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MEDITIAMO LE SCRITTURE (Vol 5) Anno C

Ultimo Aggiornamento: 02/12/2013 08:20
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31/10/2013 06:55
 
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Eremo San Biagio
Commento su Luca 13,34

"Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e lapidi quelli che sono stati mandati a te ..."
Lc 13,34

Come vivere questa parola?

Gesù ha a cuore tutti quelli che non vogliono e non accettano la salvezza che egli offre, che uccidono i profeti e quelli che sono mandati come missionari del Vangelo, sovente semplici cristiani che proclamano il vangelo con la testimonianza della loro vita. Perché tanta resistenza? La Parola di Dio è verità e vita; promette un regno di amore e di pace per gli umili, i poveri e gli oppressi e non si compromette con la perversità dell'uomo che vuol distruggere coloro che sfidano il suo comportamento personale o lottano contro lo sfruttamento dei più deboli. I discepoli di tutti i tempi, imparano senza indugio che seguire il Maestro porta inevitabilmente alla persecuzione. Però l'ultima parola spetta a Gesù: "Il terzo giorno la mia opera è compiuta". Cioè, dopo la morte in croce per la salvezza del mondo, la risurrezione sarà la prova definitiva della sua provenienza da Dio, della sua divinità, pegno della risurrezione di tutti coloro che credono in lui. Dio ci ha amato fino a morire per noi, l'offerta suprema di amore!

Nella mia pausa contemplativa, cerco di comprendere meglio il significato di ciò che Gesù ha fatto per me e continua a fare, oggi, per mezzo della sua parola, del Pane spezzato dai suoi ministri e della testimonianza dei fratelli.

Signore Gesù, ti prego per me e per tutti perché possiamo comprendere in modo vitale il tuo amore misericordioso e accogliere la salvezza che tu ci offre gratuitamente: Benedetto colui che viene nel nome del Signore!

La voce di un grande convertito

La morte del Verbo eterno di Dio fatto uomo, ha dato un significato agli avvenimenti, alle prove, alle tentazioni e alle sofferenze di questa esistenza terrena. Ha congiunto e armonizzato ciò che sembrava incompatibile e senza scopo. Ci ha insegnato come vivere, come usare di questo mondo, che cosa attendere da esso, che cosa desiderare e quali speranze nutrire.
Beato John Henry Newman
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01/11/2013 07:36
 
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padre Antonio Rungi
Tutti siamo chiamati alla santità

Oggi la chiesa ci fa celebrare tutti insieme quanti godono della visione beatifica di Dio nel Santo Paradiso. E' una solennità a cavallo tra il vecchio anno liturgico che volge al termine ed il nuovo che si appresta all'orizzonte. Come dire che è un ricordo tra quelli che già fanno parte della gloria del cielo e quelli che, con la grazia di Dio, con la loro buona volontà e soprattutto con le loro buone opere, vi entreranno a far parte nel futuro. Nell'uno e nell'altro caso ci è di consolazione e conforto che la santità non è impossibile da raggiungere, ma è una meta alla quale tutti possiamo pervenire, seguendo le indicazioni del divino Maestro che nel discorso della Montagna focalizza la santità su alcuni punti cardini: la povertà in spirito, la sofferenza o la croce, la mitezza, la giustizia, la misericordia, la purezza, la pace, la persecuzione, l'insulto. Sono le celebri beatitudini proclamante da Gesù e che diventano la legge fondamentale per chi ha a cuore la sua personale santificazione.
I santi sono tantissimi: la storia della chiesa annovera ufficialmente tra i santi di ogni tipologia migliaia di persone. Ma il paradiso non è pieno solo di quei santi a noi ben noti e venerati, ma è stracolmo di tanti che hanno sentito forte dentro di loro la chiamata di Dio ed hanno operato secondo il vangelo. Quanti sono? La risposta la troviamo nella prima lettura di oggi, tratta dall'Apocalisse, che ci apre il cuore alla speranza, ben sapendo, che se agiamo bene, quel nome nostro già scritto nel cielo e quel posto riservato in prima o ultima fila nella contemplazione della SS. Trinità, sta lì ad aspettare di essere occupato da ognuno di noi. I santi non si possono contare, perché ci sfugge il calcolo, perché la santità è universale e la chiamata alla santità riguarda tutti, compresi quanti nella rettitudine morale agiscono per il bene, senza neppure avere la fede. Cristo sulla Croce, l'Agnello immolato sull'altare del Calvario vuole e desidera che tutti gli uomini, nel suo sangue preziosissimo si salvino per sempre nell'eterna gloria del cielo.
E' bello pensare al paradiso, pensarlo nei termini in cui ce lo descrive nelle sue visioni mistiche Giovanni l'Evangelista: lì c'è gioia piena ed eterna, lì vedremo Dio così come Egli è, faccia a faccia. Non sarà una visione virtuale o immaginaria come spesso avviene ai nostri giorni, ma vedremo Dio realmente, così come Egli è. Vedremo l'Amore, assaporeremo il vero amore, saremo immersi per sempre nel Dio-Trinità e nel Dio-Amore. Essere santi, nel tempo e nell'eternità, è sperimentare l'Amore di Dio. Per raggiungere questa alta meta, quella che conta davvero, dobbiamo purificarci continuamente. Non possiamo vedere il volto di Dio nell'eternità con qualsiasi macchia di peccato non lavata, non rimessa, non scontata. Il tempo che il Signore ci dona è proprio in vista di questa purificazione e di questo lavacro che ci prepara all'incontro con Lui nella luce e nella pace eterna. Chi allora potrà sperimentare questa gioia, chi potrà salire il monte della gloria, fare la scalata del Paradiso? Ce lo dice il Salmo responsoriale della solennità odierna: "Chi ha mani innocenti e cuore puro, chi non si rivolge agli idoli". Innocenza, purezza, lotta a qualsiasi idolo della terra sono i punti di partenza per scalare la montagna della santità, la vera ascesi e mistica della perfezione che porta ogni uomo a incontrare Cristo oggi, attraverso i segni della sua grazia e i segni della sua presenza nel mondo tramite il volto gioioso e sofferente dei nostri fratelli, ma soprattutto ad incontrare Cristo oltre il tempo, nell'eternità dove Egli è andato a preparare un posto a ciascuno di noi, che nessuno potrà mai toglierci, se siamo disponibili a camminare con lui sulla via della fede, della speranza e della carità, sulla strada delle Beatitudini.
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03/11/2013 09:43
 
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Ileana Mortari - rito romano
Lo accolse pieno di gioia

Il vangelo di questa domenica è una pagina molto significativa del vangelo di Luca, di cui mostra in sintesi i temi principali. E' imperniata su un clamoroso episodio di conversione, cioè di repentino cambiamento del protagonista, che da una condizione totalmente negativa passa a una vita veramente "nuova".

Zaccheo ci viene presentato da Luca come "capo dei pubblicani" e ricco; il primo epiteto designa quelle persone che si erano messe al servizio dei Romani per riscuotere le tasse, si arricchivano indebitamente ed erano di per sé "impure": ogni buon ebreo evitava qualsiasi contatto con loro per non contaminarsi. Grazie alla sua professione, poi, il nostro personaggio era anche molto ricco.

Luca è l'evangelista che più insiste sul tema della ricchezza, la cui prerogativa è quella di accecare

chi la possiede diventando il suo idolo; non a caso Gesù, dopo il fallito incontro con un giovane ricco, esclama: "Quant'è difficile, per coloro che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio! E' più facile per un cammello passare per la cruna di un ago che per un ricco entrare nel regno di Dio." (Luca 18,24-25).

Ora questo Zaccheo, personaggio del tutto negativo per professione e avidità, "cercava di vedere quale fosse Gesù" (v.3); Luca non dice altro, ma dal seguito del racconto si capisce che questo desiderio del pubblicano non era solo curiosità verso l'ormai famoso rabbi itinerante di Nazareth, ma molto di più: si coglie una sottile inquietudine, probabilmente un'insoddisfazione, la speranza che l'incontro con il Maestro porti qualcosa di nuovo nella sua vita. Egli è molto determinato in questa sua ricerca, tanto da sfidare il ridicolo e l'ironia della gente arrampicandosi come un ragazzetto su un albero, visto che non c'era altro modo per vedere Gesù al suo passaggio.

E a questo punto Luca delinea magistralmente quell'incontro che risulta "emblematico", "tipo", "modello", di ogni incontro tra Gesù il Salvatore e l'uomo peccatore.

Anzitutto, in modo del tutto inaspettato, Gesù chiama Zaccheo per nome (dunque anche Lui "cercava" Zaccheo!) e gli dice semplicemente che vuole essere suo ospite. Se ricordiamo chi erano i pubblicani e come ogni ebreo "giusto" doveva assolutamente evitarli, non possiamo non stupirci di questa decisione che infatti la gente subito critica, "mormorando" (v.7).

Ma la cosa ancora più inaspettata è che il capo dei pubblicani, senza che Gesù gli faccia alcun rimprovero o lo esorti a cambiar vita, dapprima lo accoglie "pieno di gioia" (v.4) e immediatamente dopo gli dichiara con decisione ferma e risoluta (questo è il significato dell'"alzatosi" al v.8): "do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto".

Che cosa è successo? E' qui esemplarmente raffigurata la dinamica tipica di ogni conversione cristiana. Anzitutto c'è un incontro autentico con Gesù, autentico perché sinceramente e fortemente desiderato da Zaccheo, che accoglie il Salvatore senza alcuna esitazione.

In secondo luogo c'è la magnanimità di Gesù, la cui missione è proprio rivelare l'infinita misericordia di Dio: incurante delle mormorazioni, Egli compie un gesto assolutamente scandaloso agli occhi dei "giusti" ebrei: entrare in casa (il che significava allora instaurare un rapporto amicale) di un "pubblico peccatore", e dunque contrarre l'impurità!

Ma è proprio questo gesto che ha aperto gli occhi e il cuore del capo dei pubblicani; la sua conversione è stata spontanea e "istantanea"!, come si vede dalla decisione concreta subito presa: rimediare al male fatto e di conseguenza cambiare vita senza più commettere le violazioni di prima.

E' da notare che la riparazione decisa da Zaccheo va molto al di là di quanto comandato dalla Legge. Il libro del Levitico prescriveva che, in caso di frode, occorreva restituire l'importo sottratto con l'aggiunta di un quinto (Lev.5,20-26), e Zaccheo vuole restituire quattro volte l'entità di quanto ha rubato! E anche la distribuzione ai poveri di metà delle proprie sostanze supera di gran lunga ciò che nella dottrina rabbinica era considerata la misura più alta delle offerte volontarie per i poveri: un quinto degli averi e non più di un quinto del reddito.

Dunque la novità di vita che l'incontro con Gesù ha provocato nell'esistenza di Zaccheo è veramente un esempio di quella "sovrabbondanza" dell'amore che va molto al di là della Legge, un tema questo che insieme agli altri temi tipici del terzo evangelista (gioia, misericordia, ricchezza e povertà, accoglienza, conversione) ci mostra riuniti i motivi principali del vangelo di Luca in questo episodio che chiude il viaggio verso Gerusalemme, dove la missione di Gesù giungerà al suo compimento.
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04/11/2013 08:22
 
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Riccardo Ripoli
Sarai beato perché non hanno da ricambiarti

E' inutile dire, ma ognuno di noi, qualunque cosa faccia la fa per ricevere qualcosa. Se nella nostra natura umana c'è questo desiderio così prepotente da un lato significa che non è un peccato tanto grande, e dall'altro, sulla scia degli insegnamenti di Gesù, vuol dire che dobbiamo camminare verso la perfezione ed eliminare pian piano questo nostro deisderio di ricevere in cambio qualcosa.
Mettetevi alla prova. Pensiamo ad azioni che facciamo o che abbiamo fatto con estrema generosità, magari impulsivamente. Non vi sareste aspettati magari un grazie, un sorriso per la vostra buona azione? La riprova è che se non lo ricevete ci restate male per l'ingratitudine di quella persona e magari la prossima volta ci pensate due volte prima di fargli una gentilezza. Però il messaggio di Dio è chiaro, non fate favori, inviti, cortesie a chi potrà ricambiare nello stesso modo il tuo bene, ma cerca coloro che sono gli ultimi degli ultimi e dona a loro te stesso.
Quando Gesù guarì i dieci lebbrosi e solo uno tornò indietro a ringraziarLo, il Signore ci rimase male. Ci fa vedere la nostra natura umana, ci insegna a non spaventarci e di affrontarla con tranquillità. Vi confesso che da quando ho donato la mia vita ai ragazzi ho fatto molta strada e tanta ne devo ancora percorrere. Uno degli aspetti più brutti del mio passato, di cui mi sono accorto dopo un po' di tempo, è che ricercavo in loro l'amore perso di mia madre. Io mi dedicavo a loro "anima e core" e pretendevo che loro fossero riconoscenti comportandosi bene, ubbidendo, dandomi le soddisfazioni a scuola e nel comportamento fuori casa. Come sbagliavo. Pretendevo qualcosa che non mi spettava, ho pian piano capito che donarsi significa non dettare condizioni, ma come è difficile andare avanti se on si riceve una carezza, un sorriso, una coccola, un interessamento. Devo dire che appena ho smesso di pretendere tutto questo, è la volta che l'ho ricevuto in abbondanza. I miei ragazzi oggi mi coccolano, si interessano, si preoccupano, scherzano con me come fossi il loro amicone, si impegnano, chi più chi meno, a darmi quelle soddisfazioni nella scuola e nel comportamento che mi rendono felice. Che gioia leggere un tema qualche giorno fa dove uno dei ragazzi aveva tirato fuori tra le righe certi principi morali che gli abbiamo insegnato, ma la gioia più grande è quella di vederlo andare fiero di tali valori e proclamarli al mondo incurante delle prese di giro dei suoi compagni, ma felice di avere qualcosa per cui lottare. E già riceve un contraccambio, senza volerlo, senza cercarlo perché a parte la nostra grande gioia, ha la soddisfazione di essere apprezzato da alcuni ragazzi e professori per quelle sue idee, che oggi definirei, almeno per un ragazzo adolescente, coraggiose.
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05/11/2013 07:55
 
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a cura dei Carmelitani


1) Preghiera

Dio onnipotente e misericordioso,
tu solo puoi dare ai tuoi fedeli
il dono di servirti in modo lodevole e degno;
fa' che camminiamo senza ostacoli
verso i beni da te promessi.
Per il nostro Signore Gesù Cristo...


