diventate la Russia , l’Ucraina e la Bielorussia risale a 66 anni prima : dunque l’entrata di quei popoli slavi fu nel cristianesimo ancora indiviso, almeno formalmente . La storia di questa cristianizzazione è singolare : Wladimir ( che la Chiesa ortodossa venera come santo ) decise che e sue genti , per contare in Europa, avrebbero dovuto lasciare i loro culti pagani e abbracciare una delle tre grandi religioni monoteiste . Dunque, stando alle antiche cronache, inviò dei saggi ad indagare, affinché trovassero la fede che meglio convenisse al temperamento e ai bisogni spirituali dei loro popoli . Il giudaismo fu subito scartato , come fede di un popolo sconfitto, senza una patria , un credo non universale ma legato a una etnia particolare. Fu scartato poi anche l’islamismo , esso pure legato strettamente a un popolo , quello arabo . Ma anche perché , dicono sempre le cronache , il suo libro sacro, il Corano, vietava le bevande alcoliche . << Non posso negare ai miei popoli ciò che è così importante per loro : bere ! >> , avrebbe esclamato Wladimir . Restava il cristianesimo : se fu scelto , è perché quei saggi slavi giunsero a Costantinopoli e restarono ammaliati dalla bellezza e dalla grandiosità delle messe e delle altre liturgie nelle meravigliose basiliche della capitale dell’Impero romano d’Oriente . << Qui >> scrissero a Wladimir << non sapevamo più se eravamo in Cielo o in Terra . Abbiamo sperimentato che davvero Dio si intrattiene con questo popolo >>. Così, il principe si fece inviare sacerdoti e teologi greci perché l’istruissero nella fede che aveva scelto e nel 988, come dicevamo, riceveva il battesimo.

Storia singolare, dicevamo , non solo per i suoi inizi ma anche per i suoi esiti ormai millenari : i Russi , come gli Ucraini e i Bielorussi , divennero cattolici , seppur di rito bizantino, non per libera scelta, non perché fossero stati catechizzati e convinti da missionari ma perché , secondo le loro leggi , erano obbligati a seguire la religione del principe . Cuius regio, eius religio… Furono battezzati in massa , come da ordine di Wladimir , prima ancora di sapere quale fosse questa nuova fede alla quale erano iniziati per obbligo. Soltanto in seguito, schiere di sacerdoti inviati dall’imperatore da Costantinopoli li iniziarono ai misteri del cristianesimo, costruirono chiese e cominciarono a celebrarvi quelle liturgie che avevano portato alla scelta principesca. A noi moderni, tutto questo appare inaccettabile se non, addirittura , scandaloso . Eppure , quella fede straniera e sconosciuta , imposta per decreto prima di conoscerla, diede origine a uno dei popoli più profondamente cristiani, più radicalmente impregnati di Vangelo , più eroicamente disposti a morire invece di rinnegare le proprie credenze . Le nostre vie non sono quelle di Dio . Non è un caso che , Costantinopoli essendo stata presa dai turchi ( 1453 ), i teologi slavi proclameranno che, caduta la prima Roma, caduta anche la seconda , toccava a Mosca , come “ terza Roma “ , guidare tutta la cristianità, almeno quella orientale.

Una cristianità contrassegnata soprattutto da un elemento: il posto di assoluto rilievo -pur se sempre accanto al Figlio, anche nelle icone- dato alla Madre di Gesù , proclamato come Dio egli stesso , come Seconda Persona della Santissima Trinità. Un rilievo che è evidente a un primo sguardo, entrando in una qualunque casa russa dove , al posto d’onore , è ritornata quella icona splendente di dorature della Madre di Dio che era stata nascosta per 70 anni , ma che è subito riemersa con la caduta dei nemici della religione. Nelle abitazioni private come nei luoghi pubblici non ci sono , come presso i cattolici , delle croci : questi sono oggetti sacri , deposti sull’altare delle chiese e che solo i sacerdoti possono toccare , presentandoli alla venerazione dei fedeli inginocchiati. Ovunque altrove , unicamente icone di santi ma soprattutto ( e sempre ) la Madre di Dio , indicata sulla tela – è un obbligo canonico – con le iniziali di quello che è appunto il suo ruolo eccelso : la maternità divina.

Sergij Bulgakov , il famoso teologo, ha potuto scrivere: << Un cristianesimo con Cristo ma senza la Madre non è un’altra confessione cristiana : per l’ortodossia russa è, nell’essenza, un’altra religione, con la quale i fedeli non vogliono avere a che fare >>. Nei secoli , i protestanti europei hanno cercato in molti modi di allearsi con Mosca per combattere , uniti, il cattolicesimo romano. Ma ogni proposta è stata respinta : e questo, va detto, non per amore di un papato del quale ancora e sempre si diffida ( la Russia è forse il solo Paese dove i pontefici non siano stati mai invitati per una visita, per volere del Patriarcato ) , non per amore del papa , dunque. Ma per amore di Maria , declassata dai riformati da Regina del Cielo a membro della Chiesa primitiva, a normale casalinga di Galilea , a donna che aveva prestato provvisoriamente il suo utero a un Dio che aveva deciso di incarnarsi nel corpo di una femmina umana . Compiuta la missione , ecco la consumazione del matrimonio con Giuseppe ( egli pure un artigiano come tanti ) e poi figli a volontà, rientrando nell’ombra da cui era stata tratta solo per il servizio del parto. Ancor più che i cattolici, a questa prospettiva non ci stanno proprio gli ortodossi e, in modo particolare, i russi : se ne ebbe , tra l’altro, una conferma clamorosa, dagli echi internazionali, nel 1927 alla prima riunione , in Svizzera , del Consiglio delle Chiese cristiane , un organo voluto dalla impotente Società delle Nazioni, creazione dall’utopismo un po’ ipocrita del presidente Wilson . I rappresentanti della Chiesa di Russia – scampati per il momento alle persecuzioni comuniste, grazie all’accettazione della nomina dei vescovi fatta dal Partito unico- dichiararono subito che non avrebbero partecipato ai lavori se tutti, protestanti in primis , non avessero accettato di mettere gli incontri sotto la protezione della Madre di Dio e non l’avessero lungamente pregata, come conveniva a dei cristiani veri . I riformati rifiutarono e la delegazione russa rientrò in patria, anche se là l’attendeva un futuro incerto se non tragico.

San Dimitrij di Rostov ( XVIII secolo ), uno fra gli innumerevoli altri : << Dopo il Nostro Signore , nessuno è più potente della nostra Sovrana e Madre del Signore, la sempre vergine Maria . Ella, infatti, può convincere Dio stesso con le sue intercessioni . Lei , che aveva avvolto il Verbo in fasce, lo avvolge ora per l’eternità con le preghiere di misericordia per gli uomini >>. Altri santi mistici russi hanno sostenuto addirittura che il suo potere di intercessione può spingersi sino al punto di mutare il giudizio divino e di ottenere la liberazione di dannati dall’inferno.

Eppure , malgrado questa fiducia totale nel suo intervento misericordioso verso tutti i bisognosi , la grande liturgia russa ha un carattere “ disinteressato “ , “ gratuito “ . Per noi , figli della Chiesa occidentale, la preghiera alla Madre termina sempre, o quasi, invocando il suo aiuto. L’Ave Maria stessa , dopo la prima parte evangelica, con la salutatio angelica esprime una intercessione : Ora pro nobis peccatoribus , nunc et in hora mortis nostrae . Il rosario termina con le litanie dette “ lauretane “ dove dopo a ogni proclamazione di un attributo mariano gli oranti replicano con un ora pro nobis. Invece, nel culto ecclesiale russo ( ma spesso diversa è la pratica popolare, dove si arriva a flagellarsi a sangue o a imporsi duri pellegrinaggi o digiuni disumani per ottenere una grazia da Maria ) , invece di chiedere si glorifica, si loda , si ringrazia Dio per il dono fattoci con una simile Donna . Invece dell’ ora pro nobis c’è il kaire greco , quello che in latino suonerebbe sia Ave che gaude, rallegrati.

Questo orientamento liturgico deriva dal fatto che , mentre per gli occidentali Maria è soprattutto Madre nostra ( come da parole di Gesù in croce a Giovanni , presente come rappresentante dell’ umanità intera ) , per l’ortodossia russa , ucraina, bielorussa mai si dimentica che tutto deriva dal fatto che il Concilio di Nicea non l’ha proclamata solo Madre di Gesù ma , addirittura, Madre di Dio. Da qui quasi lo sgomento , l’aura solenne delle icone , il grazie ripetuto all’infinito per avere a tal punto elevato una creatura umana. Da noi, è chiamata , quasi come suo titolo massimo di gloria , “ la Santa Vergine “. Per gli ortodossi in versione russa , la triplice verginità ( prima , durante , dopo il parto ) non fa né problema né discussione : nelle icone , Maria è circondata da tre stelle , simboli appunti delle tre fasi in cui restò corporalmente intatta . L’ipotesi – purtroppo oggi adombrata anche da qualche teologo di università “ cattoliche “ e non solo dagli Hans Kueng e soci –l’ipotesi che Gesù sia stato solo il primo di molti fratelli e sorelle, provoca tra il popolo russo non scandalo ma sbalordimento , seguito subito dall’ironia sulla salute mentale di chi azzardi simili empietà. Nessun dubbio, dunque, sulla “ purità “ perpetua e totale di Maria. Essendo cosa scontata, ci si focalizza sul titolo da cui tutto deriva : Theotokos, Madre di Dio. Una maestà che traspare dalle icone che non sono “ dipinte “ ma “ scritte “. E non da artisti ma da asceti che , tra digiuni e penitenze, lavorano spesso in ginocchio. Nulla è più lontano da questa devozione come certe Madonne , soprattutto italiane , del Rinascimento, ma anche del Settecento , per dipingere le quali si è presa a modello la bellezza di una popolana, magari scollacciata.

In ogni caso, non dimentichiamo mai il nostro debito verso quel talvolta maltrattato cristianesimo greco-bizantino, che ha così profondamente plasmato i popoli slavi . E’ da là , dall’Oriente, che ci giungono tutte le grandi festività mariane e le loro liturgie che hanno ispirato quelle latine : la Natività , la Presentazione al Tempio , l’Annunciazione , l’Assunzione ( detta Dormizione ) e ogni altra a seguire. E’ un patrimonio inestimabile che abbiamo ereditato e che merita la gratitudine di ogni credente.

Vittorio Messori
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12/02/2015 08:42
 
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SU CERTE “COSE ULTIME“

Il novembre, mese dei morti, è passato da tempo: ma ogni momento è buono per riflettere su quelle “cose ultime“ che, in realtà, dovrebbero essere al centro della nostra meditazione, giorno dopo giorno, e non soltanto in certe date. Troppo spesso non è così, oggi, anche tra i credenti. Dunque, parliamone qui, almeno un poco.

Ovviamente, nessun luogo è propizio come un ospedale, per queste salutari riflessioni sulla vita e, soprattutto, sulla morte. Devo dire che, quanto a questo, non ho mancato di portarmi avanti, visto che – come secondo libro – sentii il bisogno di confrontarmi, e non fu facile, con quell’usanza di andarsene alla quale tutti, prima o poi, dobbiamo adeguarci. Come ha detto qualcuno, è disperante che quando sembra arrivato il tempo di vivere davvero -raggiunta una certa età, una posizione sociale, messo da parte un po’ di denaro, un po’ di saggezza nata dall’esperienza– quando si è pronti a vivere, dunque, ecco che è il momento di morire. Per questo sorpresi e magari delusi tanti lettori che, dopo il mio primo saggetto, si aspettavano qualcosa, come dire?, di più gradevole. Anche l’editore sperava di meglio, rispetto al brutale titolo che gli proponevo: Scommessa sulla morte. Ma tant’è: leggere o pubblicare un libro non è, grazie a Dio, un obbligo per alcuno: dunque, prendere o lasciare…. Per chi vuole, ci sono infinite altre possibilità. Quelle che Pascal chiamava, con triste ironia, divertissements: che non sono i nostri “ divertimenti “ bensì le deviazioni, i sotterfugi per rimuovere il pensiero del destino che attende implacabile tutti noi che, non a caso, siamo detti “mortali“.

Venendo ai fatti miei: per certi problemi ortopedici e reumatici mi è stato prescritto di recente, tra le altre terapie, un ciclo di farmaci somministrati per fleboclisi . Dunque, al mattino presto, ecco l’assegnazione di un letto in una stanza con quattro letti, ecco il rito del pigiama e delle pantofole, l’infilarsi sotto il lenzuolo, il tendere un braccio all’infermiere che ti infila un ago nella vena. Ago che un tubicino collega a un flacone posto in alto, sull’apposito trabiccolo accanto al letto. Una pratica, tutti lo sanno, di assoluta routine in ogni ospedale. Ma il paziente (nome significativo..), il paziente – io, in quel caso- ignora che il contenuto di quel flacone gli sarà somministrato non solo goccia a goccia ma con estrema lentezza. Soltanto dopo l’introduzione dell’ago, infatti, mi si comunica che dovrò stare lì, supino, con il braccio teso, per un minimo di sette ore. Magari, ancor meglio, pure otto: il farmaco che mi si inietta, mi dicono , è assai “tosto“, con possibili effetti collaterali anche gravi, dunque va assunto con prudenza, piano piano. Leggere giornali e libri, nel frattempo ? Meglio di no, ti viene detto con aria severa, bisogna stare ben fermi per evitare che l’ago fuoriesca e per non intralciare la discesa dell’enigmatico cocktail chimico che riempie il flacone. Meglio anche non mangiare le cose del vassoio ospedaliero che sarà portato a mezzogiorno: un po’ di digiuno evita i movimenti pericolosi e in ogni caso fa sempre bene.

