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L'INTERPRETAZIONE BIBLICA IN CONFLITTO (J. Ratzinger)

Ultimo Aggiornamento: 30/10/2012 14:13
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30/10/2012 14:12
 
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III. ELEMENTI FONDAMENTALI PER UNA NUOVA SINTESI


Dopo queste indicazioni sulla necessità di un'autocritica del metodo storico, eccoci a confronto con il compito positivo: occorre collegare gli strumenti di lavoro di questo metodo con una filosofia che abbia minori implicazioni estranee al testo; una filosofia meno arbitraria che offra un maggior numero di presupposti per un vero ascolto del testo. Questo compito positivo è senza dubbio ancor più difficile del lavoro critico. Per concludere queste riflessioni, posso solo cercare di aprire in questa selva alcuni primi sentieri che forse possono indicare dove e come sia possibile trovarvi dei percorsi.

1. Nel pieno del dibattito teologico e metodologico della sua epoca, Gregorio di Nissa invita il teologo razionalista Eunomio a non confondere la teologia con la fisiologia (theologein) non è (fusiologein) (
27), "Altra cosa è il mistero della teologia, dice, altra la scienza della natura". Non si può allora "chiudere l'incomprensibile natura di Dio nel palmo d'una mano di bambino". Gregorio fa allusione ad un celebre detto di Zenone: "La mano aperta è la percezione; la mano che si chiude è l'assenso dello spirito; la mano che racchiude interamente il suo oggetto è l'afferrare con il giudizio; la mano racchiusa da un'altra mano è la scienza sistematica" (28).
L'esegesi moderna, come abbiamo visto, ha relegato sì, Dio nel totalmente inattingibile, nell'extramondano, e con ciò Dio resta assolutamente inesprimibile; ma solo per poi trattare il testo biblico stesso come una realtà interamente intramondana, secondo i metodi delle scienze naturali. Nei riguardi del testo stesso, essa pratica il fusiologein (
29): come "scienza critica", pretende una esattezza ed una certezza paragonabili a quelle delle scienze naturali. Questa pretesa è falsa, perché si basa su un misconoscimento della profondità e del dinamismo della Parola. È solo a condizione di togliere alla Parola il suo carattere proprio di Parola e di stenderla a forza sulla griglia di qualche ipotesi di base, che è possibile sottometterla a regole cosi precise. Romano Guardini, a questo proposito, ha parlato della falsa certezza dell'esegesi moderna, che "ha prodotto risultati parziali molto significativi, ma che ha perso il suo oggetto proprio e che con ciò ha del tutto cessato di essere teologia" (30).
A fronte di questa situazione, si può citare di nuovo una sublime frase di Gregorio di Nissa, che resta sempre valida e orientatrice: "... stelle sono queste luci tremule e scintillanti delle parole divine, che superano gli occhi dell'anima con il loro luccicare... Ma se accadesse anche per la nostra anima ciò che abbiamo udito di Elia, se la nostra mente, salita su un carro di fuoco, venisse trasportata in alto..., allora non dovremmo rinunciare alla speranza di avvicinarci a queste stelle, intendo dire ai divini pensieri, i quali sfolgorano attorno alle nostre anime per mezzo delle sentenze celesti e spirituali" (
31).
Con ciò non si vuol favorire qualche esaltazione entusiasta; piuttosto, è richiesta la disponibilità ad aprirsi al dinamismo interiore della Parola, che solo può essere compresa in una "sim-patia", in una disponibilità a sperimentare cose nuove, a lasciarsi condurre su un cammino nuovo. ciò che occorre non è la mano chiusa, ma l'occhio aperto...

