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LA CHIESA DI FRONTE AI TOTALITARISMI

Ultimo Aggiornamento: 08/05/2022 10:55
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18/03/2017 21:22
 
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Nessun aiuto ai nazisti:
false accuse alla Curia genovese

rat line vaticanoLa città di Genova ha avuto un ruolo non indifferente dopo la dissoluzione del regime nazista, da lì si imbarcarono infatti decine di ebrei e di profughi in fuga, in cerca di una vita nuova.

Come ogni episodio storico, non può mancare un’accusa alla Chiesa di aver sfruttato l’occasione per aiutare la fuga anche dei criminali nazisti, la cosiddetta rat-line (“la via del topo”), che collegava l’Europa con il Sud America.

Polemica tornata sui media recentemente da parte dello scrittore Carlo Martigli, che ha retoricamente domandato al prelato genovese Tarcisio Bertone di far luce sui «rapporti tra la Curia genovese e i nazisti in fuga all’indomani della fine della II Guerra Mondiale». In particolare sotto accusa è stato messo il card. Giuseppe Siri, sospettato di aver sostenuto il sacerdote croato Carlo Dragutin Petranovic, ex cappellano militare delle milizie ustascia, a sua volta sospettato di distribuire passaporti falsi ai nazisti.

Un’inchiesta storica, forse Martigli non lo sa, è già stata effettuata dal prof. Pier Luigi Guiducci, docente di Storia della Chiesa presso la Pontificia Università Lateranense. Nel volume Oltre la leggenda nera (Mursia 2015) -da noi recensito nel maggio 2016– lo storico ha dedicato un intero capitolo alla questione genovese (pp. 172-196). Usando come fonti i contributi di altrettanti colleghi (Bricarelli, Brizzolari, Lai, Macciò, Scavo, Sorani ecc.); le carte di Boetto, Repetto, Siri, Teglio e Valobra; le testimonianze ritrovate negli archivi croati; l’autobiografia dell’ex ufficiale nazista Priebke e altro, Giuducci ha descritto gli anni dopo il crollo del regime tedesco, «il caos alle frontiere italiane, perché quasi tutti i rifugiati non avevano documenti e non potevano provare la propria identità».

Quel che Martigli e gli accusatori dimenticano è innanzitutto la grande opera di assistenza che la Curia genovese operò verso gli ebrei in fuga. Già nel 1943, scrive Guiducci, «molti parroci liguri furono i primi ad accoglierli cercando di dare loro una aiuto»Don Raimondo Viale, ad esempio,«grazie all’aiuto ricevuto dalla diocesi di Torino e di Genova, salvò molti ebrei» tanto che nel 2000 gli è stato conferito il titolo “Giusto tra le nazioni”. Assieme a lui anche il card. Pietro Boetto -a sua volta premiato da Israele- che si alleò con l’Assistenza degli Emigranti Ebrei (DELASEM) e ne nascose il presidente, Lelio Vittorio Valobra, e diversi ebrei in case religiose, producendo documenti falsi, anche grazie al segretario di Boetto, don Francesco Repetto, don Bruno Venturelli e decine di sacerdoti genovesi, tanto da formare una «catena di solidarietà». Aiuto fu dato anche ai genovesi, vittime del bombardamento del 1941: nel ’45 mons. Giuseppe Siri raggiunse perfino i partigiani di Rocchetta Vara (La Spezia) convincendoli a lasciar passare gli aiuti alimentari, in quanto temevano fossero destinati ai nazifascisti. Li convinse e le derrate arrivarono a Genova e furono distribuite alla popolazione genovese.