Così, per tutte quelle ore eccomi (per quella prima volta e per altre che sono seguite) eccomi dunque ad avere come sola occupazione l’attendere – con lentezza esasperante, soprattutto per il mio temperamento impaziente, com’è d’obbligo per i nati sotto il segno dell’ariete- l’attendere, dunque, che una goccia si stacchi dal contenitore e scenda piano piano per il tubicino trasparente per finire il viaggio nella vena. Come colonna sonora, il lamento continuo nel letto accanto di un anziano terribilmente sofferente per una brutta caduta. Lamento che, ad ogni minimo movimento del poveruomo si trasforma in un urlo straziante che ti risveglia di botto se per caso ti appisoli un momento.

Fissando il flacone mi è riemersa dalla memoria una lettura remota, fatta nei primissimi tempi della mia scoperta di un vangelo che rifiutavo senza conoscerlo, come oggi avviene a tanti, forse alla maggioranza. La lettura, cioè, di quello che fu per almeno due secoli uno straordinario best e long seller religioso, tradotto in tutte le lingue: l’Apparecchio alla morte di Sant’Alfonso Maria de’Liguori. Colui, cioè, che ci ha liberati dai rigori del giansenismo, tenendo al contempo a bada i cedimenti del lassismo: un grande maestro della via mediana, un santo a me particolarmente caro in quanto conferma autorevole del doveroso et-et cattolico .

Di quel libro insieme terribile e consolante ricordavo soprattutto due cose. La prima, l’ammonimento a non accumulare tesori di cui nulla potremo portare con noi e che dovremo lasciare a parenti spesso avidi e litigiosi. Di recente, papa Francesco ha ricordato un detto piemontese che sentiva nella sua famiglia piemontese e che non sarebbe dispiaciuto al santo napoletano: << Il sudario dei morti non ha le tasche >>. L’ammonimento di Alfonso ai benestanti era anche perché, tra tanti poveri che morivano di fame, non si cibassero di cose in gran quantità e di ricercata qualità. Il cadavere di chi è grasso – e, per un uomo del Settecento solo i danarosi lo erano – sarà ancora più ripugnante. Perche, dice senza eufemismi né complimenti il nostro Napoletano, a causa di tutta quella carne accumulata nei banchetti e nei mille cedimenti alla gola, gravius foetent divitum corpora, i corpi dei ricchi puzzano di più. Un’espressione, come si vede, brutale, in ogni caso politicamente scorrettissima, in quanto rifiuta ogni eufemismo e dice (cosa che troppo spesso neanche i cattolici sanno più fare) le cose come stanno davvero. E senza seguire le ipocrisie della nostra cultura che ha colpito di interdetto – si vedano i necrologi sui giornali – il semplice << è morto >> , e si nasconde dietro gli <>, << è mancato >>, << è scomparso >>, << ci ha lasciati >>, <> e così via coi patetici esorcismi che portano persino i medici a censurarsi. Nel loro linguaggio, infatti, la morte non ha il suo nome da tutti e subito compreso, e a tutti sgradito, ma quello da specialisti che capiscono il latino: exitus . Comunque anche per la sua crudezza, quella di sant’Alfonso è un’espressione estremamente efficace: non a caso, dopo averla letta una prima volta sono passati i decenni ma non l’ho più dimenticata. Se ne prendessero esempio tante omelie soporifere, piene di impotenti buonismi e di innocui appelli a dialoghi e accoglienze o anche – per i preti, ultimi orfani degli anni Settanta, col suo marxismo ridotto ad archeologia industriale – o anche di esortazioni all’impegno sociale e alle “lotte”, naturalmente sempre e solo “per gli ultimi“ ! E qui , un inciso mi viene spontaneo, non posso non ricordare il cardinal Giacomo Biffi , allora arcivescovo di Bologna, che sentii sbuffare, con la consueta ironia, in un incontro che avemmo: <>

Quando capiranno, tanti nostri pastori, come capirono i loro confratelli per secoli e secoli, che la vera provocazione, il vero scandalo, in senso evangelico, non è l’indugiare in analisi moralistiche di fatti di cronaca, magari politica, ma ricordare innanzitutto una realtà terribile o meravigliosa, a seconda della coscienza di chi ascolta? Questo tempo breve che ci è dato, cioè, questi anni che fuggono sempre più velocemente man mano che l’età avanza, ci sono stato dati solo preparazione all’eternità . Il Codice di diritto canonico ricorda, al termine delle sue articolate e complesse norme per regolare la Chiesa come istituzione, che la struttura è sì necessaria, per logica stessa dell’Incarnazione, ma non è che un mezzo per raggiungere lo scopo supremo. Salus animarum suprema lex Ecclesiae esto, ammoniscono i giuristi di quel Codex alla fine del loro lavoro. Tutto l’apparato mondano, tutta la struttura ecclesiale con il papato, le diocesi, le parrocchie e i rispettivi apparati non ha che un fine ultramondano: adoperarsi per la salvezza del maggior numero possibile di uomini e di donne nell’Aldilà.

XXXXXXXX

Ma, tornando al mio ospedale: nelle ore che scorrevano lente in quel letto, non era per le parole “scorrette “ – secondo l’ipocrisia del mondo- sui ricchi e la loro fine che mi veniva in mente il celeberrimo, un tempo, Apparecchio alla morte. Guardando il flacone di farmaco che sembrava non svuotarsi mai, pensavo ad una altra esortazione, quella centrale del libro di sant’Alfonso : la necessità, per tutti, di meditare sull’eternità che sta nel futuro comune. Eternità di vita felice ,ma anche di possibile vita infelice, per usare un timido eufemismo. Diceva il libro, lo ricordo bene (qui cito ad sensum, non riuscendo a ritrovare il testo nell’eccesso di volumi della mia biblioteca), diceva, dunque, per cercare di far capire la posta in gioco: << Immagina, lettore, di star fermo, in piedi, davanti a un blocco di durissimo granito alto più di cento piedi. E pensa a un goccia, una soltanto, che vi cade sopra ogni cent’anni. Ebbene, quando le gocce, millennio dopo millennio, avranno perforato tutta quell’alta roccia, sappi che l’eternità non sarà neppure cominciata>>. Immagine, anche questa, tanto cruda quanto efficace. Il gocciolio che mi sovrastava, in quell’ospedale bresciano, sarebbe durato alcune ore ma sapevo che, comunque, avrebbe avuto un termine a breve, ogni stilla che cadeva mi avvicinava all’infermiere che mi avrebbe tolto il pungiglione dell’ago e tolto al contempo dall’immobilità: avevo, da uomo libero, fatto colazione al mattino, avrei fatto cena, nuovamente libero, alla sera. Ma se non fosse finito mai, proprio mai? Se non ci fosse più stata la speranza di un termine? Se davanti a me si ergesse la roccia alta cento piedi, alla quale ne sarebbero seguite altre, all’infinito?

Come càpita, credo, a chiunque , non riesco a meditare sul concetto di “ eternità “ senza essere colto da una sorta di vertigine. Sant’Alfonso ci esorta a farlo per sgomentarci, per metterci in guardia dall’inferno eterno che minaccia i peccatori che si ostinano sino alla fine nei loro errori e che non confidano nell’aiuto di Dio , sempre possibile purché lo si chieda. Ma la stessa eternità la ritroveremo , ci assicura la fede, in paradiso . Dolore senza fine da una parte , gioia senza fine dall’altra . Qui pure vengono, a pensarci dei brividi: ma di quelli da augurare a noi e agli altri. Mi viene in mente il frammento di un altro autore cristiano, morto pochi decenni dopo del santo napoletano, mi viene in mente, cioè l’annotazione esultante del solito Pascal : << Eternamente felici in Cielo per un poco di esercizio in Terra! >>. Eh, sì , vale davvero la pena – per trovare sia salutare spavento che confortante attesa- di riflettere almeno un poco su infinito ed eternità .

XXXXXX

In ospedale càpita , ovviamente, di intravedere morti. Dico intravedere perché, appena spirati, un infermiere li copre subito con un lenzuolo, in attesa che intervengano quelle che , con un termine barocco giunto sino a noi, chiamano “pompe funebri “. Non si capisce se quella frettolosa copertura del cadavere sia una reazione di rispetto o di timore: la fretta affannosa di nascondere la morte, quel rimuoverla come se non esistesse che contrassegna la nostra cultura.

Ecco, mi viene da pensare davanti a ogni cadavere, ecco : ora costui “sa”. I morti, ed essi solo , sono i veri sapienti. Varcata la soglia dell’Aldilà, l’ignorante, l’analfabeta , l’anonimo ne sa all’istante infinite volte di più del grande, famoso filosofo o, in generale, pensoso ed ascoltato intellettuale. Costoro, su ciò che conta, sul mistero del vivere e del morire , possono solo avanzare ipotesi, tanto più illusorie quanto più sofisticate. Il morto, invece, ogni morto, non ipotizza ma vede, constata . Appunto, “sa“. Comprende di colpo come stiano davvero le cose, in Terra come in Cielo. Dunque, quel vecchietto che ieri ho visto agonizzare, quell’omino che a medici e infermieri sapeva parlare solo in dialetto e probabilmente non sapeva che significasse pensare se non per affrontare i semplici eventi della sua anonima vita quotidiana; dunque, ora lo intravedo morto e la fede mi assicura che adesso ne sa mille volte di più non solo di me ma anche di un grande maestro di filosofia, di un premio Nobel, dell’autore di molti saggi riveriti, dall’aspetto profondo e in realtà ingannevoli .

Credo che anche ai sapienti secondo il mondo la misericordia del Cristo aprirà le porte del paradiso, ma solo dopo aver constatato e dunque riconosciuto, con umiltà, che quella loro sapienza era troppo spesso quella di ciechi alla guida di altri ciechi.

XXXXX

Restando in tema , mi va ora di parlare un poco di sant’Andrea Avellino. Chi era costui ? Sospetto che anche molti cattolici, pur praticanti, ne conoscano soltanto il nome : e magari neanche quello . Dunque, occorre un piccolo promemoria. Vissuto nel Cinquecento, lucano di Potenza, avvocato in giovinezza, si fece Teatino, sacerdote cioè della famiglia religiosa appena fondata che ebbe un grande ruolo nella lotta contro l’eresia protestante e nella successiva riforma cattolica. Una curiosità: l’ardita, grande cupola (ora in restauro dopo l’incendio) della cappella che, a Torino, custodisce la Sindone e sovrasta la cattedrale della città, fu costruita da padre Guarino Guarini , uno dei maestri del barocco, nonché frate teatino. Nella giovane Congregazione, il già avvocato Avellino lavorò senza badare a fatiche e a rischi . Addirittura fu vittima di due aggressioni che, nelle intenzioni, dovevano essere mortali: lo si voleva uccidere per vendicarsi delle severe riforme che aveva imposto a monasteri, sia maschili che femminili, dove le regole erano assai rilassate. A tal punto era degradata la vita religiosa: si poteva giungere all’omicidio pur di non rinunciare agli agi e ai vizi dei conventi. Malgrado l’impegno febbrile arrivò ad età avanzata. Aveva già superato gli ottanta quando, celebrando all’alba la messa , ancora in forze e apparentemente in buona salute, fu fulminato da un infarto e si accasciò sull’altare con nelle mani l’ostia appena consacrata .

Da questa morte (la più bella, in fondo, per un sacerdote come lui, innamorato della divina liturgia) nacque il culto: fu invocato come difensore dalle morti improvvise, fu pregato come intercessore perché la morte non ci colga impreparati, perché si abbiano il tempo e le forze per ricevere i tre sacramenti pegni di salvezza . La confessione, l’eucaristia , l’unzione degli infermi.