2. Di conseguenza l'esegeta non deve affrontare l'interpretazione del testo con una filosofia precostituita: non deve piegarsi agli imperativi di una visione del mondo che si presenta moderna o "scientifica", che determini in partenza ciò che può o non può essere. Non può escludere a priori, che, come lui stesso fa, anche Dio possa parlare nel mondo con parole umane; non può escludere che Dio, come lui stesso, possa entrare ed agire nella storia umana, per quanto inverosimile ciò possa sembrargli. Egli deve essere pronto a lasciarsi istruire dal fenomeno. Deve essere pronto ad accettare che possa accadere nella storia un vero inizio, che come tale non può essere fatto derivare da ciò che è accaduto prima, ma che si dispiega a partire da se stesso (
32). Non può nemmeno negare all'uomo la capacità di saper ascoltare al di sopra e oltre le categorie della ragion pura, capacità di trascendersi verso l'infinita ed aperta verità dell'essere.
Il problema davanti al quale ci troviamo, formulato nettamente da Kant, era d'altronde già stato ben visto dai Padri e dai grandi teologi del Medio Evo. Cosi nota Gregorio di Nissa a questo riguardo: "La creatura intera è incapace.... di porsi al di fuori di se stessa. Rimane sempre all'interno di sé. Qualunque cosa possa percepire, essa percepisce se stessa" (
33). San Tommaso fa un'analoga osservazione, quando afferma che la conoscenza umana non può attingere la verità in sé, ma solo una realtà umana, la quale pero può condurre a scoprire altre verità. In altri termini: le verità spirituali sono sempre percepite in modo solo metaforico, per mezzo di altre cose (34). Tuttavia, è proprio dei grandi teologi non prendere questa evidenza del loro pensiero filosofico come criterio di ciò che può essere vero nei racconti biblici, ma di cercare piuttosto, a partire dal fenomeno che viene loro incontro nella parola biblica, di dilatare il proprio pensiero.
Gregorio di Nissa lo fa in due modi: chiuso nella prigione del suo essere e della sua conoscenza di creatura, l'uomo porta in sé l'ardente desiderio di uscirne; porta in sé, come una freccia, l'orientamento verso l'amore infinito. Ed è precisamente qui che Dio si manifesta in lui. L'uomo è per se stesso uno specchio di Dio; e quando si percepisce pienamente, percepisce più che se stesso: vede, dentro di sé, il riflesso della pura luce. All'uomo, certamente, non è dato di uscire da sé ma Dio può penetrare in lui. È cosi che l'uomo, nella dinamica del suo essere, può nello stesso tempo trascendersi, diviene più simile a Dio; ora, somiglianza significa conoscenza: noi conosciamo ciò che siamo, non di più e non di meno. Gregorio aggiunge qui una seconda riflessione: questo penetrare di Dio negli uomini ha preso una forma storica nell'Incarnazione. Cosi le monadi umane vengono fatte saltare nel soggetto nuovo del nuovo Adamo. Dio ferisce l'anima: questa ferita è il Figlio, ed è cosi che veniamo aperti. Il nuovo soggetto, questo Adamo che diviene uno nella Chiesa, è intimamente in contatto con il Figlio, e cosi anche con il Dio trinitario stesso (
35). San Tommaso d'Aquino ha espresso in forma metafisica queste due idee attraverso i principi dell'analogia e della partecipazione. Ha cosi reso possibile una filosofia aperta, capace di accogliere il fenomeno biblico nella sua radicalità. Di fronte al dogmatismo di una presunta visione scientificonaturale del mondo, occorrerebbe, per ritrovare i presupposti di una comprensione della Bibbia, proseguire oggi la riflessione nella linea di una simile filosofia aperta (36).