2) Lettura

Dal Vangelo secondo Luca 14,15-24
In quel tempo, uno dei commensali disse a Gesù: "Beato chi mangerà il pane nel regno di Dio!"
Gesù rispose: "Un uomo diede una grande cena e fece molti inviti. All'ora della cena, mandò il suo servo a dire agli invitati: Venite, è pronto. Ma tutti, all'unanimità, cominciarono a scusarsi.
Il primo disse: Ho comprato un campo e devo andare a vederlo; ti prego, considerami giustificato.
Un altro disse: Ho comprato cinque paia di buoi e vado a provarli; ti prego, considerami giustificato.
Un altro disse: Ho preso moglie e perciò non posso venire.
Al suo ritorno il servo riferì tutto questo al padrone. Allora il padrone di casa, irritato, disse al servo: Esci subito per le piazze e per le vie della città e conduci qui poveri, storpi, ciechi e zoppi.
Il servo disse: Signore, è stato fatto come hai ordinato, ma c'è ancora posto.
Il padrone allora disse al servo: Esci per le strade e lungo le siepi, spingili a entrare, perché la mia casa si riempia. Perché vi dico: Nessuno di quegli uomini che erano stati invitati assaggerà la mia cena".


3) Riflessione

? Il vangelo di oggi continua la riflessione attorno a temi legati alla tavola ed all'invito. Gesù racconta la parabola del banchetto. Molta gente era stata invitata, ma la maggior parte non andò. Il padrone della festa rimase indignato per l'assenza degli invitati e mandò a chiamare poveri, storpi, ciechi e zoppi. E nonostante questo c'era ancora posto. Allora ordinò di invitare tutti, fino a che la casa fosse piena. Questa parabola era una luce per le comunità del tempo di Luca.
? Nelle comunità del tempo di Luca c'erano cristiani, venuti dal giudaismo e cristiani venuti dai gentili, chiamati pagani. Nonostante le differenze di razza, classe e genere, loro vivevano a fondo l'ideale della condivisione e della comunione (At 2,42; 4,32; 5,12). Ma c'erano molte difficoltà perché alcune norme di purezza formale impedivano ai giudei di mangiare con i pagani. E pur dopo essere entrati nella comunità cristiana, alcuni di loro conservavano questa vecchia usanza di non sedersi a tavolo con un pagano. Per questo Pietro entro in conflitto con la comunità di Gerusalemme per essere entrato a casa di Cornelio, un pagano, e per aver mangiato con lui (At 11,3). Dinanzi a questa problematica delle comunità, Luca conservò una serie di parole di Gesù nei riguardi del banchetto (Lc 14,1-24). La parabola che qui meditiamo è un ritratto di ciò che stava avvenendo nelle comunità.
? Luca 14,15: Beato chi mangerà il pane nel Regno di Dio. Gesù aveva finito di raccontare due parabole: una, sulla scelta dei luoghi (Lc 14,7-11), e l'altra sulla scelta degli invitati (Lc 14,12-14). Mentre ascoltava queste parabole qualcuno che era a tavola con Gesù deve aver colto la portata dell'insegnamento di Gesù e deve aver detto: "Beato chi mangerà il pane nel Regno di Dio!". I giudei paragonavano il tempo futuro del Messia ad un banchetto, caratterizzato dalla gratitudine e dalla comunione (Is 25,6; 55,1-2; Sal 22,27). La fame, la povertà e la carestia facevano sperare al popolo di ottenere nel futuro ciò che non aveva nel presente. La speranza dei beni messianici, comunemente sperimentati nei banchetti, era una prospettiva della fine dei tempi.
? Luca 14,16-20: Il grande banchetto è pronto. Gesù risponde con una parabola. "Un uomo diede una gran cena e fece molti inviti". Ma gli impegni di ciascuno impediscono agli invitati di accettare l'invito. Il primo dice: "Ho comprato un campo e devo andare a vederlo!" Il secondo: "Ho comprato cinque paia di buoi e vado a provarli!" Il terzo: "Ho preso moglie, e perciò non posso venire!" Nell'ambito delle norme e delle usanze dell'epoca, quelle persone avevano il diritto di non accettare l'invito (cf. Dt 20,5-7).
? Luca 14,21-22: L'invito rimane aperto. Il padrone della festa rimane indignato constatando che il suo invito non è accolto. Nel fondo, chi è indignato è proprio Gesù poiché le norme della stretta osservanza della legge, limitavano la gente rispetto alla possibilità di vivere la gratuità di un invito a casa di amici, invito caratterizzato dalla fraternità e dalla condivisione. Così il padrone della festa ordina ai servi di invitare i poveri, i ciechi, gli storpi, gli zoppi. Coloro che normalmente erano esclusi perché considerati impuri, ora sono invitati a sedersi attorno al tavolo del banchetto.
? Luca 14,23-24: C'è ancora posto. La sala non si riempie. C'è ancora posto. Allora, il padrone della casa ordina ai servi di invitare coloro che sono per la strada. Sono i pagani. Anche loro sono invitati a sedersi attorno alla tavola. Così, nel banchetto della parabola di Gesù, si siedono tutti attorno allo stesso tavolo, giudei e pagani. Al tempo di Luca, c'erano molti problemi che impedivano la realizzazione di questo ideale del banchetto comune. Mediante la parabola, Luca mostra che la pratica del banchetto veniva proprio da Gesù.
Dopo la distruzione di Gerusalemme, nell'anno 70, i farisei assunsero il governo nelle sinagoghe, esigendo il compimento rigido delle norme che li identificavano come popolo giudeo. I giudei che si convertivano al cristianesimo erano considerati una minaccia, poiché distruggevano i muri che separavano Israele dagli altri popoli. I farisei cercavano di obbligarli ad abbandonare la fede in Gesù. Poiché non ci riuscivano, li cacciavano dalle sinagoghe. Tutto questo provocava una lenta e progressiva separazione tra giudei e cristiani ed era fonte di molta sofferenza, soprattutto per i giudei convertiti (Rom 9,1-5). Nella parabola, Luca afferma chiaramente che questi giudei convertiti non erano infedeli al loro popolo. Anzi! Loro sono gli invitati che accettarono l'invito. Loro sono i veri eredi di Israele. Infedeli sono stati coloro che non hanno accettato l'invito e non hanno voluto riconoscere in Gesù il Messia (Lc 22,66; At 13,27).


4) Per un confronto personale

? Quali sono le persone che in generale sono invitate e quali sono le persone che in generale non sono invitate alle nostre feste?
? Quali sono i motivi che oggi limitano la partecipazione delle persone nella società e nella chiesa? E quali sono i motivi che alcuni adducono per escludersi dalla comunità? Sono motivi giusti?


5) Preghiera finale

Le opere del Signore sono splendore di bellezza,
la sua giustizia dura per sempre.
Ha lasciato un ricordo dei suoi prodigi:
pietà e tenerezza è il Signore. (Sal 110)
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06/11/2013 07:45
 
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Così inizia il passo evangelico odierno: "Siccome molta gente andava con lui, Gesù si voltò e disse: "Se qualcuno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo"". E Luca, l'evangelista della mitezza che esprime con queste parole l'esigenza di Gesù. Dobbiamo "odiare", ed è un comando di Gesù... Sono parole che ci sconcertano. Gesù infatti vuoi togliere ogni illusione alla molta gente che gli va dietro. E facilmente comprensibile che quando uno dice: Non c'è altra legge che l'amore, l'amore riassume tutti i comandamenti, suscita entusiasmo, soddisfazione e anche molte illusioni, perché tutti ci riteniamo capaci di amare: se basta amare, siamo a posto! Gesù ci indica una via che non presenta nessuna difficoltà.
Ma "Gesù si voltò e disse: "Se uno viene a me... Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo"". E una esigenza fortissima, e Gesù la fa seguire da due esempi di persone che devono ben riflettere prima di impegnarsi. Se uno vuol costruire qualcosa, deve prima fare i conti e vedere se il capitale che possiede basta per arrivare a finire la costruzione; se si vuoi fare guerra, bisogna avere truppe ed armamenti sufficienti per combattere fino alla vittoria.
E qual è il capitale necessario per costruire la torre, qual è l'equipaggiamento sufficiente per vincere la guerra? Gesù dice: la condizione è questa: rinunciare a tutto quello che si ha. "Chiunque di voi non rinunzia a tutti i sudi averi, non può essere mio discepolo".
Eccoci dunque presi in una specie di contraddizione fra l'amore e il distacco. Se ci pensiamo bene, Gesù non fa altro che indicarci le condizioni del vero amore. Non dobbiamo illuderci: da soli non saremo mai capaci di amare, perché l'amore è disciplina, l'amore esige un profondo distacco, un distacco completo. Spesso, quando noi crediamo di amare, amiamo il nostro interesse, non amiamo veramente né gli altri né Dio. Cerchiamo la nostra soddisfazione, la nostra gioia, invece di cercare la felicità degli altri nell'adesione alla volontà divina.
San Luca è l'evangelista della misericordia, e tuttavia è proprio lui che dice: "Se qualcuno viene a me senza odiare, non può essere mio discepolo". Perché? Perché Luca è anche l'evangelista che insiste di più sull'impegno del discepolo nei confronti del Maestro.
San Matteo ha espresso diversamente questa parola di Gesù. Egli dice: "Se qualcuno viene a me e ama suo padre o sua madre più di me, non è degno di me". Da un lato si capisce che è la stessa cosa che vuoi dire san Luca, però la formulazione lucana ha il vantaggio di presentare la questione molto nettamente.
Non si tratta di rinunciare ad ogni amore, è chiaro; si tratta di rinunciare all'amore possessivo. Gesù infatti non domanda solo di odiare il padre, la madre, i figli, ma anche di odiare la propria vita. Ora, questa aggiunta ci fa capire in che direzione vada la sua esigenza: egli impone il distacco da ogni possesso.
"Chi non rinunzia a tutti i Suoi averi, non può essere mio discepolo".
C'è un modo di amare che in realtà è una ricerca di comfort nella vita: il comfort affettivo, l'appoggio, la soddisfazione del cuore. E a questo modo di amare che Gesù chiede di rinunciare.
Egli stesso ha rinunciato, egli stesso, si può dire, "ha odiato", nel significato evangelico, sua madre, i suoi fratelli. Ci colpisce vedere che nel Vangelo, tutte le volte che si parla di sua madre o dei suoi fratelli, è sempre per sfociare ad una parola che sembra dura, di rifiuto. "Tua madre e i tuoi fratelli sono qui fuori e chiedono di te...". "Mia madre e i miei fratelli sono quelli che fanno la volontà di Dio". "Felice la donna che ti ha portato!". "Molto più felice chi ascolta la parola di Dio e la mette in pratica".
Gesù è andato davvero molto lontano in questo atteggiamento. Guardando le cose umanamente si può dire che ha "disonorato" sua madre. Si disonora la madre, quando non le si dimostra amore; si disonora la madre, quando si accetta di morire come un criminale... Gesù è veramente giunto al totale distacco dall'amore possessivo, insegnandoci così la strada del vero amore, dell'amore generoso, l'amore capace di tutti i sacrifici, l'amore che dona la vita e che accetta l'umiliazione quando è il mezzo per compiere il piano di Dio. Questo è l'amore vero. Non è più un'illusione di amore, è l'amore al quale possiamo spalancare il cuore e che riempie di gioia, perché è amore che viene da Dio.
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07/11/2013 07:23
 
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Riccardo Ripoli
C'è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte

Ci sono persone che si alzano la mattina, fanno la colazione al bar, vanno in ufficio, la sera in famiglia, il venerdì ed il sabato fuori con gli amici. Una o due vacanze l'anno in posti esotici e a sciare in belle località turistiche. Niente di male, fino a quando non è morta la mia mamma anche la mia vita era così. Il problema però è che in questo modo non si toccano i problemi con le proprie mani, non si ascoltano con il cuore le sofferenze altrui. Tutto è offuscato, lontano dalla nostra realtà.
Da quando ho iniziato ad aiutare i ragazzi tuta la mia visione della vita è cambiata, sono più attento a non sprecare, sono dolorante per le ferite inferte ai bambini e ai loro genitori, sono più vicino all'uomo e alle sue problematiche. Non è un merito, è normale che sia così al momento in cui ti cali in una realtà di abbandono e sofferenza.
Ma ciò che impari sulla tua pelle è che non c'è un solo bambino, una sola persona che valga meno di un'altra. Anche il ragazzo più turbolento, quello che da maggiori problemi ha il suo nome scritto a caratteri cubitali nel mio cuore. Capita che i ragazzi ogni tanto si perdano, prendano strade sbagliate e le nostre forze, pensieri, preoccupazioni si indirizzano verso di lui per riportarlo sulla retta via. Purtroppo non sempre ci riusciamo, anzi è facile che quando un ragazzo grande decide di non voler stare più alle regole non ci sono ragioni che possano convincerlo del contrario, almeno fin tanto che non sbatte il viso contro il muro. E' così difficile recuperarli in certe situazioni che al momento in cui ciò accade si grida al miracolo.
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08/11/2013 09:02
 
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Eremo San Biagio
Commenti su Luca 16,8

I figli di questo mondo verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce.
Lc 16,8

Come vivere questa Parola?