La mia famiglia non era religiosa ma, tra le poche tracce di devozione – o presunta tale – mi colpiva l’invocazione o, meglio l’interiezione , di alcune mie parenti alla notizia di qualche morte improvvisa. Sant’Andrea Avelein!, esclamavano storpiandone il nome, mentre io mi chiedevo chi fosse quel tale. Ebbi poi, ovviamente. l’occasione di conoscerlo e, così, ormai da molto tempo, è tra i santi di cui ogni sera chiedo l’intercessione . Ne faccio con reverenza il nome ovviamente dopo quello , illustre tra tutti, di san Giuseppe “patrono della buona morte“ : e non a caso, essendo spirato, secondo la Tradizione, nella sua casa di Nazaret , avendo al capezzale la moglie Maria e il figlio Gesù. Quale assistenza più eccelsa ? Sant’Andrea è colui che intercede per la grazia che la maggioranza dei nostri contemporanei non solo non desidera ma rifiuta spaventata. Interrogando la gente , se si ha il coraggio (ne occorre, visto il divieto sociale anche solo di accennare a questo) il coraggio, dunque, di chiedere come vorrebbero morire , la risposta della maggioranza è : nel sonno, di colpo, senza accorgermene. E’ proprio ciò che il cristiano dovrebbe chiedere al santo lucano di evitarci : gli si domanda di intercedere per permetterci di “vivere la morte“ , preparandoci in modo adeguato, accompagnati dalla preghiera di chi ci vuol bene e dai sacramenti della Chiesa. L’ossessione attuale del viaggio turistico porta tanti a perdere tempo e fatiche per la richiesta di passaporti, di visti , di vaccinazioni, di informazioni, di prenotazioni, magari di abiti adeguati al clima dell’esotico luogo dove si desidera andare. E proprio per il viaggio definitivo, quello senza ritorno, quello che ci condurrà nella dimensione eterna , proprio per quello non solo non cerchiamo ma rifiutiamo la preparazione adeguata?
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06/04/2015 21:12
 
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Passione per i cristiani: le cause ed il senso.

aprile 3, 2015/in 2015, Uncategorized /


di Vittorio Messori, Corriere della Sera, 3 aprile 2015

Venerdì di passione per il Cristo ma anche per troppi cristiani. Proprio mentre scrivo, giungono notizie drammatiche, le ennesime: questa volta, dal Kenya. La croce di Gesù sul Golgota è divenuta realtà per tanti suoi seguaci. I cristiani, infatti, stando a insospettabili statistiche, sono da anni la comunità umana più perseguitata. Il totale delle vittime tende ad aumentare e coinvolge tutte le confessioni che si rifanno al Vangelo, anche se i cattolici hanno un triste primato , rappresentando la parte maggiore . I carnefici non vengono certo solo dall’Islam ma anche da comunità che la leggenda rosa occidentale rappresentava come miti, pacifiche, fraterne. La ferocia di alcune sette induiste sembra voler gareggiare con quelle musulmane, ma pure da qualche ramo buddista viene una persecuzione crescente. Anche l’animismo pagano dell’Africa nera vive ormai da tempo un risveglio sanguinario e pratica volentieri la caccia al missionario cristiano e magari il genocidio verso gli autoctoni che hanno accettato il battesimo.

Perché questi massacri? Probabilmente, il fattore maggiore è un caso esemplare di quella “eterogenesi dei fini “ che deforma ogni ideologia umana , rovesciando le intenzioni, anche le migliori , nell’esatto contrario. Ecco, dunque, l’utopia mondialista, le bandiere arcobaleno, tutti i popoli del globo che si tengono fraternamente per mano e vivono in pace, operando per un progresso , ovviamente “sostenibile“. Ecco ancora, sul piano economico, l’ideologia globalista: un mondo integrato , con razionale spartizione del lavoro e dei beni , con un benessere (o, almeno, una esistenza dignitosa ) per ogni Paese e ogni popolo . In realtà è avvenuto ciò che sempre – historia docet – è sempre avvenuto e avverrà: nobili gli obiettivi, ma disastrosi i risultati. I popoli hanno sentito minacciate le loro culture proprio dal mondialismo politico e dalla globalizzazione economica, sono divenuti consapevoli di una diversità di tradizioni che li distingueva da ogni altro popolo. Di queste culture, di queste tradizioni la religione autoctona è un cardine essenziale. Dunque, i nazionalismi che, paradossalmente, l’utopia della mondialità ha risvegliato si sono fatti difensori, anche con le armi, della fede dei loro antenati, intesa come elemento di coesione politica per la salvaguardia della diversità. Il cristianesimo, anzitutto, è stato ed è avvertito come un corpo estraneo, da scacciare o, se necessario, da schiacciare con la violenza. Ma perché il maggior accanimento verso i cattolici ? Perché il suo cristianesimo è sentito come il più estraneo di tutti, come inassimilabile (a differenza di certe sette di un protestantesimo pronto ad ogni concessione) in quanto dipendente da un’autorità lontana e ritenuta nemica : la Chiesa romana e la rete di vescovi che da essa direttamente , e strettamente , dipendono.

Per stare ai cattolici: in certi settori ecclesiali c’è malcontento verso papa Francesco, sospettato di reagire in modo tiepido, timido, a questa mattanza di figli della Chiesa di cui pure è pastore. Verità imporrebbe di riconoscere che il rimprovero non sembra giustificato: in effetti, qualcuno ha potuto compilare una sorta di antologia delle denunce al proposito del pontefice. E’ comunque curioso: proprio coloro che lodano (e giustamente ) la prudenza di Pio XII verso coloro che seguivano il Mein Kampf , si lagnano della prudenza del suo attuale successore soprattutto verso coloro che seguono, fino alle estreme conseguenze, un altro libro, il Corano. Il realismo cattolico ha portato i papi a firmare concordati con Napoleone, con Mussolini, con Hitler, e con molti altri tiranni. E’ lo stesso realismo che li ha indotti poi a una Ost Politik che scandalizzava i puri e duri dell’anticomunismo, che ha portato Giovanni XXIII a negoziare con i sovietici il silenzio del Concilio sul comunismo in cambio di una mitigazione della persecuzione e che porta ora Bergoglio a non ignorare il problema, ma a muoversi con prudenza obbligata. Obbligata, certo, come fu sempre quella ecclesiale coi tanti persecutori della storia: non dimenticare ma, al contempo, tutelare le pecorelle minacciate dai lupi, cercando di porre limite alla loro ferocia o con trattati o, almeno, non eccedendo con la protesta pubblica . Facili, edificanti, virtuose le altisonanti denunce al riparo delle mura vaticane. Non altrettanto benvenute per chi debba poi, in lontani Paesi , subirne la conseguenze.

Comunque, in una prospettiva di fede – confermata però anche, e sempre, dalla storia – il sangue dei martiri è, per il cristianesimo, il seme non solo più prezioso ma anche più fecondo. Ogni volta, alle persecuzioni ha fatto seguito una nuova fioritura sulle radici di una Chiesa desolata. Ma, già ora, sembra di scorgere qualche frutto in un Occidente forse meno secolarizzato di quanto si creda: proprio il confronto tra la mitezza cristiana e la ferocia di altre religioni porta a riflettere sui valori di un Vangelo che non incita alla guerra santa ma al perdono di tutti, soprattutto dei nemici. Un Vangelo il cui Protagonista vieta ai discepoli di difenderlo con la spada e che, sulla croce, prega il Padre di essere indulgente verso i suoi stessi carnefici e verso quel popolo che a lui ha preferito Barabba. Un Vangelo i cui discepoli hanno anch’essi commesso violenze ma non da esso istigati, anzi da esso condannati. Forse non è solo folklore la scritta che, ci dicono, sta già dilagando dopo questa serie di stragi sulle magliette dei giovani tra Europa e America: Christianity is better.
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03/06/2015 22:57
 
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l'intervista a Messori

Ritorno alla materia

di Roberto Beretta
Il perìcolo per la Fede, oggi come ieri, è la gnosi, che odia il corpo e disprezzo la materia.
Ma Dio si è fatto carne e il Cristianesimo assicura la Risurrezione dei corpi.
Intervista a Vittorio Messori: l'antidoto è nei Santuari.



"Oggi i centri di resistenza del cristianesimo sono i santuari, in particolare quelli mariani. Sono essi i bastioni, le cittadelle erette contro l'espansione delle sette e del New Age". Spiazza sempre, Vittorio Messori, prende in contropiede e gioca palle alte per l'intelligenza.
D'altronde, non è lui attualmente il fantasista più accreditato della cultura cattolica, il giornalista che anche i colleghi "laici" ormai interpellano come massimo esperto di cristianesimo in Italia, lo scrittore di bestseller religiosi da milioni di copie (da "Ipotesi su Gesù" in poi) e il difensore delle ragioni della fede più noto al pubblico? Sì, a Messori gli apologeti cattolici devono più di un assist vincente; ma non solo essi: anche gli storici preoccupati di sapere la verità sulla Chiesa e i credenti curiosi di scoprire l'altra faccia delle "leggende" che circolano sul cattolicesimo.

Messori, oggi però le cose sembrano cambiate: le ideologie sono crollate, il Papa è osannato quasi ovunque, gli attacchi alla Chiesa interessano una minoranza di intellettuali e si torna a parlare senza pudore di miracoli e angeli. Dobbiamo dunque rallegrarci?
"Tutt'altro. Anzi, sono molto preoccupato del cosiddetto "ritorno della spiritualità", preferisco una società materialista a una sedicente spirituale: coi materialisti il dialogo è più facile".
Che cosa sta dicendo?
"È così. Non a caso la madre di tutte le eresie è la gnosi: la quale non accetta la sana materialità del cristianesimo ed ha orrore della carne, del corpo. Tutte le eresie, se si riflette, sono tentativi di dematerializzare la fede: basta pensare a cosa è successo all'Eucaristia nella Riforma protestante. Lo spiritualista poi rappresenta un problema anche perchè crede di essere un passo avanti, un gradino sopra; mentre nella religione dobbiamo difendere proprio la materialità. Per salvare l'anima in fondo basta Platone; per credere nell'immortalità dello spirito ci sono infinite filosofie; ma solo il cristianesimo afferma la salvezza dell'uomo tutt'intero, la resurrezione dei corpi. Ha ragione il cardinale Biffi: il paradiso non è rinunciare ai tortellini o spiritualizzare le lasagne, bensì mangiare tutti i giorni i tortellini senza paura del colesterolo e della bilancia".
Però arriviamo dalla lunga stagione della "morte di Dio", quando non si poteva neppur parlare di religione in pubblico. Invece adesso alla tv vediamo gli sceneggiati su Lourdes o Padre Pio...
"Attenzione: è un altro aspetto della religione self service. Nel carrello del supermercato mettiamo Padre Pio, gli angeli, la meditazione trascendentale, l'agriturismo nel monastero... Ma questo è il contrario della prospettiva cattolica; che ha pure un aspetto gerarchico, dogmatico, morale ben più difficili da accettare".
Insisto: almeno ora c'è spazio per temi cristiani in prima serata.
"Ma in fondo è la scoperta dell'acqua calda: l'intellighentia ha visto che, programmando il film su Lourdes o lo speciale sui miracoli, cattura milioni di spettatori, perchè il sacro è sempre stato di moda tra la gente comune. Stiamo attenti, però: di solito c'è un abisso tra il popolo e quanti credono di rappresentarne l'opinione".
La "conversione" degli intellettuali potrebbe dunque essere interessata?
"Proviamo a riflettere. Sono cadute le ideologie, c'è stata la crisi di tutti gli -ismi che avevano pensato di sostituire il cristianesimo: liberalismo, socialismo, marxismo, nazismo, fascismo, i quali non sono altro che tentativi di trasferire la speranza cristiana dal cielo alla terra. La cultura che aveva prodotto e diffuso questi -ismi si è trovata davanti al vuoto; per questo oggi riscopre la dimensione religiosa".
Curioso, però: del cristianesimo si sottolineano gli aspetti meno "razionali" e più sensazionali.
"Un giornalista francese mi ha detto che oggi nella Chiesa del suo Paese la parola più diffusa è "emozione". Il rischio del credente moderno è diventare homo sentimentalis, ovvero vivere in una vaga dimensione religiosa sganciata da un cristianesimo preciso. La fede invece è il contrario del sentimento in senso romantico, la fede è realismo. Altrimenti, quando non si "sente" più nulla, bisognerebbe abbandonare il credo...".
Vedremo dunque la Chiesa diventare il nuovo difensore della ragione?
"Ma la Chiesa lo è sempre stata, perfino in eccesso talvolta. Dell'illuminismo, in fondo, si può dire che è nato dalla tarda scolastica: Tommaso d'Aquino è un gran razionalista, peraltro equilibrato e geniale, e non parliamo dei tornisti... La Chiesa è sempre stata consapevole che, se la fede è dono di Dio, anche la ragione lo è e quindi non va rinnegata. Ancora il cardinale Biffi afferma che il contrario della fede non è la ragione, bensì la superstizione. E solo questione di equilibrio, dunque: nella sintesi cattolica sentimento e razionalità devono sempre convivere, le pascaliane "ragioni della ragione" devono unirsi alle "ragioni del cuore". Naturalmente nella prospettiva che l'ultimo passo sta nel riconoscere il mistero".
Il nuovo interesse per il sentimento potrebbe comunque essere un'occasione favorevole per la Chiesa, magari per rivalutare la sua antica "pedagogia del cuore" oppure le devozioni popolari.
"Penso che oggi i centri di resistenza del cristianesimo siano i santuari, in particolare quelli mariani. Nel santuario infatti non si abdica alla razionalità, ma nel contempo si appaga anche una sana emotività. Per esempio, la gente va a Lourdes fondandosi sulle ragioni storiche delle apparizioni e insieme vi incontra quei gesti la processione, l'acqua, le candele... che gli permettono di partecipare pure col corpo. Insomma, credo che il vero antidoto alle sette siano i 20 mila santuari mariam esistenti nel mondo. Sono essi che permettono di vivere la fede nella sua doppia dimensione: ragione e sentimento".
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12/06/2015 10:43
 