3. Similmente occorre riesaminare la relazione tra l'evento e la parola. Per Dibelius, Bultmann e la corrente principale dell'esegesi moderna, l'evento è l'elemento irrazionale. Esso appartiene al dominio della pura fatticità, composta dal caso e dalla necessità. Come tale, il fatto non può essere portatore di senso. Questo senso non è che nella parola; e là dove gli avvenimenti stessi sembrano essere portatori di senso, bisogna piuttosto considerarli come illustrazioni della parola e ad essa occorre riferirli. I giudizi che provengono da un tale punto di partenza raggiungono, certamente, per gli uomini d'oggi, un alto grado di evidenza: questo tipo di evidenza corrisponde alla nostra attuale struttura di verosimiglianza, ma non è detto che sia necessariamente fondato nella struttura della realtà come tale. Una tale evidenza non sarebbe ammissibile anche se il principio stesso del metodo scientifico - per il quale ogni cosa che succede può trovare la sua spiegazione causale in rapporti di attività puramente immanenti all'operazione stessa - fosse non solo valido dal punto di vista metodologico, ma anche vero in sé e per sé. In questa situazione non ci sarebbe altro, infatti, se non "caso e necessità"; e non si potrebbero allora considerare gli avvenimenti che come fatti bruti.
Ma ciò che può essere utile come principio metodologico per le scienze naturali è, come principio filosofico, già una insulsaggine, e come principio teologico, un controsenso. Qui occorre, se non altro per curiosità scientifica, sperimentare col principio esattamente inverso, constatare che può essere anche il contrario.
Di nuovo, come contro-prova, può qui servirci san Tommaso, il quale ci presenta una sintesi della riflessione filosofica di oltre un millennio e mezzo. In lui la natura, gli astri, le cose in generale, la vita, il tempo seguono un certo corso, ossia un movimento orientato verso un fine. Una volta che le cose hanno raggiunto il loro fine, allora si può scoprire il vero senso, che era per cosi dire nascosto in esse. Questo senso che si manifesta alla fine del movimento va oltre il senso che si poteva tirar fuori ad ogni tappa del percorso. "Questo nuovo senso presuppone l'esistenza di una provvidenza divina, l'esistenza di una storia (di salvezza) che giunge al suo termine" (
37). L'azione di Dio appare dunque come principio di intelligibilità della storia. Il principio che crea l'unità della storia passata e presente, il principio "che conferisce un senso alla storia, è l'avvenimento storico del Cristo. Costui dona anche all'avvenire la propria unità" (38). "Le epoche della storia umana sono unificate da una azione" (39), l'azione del Cristo; su di essa riposa il rapporto dell'uomo con Dio. "Tutta la storia e tutta la Scrittura devono essere pensate a partire da questa azione" (40). Ciò significa che le azioni che si sono svolte nell'Antico Testamento si fondano su un'azione futura, ed è solo a partire da questa che possono essere comprese in maniera adeguata. Ciò significa ancora che parola, realtà e storia non possono essere separate l'una dall'altra. "Perché la parola di Dio opera ciò che significa; se si vedono le cose a partire da lui, non si può dare separazione tra azione e parola" (41).
In altri termini, l'evento può già essere una "parola", conformemente alla terminologia biblica stessa (
42). Ne derivano due regole importanti per l'interpretazione:

a) Inizialmente occorre considerare tanto la parola quanto l'evento come originali, se si desidera restare fedeli alla prospettiva biblica. Il dualismo tra la parola e l'evento, che relega l'evento in una regione "senza parola", cioè senza significato, in realtà toglie anche alla parola la sua forza significante, perché questa si trova allora in un mondo privo di senso. Questo dualismo conduce ad una cristologia docetista, in cui la realtà, cioè l'esistenza concreta e carnale del Cristo e quella dell'uomo in generale, è esclusa dall'ambito del significato. Ma in questo modo si perde l'essenza della testimonianza biblica.

b) Inoltre, un tale dualismo introduce una separazione tra la parola biblica e la creazione, e sopprime la continuità di senso tra l'Antico ed il Nuovo Testamento, per dar valore a un principio di discontinuità. Ma quando si è perduta la continuità tra parola ed evento, non vi è più unità nella Scrittura. Separato dall'Antico, il Nuovo Testamento scompare automaticamente; infatti, come suggerisce il suo stesso titolo ("Nuovo Testamento"), esso agisce solo in grazia di questa unità. Conformemente a ciò che dall'interno pretende il testo biblico stesso, occorre sostituire al principio della discontinuità quello dell'"analogia Scripturae"; ed al principio meccanicista quello teologico (
43).
Sicuramente, in un primo tempo occorre reintegrare i testi nel loro ambito, quello della storia, ed interpretarli nel loro contesto storico. Ma in un secondo tempo del processo interpretativo, occorre vederli anche nella totalità dello svolgimento storico, a partire dall'evento centrale che è Cristo. Soltanto 1 armonia dei due metodi permette di giungere alla comprensione della Bibbia. Presso i Padri e gli autori del Medio Evo il primo momento della interpretazione era largamente deficitario, e cosi il secondo cadeva facilmente nell'arbitrarietà. Ma oggi, inversamente, ci manca il secondo momento. Il primo momento stesso allora tende alla irrilevanza; anzi la negazione dell'unità di senso conduce anche qui ad un'arbitrarietà metodologica. Riconoscere di volta in volta in ogni parola storica il potere di autotrascendersi che essa possiede, riconoscere dunque la legittimità delle riletture, grazie alle quali, nella Bibbia, l'evento ed il senso sono progressivamente implicati l'uno nell'altro: ecco ciò che appartiene ai compiti di una interpretazione appropriata per la quale si potranno e dovranno trovare i metodi adatti. In questo senso vale sempre la massima esegetica di Tommaso d'Aquino: "Il compito del buon interprete non è considerare le parole, ma il senso" (
44).