Questa affermazione di Gesù viene quasi alla maniera di stringato commento della parabola che, a tutta prima, sembra avvallare un'ingiustizia. Il protagonista del racconto è una persona decisamente disonesta. Trovandosi nei guai nei riguardi del padrone di cui è amministratore, si rende amici proprio i debitori del padrone, condonando la gran parte dei debiti con un comportamento disonesto ma molto avveduto. Chi non sa che la scaltrezza è un'arma del cattivo uso di un'intelligenza a servizio di una vita intenta a mal fare, indipendentemente dalla legge di Dio e dalla propria coscienza?

Ecco: Gesù sceglie questo racconto perché vuol attirare l'attenzione su un elemento che ne è il perno. Qui non si tratta di accusare un comportamento disonesto, né un'avidità di appropriarsi di beni non propri, ma l'avvedutezza. Gesù vuol dire anche oggi a noi che se vogliamo il Regno di Dio anche dentro le strutture umane, se vogliamo che il bene s'imponga e la giustizia prevalga sull'ingiustizia, bisogna che siamo avveduti. Essere cristiano non vuol dire acquiescienza, tanto meno rinuncia all'intelligenza, al rigore professionale e all'impegno sociale. Non il buonismo ma la bontà che si fa intelletto di amore (per dirla con Dante) è servita da quell'avvedutezza che noi, figli della luce perché coscienti di essere figli di Dio, chiediamo al Signore di saper usare.

Gesù, intelligenza-sapienza del Padre, donaci l'intelligenza del cuore che, aiutato dalla tua grazia, affronta le situazioni per immettervi luce di giustizia e di amore.

La voce di un Dottore della Chiesa

E' il proprietario che deve essere signore della proprietà, non la proprietà signora del proprietario! Ma chiunque usa del patrimonio di cui dispone a proprio arbitrio, e non sa dare con larghezza né ripartire con i poveri, costui è servo dei propri averi, anziché signore di essi. Perché guarda alle ricchezze altrui come se fosse un domestico, e non usa di esse come se fosse un signore.
S. Ambrogio
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09/11/2013 08:01
 
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Monaci Benedettini Silvestrini
Sia glorificato il nome di Dio

Gesù, modello di ogni virtù, perfettissimo nella sua natura umano - divina, si propone a tutti noi particolarmente per la sua mitezza e per la sua umiltà. Oggi però, preso da santo zelo per la casa del Padre, ridotta ad una spelonca di ladri e infestata da venditori e cambiavalute, mostra la sua giusta ira e il suo santo sdegno. L'evangelista ci racconta: «Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!». Il tempio era ritenuto la dimora di Dio con gli uomini, il luogo dove più viva era la sua presenza, era anche il segno visibile di un'unica fede, nell'unico Dio, del popolo eletto. Luogo di preghiera e di culto e non di mercato. Gesù, sollecitato poi dai soliti suoi nemici, che vogliono comprendere con quale autorità egli si permetta di agire in tal modo, fa un passaggio dal tempio fatto di pietre e il tempio del suo corpo e lancia loro una sfida: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». È evidente per noi l'allusione alla sua morte e risurrezione. È mirabile per la nostra fede la certezza che il corpo di Cristo è il tabernacolo di Dio. È gratificante e sublime quanto ci ricorda san Paolo: «Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?». La nostra riflessione oggi coincide con la dedicazione della Basilica Lateranense, la Cattedrale di Roma. Ci offre però una magnifica occasione per esaminarci sul rispetto che riserviamo alla casa di Dio che ogni giorno ci accoglie, e ancora di più sul rispetto che abbiamo verso il Signore che ivi ha stabilito la sua dimora tra noi. Non da ultimo siamo felicemente indotti a considerare la sacralità del nostro corpo, tempio sacro dello Spirito, in cui inibita la divinità perché deificati in Cristo.
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10/11/2013 07:25
 
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I sadducei: esperti fabbricatori di boomerang

Come ottenere un effetto boomerang. Stavolta nemmeno la fantasia più assurda - una donna va in sposa a sette mariti che muoiono tutti senza lasciare discendenza alcuna, ndr! - riesce a smantellare la speranza più incomprensibile: quella della Risurrezione. A farne le spese, stavolta, l'ala aristocratica e nobile dei sadducei; coloro che di fronte alla Risurrezione dei morti rispondevano con una grassa e grossa risata. Prima di loro gli scribi, subito dopo i farisei, a seguire i sadducei: oggi gli increduli e i menefreghisti. Ad ogni epoca storica la sua versione dell'incredulità; ad ogni sprazzo di incredulità la rinnovata conferma che "Dio non è il Dio dei morti ma dei viventi". Non credono alla Risurrezione, perciò vanno chiedendo a quel Rabbì di passaggio di chi sarà moglie, nell'aldilà, colei che quaggiù è andata in sposa a sette uomini diversi. Ha un bel da fare il Nazareno a narrare l'inaudito, ciò che nessuno ha mai veduto, quello scarto inatteso di stupore apertosi allo sguardo di Maria di Magdala in quel primo mattino tutto ebraico della prima Pasqua cristiana.
E in quella domanda ci sta tutta l'incredulità umana di fronte alla Bellezza: quaggiù tutto è sempre spiegabile, persino il telefonino diventa quasi la prolunga della mano, la frizione come una continuazione del piede e il pensiero un'espressione esplicita del desiderio. Cosicché anche dell'Eterno l'uomo vorrebbe fosse la continuazione dell'effimero: un Dio inspiegabilmente monotono e monocorde. Non così nella Sua logica, dove tra il quotidiano e l'eterno vige lo scarto di una sorpresa che a nessuno è dato anticipare, di un surplus di umanità difficile da svelare anzitempo, di un'occasione di giustizia non più passibile di interpretazioni. Il dopo di Zaccheo è l'esatto contrario del suo prima. E con Zaccheo un'infinità di mille altri volti: della Samaritana - pure lei plurimaritata -, di Matteo e di Tommaso, di Saulo/Paolo e di Simone/Pietro, di Agostino e di Francesco, di Edith e di Domenico. Di me: nessuno può immaginare come uscirà dall'incontro con il suo Sguardo. Che, quaggiù, rimane un anticipo momentaneo di ciò che lassù diventerà eterno. E' una prospettiva che gli occhi del mondo faticano a comprendere: quaggiù tutto è prevedibile, l'abitudine regna sovrana, la sorpresa è sempre a rischio di essere anticipata, la fede cristiana risulta ispida e tagliente, imprevista e imprevedibile, angosciante e speranzosa. Perché di quelle praterie nessuna storia è mai stata scritta da sguardi diretti, eccetto quella Parola del Rabbì che sola basterebbe a rasserenare lustri di ansie quaggiù. E allora meglio il sospetto di una fregatura da parte di Dio: è la diffidenza del Giardino dell'Eden. Di quel pollo di Satana.

In fondo, io non ho paura. Non per una forma di temerarietà, ma perché sono cosciente del fatto che ho sempre a che fare con degli esseri umani, e che cercherò di capire ogni espressione, di chiunque sia e fin dove mi sarà possibile. E il fatto storico di quella mattina non era che un infelice ragazzo della Gestapo si mettesse ad urlare contro di me, ma che francamente io non ne provassi sdegno - anzi, che mi facesse pena, tanto che avrei voluto chiedergli: hai avuto una giovinezza così triste, o sei stato tradito dalla tua ragazza? Aveva un'aura così tormentata e assillata, del resto anche molto sgradevole e molle. Avrei voluto cominciare subito a curarlo, ben sapendo che questi ragazzi sono da compiangere fintanto che non sono in grado di fare del male, ma che diventano pericolosissimi se sono lasciati liberi di avventarsi sull'umanità. E' solo il sistema usato da questo tipo di persone a essere criminale. E quando si parla di sterminare, allora che sia il male nell'uomo, non l'uomo stesso.
(E. Hillesum, Diario, Adelphi, 386)

Della morte si parla sempre a tinte fosche e allucinanti, quasi fosse il baratro dentro il quale s'inghiotte una vita giocata da protagonisti, magari controvento e senz'olio. Da linee di partenza svantaggiate. Eppure lì campeggia una finestra sull'altrove di Dio, una fessura dentro la quale contemplare l'irruzione sempre imprevedibile di un Dio che abita forestiero le strade del mondo. Ma che, da Amante, trattiene il sogno di una confidenza da tessere con gli uomini di quaggiù. Non umilia i sadducei, non trattiene astio alcuno come risposta a quella querelle costruita ad arte: semplicemente si fa Presenza di una storia diversa, di un modo inedito di guardare il mondo, di una speranza tutta del domani che getta luce anche sulle infermità dell'oggi. Forse sta in questo lo scarto inatteso della Risurrezione: nell'annunciare ai perdenti della storia che l'Eterno non sarà la banale e monotona continuazione del presente ma sarà l'ingresso in una nuova prospettiva, laddove ciò che quaggiù sembrava invincibile lassù troverà un nuovo modo d'essere. Oggi è stata una giornata meravigliosa - forse la più bella da quando sono nato -; eppure domani potrebbe essere una giornata ancor più sublime: con Lui il bello deve sempre ancora a venire. Con lo scarto inatteso di una sorpresa a portata di mano: a pensare la quale, anche solo per cinque secondi, s'avverte il batticuore.
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11/11/2013 07:40
 
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mons. Vincenzo Paglia


Gesù mette in guardia i discepoli dal dare scandalo, ossia dall'essere "pietra d'inciampo". E lo ritiene talmente grave da fargli dire che sarebbe meglio, per chi lo procura, di essere gettato nel mare con una pietra al collo. Forse il primo scandalo che i discepoli debbono evitare è quello di contraddire, con la loro vita, il Vangelo. In tal modo, infatti, lo rendono inefficace. Gesù, del resto, aveva già detto: se il sale perde il sapore a null'altro serve che ad essere gettato via. "State attenti a voi stessi!", dice Gesù ai discepoli. Essi, infatti, debbono ascoltare ogni giorno il Vangelo per non tradirlo e per evitare che il peccato attecchisca e si radichi nella loro vita. Gesù richiama perciò alla dimensione del perdono, una dimensione ineliminabile e quotidiana nella vita della comunità cristiana. Egli conosce bene la debolezza dei discepoli. Per questo aggiunge che la misericordia e il perdono debbono sovrabbondare sul peccato. Perdonare "sette volte", vuol dire sempre. Mai infatti il perdono deve mancare nella vita della famiglia di Dio, è come pegno dell'amore e della gioia che il Signore dona.
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12/11/2013 08:20
 
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Riccardo Ripoli
Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare

Madre Teresa diceva "Sono una piccola matita nella mani di Dio".
Molte persone che conosco fanno del bene non perché devono, ma perché vogliono e si sentono di farlo.
Il Vescovo di Livorno, ora a Como, Monsignor Coletti, diceva ai giovani "Siate sentinelle di Dio".
Siamo strumenti del Signore.
Ognuno di noi ha un compito, ognuno di noi è chiamato a svolgere una sua funzione.
Ma il bello del Vangelo è che ci lascia liberi.
Ognuno di noi infatti è chiamato da Dio a fare qualcosa, ma chiamato non significa obbligato.
Il Signore bussa alla nostra porta e ci chiede qualcosa.
A volte noi siamo sordi a quella chiamata ed il Signore chiama più volte e più forte, un po' come il papà e la mamma che per il bene del figlio lo svegliano alla mattina per richiamarlo ai suoi doveri di studente. Alcuni figli si rigirano dall'altra parte e la mamma torna a svegliarli, e poi ancora, in maniera sempre più decisa, fin tanto che non si destano.
Alcuni genitori si stancano di chiamare e capita che lascino dormire il figlio. Una mattina, un'altra mattina, ed ancora, ed ancora, fin tanto che il ragazzo diventa svogliato, non vuole andare più a scuola, si perde.
Ma il genitore bravo non si stanca di svegliare il proprio figlio, ogni giorno, ogni mese, ogni anno, fin tanto che non sarà in grado di camminare da solo.
Ecco, Dio, che è Padre buono di noi tutti, fa così con noi.
Ci chiama, ci sveglia dal nostro torpore, ci sollecita di continuo. In certi casi ci desta scuotendoci ben bene, come attraverso la malattia di un figlio o la morte della mamma, ma è per mandarci a scuola, per imparare a mettere in pratica le parole del Vangelo, per aiutare gli altri in un mondo che è anche nostro perché Dio lo ha fatto per noi.
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13/11/2013 07:35
 