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Il Timone, di Vittorio Messori
Ma insomma! Con tutto quello che succede – nel mondo e nella Chiesa – con tutto quel che ci sarebbe da dire e da commentare , qui si continua a parlare di Madonne, magari di apparizioni? Così, immagino, la reazione di alcuni lettori di queste tre pagine mensili . Ebbene sì , anche stavolta farò spazientire quegli amici ma, confesso, non me sento colpevole e – per ora, almeno – non ho alcuna voglia di pentirmi e di emendarmi. Anzi, passerò addirittura a un contrattacco: anche tra cattolici credenti e praticanti, oggi, non si dimentica spesso che ciò che accade va sì conosciuto, vagliato, giudicato ma, se non vogliamo essere come il sale che ha perso il sapore, tutto va visto nella prospettiva della fede? A chi e a che cosa servirebbe il nostro parere, a chi potrebbe giovare il nostro impegno anche intellettuale, se non ci misurassimo con un Vangelo che è il prius da cui tutto deve derivare e della cui verità non dobbiamo dubitare? La fede nel Dio di Cristo innanzitutto: il resto seguirà. Ebbene, come non mi stanco di ricordare (ripetendo l’ovvio, ma che molti cattolici sembrano dimenticare), quella che chiamano “ mariologia “ non è un di più per sentimentali, un accessorio che potrebbe non esserci, bensì una parte integrante della cristologia . Non ci sono dogmi “mariani“ : ciò che la Chiesa afferma della Madre non è che conferma e difesa della fede nel Figlio. Così è anche delle apparizioni –quelle, s’intende, sulla cui verità la Chiesa si è ufficialmente impegnata– che sono in fondo, come mi è capitato di dire, come maniglie alle quali aggrapparsi quando la fede sembra vacillare, quando il dubbio ci insidia . Dunque , essendo essenziale confermarci innanzitutto nella verità del Vangelo -e poiché questa possibilità passa anche da Maria e dalla sue tanto rare quanto preziose visite tra noi- anche stavolta sarò impenitente e ancora una volta lo spazio assegnatomi lo dedicherò a questo.



XXXX

A noi, dunque, per ricordare che, nel 1862, il vescovo di Tarbes, mons. Laurence, pubblicava il risultato di quasi quattro anni di indagini, interrogatori, riflessioni, concludendo: <>. Proprio allora, Joseph Ernest Renan stava dando gli ultimi ritocchi, correggendo le bozze, della sua Vie de Jésus che, pubblicata l’anno dopo, sarebbe stata il maggior best seller internazionale della seconda metà del XIX secolo. Renan, come si sa, aveva compiuto tutti gli studi in seminario ma, arrivato alle soglie del sacerdozio, aveva perduto non soltanto la vocazione ma anche la fede. A questo era giunto scoprendo con entusiasmo la nuova esegesi biblica del protestantesimo liberale tedesco che salvava sì il rispetto, anzi l’ammirazione, per la figura di Gesù in quanto uomo. Ma scrostava dalle Scritture tutto il soprannaturale , considerato inaccettabile nell’età della scienza e del progresso culturale . Così, il Nazareno era lodato, ma solo come grande moralista, come annunciatore di fraternità, di tolleranza, di amicizia tra tutti gli uomini. Ma niente miracoli, niente profezie. niente risurrezione: miti, questi , creati dalla superstizione religiosa.

Dunque, proprio mentre a Lourdes la Madre del Cristo si mostrava per deprecare il peccato e raccomandare preghiera e penitenza (concedendo come segno di verità anche prodigi di guarigione fisica), l’intellighenzia laica europea affermava che non esisteva altra realtà che quella terrena, che la fede era una illusione dannosa, distogliendo gli uomini dal progresso. I più generosi ammettevano l’esistenza di un Creatore – un massonico Grande Architetto – che se ne stava però nel suo Aldilà lasciando che gli uomini, ed essi solo, amministrassero il mondo.

Di tutto questo Renan (che non apparteneva alle Logge, pur essendone un beniamino, dicendo, col suo sorrisetto beffardo, che non aveva ripudiato una Chiesa per aggregarsi ad un’altra) Renan, dunque, di questo si fece divulgatore con quella sua Vita di Gesù, basata sugli ardui studi dei professori teutonici ma priva di note erudite, per raggiungere i lettori “comuni“ che erano poi quei membri della borghesia cui lo stesso studioso apparteneva. Quanto al popolo, ai”proletari”, come li chiamavano i socialisti ed i primi comunisti: sembravano anch’essi bene avviati sulla via dell’abbandono delle superstizioni cattoliche, ma ecco che eventi del tutto imprevisti come le sedicenti apparizioni di Lourdes rischiavano di deviarli dalla via della Ragione, di ricondurli al seguito di preti e frati, con le loro favole spacciate per eventi divini. E’ significativo che nel 1894 Emile Zola, il caposcuola della letteratura di un positivismo ateo o almeno agnostico, pubblichi un romanzo-verità ( spacciato cioè per un reportage oggettivo, in realtà fazioso e fuorviante ) dal titolo Lourdes , tutto dedicato a confutare la verità di quanto testimoniato da quella povera isterica di Bernadette . Molti conoscono , almeno di fama, quel libro . Ma , per tornare a Renan , ben pochi sanno che vent’anni prima già quell’ex seminarista progettava non un romanzo , non era nella sua vena, ma un saggio sullo stesso soggetto e con le stesse intenzioni demolitorie .

E’ una storia che vale la pena di raccontare e che gira attorno alla figura di Dominique Jacomet , il commissario di polizia a Lourdes di cui conosciamo l’attività infaticabile per smascherare ciò che ai suoi occhi non era che fanatismo pericoloso per l’ordine pubblico. Per avere fatto quello che era il suo dovere , anche se certamente con eccesso di zelo , divenne inviso alla popolazione , dopo essere stato rispettato e anche amato per l’attività seria ma cortese da lui espletata nella cittadina. L’impressione popolare fu che si accanisse , quasi per fatto personale, su quella povera ragazzina. Per questa impopolarità presso la gente , alla fine di quello stesso 1858 il governo – su suggerimento del prefetto di Tarbes – lo sollevò dall’incarico di commissario a Lourdes e lo inviò in Provenza , promuovendolo di grado. Non, dunque, per una punizione che sarebbe stata ingiusta. Morirà a Parigi , nell’agosto del 1873, quindici anni dopo le apparizioni, ricevendo devotamente i sacramenti , da quel cattolico sincero che era : non si dimentichi la sua stretta amicizia con il parroco, don Peyramal, che , almeno all’inizio, condivideva la sua diffidenza verso Massabielle. Andadosene da Lourdes , Jacomet portò con sé il dossier riguardante le apparizioni: una illegalità , ma che fu praticata da tutti coloro che ebbero parte in quegli eventi, dal prefetto ai magistrati , timorosi di far brutta figura con le loro azioni di severo contrasto , dopo che la Chiesa aveva dichiarato solennemente che Bernadette non aveva mentito , che la Vergine Immacolata era davvero apparsa in quella grotta malfamata. Sei anni dopo la morte del commissario, la vedova ricevette la visita del padre Cros , il gesuita di cui parlammo i mesi scorsi, che aveva l’incarico di raccogliere la documentazione per stendere una storia “ scientifica “ delle apparizioni. La signora Jacomet accolse il religioso malvolentieri, con spirito aggressivo : aveva un pessimo ricordo di quel 1858 così turbolento e dal quale il marito aveva ricavato una immeritata fama di persecutore . Non ignorava che a Lourdes erano nate e si diffondevano, addirittura, storie assurde sul commissario che, per il rimorso, sarebbe impazzito e avrebbe ucciso non soltanto se stesso ma anche i familiari. La donna, dunque, rifiutò recisamente di mettere il dossier custodito dalla famiglia a disposizione del padre Cros. Quelle carte – sia detto per inciso – non solo si salveranno ma, per una serie di circostanze provvidenziali, saranno donate agli archivi di Lourdes nel 1957, proprio mentre René Laurentin stava compilando la sua monumentale raccolta di documenti. Così, poterono essere utilizzate per la pubblicazione dell’opera nell’anno successivo quello del centenario.

Per tornare alla vedova del commissario: per confermare al padre Cros che la famiglia non intendeva ritornare, a nessun prezzo, su quei tempi che l’avevano tanto segnata si lasciò andare a una confidenza. Disse, cioè, che il marito era stato contattato da Ernest Renan tramite un intermediario (un docente di una scuola nei Pirenei, amico e ammiratore dello studioso), per ottenere sia l’archivio sia la collaborazione di colui che, da commissario a Lourdes , aveva seguito tutto l’affaire, convinto che si trattasse di allucinazioni o peggio. La vedova Jacomet aggiunse (e ripeté davanti allo stupore del padre Cros) che Renan aveva offerto un compenso eccezionale : ben 40.000 franchi. Una somma molto elevata ma che , ovviamente, lo scrittore non avrebbe sborsato di tasca propria ma che avrebbe messo in conto all’editore, disponibile a pagare anche molto perché il libro sarebbe stato certamente un grande successo, vista la notorietà internazionale dell’autore. <> disse la donna << sarei stata favorevole ma mio marito rifiutò, malgrado le insistenze: era cattolico e mi disse che non avrebbe mai collaborato con chi, come Renan, intendeva combattere la Chiesa cattolica >>. Un rifiuto che fa onore a Jacomet e stupisce che tutti gli storici ignorino l’episodio, pur storicamente sicuro, visto che sia al Ministero degli Interni che a quello della Giustizia confermarono al ricercatore gesuita che Ernest Renan aveva fatto richiesta (non accolta per ragioni di riservatezza, non essendo ancora passato il tempo dopo il quale i documenti dello Stato divengono pubblici) richiesta, dunque, di consultare gli archivi sul caso Lourdes. Onore, dunque , all’onesto poliziotto, anche se Laurentin, esaminando i documenti un secolo dopo, ha potuto constatare che Renan avrebbe perso tempo e denaro, visto che il dossier non conteneva nessuna rivelazione imbarazzante, nessuno spunto contro la verità di Massabielle. Ma onore anche alla piccola Bernadette: la vicenda di cui era stata così docile e fedele testimone era così importante da indurre lo storico del cristianesimo più celebre e stimato –almeno dalla cultura anticlericale, allora egemone -, il prestigioso membro della Académie de France a non badare a spese né a fatiche pur di confutarla.

Il fatto è che, dopo il disastro umiliante della guerra con la Prussia, la Francia aveva conosciuto un fortissimo risveglio religioso: i credenti vedevano nella imprevista débacle del 1870 la punizione per un Paese che aveva abbandonato sempre più le tradizioni cristiane, cercando piacere, benessere , potenza politica e militare. La “esplosione“ di Lourdes come santuario nazionale, l’incredibile aumento – sempre più accelerato, di anno in anno – del numero dei pellegrini è favorito sì dalla possibilità inedita di raggiungerlo in treno, ma anche del bisogno di preghiera, di riparazione, di richiesta do perdono di un popolo avvilito, mutilato – la cessione di Alsazia e Lorena – strangolato dalla spietata pretesa tedesca di rimborso delle spese e dei danni di guerra . Questo robusto revival esplicitamente cattolico, sorprese e preoccupò Renan e la cultura di cui era il rappresentante più prestigioso: si attendeva il declino irreversibile della fede sotto i colpi della critica biblica e di una scienza che si presentava come nuova religione ed ecco che, invece, sembrava tornare il Medio Evo dei pellegrinaggi di massa, delle processioni, dei canti devoti, delle penitenze, delle benedizioni eucaristiche. La medicina moderna avanzava a grandi passi ed ecco che, per la guarigione del corpo, si implorava da Dio il miracolo, immergendosi in piscine come in tempi remoti. Bisognava che la cultura moderna intervenisse, i sapienti delle università ormai del tutto laicizzate avevano il dovere di contrastare quell’anacronistico ritorno al passato: invece di ascoltare la loro scienza, si arrivava allo scandalo di dare credito alle allucinazioni di un’adolescente analfabeta! Ecco, dunque, il professor Renan mobilitarsi, denaro alla mano, per mostrare l’inganno di quella grotta, servendosi dei documenti delle autorità statali e della testimonianza del commissario di polizia che aveva tentato, invano, di fare finire una carnevalata che si era trasformata on un fenomeno di massa sempre più esteso e sempre più preoccupante .



