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L'INFERNO: Cosa insegna la Scrittura e la Chiesa

Ultimo Aggiornamento: 14/12/2012 16:34
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14/12/2012 16:29
 
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NEL FUOCO ETERNO SENZA AMORE

(Tratto dalla rivista mensile “Papa Giovanni” – Sacerdoti del Sacro Cuore (Dehoniani) Collegio Missionario Via Barletta – 70031 Andria - Bari. c.c.p. 5702)

 

L’INFERNO E IL MISTERO DEL MALE

Seguendo l'esempio di Cristo, la Chiesa ha ammoni­to i fedeli, durante tutto il corso della sua storia, "della triste realtà della morte eterna". La Sacra Scrittura par­la di questo castigo eterno e ci mette in guardia contro la malizia deliberata che distrugge una persona interior­mente e conduce alla morte eterna. C'è un nesso essen­ziale tra l'inferno e il mistero del male, e in ultima ana­lisi, tra l'inferno e la libertà dell'uomo. Il rifiuto di cre­dere all'inferno equivale al rifiuto di prendere Dio sul serio, e anche al rifiuto di considerare seriamente l'uo­mo, la sua libertà e la sua responsabilità di compiere il bene. Per questa ragione, una certa conoscenza dell'in­ferno è necessaria per comprendere come si conviene il senso dell'uomo e il suo posto in questo mondo, secon­do il piano di Dio.

Nelle prime tappe della storia della salvezza, la realtà dell'inferno non è stata concretamente intuita come lo fu invece nella rivelazione posteriore. Si concepiva lo "Shéol" come il luogo ove sia i buoni che i cattivi di­moravano dopo morte, e dove avevano una forma di e­sistenza oscura e insoddisfacente. Si capiva che Dio a­vrebbe severamente punito chi era ostinatamente catti­vo, ma molti restavano perplessi, perché i malvagi pare­vano prosperare tanto quanto i giusti. La rivelazione che lo "Shéol" fosse un luogo di punizione riservato ai mal­vagi non avvenne che gradualmente. Da essa deriva una comprensione più piena della responsabilità personale di ciascuno riguardo ai suoi atti. Il castigo divino del male nulla ha a che fare con la vendetta; è piuttosto una que­stione di giustizia e di misericordia da parte di un Dio a­mante e onnipotente, che mantiene e ristabilisce un or­dine universale che qualunque colpa di qualsiasi uomo scompiglia. L'uomo deve prendere se stesso sul serio, perché Dio lo prende sul serio. Col passare del tempo ci fu una crescente comprensione del genere di castigo do­vuto al peccato.

All'inizio del tempo dell'Antico Testamento, il casti­go era concepito sotto forma di immagini materiali, come malattie, prove, accorciamento della vita. Solo a poco a poco divenne chiaro che il castigo più grave era implici­to nella natura stessa del peccato; che rifiutare Dio vole­va dire separare se stesso dalla infinita bontà di cui il cuo­re ha una fame insaziabile (cf Sal 62, 1). Nell'Antico Te­stamento, con l'idea dell'inferno, era unita l'immagine del fuoco fisico, con riferimento alla "Geenna", la "Valle di Ben-Hinnom", dove, in sacrifici umani interdetti, alcuni bambini erano stati consumati dal fuoco. Più tardi, i rifiuti della città erano bruciati in detta valle, ove il fuoco era a­limentato giorno e notte. Isaia allude a questa valle, sen­za tuttavia nominarla, come al luogo dove giaceranno i corpi di coloro che si sono ribellati contro Dio (cf Is 66,24). Nella letteratura rabbinica, la "Geenna" divenne il pozzo di fuoco dove i cattivi sono puniti dopo la morte.

Gesù Cristo ha parlato spesso dell'Inferno. Quando parlò "dell'inferno... il fuoco inestinguibile" (cf Mt 25,31), Egli lo fece spinto da un senso di compassione, per mettere in guardia gli uomini da questa tragedia irre­parabile, da questa "seconda morte" (Ap 21,8), con la sua permanente separazione dalla vita eterna di Dio, per la quale l'uomo è stato creato.

Cristo parlò energicamente con immagini comuni in quel tempo, di "inferno, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue" (Mc 9,47-48). Usando tali im­magini Cristo non stava dandoci una descrizione lettera­le dell'inferno, perché il male della separazione da Dio non può mai essere adeguatamente descritto. Cristo inve­ce voleva richiamare alla necessità della conversione ed avvertire che quelli, che deliberatamente persistono nel male, andranno alla completa rovina.

Il Nuovo Testamento frequentemente si è riferito al ca­stigo infernale come castigo senza fine. "E se ne andran­no, questi al supplizio eterno e i giusti alla vita eterna" (Mt 25,46). Questo ha fatto parte dell'ordinario insegnamen­to della Chiesa fin dal principio. Alcuni teologi antichi, soprattutto Origene al terzo secolo, hanno affermato che tutti i peccatori, Satana compreso, avrebbero potuto e­ventualmente essere portati alla salvezza. Ma la Chiesa ha sempre respinto vigorosamente questo modo di pensare ed altri simili come incompatibili con la verità rivelata, ed ha solennemente confermato la dottrina secondo cui il ca­stigo infernale è eterno.