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In questo Vangelo Gesù sottolinea l'importanza del ringraziamento, della riconoscenza. Egli ha guarito dieci lebbrosi, ma soltanto uno straniero ritorna a ringraziarlo. Gli altri erano abituati ai benefici di Dio, credevano di averne diritto e non hanno ritenuto doveroso ringraziare.
Noi che riceviamo moltissimo da Dio a volte siamo meno riconoscenti di quelli che, vissuti lontani da lui, quando lo conoscono sono pieni di meraviglia per la sua bontà. Se lasciamo che nel nostro cuore si insinui l'abitudine di non rendere grazie, ci allontaniamo dal Signore, perché il ringraziamento è necessario per completare il beneficio di Dio. Soltanto a questo straniero venuto a ringraziare Gesù ha potuto dire: "La tua fede ti ha salvato". Gli altri hanno ricevuto la guarigione, se ne sono andati felici di essere guariti, ma non sono in relazione con Dio, non hanno la fede che salva.
Il rendimento di grazie, in un certo senso, chiude il circuito con Dio, stringe il legame con lui, ed è questa la cosa importante. Ricevere un beneficio in fondo è secondario: importante è essere in relazione con il benefattore, con colui che dà. Un bambino deve ricevere tutto quanto ha bisogno, ma non è importante che lo riceva a volte da uno e a volta da un altro, dal punto di vista materiale; importante è che egli si senta amato dalla mamma, altrimenti il suo cuore non si svilupperà, non potrà crescere nell'amore, perché gli sarà mancato il rapporto con una persona che lo ama.
Dio vuole che noi sentiamo il suo amore, vuole che lo riconosciamo, non perché è geloso dei suoi diritti, ma proprio perché non vuol darci solo dei benefici: vuol dare se stesso. Riconoscendo i suoi doni noi ci mettiamo in relazione con lui, completiamo quel rapporto che egli ha iniziato e che non può essere perfetto senza la nostra collaborazione. Per questo è importante l'azione di grazie, perché è riconoscere che Dio ci ama, invece di assaporare egoisticamente i suoi benefici richiudendoci in noi stessi. E un nutrimento per l'anima approfittare di ogni dono di Dio per avvicinarsi di più a lui, rallegrarsi del suo amore, della sua bontà.
E a questa gioia che Gesù ci chiama insistendo sul dovere della riconoscenza.
È anche chiaro che la riconoscenza, mettendoci nel giusto atteggiamento, è un grande aiuto nella vita spirituale. Chi non è riconoscente cade infallibilmente nell'egoismo e nell'orgoglio, mentre chi è riconoscente è liberato da queste tentazioni. Dovremmo essere riconoscenti non soltanto quando riceviamo un beneficio, ma in tutte le nostre azioni, come lo era Gesù che ringraziava continuamente il Padre. Anche durante la passione egli ringraziava il Padre, anzi la passione stessa è un sacrificio di ringraziamento, come dimostra l'istituzione dell'Eucaristia. Gesù rende grazie a Dio, riceve da Dio l'imminente passione come un suo meraviglioso dono, attraverso il quale il Padre glorifica il Figlio e permette al Figlio di glorificarlo.
Anche noi possiamo ringraziare Dio ricevendo da lui tutte le nostre azioni, facili o difficili che siano: così siamo nel giusto rapporto con lui e siamo liberati dalle insufficienze umane, dalle imperfezioni umane, dalle tentazioni. Quando tutto va bene, se non ringraziamo Dio, se non pensiamo che questo è un dono meraviglioso che ci aiuta a crescere nel suo amore e nell'amore per gli altri, istintivamente ci compiacciamo di noi stessi e snaturiamo la grazie che Dio ci ha appena dato, invece di vivere nell'amore. E quando le cose non vanno bene, se invece di indispettirci, di scoraggiarci apriamo gli occhi a vedere nella fede che Dio sta lavorando in noi per renderci somiglianti al suo Figlio che ha sofferto e per questo è stato glorificato, il nostro cuore è cambiato. Invece di sprofondare nell'amarezza ci voltiamo verso la vera luce e così troviamo la sorgente della generosità. La vera generosità non è lo sforzo titanico di rendersi eroici; la vera generosità si riceve da Dio con riconoscenza e amore.
Domandiamo al Signore di mettere in noi il desiderio di ringraziarlo sempre, quel desiderio che nella messa esprimiamo dicendo: "E cosa buona e giusta renderti grazie". L'Apostolo Paolo ripete continuamente ai cristiani che devono rendere grazie e ne dà egli stesso l'esempio: all'inizio di tutte le sue lettere la sua anima si espande nel rendimento di grazie per tutto il bene che Dio compie per mezzo di lui e di tutte le Chiese. Chiediamo dunque al Signore di vivere ogni nostra giornata come "Eucaristia", cioè rendimento di grazie, ricevendo da lui ogni nostra opera come un nutrimento: "Mio cibo è fare la volontà del Padre mio".
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14/11/2013 07:37
 
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"Il regno di Dio non viene in modo da attirare l'attenzione... Perché il regno di Dio è in mezzo a voi!".
Gesù ci chiama ad una vigilanza costante e piena di pace, per riconoscere la luce e l'amore di Dio nelle cose ordinarie, quotidiane. Gesù è lui stesso il regno di Dio in persona apparentemente era un uomo come gli altri, non manifestava la sua gloria di Figlio di Dio, eppure è venuto dal Padre per insegnarci la via della sapienza. Egli stesso è la Sapienza!
Già i saggi dell'Antico Testamento avevano riconosciuto che la sapienza non è dagli uomini, ma ha qualcosa di divino: "Spirito intelligente, santo, unico, molteplice, penetrante...". E ancora: "Emanazione della potenza di Dio, riflesso della luce perenne". Luce intellettuale quindi, che penetra ogni cosa, ma anche luce spirituale, che è molto di più, che fa conoscere le persone, mette in rapporto con Dio stesso e, "entrando nelle anime sante, forma amici di Dio". Già questa è una rivelazione molto preziosa; la nostra vita intellettuale è una certa partecipazione alla vita divina.
Nel Nuovo Testamento essa è completata e superata dalla rivelazione di Gesù, Sapienza divina che illumina tutte le circostanze della vita umana e ci fa vivere in rapporto totale con Dio. Non soltanto "emanazione della potenza di Dio", ma, come si esprime la lettera agli Ebrei, "irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, che sostiene tutto con la potenza della sua parola" (1,3). Ecco il dono di Dio, il regno di Dio in mezzo a noi: se stesso.
Ma bisogna accoglierlo dentro di noi, compiendo così l'ardente desiderio che Gesù ha espresso nella sua preghiera al Padre prima della passione: "Io in loro e tu in me... perché l'amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro".
 
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15/11/2013 08:04
 
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Monaci Benedettini Silvestrini
Nel giorno in cui il figlio dell'uomo si rivelerà.

Il mistero del tempo per lo stolto è inconsistente come il nulla: non ci bada. Non è capace di speranza, di protendersi verso qualcosa di più grande: "mangiamo e beviamo, perché domani moriremo" (1Cor 15,32). Ma il volto della speranza cristiana non è astruso: è scritto nella trama stessa dell'oggi. Quel Figlio dell'uomo che si rivelerà, è già venuto in mezzo a noi, si è promesso sempre presente e riconoscibile nel volto di ogni fratello. Occorre essere vigili a ricevere la venuta del Signore, non spensierati e senza discernimento. Quanto alla preparazione: essa comporta il distacco e il dono di sé per seguire Gesù Cristo e la sua croce. Ma si deve anche riconoscere Cristo nella verità della sua carne: solo con una retta dottrina relativa a Cristo, che alcuni compromettono, possiamo vedere il Padre. Il giorno della venuta definitiva del Figlio dell'uomo, comparato prima a un temporale con lampi e fòlgori, è ora paragonato a un diluvio che purifica il mondo dal male o a una pioggia di fuoco che brucia l'iniquità come nel giorno di Sòdoma e Gomòrra.
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16/11/2013 07:38
 
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Monaci Benedettini Silvestrini
La preghiera di comunione

Pregare sempre senza stancarsi è visto come una inderogabile necessità per ogni credente. Possiamo pur dire, per ogni uomo. È insopprimibile in noi il desiderio del trascendente, del divino. È insito nella nostra natura il bisogno di scoprire la prima fonte del nostro esistere e nel contempo l'urgenza di stabilire una comunione con colui che noi chiamiamo Padre. La preghiera dunque, prima di tradursi in parole, in gesti, in segni visibili, sgorga dall'anima come ricerca della verità. La verità su Dio e la verità su di noi ci rende veramente liberi, dona cioè a ciascuno la sua vera identità. In questo noi scopriamo la verità dell'essere e di conseguenza la verità del nostro operare. Diventa così coerente il nostro agire. Senza questi voli dell'anima ci condanniamo al buio e riduciamo la nostra esistenza agli strati più bassi del vivere. Ci viene da pensare, anche sulla scia delle nostre quotidiane esperienze, che sia quasi impossibile pregare sempre e senza stancarsi. È davvero impraticabile quel precetto se limitiamo la nostra preghiera alla recita verbale delle nostre orazioni. Se però scatta in noi quella meravigliosa molla che ci lancia con forza verso Dio nell'amore e nella comunione incessante e crescente, allora sì che ci convinciamo che la preghiera non ammette pause e non soffre stanchezza. Taceranno forse le nostre labbra, ma il cuore non smetterà mai di pulsare intensamente verso Dio. Anzi ad ogni preghiera ad ogni fiotto d'amore seguirà una comunione sempre più intima e sperimenteremo come più si prega, più si ama e maggiore sarà il bisogno di amare e di pregare. Altro che stanchezza... diventiamo innamorati di Dio e Dio verrà a noi e prenderà stabile dimora in noi. Sarà poi Lui stesso a pregare in noi, con noi e per noi. È proprio vero che s'impara a pregare pregando. Gli inizi come sempre sono irti di difficoltà e ciò sia per le nostre umane debolezze sia perché quel fuoco che arde e non si consuma conserva sempre i segni imperscrutabili del mistero. Il primo dono da chiedere è allora quello della perseveranza e poi mai iniziare una preghiera senza aver premesso l'invocazione allo Spirito Santo.
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17/11/2013 07:24
 
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mons. Gianfranco Poma
Nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto