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Ma, visto che parliamo di un Renan battagliero, impegnato nella campagna contro quel cattolicesimo in cui era stato allevato e da cui aveva ricevuto l’istruzione biblica che fece la sua fortuna anche mondana, viene da accennare pure al Renan settantenne, sul letto di morte. Il racconto della sua fine non è un’altra “leggenda nera“ cattolica , visto che ci è riportato dal diario della moglie stessa, fedele anche nel condividere le idee del famoso marito. L’agonia dello studioso cominciò alla fine di settembre del 1892. Resosi conto che la morte si appressava, cedette qui pure a quella vanità che lo contrassegnava e di cui tutti sorridevano, lagnandosi di andarsene quando ilTout Paris non era in città ma in campagna, visto che allora le vacanze coincidevano con l’inizio della vendemmia . Dunque, non ci sarebbero stati ai suoi funerali gli uomini illustri e i dotti famosi di cui era amico e spesso maestro. Ai familiari e ai discepoli che circondavano il suo letto confermò la sue credenze: << Muoio in comunione con l’umanità e con la Chiesa dell’avvenire >>, intendendo per questa una Chiesa che rinunciasse alla divinità del Fondatore, non adorandolo come Figlio del Padre ma semplicemente venerandolo come grande saggio e sublime moralista. Alla pari, dunque, di un Budda, di un Confucio, di un Socrate . Il primo di ottobre, le sue condizioni peggiorarono e, nel dormiveglia, uscì in una frase enigmatica ordinando in modo brusco ai medici e agli astanti: <>. Tutti pensarono a una delle sue pagine più celebri, quella Prière sur l’Acropole dove, visitando il Partenone di Atene al ritorno dal viaggio in Palestina, uscì – lui “barbaro“ nato nella nebbiosa Bretagna- in espressioni di venerazione per la bellezza e l’armonia che l’antichità pagana aveva saputo creare. Ma perché, sul letto di morte , quel grido di “togliere il sole“ dal tempio che tanto aveva ammirato? E perché, subito dopo, chiamò il figlio e cominciò a dettargli un testo, subito interrotto, sull’architettura delle moschee? Delirio? Non sembra, visto che disse pure cose sensate. In ogni caso , come si constata, sempre e comunque il suo pensiero si aggirava attorno alle religioni: cristiana, pagana (il Partenone è un tempio), musulmana.

Venuta la sera e lucido come al solito, cominciarono le ore più drammatiche ma anche più enigmatiche. Sino all’alba del 2 ottobre, quando spirò (le campane suonavano a festa, la Chiesa celebra quel giorno la festa degli Angeli Custodi), ripeté in modo ossessivo, a voce alta e forte un lamento angoscioso: << Ayez pitié de moi, mon Dieu, ayez pitié ! J’ai pitié de moi-meme ! >>, abbiate pietà di me, mio Dio, io ho pietà di me stesso. Perché pietà di se stesso se, fino all’inizio dell’agonia, si era mostrato , come sempre, lieto dei grandi successi culturali e sociali della sua vita? E se fino a poche ora prima aveva raccomandato alla moglie di seguire la fortuna editoriale dei libri di cui tanto era fiero, vegliando che fossero ristampati e diffusi? Mai aveva mostrato dubbi od esitazioni sulla sua prospettiva irreligiosa, sul suo rifiuto non solo del cristianesimo ma di ogni fede al di là del suo vago deismo o panteismo. Perché, allora, chiedere perdono a Dio, a un Dio soltanto, proprio, lui nemico dei monoteismi?

Questo è quanto i familiari hanno voluto dirci su quella drammatica agonia ma, stando a molti, ci fu di più : qualcuno pensa addirittura a un rinnegamento della sua opera e a un ritorno in extremis alla fede della sua infanzia e prima giovinezza. Deus solus scit . A noi non è lecito andare oltre. Ci è lecito semmai ricordare (molti lo ignorano) che, ci sia stata o no una conversione , seppure estrema, per lui, questa certamente c’è stata per il nipote, Ernest Pischari, il figlio della sorella. Chiamato Ernest in onore del nonno che molto lo amava, considerandolo quel figlio che avrebbe desiderato e che non aveva avuto, il giovane si diede a una vita viziosa che sfociò in un tentativo di suicidio. Cercando una disciplina che desse un po’ d’ordine alla sua vita, entrò nell’esercito che lo destinò ai presidi isolati e desertici delle colonie africane . Nella solitudine delle zone disabitate della Mauritania il suo temperamento mistico ereditato forse dal padre, uno scrittore e filologo greco, lo indusse a una radicale conversione: dall’ateismo, a una fervente fede cattolica . Ritornato in Francia , si legò d’amicizia con il gruppo di altri famosi intellettuali convertiti , tra cui Maritain e Péguy . In libri di grande valore e diffusione – soprattutto Le voci che gridano nel deserto e Il viaggio del Centurione, uscito postumo- descrisse il suo approdo al Vangelo. Scoppiata, nel 1914, la guerra subito fu inviato al fronte al comando del suo reggimento. Prima di partire , volle fare una confessione generale, dicendo poi agli amici cattolici che offriva la sua vita non solo per la patria, che amava, ma anche per la salvezza eterna del nonno, Ernest Renan, per il quale ogni giorno pregava . Infine, annunciò la sua decisione: se fosse tornato dalla guerra, sarebbe entrato in convento per divenire frate domenicano. Tre sole settimane dopo l’inizio delle ostilità, cadde in Belgio mentre cercava di contrastare la vittoriosa avanzata tedesca. Ci piace pensare che, in paradiso, abbia riabbracciato il nonno, quel celebre “miscredente“, che forse , sul letto di morte, aveva ritrovato quella via cristiana su cui da giovanissimo si era incamminato.
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01/11/2015 19:47
 
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di Vittorio Messori, Il Timone

La teoria detta del gender in quel latino di oggi che – più che l’inglese di Inghilterra – è l’americano, non è che una delle più recenti ideologie , una delle tante che si sono susseguite in Occidente dal Settecento e che sono sparite dopo essere state scambiate per autentiche rivelazioni. Mi tornava in mente, proprio in questi giorni , l’ultimo Sartre: << Dopo il marxismo, nulla>>, nel senso che lo schema del vecchio Karl era secondo lui il segreto definitivo del mondo e della storia. Abbiamo visto come è andata a finire. Le ideologie hanno sempre lasciato dietro di sé dei danni, degli inquinamenti, in ogni caso alla fine sono state tutte archiviate a forza, perché lo schema creato da intellettuali teorici non ha retto alla prova della realtà. La quale è sempre più complessa e più tenace di quanto non sappiano e non prevedano gli ideologi.

Dunque, dopo una vita passata a riflettere sulla storia invito alla calma o, almeno, alla pazienza quei pur eccellenti credenti, quei fratelli nella fede che prendono sul tragico ciò che via via si succede nel mondo. Mi permetto di esortarli a considerare quella che la celebre scuola di storici francesi chiama la longue durée, la lunga durata. In una simile prospettiva, tutto si relativizza e sempre più appare giustificato il famoso e bel motto dei Certosini: Stat Crux dum volvitur orbis, la croce sta salda mentre il mondo gira.

Torniamo allo schema oggi di turno, al grottesco gender, alla sua teoria risibile secondo la quale il diverso comportamento di maschi e di femmine non sarebbe “naturale “ bensì determinato da ruoli imposti nella storia . La teoria è che non esisterebbero uomini e donne, etero e omosessuali, ma ciascuno sarebbe libero di rompere le catene (imposte soprattutto dalle religioni, il cristianesimo in primis) e seguire il suo naturale orientamento sessuale, quale che sia. Tutti eguali, differenziati con la forza solo da un complotto che risale addirittura alla preistoria, che non è mai cessato e che solo ora è stato smascherato.

Beh, confesso che ogni mattina mi vengono in mente queste sciocchezze mentre faccio colazione leggendo i giornali. E’, questa, una delle mie abitudini inveterate: scorrere le cronache di carta mentre attorno a me si muove l’umanità di carne. Un modo per non perdere il contatto con la realtà . Da qualche tempo frequento, per questo rito cui non so rinunciare, il dehors di un albergo, con servizio bar, sulla strada litoranea del lago di Garda . E’ la via che da Desenzano porta a Salò e da lì risale verso le già austriache Riva e Arco, toccando località sacre al turismo sin dalla Belle Epoque : Gardone Riviera, Toscolano , Gargnano, Limone …

La terrazza dove, assieme ai giornali, mi consegnano il cappuccino e la brioche è un po’ sopraelevata rispetto alla strada e dunque ogni tanto sollevo gli occhi per osservare il flusso del traffico. Da qui, sembra passare il mondo: italiani di ogni regione (chi va a Venezia spesso dà almeno un’occhiata al Garda) , austriaci, tedeschi, olandesi , francesi, danesi e altri scandinavi come svedesi e norvegesi . Da qualche tempo, molti i russi : su auto proprie o noleggiate in aeroporto. Mi diverto a guardare questi motorizzati, ben visibili perché in questa stagione hanno i finestrini abbassati e il traffico li costringe ad andare adagio. Ebbene , da una mia valutazione basata sulla osservazione diretta, lo schema è costante per oltre il 90 per cento dei casi : al volante lui, nel sedile accanto lei; e dietro, se ci sono, i figli. Questo per le automobili ma per le moto (numerosissime) si arriva al 100 per cento : lui chino sul manubrio e dietro lei, avvinghiata al “suo“ uomo. Ci sono stato attento ma non mi è mai successo di vedere una donna alla guida di una moto o scooter che sia, con l’uomo come passeggero. Siamo di nuovo al 100 per cento per quanto riguarda i camper, queste case su ruote. Parallela alla trafficata strada, c’è la pista ciclabile . Qui pure, una costante : nella quasi totalità dei casi, ecco l’uomo che pedala davanti e la moglie, o compagna che sia , che lo segue. E’ l’uomo che apre la strada e sceglie il percorso, sembra dire chiaramente questa costante posizione dei ciclisti.

Le donne che transitano da qui sono di ogni Paese e di ogni cultura, molte vengono da un Nord Europa che -vista la scomparsa del protestantesimo storico, divenuto corifeo acritico di ogni moda via via egemone- non possono essere sospettate di schiavitù a schemi oscurantisti e clericali. Tutte, poi, sono sicuramente munite di patente e potrebbero benissimo mettersi al volante. Non lo fanno perché preferiscono lasciare all’uomo una fatica? Ma quale fatica , per molte femmine, soprattutto in vacanza, condurre un’ auto è un piacere, non certo un peso! Eppure tutte -spontaneamente, senza alcuna costrizione , forse senza consapevolezza del significato del gesto- tutte sono contente di lasciare a lui la guida. Guida dell’auto o della moto , ma metafore significative della guida anche nella vita. A ciascun sesso è data una funzione, una vocazione, una eguaglianza radicale e al contempo una radicale diversità. E’ parte essenziale di un Progetto che non potrà mai essere scardinato da qualche chiacchierone .

Dite che sono banali le conseguenze che traggo dall’osservazione della strada più turistica del Garda, da questo meeting point di europei ed europee? Mah ! Almeno per me, banali non sono. Mi sembra, in ogni caso, seppur minore e pragmatica, una delle infinite conferme di quanto siano lontane dalla realtà le astrattezze disumane del gender. Ancora una volta, un po’ di pazienza e poi ne rideremo, anche se piomberemo certamente sotto il segno di un’altra utopia. Abbandonata la via del Vangelo, il mondo non sa, non può farne a meno. E questa non è apologetica.

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Visto che siamo, più o meno, in tema. E tanto per confermare che le mode culturali vanno e vengono. Anna Frank (quella del famossimo Diario , morta nel 1944 nel campo di concentramento di Bergen Belsen) aveva una spiccata propensione omosessuale. Una quasi coetanea, Jacqueline, era per lei davvero l”amica del cuore“ : c’era intimità tra le due ragazzine , spesso dormirono nella stessa camera, Anna le propose di far sesso ma l’altra le permise soltanto di baciarla sulla bocca. Scrive Anna, fra l’altro che, vedendo immagini di donne nude nei libri d’arte, trovava questa vista << così meravigliosa e bella>> dal doversi forzare per << non cominciare a urlare >>. Pensando al rifiuto di Jacqueline di andare oltre ai baci, questa martire della ferocia nazionalsocialista appunta sul Diario: << Ah, se solo avessi un’amica !>>. Un’amica, cioè, da amare non soltanto in senso spirituale ma anche carnale . Nel Diario vi sono qua e là altre tracce esplicite del desiderio lesbico, di cui Anna parla con spontaneità, ben lontana dall’immaginare che quelle pagine che credeva solo sue sarebbero state non solo stampate ma diffuse in milioni di copie.

Ebbene, quando – nel 1947 – il padre di Anna fece pubblicare quegli appunti personali della figlia, censurò il testo, togliendo alcuni brani che sembravano allora intollerabili e dando un nome maschile, Peter, all’amica Jacqueline . I tempi erano ancora quelli in cui l’omosessualità era cosa di cui non parlare e, se proprio necessario, da deprecare come il “vizio inconfessabile“, come “l’amore che non osa dire il suo nome“ . Dunque, i turbamenti di una ragazza non potevano avere come oggetto altro che un ragazzo, ui si diede il nome di Peter. Anna Frank lesbica? Chi l’avesse anche solo prudentemente ipotizzato rischiava la galera per diffamazione e in più la persecuzione da parte di folle di lettori indignati.