4. Per fondare e rendere metodologicamente accessibile questo potere che i singoli testi biblici hanno di autotrascendersi e d'integrarsi cosi all'insieme, la tradizione non ha soltanto indicato il principio della centralità cristologica; essa ha formulato un secondo principio: questa mira "cristologica" deve integrarsi in una visione "teologica" in senso stretto (
45) ciò significa tutte le parole della Scrittura sono parole d'uomo e devono in prima istanza essere interpretate come tali; e tuttavia esse poggiano su una "Rivelazione", esse sono toccate cioè da una "esperienza" che oltrepassa largamente la riserva esperienza personale dell'autore. Nelle parole umane è Dio che parla, e da qui si manifesta l'inadeguatezza costitutiva della parola concreta in rapporto alla realtà da cui proviene. Nel linguaggio teologico odierno si è soliti chiamare la Bibbia: "la Rivelazione". Ciò non sarebbe mai venuto in mente agli antichi. La Rivelazione è un processo dinamico tra Dio e l'uomo, che diviene realtà di nuovo e solo nell'incontro. La parola della Bibbia testimonia la Rivelazione; ma non la contiene in modo tale da poterla esaurire in se stessa e da poterla mettere in tasca come un oggetto. La Bibbia testimonia la Rivelazione; ma il concetto di Rivelazione in quanto tale la oltrepassa. In pratica ciò vuol dire che un testo può significare molto più di ciò che il suo autore stesso era in grado di pensare (46). Ciò che vale già per i grandi testi poetici, a maggior ragione vale per la parola biblica. Il singolo testo contiene un sovrappiù di senso, che va al di là del suo contesto storico immediato; perciò è possibile ricomprenderlo in un nuovo contesto storico e situarlo in complessi significativi più vasti: è il diritto alla rilettura. Questa è la ragione per cui la totalità della Scrittura ha il proprio valore. Essa è molto più del raggruppamento delle singole parti dell'arazzo, che i diversi autori potevano avere in vista, ciascuno nel proprio contesto storico. Non si ha ancora il tutto, quando si possiedono tutte le singole parti.
Per l'interpretazione occorrerà dunque tener conto di ciò che annota M. Buber riguardo alla tradizione della Bibbia fatta in collaborazione con F. Rosenzweig. Nel loro lavoro i due autori sono stati certamente molto attenti agli strati redazionali che la critica ha oggi scoperto e li segnalano per mezzo delle abbreviazioni correnti. Ma nella loro traduzione non hanno voluto far ascoltare voci isolate; ciò che era autorevole, in definitiva, era per loro l'insieme concreto del testo biblico, che hanno segnalato con la sigla R. Dal punto di vista dell'esegesi tecnica, ciò significava semplicemente "Redattore". Ma per il loro uso hanno tradotto "R" con "Rabbenu" - Nostro Maestro. È il testo nel suo insieme ad essere "nostro Maestro". Preso nella sua totalità, esprime una mira che si estende al di là delle intenzioni che si possono supporre nelle fonti prese singolarmente (
47). Il lavoro d'interpretazione può (e forse deve) occuparsi di J, P, E, ecc.; ma in fin dei conti l'obiettivo di un'esegesi corretta deve essere R; occorre cioè comprendere il testo biblico concreto come una totalità che ha significato pieno in se stessa.

5. Negli ultimi cent'anni l'esegesi ha realizzato grandi cose, ma ha anche commesso grandi errori; e questi errori sono divenuti quasi dei dogmi accademici. Attaccarli è considerato da molti studiosi addirittura un sacrilegio, soprattutto se queste critiche vengono da qualcuno che non è esegeta. Tuttavia, un esegeta eminente quale Heinrich Schlier aveva da tempo avvertito i colleghi di non sprecare tempo in banalità (
48). Joachim Gnilka ha dato una concreta espressione a questo avvertimento, quando reagì contro l'eccessiva importanza attribuita alla storia delle tradizioni (49).