Il successore di Boetto fu proprio il card. Siri, che fondò l’istituzione Auxilium per sostenere le famiglie genovesi in difficoltà ed intensificò «il supporto clandestino agli ebrei perseguitati da nazifascisti», chiedendo però regolari processi per gli ex fascisti ed opponendosi alle esecuzioni sommarie. La situazione era delicata in quanto -scrive lo storico Guiducci- era noto che «criminali di guerra sotto falso nome si erano mischiati tra i profughi. Al riguardo, né le autorità italiane, né il centro della Croce Rossa, né la delegazione argentina, né gli Alleati, dimostrarono una particolare severità in materia di imbarchi. In questo affollamento caotico e attraverso il mercato di identità false, i criminali di guerra nazisti e croati riuscirono a far perdere le proprie tracce a Genova. In molti casi non si trattò neanche di contraffare la documentazione, ma di riceverne una nuova dalla Croce Rossa, dichiarando di aver perso quella vecchia e facendo testimoniare amici o camerati compiacenti»:

E’ in questo contesto che alcuni hanno accusato mons. Giuseppe Siri di aver protetto tali criminali di guerra. Sotto attenzione c’è il rapporto, citato da Martigli, con il prete croato Petranovic. Lo stesso Siri smentì le accuse, come citato da Benny Lai nel libro Il Papa non eletto. Giuseppe Siri, cardinale di Santa Romana Chiesa (Laterza 1993). Lo stesso ha fatto il suo vicario Giovanni Cicali«Come si fa a sostenere una simile bugia? Siri era sicuramente un fiero antinazista, perseguitato per questo»disse nel 2003 Cicali. «Era l’allievo prediletto del cardinale Minoretti, nemico giurato di Mussolini, che non venne a Genova fino a quando si insediò Boetto, perché sapeva che l’arcivescovo suo predecessore era antifascista». Le più recenti indagini confermano tutto questo, spiega il prof. Guiducci.

L’archivio Storico Diocesano di Genova, ad esempio, conserva dei fascicoli relativi proprio a Petranovic, in particolare sue lettere indirizzate all’arcivescovo Siri. In esse (datate 1948), il prete croato si lamenta con l’arcivescovo per la sua proibizione ad ospitare profughi croati al convitto ecclesiastico ma le lettere rivelano ben altro. Innanzitutto, osserva lo storico Guiducci, «Petranovic non poteva vantare alcuna delega o autorizzazione specifica da parte della Chiesa genovese per il suo operato. Ne fa fede il fatto che debba presentarsi e raccontare tutta la sua storia. Inoltre, Petranovic non era ben conosciuto da Siri e tanto meno ne godeva il credito. Sono così smentite le affermazioni di autori che insistono a presentarlo protetto da raccomandazioni di prelati e autorizzato a viaggiare con macchine della Curia. Non sembra nemmeno che il Petranovic godesse nel clero genovese di particolari appoggio e simpatia, non fa infatti riferimento a conoscenze e si lamenta, anzi, del permanere di pregiudizio nei suoi confronti».

Infine, il segretario del cardinale Siri, mons. Mario Grone, ha testimoniato di non aver mai sentito o visto nulla di simile, neppure di aver carpito qualche confidenza privata su «un’attività diretta o indiretta della Curia genovese a favorire, scientemente, il transito dei criminali nazisti in fuga verso l’America meridionale. Devo ritenere che ciò non sia ai accaduto, giacché il cardinale ha sempre manifestato la massima confidenza nei miei confronti. Infine, come ordinatore, dopo la morte del cardinale, del suo archivio personale, posso attestare che non ho trovato alcuna traccia nella corrispondenza in merito a tale argomento».


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19/03/2017 19:15
 
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L’odio del Duce per il cristianesimo,
instaurò un’ideologia pagana

mussolini ateoIl Novecento è stato definito l’“Età dei totalitarismi” in quanto vide l’avvento del fascismo, del nazismo e del comunismo. Sebbene questi movimenti professassero concetti differenti, avevano tuttavia in comune l’obiettivo di realizzare l’Uomo Nuovo attraverso il controllo dell’individuo in ogni aspetto della società.

Queste ideologie, facendosi portavoce di una visione del mondo antitetica a quella cristiana, finirono inevitabilmente per scontrasi con la Chiesa Cattolica. Ciò è particolarmente evidente nei casi della Russia Comunista e della Germania nazista dove si giunse a vere e proprie persecuzioni nei confronti delle confessioni cristiane ma lo fu, anche se in misura minore, per quanto riguarda l’Italia fascista.