Il vento, lo sappiamo bene, è talmente cambiato a partire dall’inizio degli anni Settanta che ciò che era considerato (esagerando impietosamente) una vergogna, si è trasformato se non in una gloria in una sorta di privilegio (ancora una volta sbagliando per esagerazione). I reietti di un tempo sono divenute le persone che il politicamente corretto coccola , onora, blandisce. Per usare il linguaggio giullaresco di quel cantante , Adriano Celentano, ormai omo è rock, etero è lento….

Perché, allora, si sono chiesti gli editori di Anna Frank, perché non seguire questo vento tanto imprevisto quanto favorevole? Così, i brani censurati sono stati non soltanto rimessi nel Diario ma su di essi si sono appoggiati coloro che di quella sventurata, ammirevole ragazzina, hanno cercato di fare una icona gay. Non c’è, oggi, lesbica militante che non cerchi occasione di parlare non della Frank che davvero conta ma di quella attratta sessualmente da altre femmine.

E’ l’ennesima conferma: nulla è più instabile delle ideologie. Egemoni e apparentemente inattaccabili per un certo periodo storico e poi non solo abbandonate ma rovesciate addirittura nel contrario. E’ successo e succederà sempre. Ne siano avvertiti – repetita iuvant – coloro, anche tra i cattolici, che prendono sul serio il “mondo che gira“ e rischiano di dimenticare che “stat crux “.

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A proposito di libri censurati: ve ne è uno che lo è sin da quando fu pubblicato, nella seconda metà dell’Ottocento. Parlo de L’origine delle specie attraverso la selezione naturale di Charles Robert Darwin. E’ ben noto che, probabilmente al di là delle intenzioni dell’autore, quello studio è stata la base per costruire e sorreggere il cosiddetto “ateismo scientifico“. Ma spesso si ignora che lo scienziato è sepolto nella cattedrale di Westminster, che a Cambridge si laureò in teologia, che la sua prospettiva non escludeva un Creatore ma ipotizzava che quel Dio avesse fissato le leggi fondamentali dell’universo, lasciando poi che , all’interno di quella struttura, agissero il caso e la necessità. E’ certo, comunque , che un “evoluzionismo “ bene inteso non è affatto incompatibile con la fede in Dio. Pare che così la pensasse Darwin stesso, ma ciò non impedì a molti lettori delle sue opere di prenderle a pretesto per le loro tesi di incredulità. Come ha detto qualcuno: << Sventurato colui che ha dei discepoli! >>, visto che questi tendono sempre ad estremizzare le teorie dei loro idoli.

Per stare soltanto a un paio di casi recenti, ho in biblioteca il saggio sullo scienziato inglese scritto dall’ex seminarista di Cuneo, Piergiorgio Odifreddi, secondo il quale l’umanità molto deve allo scienziato inglese (definito “uno dei maggiori geni della storia“) per avere fondato l’ateismo moderno. Ho qui poi il ritaglio di una intervista allo zoologo Giorgio Celli, che fu assai noto per le sue rubriche televisive ma soprattutto per i suoi lavori di naturalista e anche per fortunate incursioni nella letteratura. Celli, negatore di un Dio creatore, si rallegra di avere scoperto sin da ragazzo Darwin che per lui, dice << fu più che un maestro, fu un santo protettore per tutta la vita>> .

Per nutrire simili ammirazioni occorre però non avere letto per intero L’origine delle specie, cosa che non ha fatto, ovviamente, la schiacciante maggioranza anche dei cosiddetti intellettuali che venerano Darwin . Scegliamo un brano, ovviamente testuale, tra i molti possibili: <>. Ancora, scegliendo a caso: << I due sessi dovrebbero stare lontani dal matrimonio, quando sono deboli di mente e di corpo. Chiunque coopererà a ostacolare queste unioni matrimoniali renderà un buon servigio all’umanità >> Ma, ancora: <>. E, così, <>.

Si potrebbe continuare. Darwin fu probabilmente credente in un Dio creatore . Ma non è certo facile conciliare questo Dio con quello del Vangelo. Sta di fatto che coloro che lo venerano come grande genio si guardano bene dal dirci quali sono le conseguenze logiche dei suoi studi.

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Cambiando del tutto argomento . Mi capita di ascoltare uno spezzone di una canzone di Fabrizio De André, una canzone famosa ma di cui ignoro il titolo, essendo poco pratico di musica in generale, sia classica che cosiddetta “leggera“. Lo confesso con rammarico, ma è andata così . Nella mia giovinezza, quando avevo qualche soldo in tasca e dovevo decidere come “ investirlo“, se in un disco o in un libro, su quest’ultimo finiva invariabilmente la scelta. Radio e televisione non mi interessavano, non avevo la pazienza da dedicare all’ascolto o alla visione dei programmi , convinto – magari a torto – che in ben altro era da impiegare il tempo libero. Nella Torino dove sono cresciuto aveva sede la più importante orchestra sinfonica della Rai che si esibiva nell’auditorium aziendale, aperto al pubblico . Ma anche qui era una questione di denaro risicato: l’abbonamento ai concerti costava e trovavo sempre qualcosa che mi sembrasse più urgente o appetibile. Non parliamo del celebre palazzo per la lirica, il Teatro Regio, inavvicinabile per me, sia per soldi sia per mancanza di un abito adeguato a quell’ambiente elitario.

Ma non cediamo ai ricordi personali, veniamo a De André che -vedo su Internet- è stato addirittura incluso da qualcuno tra i maggiori poeti in lingua italiana. Mi astengo dal giudizio per mancanza di conoscenza , riporto qui soltanto quello che ho sentito in quello spezzone, dove la voce del cantautore così diceva: << L’inferno esiste solo per quelli che ci credono >>.

Ma che sciocchezza è mai questa ? In realtà è esattamente il contrario: esiste, semmai, per quelli che non ci credono. Non è stato detto e ripetuto tante volte che la maggior furbizia del diavolo sta nel farci credere che non esiste e, dunque, non esiste quell’inferno sul quale domina? All’inferno si finisce facendo spallucce, come volessero raccontare una vecchia favola, a coloro che ti ammoniscono; si va comportandosi come il peccato non esistesse e, dunque, non esistesse un redde rationem dopo la morte. Solo quelli che ci credono e che se ne inquietano possono sperare, impegnandosi al giusto, di scampare a quel luogo terribile .



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A proposito di sciocchezze. Ciascuno di noi ha sentito la risposta tipo di chi crede di saperla lunga se gli parli di realtà religiose , per esempio angeli e demoni. Un sorrisetto di compatimento e, scuotendo il capo, ecco, con voce scettica un: << Ma io credo solo in quel che vedo>>. Proprio sicuro? Lasciamo da parte gli angeli, buoni e cattivi che siano , che non vediamo, tranne forse qualche mistico, se non con gli occhi della fede. Restiamo su cose quotidiane, concrete . Mi viene, come esempio tra i tanti, quello dei ratti, questi mammiferi ripugnanti e pericolosi (non viene dai loro parassiti la peste?) grossi spesso quasi quanto i gatti che, in effetti, scappano davanti a loro, accontentandosi prudentemente dei ben più piccoli topolini. Leggo che a Milano ci sono più di due ratti per ogni abitante . Stando alle stime delle imprese specializzate nel dar loro la caccia , sono almeno un due milioni. Ebbene, per una decina d’anni ho abitato a Milano, per giunta nel centro storico, quello da sempre più infestato. Eppure, di ratti non ne ho mai visto alcuno. Mai, neppure quando scendevo nella cantina . Dunque , se dovessi <> dovrei negare l’esistenza di questi animali, metterli tra le leggende metropolitane. Sono cose elementari ma che ogni tanto vanno ricordate .

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Da sempre leggo ogni mese – con attenzione e spesso con ammirazione – La Nef , la Nave, il periodico cattolico francese con una particolare attenzione all’apologetica. Dunque, una sorta di confratello di questo nostro Timone. Gli ormai pochi, ahime!, italiani che hanno familiarità con la lingua di Pascal potrebbero leggerlo con gusto e con frutto : malgrado il grave declino postconciliare, il cattolicesimo transalpino è ancora vivo e anche teologicamente attivo. Ogni tanto, càpita anche a me di collaborare, non dimenticando quanto debba alla cultura cattolica di quel Paese .

La Nef ha pubblicato di recente dei dati ufficiali, forniti dalla Police National e dai quali risulta che nel 2013 – ultimo dato disponibile – si sono verificate in tutta la Francia 144 profanazioni di cimiteri . Per 130 volte, dunque nel 90 per cento dei casi , la devastazione (e, quasi sempre, l’ imbrattamento delle tombe con scritte blasfeme od oscene) ha riguardato tombe cristiane, soprattutto cattoliche. Soltanto nei restanti 14 casi il vandalismo cimiteriale ha riguardato tombe ebraiche ed islamiche. Dunque, in tutto il 10 per cento del totale.

Commento, logico e doveroso, de La Nef : << Tutti i media nazionali hanno dedicato la loro indignata attenzione alle sepolture giudaiche e musulmane, invocando a gran voce leggi ancora più dure di quelle severe già vigenti contro l’antisemitismo e l’islamofobia. Il risultato è che il francese medio ignora che il demone della cristianofobia è dieci volte più virulento nel nostro Paese che tutti gli altri sentimenti di avversione o di odio religiosi >>. Ho l’impressione che anche l’Italia si stia avviando con decisione lungo questa strada
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07/12/2015 23:14
 
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Natale e la debolezza dell’Europa
che a quei valori non crede più

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di Vittorio Messori

Forse scandalizzerò qualcuno confessando che non riesce, a me, di scandalizzarmi per le gesta politicamente corrette di un preside di provincia, di un signore commoventemente ligio al conformismo egemone. Quello dominato da una sorta di raptus maniacale: la vigilanza ossessiva per «non offendere» alcuno.

Per stare al nostro preside: nonostante le sue precisazioni, resta il fatto che far finta di niente a Natale, solennizzando invece a gennaio una neutrale «Festa dell’Inverno», gli sembra un contributo al rispetto per le altre culture e alla integrazione degli immigrati musulmani. C’è da annoiarsi: capisco la sorpresa dello sprovveduto professore per l’eco mediatica suscitata da una sortita di cui abbiamo visto e ogni giorno vediamo qualche esempio. Per un esempio tra tanti: quante maestre, di elementari se non di asilo, hanno distillato simili propositi edificanti in assemblee grondanti buonismo e li hanno resi pubblici? È ormai cosa da «breve», per dirla in gergo giornalistico, roba da pagine di cronaca dei quotidiani locali.

È tedioso dover spiegare per l’ennesima volta che l’effetto di simili iniziative non consiste nella gratitudine degli islamici, con aumento della stima per noi, tanto generosi. L’effetto sta, al contrario, nella conferma del loro disprezzo per gente pronta a nascondere le proprie tradizioni, anche religiose, per una piaggeria gratuita, per giunta non richiesta.

Chi mai tra noi — si dicono — chi mai rinuncerebbe al rispetto del digiuno anche per un unico giorno di Ramadan? E questi, invece, si affannano a nascondere pure la ricorrenza della nascita del loro Messia, che per giunta scambiano per il Figlio di Dio, per non dar fastidio a noi e ai nostri figli a scuola o all’asilo? Ma allora ha ragione l’imam quando, in moschea, ci dice che questa Europa che fu cristiana ormai è atea ed è pronta a passare la mano all’umma, la comunità di noi credenti veri.

Tengano innanzitutto presente, i presidi di provincia e, in genere, i portatori di generosi sentimenti, che ogni musulmano — quale che sia la sua miseria economica o la sua posizione sociale, anche infima — guarda il cristiano dall’alto in basso, certo della sua superiorità in ciò che conta: la conoscenza e l’adorazione dell’unico, vero Creatore dell’universo. Maometto muore esattamente sei secoli dopo la morte di Gesù. Questi è degno di ogni onore, il suo nome sia in benedizione, ma solo perché, come penultimo profeta, è venuto ad annunciarci l’arrivo dell’ultimo, definitivo profeta, colui al quale l’arcangelo di Allah ha dettato, parola per parola, la Rivelazione piena. Nella discendenza di Abramo vi è una scala ascendente: la Torah degli ebrei, il Vangelo dei cristiani e — infine — il Corano degli islamici. I quali, dunque, stanno al vertice e guardano con compassione noi, credenti in Cristo, noi attardati, noi fermi a un anacronistico gradino inferiore.

Anche per questo lo scambiare per rispetto il nascondimento della nostra identità religiosa, è visto come una conferma della vergogna che proviamo nell’essere fermi a un Dio dimezzato , senza conoscere Allah. Per chi, come per questi popoli, ciò che innanzitutto conta è la dimensione religiosa, il vero sottosviluppo è il nostro, la nostra ricchezza economica non vale nulla a confronto della loro ricchezza di possessori della verità definitiva. Nessun islamico consapevole accetterà un dialogo alla pari con i cristiani , per lui inutile (che cosa ha ancora da sapere, nel Corano essendoci tutto?) ed anche umiliante, essendo quelli fermi a Gesù, dunque a un livello ben inferiore per coloro che ascoltano la testimonianza di Muhammad.