Arrivati al termine dell'anno liturgico, la Liturgia della domenica XXXIII del tempo ordinario ci fa leggere l'inizio del discorso di Gesù sul tema della "fine della storia" (Lc.21,5-19). Il genere letterario del discorso apocalittico era molto vivo nel giudaismo nel momento in cui nasceva l'esperienza cristiana: in una situazione di grandi turbamenti e di grandi timori è forte il desiderio di svelare il senso ("apocalisse" significa "rivelazione") di ciò che accade, di conoscere come finirà questa storia drammatica, ed è ardente l'attesa dell'intervento di Dio che vendichi i deboli, i perseguitati, coloro che comunque hanno sofferto, ponendo termine con la sua potenza ad ogni motivo di male.
Luca colloca l'ultimo insegnamento di Gesù alla vigilia della sua Passione: egli conosce il dramma più oscuro della storia, l'umanità che uccide il Figlio di Dio, l'odio che uccide l'Amore. Ma si può uccidere l'Amore? L'Amore diventa sempre più grande, quanto più è rifiutato: l'Amore non muore, risorge. Luca e la sua comunità sanno che "bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria". Sanno che sulla terra è già sceso il buio e che il sole si è già oscurato: la fine del mondo è già venuta nel momento nel quale il Figlio di Dio è sceso nell'oscurità della morte. Ma sanno che la fine è in realtà l'inizio di un mondo nuovo, di un uomo nuovo, ri-generato dalla infinita potenza della fedeltà dell'Amore di Dio. Luca sa e annuncia che il mondo nuovo è già iniziato, perché con la risurrezione di Cristo l'Amore che non muore avvolge il mondo, lo vivifica, lo accompagna: passa l' "involucro" di questo mondo ma rimane ormai per sempre ciò che non può passare, l'Amore di Cristo che ci spinge dentro e che ci fa vivere già la vita di Dio.
Così è nuova l'apocalisse che Luca annuncia: sperimentando i drammi del suo tempo, le difficoltà quotidiane e i disastri naturali, Luca non ne vede i segni della fine del mondo, non preannuncia l'intervento di un Dio vendicatore, non profetizza l'avvento di un mondo perfetto, ma lasciando tutto aperto a ciò che sfugge all'uomo, lasciando a Dio ciò che è di Dio, annuncia che ciò che deve accadere è già accaduto ed è che l'Amore di Dio è dentro il mondo con tutti i suoi drammi, vince l'odio e interpella gli uomini a credere, ad accettare, a vivere l'amore in ogni situazione, a vincere l'odio con l'amore, sempre. Il mondo non va verso la fine, ma verso un fine che è la vita, l'Amore, Dio, nel quale Cristo è già, vivo.
L'apocalisse, lettura della storia in Cristo, non è paura, minaccia, ma gioia e speranza: si tratta di vedere la drammaticità del mondo e della storia e di aprire, oggi, rimanendovi dentro, gli spazi all'Amore con cui Dio ha amato il mondo donando il proprio figlio.
Non possiamo ignorare che Luca ha vissuto il tempo dell'imperatore Tito, con l'eruzione del Vesuvio nel 79 d.C., le cui ceneri seppellirono Pompei ed Ercolano, e pure una epidemia che ha fatto morire un decimo della popolazione di Roma e certamente molti terremoti. Quanto alle guerre, non ci fu solo quella dei Giudei contro i Romani (66-70), ma anche quelle dei Romani in Inghilterra e in Germania. Nel 68 alla fine del regno di Nerone, che una rivolta ha obbligato al suicidio, quattro pretendenti all'Impero, provenienti dalla Gallia, dalla Germania, dalla Spagna e dalla Giudea, fecero temere una ripresa delle terribili guerre civili che avevano preceduto Augusto e la fine della pace romana. Così, quello che Luca scrive nel cap.21,26: "gli uomini moriranno per la paura e per l'attesa di ciò che dovrà accadere sulla faccia della terra" non è una fantasia o un'espressione fuori di senso in un momento di crisi storica.
Luca (con la sua comunità) è pienamente inserito nei drammi della storia: ma come viverli da credenti in Cristo, morto e risorto?
La narrazione di Luca comincia all'interno del Tempio: restaurato sontuosamente da Erode il Grande, era "di una bellezza inaudita" secondo Tacito. Più che l'emozione estetica, la maestà del Tempio incarnava, per Israele, la perenne protezione di Dio. Alla manifestazione di emozionata meraviglia di uno del popolo, Gesù risponde: "Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non resterà pietra su pietra che non sarà distrutta". Non possono non rimanere sconcertati gli uditori di Gesù, di fronte alla profezia di una radicale distruzione del Tempio: già era stato distrutto, ma poi ricostruito splendidamente, come segno di una protezione di Dio che non può venir meno. Ma una radicale distruzione, come sottolinea Gesù, non significa la sconfitta di Dio? "Quando avverrà questo, e quali saranno i segni che questo sta per avvenire?": non può che essere la nuova domanda posta a Gesù. Non può che essere la fine del mondo, la sconfitta di Dio.
La risposta di Gesù s'innesta in questa situazione tipica del tempo: diverse persone si presentavano come il "Messia", inviati di Dio per annunciare la prossima fine. "Non andate dietro a loro": è l'invito secco di Gesù, che aggiunge altri avvenimenti (pestilenze, carestie, prodigi celesti, guerre e sollevazioni) che non vanno interpretati come indizi della fine.
Gesù opera una demitizzazione della fine del mondo: la caduta radicale del Tempio, non è la morte di Dio, come tutto ciò che fa parte del mondo non è immediatamente identificabile con l'agire di Dio. Dio ha parlato nella risurrezione di Cristo dalla morte: ha detto che tutto ciò che è creato trova il senso ultimo nella potenza dell' Amore che nella creazione si abbassa, si annienta, per innalzarsi nella gloria, risuscitando, perché tutto partecipi all'infinito dell'Amore.
Nella storia, fragile, drammatica, tutto passa: Lui solo rimane. Rimane solo l'Amore nella sua dinamica di annientamento e di gloria.
La fragilità nostra, le catastrofi naturali, i nostri limiti morali, le tragedie che noi generiamo non possono non farci paura: per paura ci leghiamo a ciò che crediamo ci possa dare forza e creiamo degli idoli; per paura diventiamo prepotenti, e facciamo le guerre. Per paura parliamo della fine del mondo.
Gesù parla ai suoi discepoli e vuole che siano persone libere. Parla della caduta finale del Tempio liberando da ogni idolo. Parla di guerre, pestilenze...parla di catastrofi, di persecuzioni, di odio, Lui che è solo Amore non nasconde di essere motivo, per i suoi discepoli, di essere odiati da tutti: parla delle nostre esperienze, delle nostre paure, dei nostri peccati. In realtà delinea una meravigliosa pedagogia per il discepolo che viva la fede in un tempo di crisi, che non fugga dal mondo, non si crei degli idoli, sia libero da tutte le paure perché crede l'Amore che non abbandona e non finisce.
Il discepolo non è preoccupato della fine imminente, quando vede anche i drammi più grandi: tutto è posto nelle mani di Colui che ha creato per far risorgere nell'Amore. Il discepolo è libero dalla paura, perché crede "che nemmeno un capello del suo capo andrà perduto", tanto è l'Amore che lo avvolge. L'unica condizione è la "perseveranza", restare saldi nella certezza dell'Amore che non crolla anche quando tutto sembra crollare, nella solitudine quando tutti sembrano allontanarsi, perché l'Amore è fedele. Con l'attenzione viva a tutto ciò che accade e l'intelligenza, la sapienza per comprendere, discernere, giudicare ed agire, che viene da Colui che avendo tutto creato, anche tutto conosce nella verità profonda.
Il discepolo è colui che credendo l'Amore, vede e vive tutto, molto concretamente, anche i drammi, percependo la fatica dell'Amore che incarnandosi diventa fragile, "mette una mente al cuore" per saper stare dentro la storia, leggerla e viverla, aprendo gli spazi per una vita che non terminerà più.
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18/11/2013 09:01
 
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Il Vangelo di oggi è un insegnamento sulla preghiera. Il cieco fa un'intensa e insistente preghiera di domanda:
"Gesù, Figlio di Davide, abbi pietà di me! ' e poi ancora più forte: "Figlio di Davide, abbi pietà di me!"".
Una volta esaudito, la sua diventa preghiera di lode, che si allarga a tutto il popolo: "Cominciò a seguirlo lodando Dio. E tutto il popolo, alla vista di ciò, diede lode a Dio".
La preghiera di domanda ha due condizioni, e tutte e due compaiono nel racconto evangelico. La prima condizione è essere consapevoli di aver bisogno del Signore. U cieco ha questa consapevolezza, ma piuttosto confusa: lui sa di aver bisogno della vista e grida forte, e non è possibile farlo tacere, perché ha coscienza della sua miseria, della sua condizione che non è normale e vuole a tutti i costi uscirne.
La seconda condizione è la fiducia: senza di essa non ci sarebbe preghiera, ma soltanto scoraggiamento e disperazione. Se invece, nella nostra miseria, si accende la fiducia, possiamo pregare; per questo Gesù ha detto: "La tua fede ti ha salvato". La consapevolezza della propria miseria si è accompagnata alla fede nella potenza e nella misericordia del Signore: il cieco ha pregato, ha gridato, è stato esaudito e ha potuto alla fine lodare Dio.
Consapevolezza e fiducia, dunque, una consapevolezza che non deve essere motivo di tristezza: è la premessa per una preghiera autentica, perché ci fa ricorrere a Dio con un grido più sincero per essere guariti. Non dobbiamo rinchiuderci nella nostra miseria; piuttosto dire a Dio: "Signore, tu vedi come sono misero e bisognoso di te: io credo che tu, nella tua bontà, hai pietà di me e mi guarisci. Io lo credo, o Signore!". Allora la nostra preghiera sarà esaudita e potremo dare lode a Dio e alla sua infinita misericordia.
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19/11/2013 08:54
 
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"In quei giorni un tale Eleazaro, uno degli scribi più stimati, uomo già avanti negli anni e molto dignitoso nell'aspetto della persona, veniva costretto ad aprire la bocca e ad ingoiare carne suina. Ma egli, preferendo una morte gloriosa a una vita ignominiosa, s'incamminò volontariamente al supplizio".
Il motivo per cui Eleazaro subì il supplizio oggi ci sembra quasi incomprensibile, perché un cristiano non è tenuto a certe osservanze alimentari. Ma dobbiamo rispettare e ammirare il suo comportamento: poteva sfuggire alla morte e non lo fece, per non dare cattivo esempio: "Non è affatto degno della nostra età fingere, con il pericolo che molti giovani si perdano per causa mia". Il ricordo della persecuzione di Antioco Epifane fu più tardi per i primi cristiani un esempio di grande generosità e coerenza da parte di molti Giudei.
Nel corso dei secoli anche i cristiani si fecero persecutori dei Giudei, mancando di fedeltà a Cristo: un cristiano non perseguita, ma protegge i perseguitati, e anche di questo, per fortuna, abbiamo molti esempi, soprattutto durante l'ultima guerra.
Dobbiamo piuttosto essere pronti ad affrontare la persecuzione con fortezza d'animo pur di non essere complici dei persecutori.
Se la prima lettura ci presenta la figura di un uomo fedele fino a morire, il Vangelo narra invece l'avventura meravigliosa di un uomo considerato da tutti un peccatore: Zaccheo.
A noi è più facile ritrovarci in lui, perché anche noi siamo peccatori, piccoli e non ci è possibile vedere il Signore: bisogna che lui ci cerchi, che sia lui a decidere di venire nella nostra casa. Allora il suo amore gratuito ci renderà capaci di un amore generoso come quello di Zaccheo, anche forse eroico, come quello di Eleazaro.
Imitiamo l'umiltà di Zaccheo, che non ha temuto di esporsi al ridicolo arrampicandosi, lui, "capo dei pubblicani e ricco", su un sicomoro; approfittiamo di tutte le umiliazioni per "salire" e così vedere Gesù e sentirci dire da lui: "Devo fermarmi a casa tua".
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20/11/2013 06:48
 
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Gesù in questa parabola prende spunto dalla storia contemporanea. Archelao, figlio di Erode il Grande, dopo la morte del padre, era dovuto andare a Roma per ricevere l'investitura regale dal senato romano. Lo storico Giuseppe Flavio racconta che i Giudei fecero contemporaneamente partire una delegazione per chiedere che egli non regnasse su di loro.
Il Signore prende dunque questo esempio di un uomo che deve partire prima di prendere il potere, così che i suoi servi si trovano ad essere liberi, senza sorveglianza. ~ Vangelo dice che Gesù racconta questa parabola per quelli che "credevano che il regno di Dio dovesse manifestarsi da un momento all'altro" e lo aspettavano con impazienza, perché finalmente Dio mettesse a posto tutte le cose sulla terra. Gesù invece fa capire che Dio non ha fretta, che non vuole intervenire immediatamente e che egli stesso, il Cristo, non prenderà subito il potere universale: prima farà un lungo viaggio durante il quale gli uomini, fedeli o infedeli, sono liberi. Chi è fedele non deve aver timore di questa libertà, ma accoglierla con fiducia.
Il Signore ci dà realmente la libertà e per essergli fedeli noi dobbiamo realmente usarla. Se ragioniamo come il servo pusillanime: "Ecco la tua mina; l'ho tenuta nascosta in un fazzoletto, perché avevo paura di te", veniamo meno alla nostra vocazione. Nella vita spirituale c'è anche la tentazione del "tutiorismo": cercare sempre le cose più sicure, aver paura di prendere qualche iniziativa, di fare qualcosa che possa meravigliare... Sempre le cose più sicure! Questo non fa onore a Dio. il rischio è necessario, dice il Signore, almeno il rischio di mettere questa mina, questo denaro in banca. E un rischio: io non l'ho più, ma questo denaro frutterà un interesse e poi avrò di più.
Dobbiamo rischiare, accettare iniziative, avere creatività; in questo modo onoriamo Dio Creatore, assomigliamo a lui, che rischia in continuazione.
E l'insegnamento del Vangelo di oggi. Per far piace a Dio dobbiamo rischiare, approfittare della nostra libertà per onorario producendo veramente frutti buoni per lui e per i fratelli. "La tua mina, Signore, ha fruttato dieci mine". E il Signore risponde: "Bene, bravo servitore, poiché ti sei mostrato fedele nel poco, ricevi il potere su dieci città".
Domandiamo a Dio di avere il senso della sua volontà che ci vuole liberi, creativi, per glorificare lui, creatore dell'universo.
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21/11/2013 07:05
 
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Riccardo Ripoli
Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, la via della pace