La ragione di questa minore ostilità è dovuta al fatto che il fascismo non riuscì a mai a diventare completamente “totalitario” in quanto dovette fare i conti con altri poteri forti compresa la stessa Chiesa. In realtà, quando nel 23 marzo 1919 Benito Mussolini costituì a Milano il movimento dei Fasci di combattimento, non nascose la sua inclinazione anticlericale, tanto che uno dei propositi del partito prevedeva «il sequestro di tutti i beni delle congregazioni religiose e l’abolizione delle mense vescovili che costituiscono un’enorme passività per la Nazione e un privilegio di pochi». Lo stesso Duce inneggiò pubblicamente nel 1919 alla nuova modernità pagana dichiarando: «Noi, che detestiamo dal profondo tutti i cristianesimi, da quello di Gesù a quello di Marx, guardiamo con simpatia straordinaria a questo “riprendere” della vita moderna nelle forme pagane del culto, della forza e dell’audacia». Valori che, nonostante la svolta successiva, il fascismo non rinnegherà mai.

Difatti, dopo la disastrosa sconfitta subita nelle elezioni del novembre 1919, Mussolini comprese che per raccogliere consensi era indispensabile presentarsi come difensore dell’ordine e della società contro il pericolo di una rivoluzione socialista, e per motivi politici iniziò quindi a mutare la sua posizione nei confronti del cattolicesimo, come spiegò in un discorso tenuto al terzo congresso dei Fasci di combattimento nel maggio 1920: «Quanto al Papato bisogna intendersi: il Vaticano rappresenta quattrocento milioni di uomini sparsi in tutto il mondo e una politica intelligente dovrebbe usare ai fini dell’espansionismo proprio questa forza colossale. Io sono, oggi, completamente al di fuori di ogni religione, ma i problemi politici sono problemi politici» (Emilio Gentile, Contro Cesare, Milano 2010 p. 87-89).

Mussolini iniziò perciò una politica tesa a trovare l’appoggio della Chiesa, il cui culmine fu raggiunto nel 1929 con la soluzione della Questione Romana attraverso la stipula dei Patti Lateranensi. Nonostante la politica conciliativa, però, il fascismo non abbandonò il suo proposito di subordinare a sé gli individui in ogni aspetto della società, e il dittatore rimarcò la preminenza dell’ideologia fascista sul cattolicesimo: «Lo stato fascista rivendica in pieno il suo carattere di eticità, è cattolico, ma è fascista, anzi è sopratutto, esclusivamente, essenzialmente fascista» dichiarò nel discorso tenuto alla Camera nel maggio del 1929.

Il carattere totalitario del regime si manifestò a pieno con la questione riguardante l’educazione della gioventù dove i fascisti sciolsero le organizzazioni cattoliche ed effettuarono feroci attacchi contro l’Azione Cattolica (definita “pupilla degli occhi del papa” da Pio XI). Lo scontro per la formazione dei giovani spinse il pontefice a pubblicare nel 1931 l’enciclica “Non abbiamo Bisogno” in cui accusava il fascismo di promuovere «un’ideologia che dichiaratamente si risolve in una vera e propria statolatria pagana in pieno contrasto con i diritti naturali della famiglia che coi diritti sopranaturali della Chiesa»; rimarcando che: «Una concezione dello stato che gli fa appartenere le giovani generazioni interamente e senza eccezione dalla prima età fino all’età adulta, non è conciliabile per un cattolico con la dottrina cattolica, e neanche è conciliabile col diritto naturale della famiglia».