C’è, ripeto, un sospetto di noia nel dovere ricordare — magari a persone di cultura come gli insegnanti — realtà elementari che dovrebbero essere ben note. In ogni caso, sia chiaro: per quella che Vico chiamava «l’eterogenesi dei fini» (le buone intenzioni che, messe in pratica, producono effetti rovesciati rispetto alle attese) il rinunciare alle nostre prospettive e alle nostre tradizioni non porta alla pace. Può portare, invece, alla guerra: non solo a quella del risorto Califfato, ma anche a quella di altre parti dello sconfinato mondo islamico. Mondo sempre più convinto che — nella nostra incuranza religiosa — vi sia la conferma che siamo pronti alla resa, maturi per l’islamizzazione, con le buone o con le cattive. E, in questo, va pur detto, non avrebbero del tutto torto.

In effetti, quale Natale come nascita di Cristo può difendere un Occidente — europeo e nordamericano — che ha da tempo provveduto a cancellarne il nome? Da anni è scorretto, inaccettabile, un Merry Christmas, sostituito dunque da un Season’s greetings. E che cosa ha a che fare il bambino di Betlemme con il vecchio, obeso Babbo Natale della Coca Cola? Che c’entra colui che ripeté «beati i poveri» con il trionfo commerciale della fine di dicembre? Che dire (i siti su Internet ne sono pieni) del malizioso abbigliamento intimo proposto alle donne per un sesso tutto speciale per festeggiare la notte in cui, dicevano una volta, il Messia venne alla luce?

In fondo, siamo giusti: perché prendersela troppo con il rappresentante di una scuola dove insegnanti e allievi — alla pari dei loro compagni dell’intero Occidente — in gran parte hanno gettato alle spalle il senso e il messaggio di questa Nascita? In nome di quali «valori» dovremmo schierarci a difesa, noi, cittadini di una Europa che ha rifiutato di riconoscere che le sue radici stanno — non solo, certo, ma in gran parte — in quei venti secoli di storia trascorsi dal parto di Maria nel villaggio di Giudea?

C’è, in vicende come questa , molto déjà vu. Ma non manca di certo pure l’ipocrisia.


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05/07/2016 23:03
 
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La fede nel Vangelo e la paura inquietante della scristianizzazione
di Vittorio Messori

In questi tempi di scristianizzazione e di indubbia crisi -sia numerica che dottrinale- della Chiesa, capita spesso, tra cattolici, di sentire citare un versetto evangelico per nulla rassicurante. “Il figlio dell’Uomo, quando verrà, troverà fede sulla terra?”. E’, questa, la domanda inquietante di Gesù stesso nel vangelo di luca (18,8). Inquietante, per i fedeli. Ma, almeno in apparenza, anche contraddittoria. In effetti, in altri passi dei Vangeli, il Cristo rassicura il suo “piccolo gregge”, promettendogli che, pur tribolato, sfiderà i secoli e che sarà presente alla sua venuta, alla fine dei tempi. Senza contare il celebre “il Cielo e la Terra passeranno ma le mie parole non passeranno”, profezia presente in tutti e tre i Sinottici. Al capitolo 24 di Matteo, poi, il Nazareno dice, sempre alludendo al tempo della Parusia, il suo ritorno glorioso: “Per il dilagare del’iniquità l’amore di molti si raffredderà. Ma chi persevererà fino alla fine, sarà salvato”.
Sembra proprio, nel Nuovo testamento, che quella che chiamano ‘barca di Pietro’ non giungerà all’approdo definitivo come un grande galeone a vele spiegate, forse sarà ridotta ad un disadorno barcone carico di povera gente. Ma gente che, pur se in minoranza, la fede l’avrà conservata. Nelle ‘Lettere apostoliche’, poi, a cominciare da quelle di Paolo, viene più volte confermata la persistenza della comunità dei credenti sino al termine della storia.

Perché allora quella domanda? Perché il chiedersi del Cristo stesso se “troverà fede sulla terra?”. Occorre, qui, una precisazione decisiva, eppure assente nelle note a questo versetto delle Bibbie correnti. Il testo greco di Luca dice “epì tes ghès”, cioè, “sulla terra”.
Consultiamo allora lo strumento più autorevole, i sedici, poderosi volumi del Grande Lessico del Nuovo Testamento, “il Kittel” com’è chiamato tra gli specialisti, essendo stato fondato da Gerhard Kittel, il cattedratico dell’università tedesca di Tubinga. Il celebre biblista chiarisce che il termine “ghé” è sì talvolta usato nella Scrittura per indicare la terra intesa come mondo, ma il più delle volte è riferito alla Terra per eccellenza. Cioè alla Terra Santa d’Israele, quella che Jahvè promise ad Abramo, quella di cui parlano con amore o con nostalgia Antico e Nuovo Testamento. Quella cui pensa Gesù nell’elenco delle beatitudini, nel cosiddetto “discorso della Montagna”: “Beati i puri di cuore, perché erediteranno la Terra” (Mt 5,5). Non sarà, l’eredità, un qualunque terreno, bensì quello sacro. Quella terra di cui Stefano, il primo martire, parla ispirato al Sinedrio, al settimo capitolo degli Atti degli Apostoli: “Il Dio della gloria apparve al nostro padre Abramo, quando era ancora in Mesopotamia e gli disse Esci dalla tua terra e va nella terra che ti indicherò”. A conferma che è secondo la tradizione ebraica il significato di quella ?Terra? dove la fede sarebbe in pericolo di estinguersi, c’è anche il contesto, c’è la parabola nella quale è inserita la domanda di Gesù. E’ la parabola del giudice ingiusto e pigro che non vuole rendere giustizia alla povera vedova. Ma è una giustizia tuta secondo le leggi giudaiche, non vi è traccia di riferimento alla futura Chiesa del Cristo.

Se è così -e pare proprio che sia così- il versetto riportato da Luca non è minaccioso per la fede del mondo intero, ma è inquietante per un’altra ragione. Si sa come, stretta tra israeliani e palestinesi, tra ebrei e musulmani, la comunità cristiana stia estinguendosi nel territorio che fu dell’antico Israele. Per un solo esempio, ma significativo: in luoghi come Nazareth e Betlemme, a maggioranza cristiana sino a qualche decennio fa (anche i sindaci erano battezzati), la presenza di credenti nel Vangelo è ormai ridotta ad una minoranza sempre più esigua. A Gerusalemme la comunità autoctona del luogo sta diventando poco più che simbolica. La discesa continua, implacabile, aggravata dalle guerre e guerriglie che inducono i superstiti battezzati a emigrare verso Europa ed America.

Situazione dolorosa, certo. Forse davvero, al suo ritorno, Gesù non troverà più seguaci nella Terra che fu sua. ma si rassicurino i cristiani al di fuori dei confini biblici: anche se tribolata, magari falcidiata, ridotta a minoranza, la fede nel Vangelo persisterà sino a quando non sarà più necessaria. Quando, cioè, per dirla con Paolo, il Cristo ritornerà e non avremo più bisogno di credere perché “vedremo faccia a faccia”.
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01/02/2017 15:43
 
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Inferno, preghiera e conversione: quel messaggio politicamente scorretto, ma evangelico di Fatima


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di Vittorio Messori, La Nuova Bussola Quotidiana, 31 gennaio 2017


Esce in questi giorni da Mondadori il libro di Vincenzo Sansonetti Inchiesta su Fatima. Un mistero che dura da cento anni. Pubblichiamo ampi stralci della prefazione di Vittorio Messori.


Ogni apparizione sembra assomigliare a ogni altra, avendo sempre al centro un appello alla preghiera e alla penitenza e, al contempo, è diversa da ogni altra per l’accentuazione di un aspetto particolare della fede. L’aura che circonda Lourdes è pacata, tanto che è stato notato che in nessun’altra occasione Maria ha tanto sorriso, giungendo sino al punto di avere addirittura riso in tre occasioni. Disse Bernadette: «Rideva come una bambina». E non sapeva, quella piccola santa, che proprio questo avrebbe indotto gli austeri inquisitori della commissione che ne giudicava l’attendibilità a diventare ancora più sospettosi. «Nostra Signora che ride! Suvvia, un po’ di rispetto per la Regina del Cielo!». Alla fine dovettero farsene una ragione: era proprio così. Certo, non si dimentichi che Colei che nella grotta dirà di essere l’Immacolata Concezione assumerà anche un aspetto assai serio, ripetendo gli appelli alla penitenza e alla preghiera per se stessi e per i peccatori. Ma c’è un’aria di serenità, la mancanza di minacce di un castigo, che è forse uno tra gli aspetti che più attirano nei Pirenei le folle che sappiamo.


Misericordia e giustizia


L’atmosfera di Fatima, invece, appare soprattutto escatologica, apocalittica. Anche se con un finale che conforta e rasserena. È evidente che la ragione principale dell’apparizione portoghese è richiamare gli uomini alla tremenda serietà di una vita terrena che altro non è che una breve preparazione alla vita vera, a un’eternità che può essere di gioia ma anche di tragedia. È un richiamo alla misericordia e, al contempo, alla giustizia di Dio.


L’insistenza unilaterale di oggi sulla sola misericordia dimentica l’et-et che presiede al cattolicesimo e che, qui, scorge in Dio il Padre amoroso che ci attende a braccia spalancate e, al contempo, il giudice che peserà sulla sua infallibile bilancia il bene e il male. Ci attende sì un paradiso, ma che occorre guadagnarsi, spendendo al meglio i talenti piccoli o grandi che ci sono stati affidati. Il Dio cattolico non è di certo quello sadico del calvinismo che, a suo insondabile piacimento, divide in due l’umanità: coloro che nascono predestinati al paradiso e coloro che ab aeterno sono attesi dall’inferno. […]  È così, afferma Calvino, che Egli manifesta la gloria della sua potenza. No, il Dio cattolico non ha nulla a che fare con simili deformazioni. Ma non è neppure il bonario permissivista, lo zio tollerante che tutto accetta e tutti egualmente accoglie, il Dio di cui parla soprattutto il lassismo dei teologi gesuiti (che furono condannati dalla Chiesa) e contro i quali Blaise Pascal lanciò le sue indignate Lettres provinciales.


Anche se suona sgradevole alle orecchie di un certo «buonismo» attuale, così insidioso per la vita spirituale, Cristo propone alla nostra libertà una scelta definitiva per l’eternità intera: o la salvezza o la dannazione. Quindi potrebbe attenderci anche quell’inferno che abbiamo rimosso, però al prezzo di rimuovere anche i chiari, ripetuti avvertimenti del Vangelo. In esso c’è sì il commovente invito di Gesù: «Venite a me, voi tutti che siete travagliati e oppressi e io vi darò ristoro». E tante altre sono le parole e i gesti della sua tenerezza. Eppure, piaccia o no, nei Vangeli vi è anche ben altro. Vi è un Dio che è infinitamente buono e anche infinitamente giusto e ai cui occhi, dunque, un mascalzone impenitente non equivale a un credente in Lui che si è sforzato, pur con i limiti e le cadute di ogni essere umano, di prendere sul serio il Vangelo. […]


L’inferno non è un’invenzione


In quel testo fondamentale dell’insegnamento della Chiesa che è il Catechismo, quello interamente rinnovato, redatto per volontà di san Giovanni Paolo II e sotto la direzione dell’allora cardinale Joseph Ratzinger (un testo che ha fatto del tut- to suo lo spirito del Vaticano II) gli autori ammoniscono: «Le affermazioni della Sacra Scrittura e gli insegnamenti della Chiesa riguardanti l’inferno sono un appello alla responsabilità con la quale l’uomo deve usare la propria libertà in vista del destino eterno. Costituiscono nello stesso tempo un pressante appello alla conversione». Sono proprio questi appelli (alla responsabilità e alla con- versione) che sono al centro del messaggio di Fatima e che lo rendono più che mai urgente e attuale: certamente ancor più di quando Maria apparve alla Cova da Iria.


Da decenni, ormai, dalla predicazione cattolica sono scomparsi i Novissimi, come li chiama la teologia: morte, giudizio, inferno, paradiso. Una reticenza clericale che ha rimosso, anzi, in fondo rinnegato, il vecchio, salutare adagio che ha salvato tante generazioni di credenti: l’inizio della sapienza è il timor di Dio. Nella storia dei santi, questa consapevolezza di un possibile fallimento eterno ha costituito un pungolo costante per la pratica sino in fondo delle virtù. Sapevano che l’esistenza dell’inferno non è un segno di crudeltà divina bensì di rispetto radicale: il rispetto del Creatore per la libertà concessa alle sue creature, fino al punto di permettere loro di scegliere la separazione definitiva.