 

NEL FUOCO ETERNO SENZA AMORE

Dio aveva collocato Adamo ed Eva in un luogo deli­zioso detto Paradiso terrestre, che comunemente, si ri­tiene che sia quella regione che ora viene detta Armenia, perché la Sacra Scrittura accenna a quattro fiumi che in esso scorrevano: il Fison, il Geon, il Tigri e l'Eufrate. Tut­te le ricchezze della terra vennero da Dio concesse al­l'uomo perché ne usasse e ne disponesse. Un'unica ec­cezione fece però il Signore nel concedere l'elevazione alla vita soprannaturale. Proibì, cioè, di mangiare il frut­to di un albero misterioso che si trovava al centro del Pa­radiso terrestre e che Dio stesso denominò della scienza del bene e del male".

Ecco le parole di Dio: "Mangia del frutto di qualunque albero del Paradiso. Ma dell'albero della scienza del be­ne e del male non mangiare; perché in qualsiasi giorno tu ne avrai mangiato, di morte morirai!". Ma il demonio, in­vidioso della felicità degli uomini primitivi, che erano sta­ti da Dio destinati a prendere in Cielo il posto da lui per­duto, si presentò ad Eva sotto l'aspetto di astuto e insi­dioso serpente, e così le parlò: "Per qual motivo Dio v'ha comandato di non gustare di qualsivoglia albero del Pa­radiso?". Eva rispose: "Del frutto degli alberi che sono nel Paradiso, noi ne mangiamo; ma del frutto dell'albero che è in mezzo al Paradiso, Dio ci ha comandato di non man­giare e di non toccarlo, ché non abbiamo a morirne" .

Ma il demonio assicurò Eva con queste parole: "No davvero, che non morirete. Dio però sa che in qualunque giorno ne mangerete, vi s'apriranno gli occhi e sarete co­me dèi, sapendo il bene ed il male". Ella guardò il frutto con avida curiosità, vide che era bellissimo, stoltamente credette alle parole del demonio, s'avvicinò all'albero e con leggerezza colse il frutto proibito, che poi presentò ad Adamo. Ne mangiarono insieme. I loro occhi s'aprirono e conobbero d'aver peccato! Il primo peccato dell'uma­nità, che si chiama peccato originale, fu dunque un peccato d'orgoglio e di disubbidienza. I nostri progenitori in­fatti presuntuosamente avevano creduto di poter diventa­re come Dio, ed avevano disubbidito al comando divino. L’uomo è simile a Dio soprattutto per le capacità che possiede in quanto persona. Riflette Dio nella sua intelli­genza, nella sua attitudine verso il bene e verso il male, nella sua libertà e nel suo destino immortale. Nella sua in­telligenza l'uomo è immagine di Dio. Con le sue arti e le sue doti tecniche l'uomo ha trasformato mirabilmente il mondo materiale, creato da Dio e affidato a lui come a pa­drone (cf Gn 1,26). Ma l'uomo deve stimare di più lo spi­rito di saggezza che non la tecnologia. In realtà, quanto più aumenta il suo potere tecnico tanto più ha bisogno di saggezza. Questa presuppone la capacità di afferrare il sen­so delle cose e di capire che cosa ha veramente valore. Dio ha creato gli uomini capaci di porsi dei problemi, di filo­sofare e di raccogliere importanti intuizioni sulla creazio­ne e sulle sue finalità. Tuttavia, è principalmente tramite la Rivelazione che Dio illumina le intelligenze umane con la saggezza necessaria per modellare sapientemente il mondo. Anche la coscienza rende l'uomo simile a Dio.

All’opposto di altri esseri viventi, l'uomo ha una co­stante preoccupazione per ciò che è veramente buo­no e cattivo, anche se sovente non è stabile in questa preoc­cupazione. "L'uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro il suo cuore". Anche la libertà rende l'uomo simi­le a Dio, che è sommamente libero. Gli uomini non sono guidati unicamente da forze cieche o da istinti. Essi sono responsabili e liberi. "Se vuoi, tu puoi osservare i coman­damenti; agire con fedeltà dipenderà dalla tua propria de­cisione" (Sir 15,15).

Anche nella sua condizione decaduta, l'uomo con­serva la libertà di fare le sue proprie scelte, la libertà di agire o di non agire, di fare questo o quest'altro. La li­bertà umana non è cosi piena e perfetta come quella di Dio. La pressione delle circostanze può limitare parec­chio la libertà e la responsabilità di una persona. Tutta­via, finché una persona ha la facoltà di vivere in una for­ma autenticamente umana, conserva un certo ambito di questa libertà.