Sebbene il conflitto con l’Azione Cattolica venne risolto con un compromesso tra le due parti, stipulato il 2 settembre 1931, il dissidio tra Chiesa e fascismo sarebbe riemerso quando quest’ultimo, verso la fine degli anni ’30, iniziò ad accentuare la sua politica totalitaria arrivando al punto di introdurre in Italia nel ’38 le leggi razziali antisemite e a scatenare un nuovo conflitto contro l’Azione Cattolica (conclusosi con un compromesso ritenuto dallo stesso Duce solamente provvisorio). La minaccia totalitaria era aggravata anche dall’azione del segretario del Pnf, Achille Starace, ritenuto dagli ambienti vaticani “un pericoloso pagano”. Durante gli anni in cui quest’ultimo tenne la segreteria, l’attività religiosa presso i giovani venne infatti spesso ostacolata dalle gerarchie fasciste e l’insegnamento religioso nelle scuole spesso non fu effettuato. Era ormai chiaro a Pio XI che, dietro l’apparente politica di collaborazione, si profilava un’inevitabile scontro tra la Chiesa e il regime, dovuto alla natura stessa del fascismo (Contro Cesare p. 426-427).

L’avversione tra Chiesa e regime si sarebbe acuita negli anni successivi con l’entrata dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale, in particolare, durante gli anni della Repubblica di Salò. In definitiva, non è errato concludere che, nonostante accordi e compromessi, la strada tra la Santa Sede e il fascismo era destinata al conflitto in quanto quest’ultimo si faceva portavoce di un’ideologia dai valori dichiaratamente anticristiani.


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24/08/2018 15:18
 
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François Englert, fisico ebreo:
«Salvo dal nazismo grazie alla Chiesa cattolica»

Siamo in Belgio, anno 1943 e la resistenza cattolica al nazismo, guidata clandestinamente dai vescovi cattolici, nasconde e mette in salvo gli ebrei. Tra essi il futuro premio Nobel per la fisica, François Englert, co-scopritore del bosone di Higgs.

Englert ha rivelato la sua storia soltanto nel 2013, quando vinse il Nobel per aver scoperto i meccanismi che danno origine alla massa delle particelle elementari. «Il direttore del Comitato che assegna il premio mi chiese di scrivere una breve autobiografia», ha raccontato recentemente. «Risposi che non avevo voglia di includervi il periodo della guerra. Lui replicò che in quanto vincitore avevo il dovere morale di farlo. Accettai e improvvisamente mi sentii liberato».

Nato in Belgio da una famiglia di ebrei polacchi, nel 1943 vennero denunciati ai nazisti: «incontrammo un prete cattolico che ci aiutò a fuggire con l’aiuto della resistenza clandestina e di alcuni membri della gerarchia cattolica», ha raccontato. «Ci fecero avere una nuova identità e un nascondiglio sicuro». Fino alla fine della guerra, quando Englers riprese gli studi che lo avviarono alla sua celebre carriere scientifica.

Il grande contributo della Chiesa cattolica nel salvare migliaia di ebrei è ormai un dato storico, come ha raccontato uno dei più importanti scrittori israeliani, Aharon Appelfeld, recentemente scomparso. Ma, sopratutto, ne ha dato testimonianza il biografo ufficiale di Winston Churchill, Martin Gilbert, storico di origine ebraica e tra i più noti studiosi dell’Olocausto. «Come storico ebreo, ho a lungo sentito il bisogno di rivelare pienamente l’aiuto cristiano agli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale e la storia degli uomini che sono stati coinvolti nel salvataggio», ha affermato. Vi furono «sacerdoti e vescovi cattolici che hanno lavorato per salvare gli ebrei in ogni paese in cui venivano minacciati, tra cui Francia, Italia e Polonia, paese che era in vigore la pena di morteper coloro che aiutavano gli ebrei».

In particolare, ha proseguito lo storico Gilbert, i rappresentati del Vaticano «all’inizio erano soprattutto preoccupati per il destino degli ebrei che si erano convertiti al cristianesimo, ma quando il delitto divenne evidente il Vaticano ha espresso preoccupazione non solo per la loro macellazione, ma ha incoraggiato i rappresentanti pontifici in Europa a compiere ogni sforzo a favore dei perseguitati». E per quanto riguarda Papa Pio XII, a lungo accusato di silenzio complice davanti alla Shoah, lo storico ebreo ha riflettuto: «ha ritenuto, a mio parere correttamente, che l’intervento diretto avrebbe avuto conseguenze disastrose nelle forme di rappresaglia e un’escalation di persecuzione. Scomunicando Hitler non avrebbe ottenuto altro che aumentare la persecuzione dei cattolici sotto la loro sfera di controllo». Cosa che, infatti, avvenne alla pubblicazione dell’enciclica Mit brennender Sorge, redatta anche dal futuro Pio XII e scritta in modo inedito in lingua tedesca, dove venne condannato il razzismo ed il regime hitleriano.