Sia nella teologia che nella pastorale di oggi il doveroso annuncio della misericordia non è unito all’annuncio altrettanto doveroso della giustizia. Ma se in Dio convivono in dimensione infinita tutte le virtù, può mancare in Lui quella virtù della giustizia che la Chiesa – ispirata dallo Spirito Santo, ma seguendo anche il senso comune – ha messo tra quelle cardinali? Non mancano teologi, anche rispettati e noti, che vorrebbero amputare una parte essenziale della Scrittura, rimuovendo ciò che infastidisce coloro che si credono più generosi e buoni di Dio. Dicono, dunque: «L’inferno non esiste. Ma, se esiste, è vuoto».


Peccato che la Vergine Maria non sia di questo parere… È vero che la Chiesa ha sempre affermato la salvezza certa di alcuni suoi figli, proclamandoli beati e santi. E la stessa Chiesa non ha mai voluto proclamare la dannazione di alcuno, lasciando giustamente a Dio l’ultimo giudizio. Chi dicesse tuttavia che un inferno potrebbe anche esistere ma che sarebbe vuoto, meriterebbe la replica: «Vuoto? Ma ciò non esclude la terribile possibilità che siamo tu e io a inaugurarlo». Qualcun altro ha ipotizzato che la dannazione sia solo temporanea, non eterna: ma pure questo si scontra con le nette parole del Cristo, che parla più volte di pena senza fine. Dunque, a vari concili non è stato difficile respingere una simile possibilità, senza alcun appoggio nella Scrittura.


«Pregate, pregate molto»


[…] nell’apparizione più importante, quella del 13 luglio 1917, avvenne ciò che suor Lucia narrerà così, nel 1941, nella famosa lettera al suo vescovo:


«Il segreto affidatoci dalla Vergine consta di tre parti distinte, due delle quali sto per rivelare. La prima, dunque, fu la visione dell’inferno. La Madonna ci mostrò un grande mare di fuoco, che sembrava stare sotto terra. Immersi in quel fuoco i demoni e le anime, come se fossero braci trasparenti e nere o bronzee, con forma umana fluttuavano nell’incendio, portate dalle fiamme che uscivano da loro stesse insieme a nuvole di fumo, cadendo da tutte le parti simili al cadere delle scintille nei grandi incendi, senza peso né equilibrio, tra grida e gemiti di dolore e disperazione, che mettevano orrore e facevano tremare dalla paura…». […] Giacinta, spirando tre anni dopo, ancora bambina di 10 anni e ancora sconvolta per quello che aveva visto in quei pochi istanti, dirà sul letto di morte: «Se solo potessi mostrare l’inferno ai peccatori, farebbero di tutto per evitarlo cambiando vita». […simili visioni dell’inferno non sono affatto isolate nella storia della Chiesa. Scorgere questa terribile realtà è un’esperienza che hanno vissuto molti santi e sante. E la loro credibilità anche psicologica e mentale è stata vagliata con rigore nei processi canonici. Per limitarci alle più note e venerate delle sante ecco, tra le altre, santa Teresa d’Avila, santa Veronica Giuliani, santa Faustina Kowalska. E, tra gli uomini, poteva forse mancare quel san Pio da Pietrelcina, lo stigmatizzato che visse nel soprannaturale come fosse la condizione più naturale, al punto di stupirsi che gli altri non vedessero quel che lui vedeva?


A Fatima, a conferma della centralità nel messaggio del pericolo di perdersi, sta anche il fatto che l’Apparsa insegna ai veggenti una preghiera da ripetere nel rosario dopo ogni decina di Ave Maria. Preghiera che ha avuto una straordinaria accoglienza nel mondo cattolico, tanto che è recitata ovunque si preghi con la corona mariana e che dice: «Gesù mio, perdona le nostre colpe, preservaci dal fuoco dell’inferno e porta in Cielo tutte le anime, specialmente le più bisognose della tua misericordia». Parole, come si vede, tutte centrate sui Novissimi e detta- te ai bambini dalla Vergine stessa. Ciò che soprattutto il cristiano deve implorare è la salvezza dal «fuoco dell’inferno», oltre a chiedere alla misericordia divina una sorta di sconto di pena per chi soffre in purgatorio. Dirà la Madonna, «con aria assai addolorata», come annota suor Lucia: «Pregate, pregate molto e fate sacrifici per i peccatori. Molte anime vanno infatti all’inferno perché non c’è nessuno che preghi e si sacrifichi per loro».


Sotto il suo mantello


Ma torniamo alle ultime righe del resoconto della testimone Lucia, dopo la visione della sorte terribile dei peccatori impenitenti: «Alzammo gli occhi alla Madonna, che ci disse con bontà e tristezza: “Avete visto l’inferno dove cadono le anime dei poveri peccatori. Per salvarli, Dio vuole istituire nel mondo la devozione al mio Cuore Immacolato. Se faranno quel che vi dirò, molte anime si salveranno”». Ecco, dunque, il consolante tocco tutto cristiano, anzi cattolico […]. La verità impone di ricordare che corrono un grave rischio gli uomini immemori della serietà del Vangelo. Ma la misericordia del Cielo è subito pronta a proporre un rimedio: rifugiarsi sotto il mantello di lei, Maria, confidare nel suo Cuore Immacolato, aperto a chiunque chieda la sua materna intercessione. […]


Il peso crescente del peccato è grave, ma sono indicati i rimedi e, soprattutto, l’Apparsa ha in serbo un happy end, con le parole giustamente famose e giustamente fonte di speranza per i credenti. Infatti, dopo avere profetizzato le molte tribolazioni del futuro, Maria annuncia, a nome del Figlio: «Alla fine, il mio Cuore Immacolato trionferà». Perciò la salvezza personale è possibile – ed è sorretta dal Cielo stesso – pur nel dilagare dell’iniquità. Ma possiamo anche sperare nella conversione del mondo, in un futuro imprecisato e che Dio solo conosce, confidando nel cuore della Madre di Cristo, potente avvocata della causa dell’umanità.


A che «servono» le apparizioni? […] Fatima è tra le risposte maggiori, per un mondo che sempre più dimenticava, e oggi ancor più dimentica, il significato vero della vita sulla terra e la sua continuazione nell’eternità. Fatima è un messaggio «duro» che, nel linguaggio odierno, diremmo «politicamente scorretto»: proprio per questo è evangelico, nella sua rivelazione della verità e nel suo rifiuto di ipocrisie, eufemismi, rimozioni. Ma, come sempre in ciò che è davvero cattolico, dove tutti gli opposti convivono in una sintesi vitale, la «durezza» convive con la tenerezza, la giustizia con la misericordia, la minaccia con la speranza. Così, l’avviso che ci è giunto dal Portogallo è, al contempo, inquietante e consolante.



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24/10/2018 17:21
 
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L’Aldilà ci parla è giusto ascoltarlo


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Liberi di non crederci, ma se lo dice Vittorio Messori vale la pena — almeno — di ascoltarlo. Il più cattolico dei laici ha scritto un nuovo libro, diverso dagli altri venti che lo hanno reso famoso e che hanno venduto milioni di copie in tutto il mondo. «Questo è un piccolo libro… poco più di un promemoria, un taccuino — scrive subito Messori — in cui partendo da esperienze mie, ma che ciascuno (ne sono certo) ha vissuto e vive, pur a suo modo, azzarda qualcosa sulle realtà più grandi». Un invito ad alzare lo sguardo dalle vicende terra-terra al sovrannaturale. Il libro si intitola Quando il cielo ci fa segno. Piccoli misteri quotidiani. Segni e misteri: ecco le parole-chiave. Il segno può essere anche un sogno. Come quello di Rosy la notte del 12 giugno 2017. Il mattino dopo «Rosy, da almeno vent’anni la nostra collaboratrice domestica, divenuta ormai parte consueta della famiglia, solida e concreta palermitana, giunge da noi come sempre alle 9, con la sua utilitaria. Per prima cosa domanda: “Avete voi qualcosa a che fare con un prete di Torino, uno che si chiama Faà di Bruno?”».


Un passo indietro. Mesi prima il Politecnico di Torino aveva invitato Messori a un convegno su Francesco Faà di Bruno matematico. Il grande studioso (1825-1888) non era soltanto uno scienziato apprezzato a livello internazionale, ma anche un nobile «che aveva una macchia imperdonabile a quei tempi: amava e seguiva Pio IX ed era un cattolico militante». Tra le altre attività sociali, lui, marchese, si era impegnato al servizio e al riscatto delle «serve», le vere proletarie dell’epoca, usate come schiave domestiche e, spesso, come prostitute. Messori, che si sente addosso «il peso dell’età in cui persino i vescovi vanno in pensione» prende tempo, rinvia, riparliamone… Il 12 giugno il Politecnico torna a chiedergli di partecipare al convegno. Messori rinvia ancora. Non sa che nella notte scenderà in campo, o meglio in terra, l’anima di Faà di Bruno. Il Beato apparirà in sogno a Rosy.


Premessa al sogno. Rosy non è mai stata a Torino (Messori, la moglie Rosanna e la domestica vivono a Desenzano, nel Bresciano) e non ha la minima idea dell’esistenza passata in terra e attuale in paradiso di Faà di Bruno. Ma racconta di essersi trovata a Torino, in una chiesa deserta, vicina a una lapide, con una presenza alle spalle, di aver visto un prete con la talare, alto, magro, con i capelli neri che dice: sono Faà di Bruno, la lapide l’ha fatta il suo capo, Messori, lui è titubante per motivi di salute, ma deve venire a Torino, deve esserci, lo convinca e lo rassicuri; poi in un soffio di vento il Beato scompare, il sogno è finito. E Messori resta sgomento: «Quel Beato che venero, quel beniamino del cielo, per sempre accanto al Cristo, prendeva tanto sul serio un credente mediocre come me (e non lo dico, purtroppo, per ipocrisia farisaica) da “imporre” la mia presenza a quel convegno, raccomandandomi di non temere nell’accettare l’invito? C’era davvero di che sgomentarsi».
Di questi «segni del cielo», di questi «piccoli misteri quotidiani» ne troveremo tanti altri nel libro di Messori. Serviranno all’autore per compiere quella che ritiene la sua attuale missione. Gliel’ha ispirata «una esortazione del cardinale Carlo Caffarra, arcivescovo emerito di Bologna, recentemente passato a miglior vita: “È d’urgenza drammatica che la Chiesa ponga fine al suo silenzio circa il Soprannaturale ”».
Insomma, secondo Messori, la Chiesa oggi sta diventando sempre più «un ospedale da campo», per usare la suggestiva immagine di Papa Francesco, con il rischio che questo cristianesimo «pur benemerito e necessario ma “secondario” (quello delle opere di bene per migliorare la vita terrena)» preceda e oscuri «quello essenziale, il cristianesimo “primario” (quello dell’annuncio del Vangelo per la salvezza delle anime)». Come ha lasciato scritto nel suo testamento spirituale l’arcivescovo di Magonza, Karl Lehmann, «tutti noi, anche nella Chiesa ci siamo immersi nel mondo e abbiamo sepolto e occultato l’Aldilà» dimenticandoci, scrive Messori, che la legge suprema della Chiesa — che non è una Ong fondata e gestita da filantropi generosi — è proprio la salvezza delle anime.
E pensare che il giovane Messori era tutt’altro che un buon cattolico. Nella molto laica Torino dei suoi studi aveva per maestri gli agnostici Alessandro Galante Garrone (con cui fece la tesi di laurea sulla storia del Risorgimento), Norberto Bobbio, Luigi Firpo. In famiglia nessuno manifestava simpatia per la Chiesa, una zia che ogni tanto andava a messa era soprannominata «la bigotta». Quanto a lui era «un giovane agnostico, “liberal” nei costumi, con tendenze libertarie in politica».

Ma una notte di 54 anni fa al giovane Vittorio arriva «un segno» dal cielo. E che segno. «Un irresistibile scossone, ben più che un “cenno”, un richiamo improvviso e imprevisto che cambiò tutto nel mio pensiero, nella mia vita». Messori non lo scrive, ma forse si trattò di una visione, di una sbirciatina illuminante aldilà (Aldilà?) dei nostri miseri orizzonti umani.
E adesso di «segni» di cui è stato testimone ne ha anche tanti altri da raccontare. Alcuni li ha raccolti in questo libro. C’è pure una rassicurante telefonata dello zio Aldo dal paradiso; c’è Maria, la postina del purgatorio che «girava» ai parenti vivi i messaggi delle anime in pena; ci sono gli angeli custodi. Come quello che diede «un segno» a Messori; di più: lo «sostituì» per qualche secondo in tv, a Porta a porta, durante il contraddittorio con l’ateo Piergiorgio Odifreddi. Fu l’angelo a scovare e a recitare per bocca del suo assistito una citazione biblica, ignota a Messori, che consentì allo scrittore cattolico di sconfiggere dialetticamente il professore laico, mentre Bruno Vespa strofinava le mani soddisfatto per l’intrigante spettacolo. Basta fare un po’ di attenzione e i segni del cielo diventano evidenti, scrive Messori. Leggere per credere.


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