Conosco queste lacrime, è il pianto disperato di chi ha messo "anima e core" nel cercare di salvare qualcuno e non c'è riuscito. A volte ci troviamo in situazioni nelle quali è assolutamente chiaro l'errore di una persona, non perché siamo superiori o più bravi, ma semplicemente perché ci siamo già passati, oppure per un'età ed una maturità maggiore, o anche per essere al di fuori del problema ed avere maggiore obbiettività nel valutare.
La mia vita è dedicata ai ragazzi, ai bambini che sono stati spogliati di tutto, flagellati nell'animo dall'immaturità o incapacità di adulti che su di loro sfogano i più bassi istinti. Tutti i miei sforzi, le mie capacità, per poche che siano, sono concentrate nel tentativo di togliere i ragazzi da una strada già segnata, fatta di sofferenze, privazioni, messa al bando da una società che non ammette errori, che ti condanna a morte per ogni sbaglio che fai. Questo grande amore si trasforma in immenso dolore quando mi accorgo che anni di dialogo, notti insonni, rinunce non sono servite a salvare uno o più dei ragazzi che il Signore mi ha chiesto di accudire ed amare. Dolore quando non si accorgono che rubare, provocare, sputare su valori e principi, rinunciare a crescere, non impegnarsi per costruire un futuro. Non mollo mai, persevero costantemente, ripeto le cose in modi diversi, porto loro esempi che possano capire, dedico loro tutto il mio tempo, le mie forze, le mie energie, ma arriva un momento in cui la ribellione è troppo forte per poter essere sopportata e osteggiata, un momento in cui la loro voglia di libertà si trasforma in opposizione ad oltranza con l'utilizzo di tutti i mezzi che un adolescente ha a disposizione, la forza dirompente di un fiume in piena che ha rotto gli argini. Non lo fermi, devi solo aspettare che rientri nel suo letto, sperare che riprenda il suo corso verso il mare, aspettarsi altre piene, altre liti, altri scontri, fino a quando uno di questi non sarà fatale al suo destino. Mi è capitato raramente di perdere del tutto un ragazzo, ma è successo e quando ciò avviene il dolore è straziante, è come essere messi in croce da lui stesso, essere condannato a morte per avergli voluto bene, per aver cercato di salvare la sua vita.
Quando parlo in prima persona è per praticità e perché non mi piace parlare per gli altri, ma la forza che metto nel dedicarmi ai ragazzi sarebbe vana se accanto a me, da sempre, non ci fosse Roberta, colei che con la sua dolcezza, passione, amore trasforma in famiglia la nostra convivenza con i bimbi, colei che nel silenzio e nel nascondimento ha il contatto diretto ogni istante con i ragazzi e tiene in mano il loro cuore, lo vede pulsare e lo accarezza nei momenti di sconforto.
Ma non solo i ragazzi sono stimolati a far bene, anche tanti adulti ci crocifiggono ogni volta. Quante porte chiuse in faccia senza nemmeno avere la possibilità di poter condividere i nostri progetti. "Nostri" come se chiedessimo qualcosa per noi. Ci sono certe persone, industriali, ricchi che ti fanno sentire un accattone se chiedi loro denaro da investire nel futuro di tanti bambini, persone che non capiscono l'importanza e la gioia di amare, di concedere parte di sé agli altri. Ma nessuno è troppo povero per dare un mano, e non parlo di soldi, mi riferisco al proprio tempo. Ci sono sempre mille cose da fare per sé stessi prima di pensare agli altri e sono ben pochi coloro che decidono di dedicare con costanza anche una sola ora alla settimana ad un progetto, ad una persona.
Qualche tempo fa venne da noi una signora, si presentò in ufficio e mi disse che era da tanto tempo che voleva fare volontariato, ma per tanti impegni non c'era mai riuscita. In quei giorni, per motivi suoi personali, aveva sentito forte l'impulso di avvicinarsi al prossimo ed aveva scelto la nostra Associazione. E' entrata in punta di piedi, titubante, chiarendo che la sua disponibilità sarebbe stata per un giorno alla settimana per un paio di ore al massimo. Anche un minuto l'anno è apprezzato ed accettai con gioia la sua venuta in mezzo a noi. Non le ci volle molto a lasciarsi coinvolgere dalle necessità dei ragazzi, a capire che poteva fare la differenza per almeno uno di loro ed oggi è con noi tre giorni alla settimana per diverse ore, è presente alle nostre iniziative, propone idee e propone a conoscenti ed amici le nostre attività, ha coinvolto il marito nell'aiutare i ragazzi tramite la sua professione. Nessuno le ha chiesto di più di quello che aveva proposto, ma è stata lei a capire non solo l'importanza della sua presenza, ma la gioia che riceveva nel donare una parte importante di sé al prossimo, ai bambini.
Potrei portarvi mille altri esempi, come quello di Carmela che ha lasciato da oltre un anno la sua famiglia per abbracciare la nostra scelta di vita insieme ai ragazzi con gioia, passione ed entusiasmo, o di Elisabetta che è approdata da noi quattro anni fa per caso ed è sempre con noi in ogni occasione e fine settimana, pur abitando fuori città e lavorando, rinunciando di fatto a buona parte della sua vita privata per aprire il suo cuore verso chi ha bisogno di aiuto. Purtroppo però gli esempi non bastano perché chi ha la testa fasciata da mille rumori, pensieri effimeri, proprie certezze sul come vivere felici non sente e non vede la purezza e la bellezza di una vita dedicata al prossimo. Chiedo sempre a tutti un contatto, di venirci a trovare, anche un'ora perché so che se una persona tocca con mano il cuore dei nostri ragazzi inizierà un percorso di riflessione che lo porterà su strade che vanno verso il prossimo, magari non con noi, talvolta per problemi logistici di distanza, ma sempre su percorsi lastricati di amore da dare e da ricevere.
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22/11/2013 07:27
 
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Monaci Benedettini Silvestrini
La mia casa sarà di preghiera

Quando Gesù ha posato il suo sguardo sulla città di Gerusalemme ed è scoppiato in pianto, probabilmente aveva sotto i suoi occhi anche la visione del tempio e degli atti sacrìleghi che ivi si compivano impunemente. «Lo zelo per la tua casa mi divora»: lo zelo per il Signore, che è dettato dall'amore e dalla giustizia, esplode in giusta ira contro i profanatori della casa del Signore. Gesù subiva con santa pazienza le continue insidie ed i frequenti insulti dei suoi nemici, che tramavano contro la sua persona, ma non può sopportare la violazione continuata e sacrilega della maestà divina. Ecco perché si munisce di una cordicella e scaccia i venditori dal tempio. Per poi ribadire: «Sta scritto: La mia casa sarà casa di preghiera. Ma voi ne avete fatto una spelonca di ladri!». Gesù si riappropria del tempio e vi entra da vero Signore e Maestro: «Gesù ogni giorno insegnava nel tempio» nonostante che i sommi sacerdoti e gli scribi, in combutta con i notabili del popolo, cercavano di farlo morire. Quante volte i «sommi» di altri tempi e coloro che sono posti in autorità, con identiche minacce, hanno cercato di far tacere la verità, di ammutolire i portatori del Vangelo! È accaduto sin dai primordi della Chiesa ma accade anche oggi. La risposta è stata ed è ancora sostanzialmente sempre la stessa: «Se sia giusto innanzi a Dio obbedire a voi più che a lui, giudicatelo voi stessi; noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato». Quante volte le chiese sono state trasformate in vere e proprie spelonche di ladri. Quante ancora sono chiuse e dissacrate! Quante volte, anche ai nostri giorni, nella casa del Signore si compiono furti e atti sacrileghi! «La mia casa sia casa di preghiera...»
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23/11/2013 07:40
 
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Eremo San Biagio
Commento su Apocalisse 11,11-12

Dopo tre giorni e mezzo un soffio di vita che veniva da Dio entrò in essi e si alzarono in piedi... Allora udirono un grido possente dal cielo che diceva loro: «Salite quassù»...
Ap 11,11-12

Come vivere questa Parola?

Certamente le immagini apocalittiche dell'esperienza del veggente raccontate in Ap 11 riflettono la storia del tempo - gli anni della distruzione del tempio di Gerusalemme, il cortile esterno consegnato ai pagani e calpestato, il giudaismo non più sotto la protezione di Dio mentre la comunità cristiana spirituale o celeste rimane protetta in mezzo alla devastazione, insieme ai profeti, insieme a coloro che a causa della loro testimonianza subirono il martirio. Un soffio di vita, infatti, entrò in tutti loro: il soffio che viene da Dio, li fa alzare e li fa salire, in cielo, sotto gli occhi dei loro nemici.

Subito dopo suonerà la tanto attesa settima tromba, segnale che il regno del mondo è diventato il regno del Nostro Signore e del suo Cristo. Regno di Dio che non è un Dio dei morti, ma dei viventi (cf Lc 20,38). Tutti infatti vivono per lui! Tutti i figli di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, tutti quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti: perché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio! Al di là delle condizioni sociali, delle prescrizioni e dei risvolti nella vita terrena, quello che ci rende degni della chiamata a "salire lassù", sono le opere di giustizia compiute qui, ai cortili della vita quotidiana, in qualsiasi momento della storia, in un atteggiamento di vera adorazione e lode al Dio vivente.

Come i martiri della Chiesa vietnamita che oggi ricordiamo nella liturgia. Seguendo il loro esempio, ci affidiamo alla loro intercessione e alla loro preghiera.

Dall'epistolario di san Paolo Le-Bao-Tinh agli alunni del Seminario di Ke-Vinh nel 1843 (cf Ufficio delle letture, 24 novembre):

«...In mezzo a questi tormenti, che di solito piagano e spezzano gli altri, per la grazia di Dio sono pieno di gioia e letizia, perché non sono solo, ma Cristo è con me. Egli, nostro maestro, sostiene tutto il peso della croce, caricando su di me la minima e ultima parte...».

«Mostrami, Signore la tua potenza, vieni in mio aiuto e salvami, perché nella mia debolezza sia manifestata e glorificata la tua forza davanti alle genti».
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24/11/2013 09:17
 
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don Marco Pedron
Il potere del Re, il potere dell'Amore

Il brano di oggi possiamo definirlo l'ultima tentazione di Gesù. Gesù nel deserto era stato tentato dal diavolo, da Satana. Satana non si opponeva a Gesù inducendolo a fare il male ma gli suggeriva di utilizzare le sue capacità di Figlio di Dio per salvare se stesso, per avere il potere, per essere accolto e soprattutto per essere riconosciuto dalla gente. Ma Gesù aveva rifiutato.
In Lc 4,13 si legge: "Il diavolo si allontanò da lui per ritornare al tempo fissato". Tempo=kairos che vuol dire al tempo opportuno (più che fissato): è l'occasione da non perdere. E qui il diavolo non perde l'occasione e si ripresenta da Gesù. Questo è il tempo fissato; questo è il tempo opportuno.

Ma cosa c'è prima di questo? E' Pasqua, migliaia di persone saliranno a Gerusalemme e i capi religiosi sono in ansia perché non si può lasciare libero uno come Gesù che sta minando le basi del loro potere.
Ma proprio all'ultimo c'è chi dà loro una mano: è Giuda. Lc, infatti, dice: "Allora, satana entrò in Giuda, detto Iscariota, che era uno dei dodici" (Lc 22,3). Giuda viene pagato per tradire il maestro: ma la morte di Gesù sarà anche la sua morte, infatti andò ad impiccarsi (Mt 27,5). E' sempre così: quando tu uccidi il Gesù dentro di te (l'amore, la generosità, il perdono) tu uccidi anche te stesso (la tua anima).
Gesù viene preso e viene accusato (Lc 23,2-5) di quattro cose: 1. di mettere in agitazione il popolo, 2. di impedire di pagare i tributi a Cesare, 3. di dichiarare di essere il re Messia, 4. di sollevare il popolo. Sono tutte cose che Gesù faceva, eccetto il fatto di impedire di pagare i tributi. Il potere, però, è molto sensibile ai soldi.
Del resto a Pilato non interessa niente e così manda Gesù da Erode per togliersi "sta grana". Ma né Pilato, né Erode, trovano elementi che giustifichino l'eliminazione di Gesù. Così Pilato decide che per compiacere le autorità lo castigherà, ma poi lo rimetterà in libertà.
Che cosa fanno a questo punto le autorità? Piuttosto di Gesù preferiscono Barabba. Preferiscono condannare un innocente e liberare un rivoltoso piuttosto della verità. Tutto viene sovvertito: il bene (Gesù) viene definito male (morte in croce) e il male (un assassino) viene definito bene (liberazione).
Così Pilato lo consegna al "loro volere" (Lc 23,25) per non avere "rogne".

Gesù viene così aggregato ai due malfattori. Il supplizio è orribile: la croce.
La giustizia ebraica avrebbe voluto la lapidazione (Gesù non ha ucciso nessuno): perché lo crocifiggono?
La crocifissione era data o per assassinio (i due malfattori) o per eresia. E' il caso di Gesù: Gesù è un maledetto di Dio. Il Figlio di Dio è visto come un maledetto di Dio (Dt 21,23: "L'appeso è una maledizione di Dio"). La morte deve dimostrare a tutto il popolo che Dio non era con Gesù e che Gesù non era affatto Figlio di Dio e che chi crede in Gesù si sbaglia.
Tutto viene stravolto, travisato: l'inganno è totale. Qui si vede a cosa può giungere l'animo umano che vive nella paura: può uccidere, può non avere pietà; la paura può trasformarsi in odio e vendetta.
E adesso? Adesso i capi del popolo se ne stanno felici davanti allo spettacolo... e lo deridono. E così siamo al vangelo di oggi.

"Il popolo sta a vedere" (Lc 23,35): il popolo è deluso da Gesù perché non è il Messia che si aspettava.
Gesù non è il potente figlio di Davide atteso e quindi il popolo sta a vedere se Gesù adesso - è l'ultima possibilità che ha - farà qualcosa. Per cui "sta a vedere" passivamente (il verbo è proprio passivo). E' un atteggiamento di dubbio, di scetticismo, di rassegnazione.

"I capi invece lo schernivano dicendo: "Ha salvato gli altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio, il suo eletto"(Lc 23,35). I capi invece sono attivi e lo deridono, lo prendono in giro e sono strumento di satana e del male perché incitano Gesù ad utilizzare il suo potere per salvare se stesso. "Utilizza chi sei e le tue capacità per te": ma Gesù userà il suo potere per salvare gli altri e non se stesso.

"Anche i soldati lo schernivano e gli si accostavano per porgergli dell'aceto e dicevano: "Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso" (Lc 23,36-37).
Il vino nella Bibbia è il segno dell'amore di Dio. L'aceto, quindi il suo contrario è il segno di odio.
Perfino i soldati lo sfidano: tutti e tutto il mondo sembra contro Gesù.

"C'era anche una scritta sopra il suo capo: Questi è il re dei Giudei" (Lc 23,38). E' una scritta derisoria, dispregiativa: guarda che fine che fa il re dei Giudei?

<>"Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: "Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi" (Lc 23,39). Gesù è insultato da tutti perfino i malfattori si prendono gioco di lui! E anche qui, un'altra volta c'è la tentazione del diavolo: "Salva te stesso" (Lc 4,3).
E per tre volte la tentazione del diavolo nel deserto si ripete: "Se sei il Cristo (Lc 23,35)... se sei i re dei Giudei (Lc 23,37)... non sei tu il Cristo? (Lc 23,39)". Il numero tre nella simbologia ebraica significa ciò che è definitivo, pieno, completo.