Creando l'uomo, Dio gli concesse ancora un'altra li­bertà, quella che fu restituita a noi da Cristo. È la libertà di vivere nell'amicizia di Dio, di compiere, con l'aiuto del­la grazia, le buone opere che il nostro cuore desidera, e di soddisfare le aspirazioni radicate da Dio nei nostri cuori. Nessun altro essere vivente fatto di materia, se si e­sclude l'uomo, ha una conoscenza personale di Dio, né è immortale. È chiaro che l'uomo è mortale. Gli uomini muoiono. Ma essi non muoiono completamente. "È sta­bilito che gli uomini muoiano una sola volta, e poi vie­ne il giudizio" (Eb 9,27). Ciò che noi chiamiamo morte non è una cessazione completa dell'essere. È piuttosto un passaggio ad un altro stato di vita. "Ai tuoi fedeli, o Signore, la vita non è tolta, ma trasformata". Chi ama Cristo al momento della morte non trova la morte del tut­to terribile. Morire per Cristo è "partire ed essere con Cristo" (Fil 1,23).

Tuttavia, la morte è un grande nemico che gli uomini naturalmente paventano e odiano. Nonostante che il suo principio spirituale sopravviva alla morte e possa essere con il Signore, tuttavia non è cosa buona per l'uomo abban­donare questa carne che è parte di se stesso. L'immorta­lità dell'uomo non è solo quella dell'anima, ma anche quella del corpo nella vita eterna, nella risurrezione, quan­do "la morte sarà stata assorbita nella vittoria" (1Cor 15,54). Ogni uomo è simile a Dio in quanto è destinato a vivere per sempre. Ecco perché qualsiasi persona deve es­sere trattata con sommo rispetto, sia essa giovane o vec­chia, sia essa utile o inutile, secondo l'ottica delle possi­bilità terrene.

In molti scritti di pastorale e di spiritualità cattolica è spesso usata l'espressione "salvare la propria anima" (cf Mt 16,26). Nelle lettere di San Paolo la "carne" si oppo­ne sovente allo "spirito". Non dobbiamo vivere "alla ma­niera della carne", ma secondo lo spirito (cf Rm 8,13).

Il termine "carne" è usato nella Sacra Scrittura in signi­ficati diversi. A volte se ne parla come di un principio al quale bisogna opporsi. In questo caso, come in tanti altri, si tratta di qualcosa di più della realtà fisica dell'uomo. Si tratta dell'uomo così come lo conosciamo, dell'uomo nel­la sua condizione di peccatore, non ancora compiuta in lui l'opera della redenzione. In altri passi scritturistici, "car­ne" equivale semplicemente a "uomo". Così, il Verbo di Dio "si è fatto carne" (Gv 1,14), cioè è divenuto un uomo con un corpo umano e un'anima umana.

"Salvare la propria anima" ha il significato di salvare completamente se stesso, salvare tutto il proprio essere per la vita eterna. Preoccuparsi della propria anima non si­gnifica affatto curare qualche parte interiore di se stesso, ma piuttosto badare a tutto il proprio essere alimentando l'amore di Iddio e del prossimo, e corrispondendo alle gra­zie che rendono capaci di avere quell'amicizia con Dio, che fiorisce nella vita eterna. Uno raggiunge la piena sal­vezza solo quando il corpo e l'anima insieme sono uniti nella gioia della risurrezione, quando la famiglia di Dio gioisce alla Sua presenza nella vita eterna.

 

LE DOMANDE DELL'UOMO

L’uomo ha da sempre verificato che, per poter sopravvivere e per poter crescere elevando­si positivamente, deve risolvere i molti problemi che giorno dopo giorno gli si presentano. E’ na­to con l'uomo, come in ogni altra creatura, l'istinto di conservazione. Questo istinto lo ha aiutato a risolve­re prima di tutto quei problemi direttamente collega­ti alla propria sopravvivenza. Spesso vi è riuscito, ma proprio in questa sua impresa l'uomo ha capito di non essere il più forte all'interno del mondo esistente; al­lora ha incominciato a porsi diversi interrogativi riguardo al senso della vita. Ed ecco che hanno fatto la loro comparsa i problemi dell'esistere: Chi sono? Da dove vengo? Dove vado? Che senso ha la mia vi­ta? Perché esiste la morte? Perché esistono il dolore, il male, la malattia?

Nel corso dei secoli si sono evidenziate soprattutto tre possibilità di soluzione: la religione naturale; la reli­gione rivelata dalla fede; l'ateismo. Si parla di reli­gione o di religione naturale quando l'uomo, per cer­care una risposta agli interrogativi fondamentali della vita, riconosce l'esistenza di Qualcosa-Qualcuno a lui superiore e pensa di incontrarlo nelle forze della natu­ra. Si dice allora che l'uomo attribuisce poteri divini ad animali, vegetali, persone. Queste divinità però, es­sendo state inventate dagli uomini, non possono esse­re più grandi della loro scatola cranica. Essi, infatti, anche se l'uomo attribuisce loro poteri inesauribili e caratteristiche di immensa grandezza e anche l'im­mortalità, corrispondono sempre e solo alle aspettati­ve dell'uomo. Egli da sempre osserva l'ambiente in cui vive. La natura gli parla e gli fa scoprire, al di là di ciò che vede e tocca, una dimensione diversa: la di­mensione trascendente (che va al di là del mondo sen­sibile) e spirituale (che riguarda lo spirito, ciò che dà vita, senso alle realtà del mondo). Questa dimensione si esprime nelle esperienze religiose.

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