Nella stessa direzione vorrei formulare i seguenti desiderata:

a) Sembra giunto il tempo di una nuova riflessione di fondo sul metodo esegetico. L'esegesi scientifica deve riconoscere che in un buon numero dei suoi assiomi fondamentali è presente l'elemento filosofico, e deve quindi riconsiderare criticamente i risultati fondati su questi assiomi.

b) Non si può studiare l'esegesi in un modo unilineare, sincronico, come si fa per le scoperte delle scienze naturali: queste non dipendono dalla loro storia, ma unicamente dalla precisione dei dati di misurazione. L'esegesi, di contro, deve riconoscere di essere una disciplina storica. La sua storia fa parte di ciò che essa è, le posizioni che ha raggiunto deve sempre integrarle in maniera critica nella totalità della sua storia; così sarà in grado, da un lato, di riconoscere il carattere relativo dei propri giudizi; e d'altro canto sarà meglio in grado di penetrare in una comprensione reale, benché sempre incompleta, della parola biblica.

C) I metodi filologici e quelli delle scienze della letteratura sono e rimarranno d'una importanza decisiva per una corretta esegesi. Ma per poterne fare uso in modo veramente critico - soprattutto nei riguardi di un testo che pone tali esigenze - occorre ancora una conoscenza delle implicazioni filosofiche del processo dell'interpretazione. Lo studio autocritico della propria storia deve anche essere un esame delle alternative filosofiche essenziali del pensiero umano. A questo riguardo appare insufficiente considerare solo gli ultimi centocinquat'anni. Ancora, occorre introdurre nella discussione le grandi proposte del pensiero patristico e medioevale. Infine, è ugualmente indispensabile riflettere sulle opzioni fondamentali della Riforma e sulle scelte che essa implica nella storia dell'interpretazione.

d) Ciò che ci è ora necessario non sono nuove ipotesi sul "Sitz im Leben", sulle possibili fonti o sul processo susseguente della tradizione. Ciò di cui abbiamo assolutamente bisogno, è uno sguardo critico sul paesaggio esegetico attuale, per ritornare al testo e distinguere tra le ipotesi feconde e quelle inutilizzabili. Solo a queste condizioni si può aprire una nuova e fruttuosa collaborazione tra l'esegesi e la teologia sistematica. Unicamente per questa via l'esegesi sarà di vero servizio alla comprensione della Bibbia.

e) Infine, l'esegeta deve rendersi conto di non abitare una regione neutra, al di sopra o al di fuori della storia e della Chiesa. Pretendere che si possa accedere direttamente a ciò che è puramente storico non può che produrre cortocircuiti. Il primo presupposto di ogni esegesi è accettare la Bibbia come un unico libro (
50). Facendo questo, l'esegesi ha già scelto una posizione che non risulta da un approccio solamente letterario. Ha compreso che questo testo letterario è prodotto da una storia che ha una sua coesione interna, e che questa storia è il vero luogo della comprensione. Ma se l'esegesi vuol essere anche teologia, deve compiere un altro passo: deve riconoscere che la fede della Chiesa è quella forma di "sim-patia" senza la quale la Bibbia resta un libro sigillato. Essa deve giungere a riconoscere questa fede come un'ermeneutica, come il luogo della comprensione, che non fa una violenza dogmatica alla Bibbia, ma ad essa precisamente fornisce l'unica possibilità d'essere veramente se stessa.
Siamo così tornati al nostro punto di partenza. I vicoli ciechi del metodo critico ci hanno mostrato chiaramente una volta di più che la comprensione non è possibile senza uno che comprenda; questa è la chiave senza la quale un testo non ha nulla da dire al nostro tempo. Il grande merito di Bultmann è stato quello di aver messo in rilievo con chiarezza la necessità dell'ermeneutica, anche se è poi rimasto prigioniero di presupposti che tolgono in gran parte valore alle sue conclusioni. Forse l'aporia dei tentativi attuali può aiutarci a comprendere ora anche in modo nuovo che la fede è veramente quello spirito in cui è nata la Scrittura, e che è dunque anche l'unica porta per penetrare nel suo interno.

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Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?». Quegli rispose: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?». At 8,30
 
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