Gesù è tentato: questo è il momento fissato (=opportuno) di satana. La tentazione è la possibilità di Gesù di rinnegare se stesso, il suo messaggio, di tradire ciò che ha sempre creduto e per cui ha vissuto e ora sta dando la vita, e di reagire imprecando, rimproverando, lamentandosi, facendo un'azione potente.
Ma Gesù rimane fedele a sé e a Dio: nel versetto precedente al vangelo si dice "che Gesù diceva: "Padre perdonali, perché non sanno quello che fanno"" (Lc 23,34). Ciò che accade è incredibile: mentre l'odio più sfrenato, scatenato, pervertito ricade su di lui, Gesù prega per i suoi aguzzini.
In Lc 6,27-28 Gesù aveva detto: "Amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per quelli che vi trattano male": non sono parole per gli altri, è ciò che Gesù vive per sé, sulla sua pelle, in prima persona.
Che immagine di Dio abbiamo qui in Gesù, nel momento più drammatico della sua vita?
L'amore per il potere degli uomini viene sostituito dal potere dell'amore di Gesù. In Gesù Dio si mostra come un Dio d'Amore. Di Dio, nessuno, mai nessuno e mai più nessuno abbia paura.
L'A.T. non era così. Il Dio del Sinai appare tra tuoni e fulmini (Es 19,16): è un Dio potente che si poteva pregare contro il nemico: "Lancia folgori e disperdili, scaglia le tue saette e sconfiggili" (Sal 144,6). Un Dio che per salvare il suo popolo ha sterminato i primogeniti d'Egitto (Es 11,5). Un Dio per il quale si possono uccidere gli infedeli (Elia ne scannò 450 nel torrente Kison!). Un Dio che castiga duramente se tu non lo ascolti (Es 7,4: l'Egitto fu castigato con le famosi dieci piaghe: l'acqua cambiata in sangue; con le rane; con i mosconi; con la morte del bestiame; con le ulcere; con la grandine; con le cavallette; con le tenebre e con la morte dei primogeniti).
Ma il Dio di Gesù non è così: Lui è amore. Lui in croce prega per i suoi nemici e assicura a chiunque lo desideri il suo amore e il suo regno (il paradiso del "buon ladrone").
E in mezzo a tutto questo odio, questa rabbia, questa perversione, c'è chi in Gesù riconosce Dio. E' il sommo sacerdote? Uno scriba? Un fariseo? Sono persone troppo influenzate dall'ideologia religiosa. Le loro idee impediscono di vedere il vero volto Dio. E chi è, allora? Un malfattore.

"Ma l'altro lo rimproverava: "Neanche tu hai timore di Dio e sei condannato alla stessa pena! Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male"." (Lc 23,40).
Il fatto che Gesù sia stato condannato con dei malfattori significa che Gesù è stato ritenuto un elemento pericoloso. La croce, infatti, è una condanna riservata alla feccia della società, a coloro che hanno commesso i crimini più gravi. Gesù viene equiparato ad un criminale.
"Noi giustamente": la croce infatti era un supplizio per i crimini più gravi. Era la pena che spettava all'assassino Barabba. Il malfattore riconosce di aver meritato il giusto per le sue azioni.
"Egli non ha fatto nulla di male": il malfattore proclama ciò che si dirà apertamente in At 10,38: "Gesù di Nazaret passò beneficando e sanando tutti quelli che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui".

""Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno". "In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso"." (Lc 23,42-43).
Il malfattore è un criminale, non ha niente da proporre a Dio. Eppure, nonostante che tutti lo credano il più lontano da Dio è l'unico che lo riconosce e che lo rispetta.
E Gesù farà per lui molto di più che solo ricordarlo: lo porta con sé.
L'immagine di Gesù è quella del Buon Pastore che trova la pecora perduta e gli comunica le sue stesse forze. Gesù se la porta sulle sue spalle come farà il buon pastore. Gesù non si ricorderà di lui in paradiso ma oggi se lo porta con sé.
Gesù, quindi, non guarda i meriti (non ne ha!), non guarda le virtù (non ne ha), ma guarda i bisogni, le necessità degli uomini. E alla necessità di essere ricordato, Gesù risponderà offrendo e donando non un ricordo ma infinitamente di più: il paradiso.
Gesù non parla mai di paradiso nei vangeli (eccetto qui) ma sempre di regno di Dio o di regno dei cieli. Ma agonizzanti in croce, non c'era tempo di spiegare molte cose al malfattore, per questo gli parla e gli risponde con parole che il suo mondo può capire e comprendere e usa "paradiso" (è l'immagine di un grande prato).

Gesù dà il suo amore non come un merito, una conquista, ma come un regalo sovrabbondante: tu chiedi qualcosa e lui ti regala molto di più di quello che chiedi.
Ed è interessante: chi è il primo ad entrare nel regno dei cieli? Maria? No. Pietro?? Giovanni? No. Il primo ad entrare è un malfattore, un criminale.
Da adesso in poi le porte del regno dei cieli, del paradiso, saranno aperte per tutti coloro che riconoscono Diocome re, qualunque sia il loro passato, la loro storia e la loro vita. Questa è la Buona Notizia di Gesù ed è davvero una gran Buona Notizia per tutti!
Questa è la regalità di Gesù: le porte dell'Amore di Dio sono aperte per tutti quelli che vi vogliono entrare al di là di tutto ciò che c'è stato. Gesù è il re dell'amore. Quindi non esistono casi impossibili, situazioni irrimediabili: l'Amore di Dio è più forte.
Quando andremo nell'ultimo giorno, avremo tanta paura, perché chiunque di noi guardando la propria vita non ha grandi meriti per ricevere l'amore di Dio. Ma quando saremo davanti a Lui, Lui non ci dirà: "Ah tu sei Tal dei Tali, vediamo cos'hai fatto!". E non guarderà nessun libro dei peccati, e non ci sarà nessun Giorno dell'Ira. Ma semplicemente ci dirà: "Senti un po' Tal dei Tali, ho un regalo da farti, lo vuoi?". Il regalo si chiama "regno di Dio", "regno dell'amore" e basterà rispondere. "Sì". Tutto qui.
Ma non abbiate paura... non abbiate paura... non abbiate paura... perché non c'è nessun motivo: non abbiate paura! La mistica Giuliana da Norwich diceva: "Non abbiate paura, tutto finirà bene... molto bene... molto, molto bene".

Cosa dice a me questo vangelo? Questo vangelo mostra i vari punti di vista di fronte ad ogni cosa. 
Di fronte ad ogni cosa (realtà) io posso pormi in maniera molto diversa.

Fuggire. Il popolo guarda, assiste, non interviene, non fa niente (ignora, chiude gli occhi). Il popolo si difende fuggendo la realtà, rinnegandola.
Attaccare. I capi e i soldati condannano, affossano, giudicano, colpevolizzano: loro attaccano. Attaccare è fuggire al contrario: siccome non voglio affrontare la realtà attacco gli altri. Finché dico che è colpa del mondo, tua, degli altri, non mi prendo cura del mio malessere.
Essere egocentrati. Il malfattore guarda con interesse: "Salva te stesso e anche noi" (Lc 23,39): lui pensa solo a sé. Essere egocentrati vuol dire "fare la vittima", tenere in considerazione solo se stessi. L'egocentrato non si accorge che c'è un mondo attorno a sé: lui vede solo se stesso.
L'egocentrato non può accettare che qualcuno sia prima, meglio, di più di lui. E per questo ti attacca, ti giudica, ti distrugge. La sua inferiorità (e la sua frustrazione) diventa invidia, gelosia, odio che ti "scarica" addosso.

Il ladrone buono, invece, vede la realtà per quella che è: solo in lui c'è amore perché è adeguato alla realtà. Non fugge, non se la prende con gli altri, non fa la vittima ma vede le cose per quello che sono. "Io ho un problema: è il mio problema e gli devo dare la mia cura e le mie attenzioni".

Essere re come Gesù vuol dire portare amore lì dove non c'è, lì dove si crede di essere indegni di essere amati, lì dove neppure si pensa di meritare l'amore. E il primo sono io.
Questo è regale: "Ti perdono... ti amo al di là di ciò che è hai fatto... il mio amore non è in discussione... ripartiamo... giriamo pagina... lascio andare... basta...". E lo faccio prima con me e poi con gli altri.


Pensiero della Settimana
Il potere dell'amore è l'amore senza potere.
L'amore del potere conduce ad avere potere ma non amore.
E' il dominio.
Il potere dell'amore conduce ad avere amore ma non potere.
E' la libertà.
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26/11/2013 07:58
 
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Riccardo Ripoli
Per creare ordine ci vuole il disordine

Non resterà pietra su pietra che non venga distrutta

Spesso mi domando perché c'è una fase della vita, l'adolescenza, in cui si attraversa quasi il bisogno di essere ribelli, andare contro corrente, osteggiare le cose più palesi, rifiutare tutto ed il contrario di tutto. Credo che il motivo stia nel fatto che nulla si crea, nulla si trasforma senza una dolorosa e difficile trasformazione. Guardate il bruco che diventa farfalla, il pulcino che deve uscire dall'uovo. Così è per l'uomo in tutta la sua vita. Quante pene d'amore per conquistare la persona amata, che fatica per mantenere in piedi un buon rapporto, una famiglia, un lavoro, un cliente. Per far crescere un popolo occorre spesso una rivoluzione, talvolta fatta con le armi, altre volte solo ideologica. Fa parte del nostro essere, fa parte di noi. Così per chi crede è naturale che la morte sia parte della vita, l'atto finale, la prova più difficile da superare. Pensate quale soddisfazione per un adolescente che entri nel mondo degli adulti dopo aver capito i propri errori, quanta esperienza e quanta forza ha acquisito, o che gioia nel poter godere dell'amore dell'uomo o della donna faticosamente conquistato, quanta soddisfazione nel guardarsi indietro e poter vedere di aver costruito qualcosa di buono da lasciare ai propri cari, al mondo intero. Se così è durante la nostra vita, a maggior ragione deve necessariamente esserlo alla fine della nostra esistenza. Tribolazioni, pene, preoccupazioni, dolori, tragedie non possono essere fini a sé stesse, ma segnano un passaggio, un momento di grande difficoltà per raggiungere una vita migliore. La distruzione del nostro corpo non può e non deve essere fine a sé stessa. Anche gli amici atei che non credono nel Paradiso dopo la morte possono avere una loro eternità, dopo la vita su questa terra, nella memoria e nel ricordo delle persone alle quali hanno fatto del bene che le ricorderanno per sempre, tramandandone lo spirito, i valori ed i principi.
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27/11/2013 10:28
 
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Tra la prima lettura della Messa di oggi e il Vangelo, a prima vista non si scorge nessun rapporto. Da una parte, il racconto di un banchetto regale turbato da un episodio misterioso; dall'altra, la predizione fatta da Gesù di persecuzioni contro i suoi discepoli. È possibile tuttavia avvertire tra i due testi un rapporto di contrasto, molto significativo.
Infatti, vediamo, nella prima lettura, il trionfo di un personaggio ricco, potente, giunto al più alto grado del successo umano: il re Baldassar esercita la sua dominazione su un immenso impero e può far organizzare celebrazioni grandiose: l'imbandisce un gran banchetto a mille dei suoi dignitari" (Dn 5, 1).
Nel Vangelo, una sorte diversa viene annunziata da Gesù ai suoi discepoli: "Metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni... sarete traditi... sarete odiati da tutti..." (Lc 21, 12.16.17). Invece della felicità esultante di un banchetto, la sorte misera di chi è braccato come i criminali.
Il contrasto violento tra le due situazioni sa di scandaloso, perché non si accorda affatto con le esigenze della giustizia. Il re Baldassar, infatti, abusa della sua potenza per commettere atti sacrileghi: comanda che siano portati al banchetto i vasi sacri del tempio di Gerusalemme e profana questi vasi, usandoli per bere e ubriacarsi (Dn 5,25). Prende quindi la figura dell'empio trionfante e insolente, come appare nel salmo 73 (72),312.
Scandalosa anche è l'infelicità dei discepoli di Gesù, perché non meritano di essere perseguitati, incarcerati, odiati. L'unico motivo che provoca contro di loro l'ostilità è il loro attaccamento alla persona di Gesù, la loro fede in lui. Gesù lo dice: "Vi perseguiteranno... a causa del mio nome" (Lc 19, 12); "sarete odiati da tutti per causa del mio nome" (Lc 19, 17). Com'è strano! Come mai l'essere attaccati alla persona più buona e generosa che esista può provocare persecuzione e odio? E completamente illogico! Però è così. E una manifestazione del "mistero dell'iniquità" (2 Ts 2, 7).
La Sacra Scrittura non ci lascia sotto l'impressione dello scandalo, ci dimostra che, in realtà, la situazione dei discepoli perseguitati è molto preferibile a quella del re trionfante. U trionfo del re è fragile; i suoi godimenti sono superficiali. Al livello più profondo, egli si trova in una insicurezza completa, perché gli manca il solo appoggio veramente importante, cioè la giusta relazione con Dio. L'apparizione di una mano che scrive "sulla parete della sala reale" (Dn 5,5) non provoca l'insicurezza, ma la rivela: da un istante all'altro, il re trionfante si trasforma in un uomo che trema; "i ginocchi gli battevano l'uno contro l'altro" (Dn 5,6).
Invece, i discepoli perseguitati a causa della loro fede in Gesù si trovano paradossalmente in perfetta sicurezza. La loro sensibilità può essere sconvolta; nel profondo del cuore, però, sono tranquilli, nella pace. Trascinati davanti ai tribunali, non debbono nemmeno preoccuparsi di preparare la loro difesa. Gesù promette loro: "Io vi darò lingua e sapienza, a cui tutti i vostri avversari non potranno resistere" (Lc 21,15). Effettivamente, gli avversari di santo Stefano "non riuscivano a resistere alla sapienza ispirata con cui egli parlava" (At 6,10). I discepoli di Gesù sanno che, perdendo la loro vita per lui, la salvano (cfr. Mt 16,25; Mc 8,35; Lc 9,24). Niente sarà perso. "Nemmeno un capello del vostro capo perirà" (Lc 21,18). Anche se abbandonato da tutti, come Paolo nel suo ultimo processo (2 Tm 4, 16), il vero discepolo ha il Signore vicino, che gli dà forza (4, 17) e lo libererà da ogni male, salvandolo per il suo regno eterno (4,18).
La sola cosa importante, quindi, è che la nostra relazione personale con Cristo sia autentica. Lo è davvero? Se viviamo veramente per lui, niente ci può nuocere, tutto diventa occasione di progresso e di vittoria. In tutte le prove, "siamo più che vincitori, per virtù di colui che ci ha amati" (Isrn 8,37).
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28/11/2013 08:06
 
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Eremo San Biagio
Commento su Daniele 6, 21

Daniele, servo del Dio vivente, il tuo Dio che tu servi con perseveranza ti ha potuto salvare dai leoni?
Dn 6, 21

Come vivere questa Parola?

Daniele attraversa il tempo e continua a raccogliere in sé saggezza, giovinezza, intelligenza, fede ineccepibile. La fantasiosa ed edificante narrazione che la liturgia ha scelto oggi ce lo presenta alle prese con l'invidia dei cortigiani del re (che stavolta si chiama Dario), che per metterlo in difficoltà inventano un editto che vieta ogni forma di preghiera e di adorazione che non sia rivolta al re. Il re è amico di Daniele e lo metterebbe addirittura al suo posto, tanto ha fiducia di lui. Eppure firma questo editto e senza volere, diventa il persecutore dell'amico. Perché Daniele si è sempre mantenuto fedele al Dio dei suoi padri e, nonostante la fidata collaborazione con re Dario, non è mai venuto a compromessi circa la sua vita da credente. Viene logicamente scoperto in adorazione del suo Dio e la punizione per i contravventori l'editto è terribile: trovarsi in una fossa con leoni affamati... il resto viene da sé.

Daniele scende nella fossa carico della forza che gli viene da Dio e della autorevole superiorità che lo distanzia dai cortigiani. La graziosa fantasia del racconto ce lo dimostra capace di ammansire quei leoni affamati (che sono un'ottima rappresentazione dei cortigiani violenti e invidiosi) e di uscire indenne dalla fossa, nella quale troveranno la morte, invece, gli stessi artefici dell'inganno. Rendendo felice re Dario, che riacquista l'amico e con lui la fede in un Dio che servito con perseveranza, salva dalla morte!

Signore, a volte soffriamo e facciamo soffrire molto per invidia e gelosia; purifica il nostro cuore da questi sentimenti tristi e sterili e aprilo all'amore vero che ama le differenze, non accetta accomodamenti e gratuitamente si mette a disposizione del bene dell'altro.

La voce di una filosofa

"Se è vero che ogni vizio comporta piacere, ciò non vale per l'invidia, veleno dell'anima che genera tormento e sofferenza: si soffre di fronte al bene e alla felicità altrui, vissuti come diminuzione del proprio essere e segno del proprio fallimento. L'invidia nasce sempre dal confronto. Perché lui/lei sì e io no?, ci si chiede dirigendo sull'altro uno sguardo maligno. Una domanda che deve restare segreta, perché rivela la nostra inferiorità."
E. Pulcini, Invidia la passione triste, Bologna 2011

Sr Silvia Biglietti FMA - silviabiglietti@libero.it
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29/11/2013 09:53
 
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Eremo San Biagio
Commento su Daniele 7, 13

Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d'uomo.
Dn 7, 13

Come vivere questa Parola?

Il messaggio conclusivo che il libro di Daniele ci lascia, dopo averci accompagnato in questa ultima settimana dell'anno liturgico, è una vera e propria visione profetica che si collega a pagine famose di Ezechiele, usando in entrambi i casi espressioni simili e un linguaggio prettamente apocalittico. Qui l'autore parla del Figlio dell'uomo, che diventerà poi, in epoca neotestamentaria, un titolo Cristologico. Già prima di Cristo questo modo di dire era immediatamente collegabile al Messia, all'Atteso della promessa, più vicino al cielo che alla terra. Questo capitolo lo potremmo mettere in continuità al capitolo due dello stesso libro, dove si racconta del sogno di Nabucodonosor della statua fatta in quattro parti. Esse potrebbero davvero corrispondere alle quattro bestie di questa pagina e quella più terribile, che finisce tragicamente prima delle altre, corrisponde a quei piedi di argilla della statua che si frantumano e lasciano posto al nuovo. Qui il nuovo è introdotto dalla nobile assise, costituita attorno al vegliardo che introduce il Figlio dell'Uomo. A lui vengono poi consegnati il potere, il regno e la gloria! Le visioni apocalittiche spesso collocano in un tempo indecifrabile eventi contemporanei, magari drammatici e faticosi da comprendere e nello scontro tra reale e virtuale permettono alla speranza di prendere corpo e di rianimare chi sta leggendo o ascoltando. Suggeriscono una visione che perfora la realtà e ne manifesta la vitalità potenziale. Ma i toni esagerati con cui l'apocalittica si esprime non devono sollecitare la frenesia e l'eccitazione: devono svegliare, invitare alla non distrazione e condurre al vero discernimento, per accogliere la salvezza che viene, in ogni momento.

Signore, alle soglie dell'avvento fa a tutti noi il dono della vigilanza, felice e non frenetica, ricca di speranza e capace di interpretare con occhi amorevoli i segni del nostro tempo.

La voce di un profeta del nostro tempo

Soltanto quando si ama a tal punto la vita e la terra da pensare che con la loro fine tutto è perduto, si può credere alla risurrezione dei morti ed ad un mondo nuovo.
D. Bonhoeffer

Sr Silvia Biglietti FMA - silviabiglietti@libero.it
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30/11/2013 08:19
 
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Oggi celebriamo la festa dell'Apostolo Andrea, fratello di Simon Pietro e amico di Giovanni e di Giacomo. Il Vangelo ci narra come Andrea ha ascoltato la parola di Dio che gli era rivolta: ""Seguitemi, vi farò pescatori di uomini". Ed essi subito, lasciate le reti, lo seguirono". E questa adesione pronta che ha permesso agli Apostoli di diffondere la parola, la "buona notizia" della salvezza. La fede viene dall'ascolto e ciò che si ascolta è la parola di Cristo, che anche oggi la Chiesa diffonde fino alle estremità della terra.
Siamo dunque sollecitati ad ascoltare la parola, ad accoglierla nel cuore. Essa è un rimedio salutare. E una parola esigente, ed è questo il motivo per cui facilmente vorremmo chiudere le orecchie a Dio che ci parla: capiamo che l'ascolto avrà delle conseguenze. Dobbiamo pensare che la parola di Dio è davvero un rimedio, che se qualche volta ci fa soffrire è per il nostro bene, per prepararci a ricevere i doni del Signore.
Ma la parola non è solo un rimedio, è un cibo, il cibo indispensabile per l'anima. E detto nei profeti che Dio metterà nel mondo una fame, non fame di pane, ma di ascoltare la sua parola. E di questa fame che abbiamo bisogno, perché ci fa continuamente cercare e accogliere la parola di Dio, sapendo che essa ci deve nutrire per tutta la vita. Niente nella vita può avere consistenza, niente può veramente soddisfarci se non è nutrito, penetrato, illuminato, guidato dalla parola del Signore.
Nello stesso tempo la parola di Dio è una esigenza. Gesù ne parla come di seme che deve crescere e diffondersi Ovunque. Da questa parola viene la fecondità di Ogni apostolato. Se si dicono parole umane, non è il caso di considerarsi apostoli, ma se abbiamo accolto in noi la parola di Dio, essa ci spinge a proclamarla, a diffonderla dappertutto, per mettere gli uomini in comunicazione con Dio.
Da san Giovanni sappiamo che non è facile ascoltare la parola di Dio, che non è opera umana.
Gesù rimprovera ai farisei di non essere capaci di ascoltare la sua parola, perché non sono docili a Dio:
"Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me" (Gv 6,45), dice il Signore: per ascoltare la parola di Dio bisogna essere stati intimamente docili al Padre.
Infine, questa Parola fa la nostra felicità, perché è mezzo di comunicazione. La parola è sempre mezzo di comunicazione, è il mezzo per eccellenza della comunicazione umana. Senza di essa non potremmo comunicare fra noi, non potremmo capirci, non potremmo lavorare insieme. Ora, la parola di Dio è il mezzo della comunicazione con Dio. Se vogliamo essere in comunione con Dio dobbiamo accogliere in noi la sua parola.
D'altronde è lui che nella sua bontà e generosità ci dà la sua parola, ci mette in comunicazione, è lui che parla per primo, che ci apre le orecchie perché possiamo ascoltare, come dice un salmo, e ci dà la gioia di parlare con lui. La parola di Dio è anche il mezzo migliore per essere in comunione fra noi. Non facciamoci illusioni: la vera fraternità è possibile soltanto nella parola di Dio. Se noi la rifiutiamo, i più bei desideri, i più bei propositi di essere in comunione con gli altri sono destinati al fallimento, perché manca il vero fondamento, che è la comunione con Dio.
Domandiamo a sant'Andrea di insegnarci ad ascoltare, ad accogliere la parola di Dio molto generosamente, molto semplicemente, molto fraternamente, per essere in comunione con Dio e gli uni con gli altri.
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01/12/2013 10:33
 
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Monastero Domenicano Matris Domini
Commento su Romani 13,11-14a

Collocazione del brano

Questo brano fa parte degli ultimi capitoli della lettera ai Romani. Dopo aver spiegato in modo approfondito il rapporto tra la religione ebraica, con il suo attaccamento alla Legge e alle sue tradizioni, e la nuova vita in Cristo, Paolo passa alle conseguenze pratiche, indicando lo stile che il cristiano deve assumere: il culto spirituale, la carità verso i fratelli ma anche verso i nemici, la sottomissione ai poteri civili. I cristiani di Roma quindi non hanno nessuna giustificazione, non possono più "dormire " o rimanere nello stile di vita precedente alla loro conversione.

Questo brano è stato scelto per la prima domenica di Avvento proprio per la sua esortazione alla vigilanza, ad avere uno stile di vita degno di uno che porta il nome di cristiano, in attesa del ritorno di Gesù.

Lectio

Fratelli,11 questo voi farete, consapevoli del momento: è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché adesso la nostra salvezza è più vicina di quando diventammo credenti.

A cosa si riferisce Paolo con la parola "questo"? Qualche versetto prima (13,8-10) li ha esortati a osservare la legge della carità, ad avere amore gli uni verso gli altri, e a osservare questa legge come un vero e proprio debito. La legge della carità riassume in sé tutta la legge mosaica. Quindi i Romani vengono invitati ad amarsi gli uni gli altri, ad avere un atteggiamento di benevolenza. Questo perché stanno vivendo un momento particolare. Essi sono consapevoli di questo momento ( kairos, in greco, il momento decisivo, l'ora X!). Quindi non è più il caso di dormire, perché il giorno del Signore è vicino. Paolo pensava che il ritorno del Signore fosse imminente, quindi sprona i credenti a prepararsi in modo adeguato. Ma al di là dell'imminenza o meno di questo giorno, l'esortazione è valida per qualsiasi momento, poiché si tratta dell'invito a vivere da cristiani.

12 La notte è avanzata, il giorno è vicino. Perciò gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce.

Le immagini della notte e del giorno, della luce e delle tenebre sono riprese dalla liturgia battesimale. La luce è necessaria alla vita dell'uomo. La conversione a Cristo è da sempre rappresentata come un passaggio dal buio alla luce, dalle tenebre della morte e del peccato alla luce della vita. Le armi della luce sono una condotta onesta consona a una persona che è stata illuminata dalla grazia divina.

13 Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a orge e ubriachezze, non fra lussurie e impurità, non in litigi e gelosie.

In questo versetto Paolo scende nei particolari. La condotta del cristiano deve essere onesta, non è necessario che si nasconda nelle tenebre perché il suo comportamento non ha nulla per cui essere rimproverato. Non si tratta di fare "i bravi ragazzi", ma di ricordare che il male fa male, che c'è una dignità, una sanità di vita che ci permette di vivere in gioia e pienezza. La lista delle azioni negative è stereotipa, ma rende bene l'atteggiamento che stride con lo stile cristiano. Questi versetti sono quelli che hanno fatto convertire definitivamente sant'Agostino.

14 Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo

Gli interlocutori di Paolo si sono rivestiti delle vesti bianche nel giorno del battesimo, hanno così scelto di vivere secondo una vita nuova. In quella vita devono continuare. Vestirsi del Signore significa unirsi a lui, entrare nella sfera del suo influsso di risorto e sottomettersi alla Sua signoria.

Meditiamo

- Sono un cristiano che "dorme"?
- Vi sono nella mia vita delle zone di tenebra? Cosa sono per me le armi della luce?
- Come posso fare per rivestirmi del Signore Gesù Cristo?
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