Eppure, clandestinamente, non vi fu alcun “silenzio” vaticano. Anzi, «quando le SS vennero a Roma», ha concluso Martin Gilbert, «la Santa Sede prese sotto la sua protezione centinaia di migliaia di ebrei, accogliendoli in Vaticano e incoraggiando nel contempo tutte le istituzioni cattoliche a fare altrettanto. La Chiesa cattolica è stata al centro di questa grande operazione di salvataggio. Io la definisco un’opera sacra.

Fonte: https://www.uccronline.it/2018/08/24/francois-englert-fisico-ebreo-salvo-dal-nazismo-grazie-alla-chiesa-cattolica/


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24/08/2018 15:24
 
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Il Leone di Münster e Pio XII



Il New York Times definì il vescovo von Galen «l’oppositore più ostinato del programma nazionalsocialista anticristiano». Il suo coraggio e le sue dure prediche contro Hitler, pronunciate dal pulpito del duomo di Münster, fecero il giro del mondo. E papa Pacelli gli scrisse per manifestare il suo pieno appoggio e la sua gratitudine


di Stefania Falasca

 
«Le tre prediche del vescovo von Galen procurano anche a noi, sulla via del dolore che percorriamo insieme con i cattolici tedeschi, un conforto e una soddisfazione, che da molto tempo non provavamo. Il vescovo ha scelto bene il momento per farsi avanti con tanto coraggio»1. Con queste parole di gratitudine e di piena approvazione, Pio XII, scrivendo il 30 settembre 1941 al vescovo di Berlino, Konrad von Preysing, commentava l’attacco frontale sferrato al regime di Hitler dal pulpito del duomo di Münster in quell’estate del ’41 da Clemens August von Galen. Non solo. Pio XII concludeva la lettera al presule di Berlino manifestando tutto il suo sostegno: «Non occorre pertanto che assicuriamo espressamente te e i tuoi confratelli che vescovi i quali, come il vescovo von Galen, intervengono con un tale coraggio e con una tale irreprensibilità, troveranno sempre in noi appoggio»2. La missiva di Pacelli ebbe un’immediata risposta da parte del vescovo di Berlino. Il 17 ottobre von Preysing prese carta e penna e non esitò a rispondere al Papa così: «Mi riempie di vera gioia il fatto che l’operare del vescovo von Galen sia stato di consolazione per il cuore di Vostra Santità»3. 
Clemens August von Galen

Clemens August von Galen

Ma qual è stata l’azione di questo vescovo al quale Pio XII fa giungere il suo incoraggiamento e il suo plauso? Chi era Clemens August von Galen? Il New York Times nel 1942, in piena guerra, pubblicava una serie di articoli su uomini di Chiesa che si opponevano a Hitler. L’8 giugno di quell’anno, il quotidiano statunitense apriva la rassegna dal titolo Churchmen who defy Hitler proprio con un articolo sul vescovo von Galen, definendolo così: «L’oppositore più ostinato del programma nazionalsocialista anticristiano». 
Il primo biografo di von Galen, il sacerdote tedesco Heinrich Portmann, che dal ’38 al ’46 fu suo segretario privato, ha fatto notare una coincidenza: «Von Galen ha governato come vescovo per un lasso di tempo uguale a quello di Adolf Hitler. Fu consacrato vescovo nove mesi dopo che Hitler era salito al potere ed è morto all’incirca nove mesi dopo la morte del Führer»4. 
Nato nel 1878 nel castello di Dinklage, nei pressi di Münster, Clemens August conte di Galen, figlio di una cattolicissima nobile famiglia della Westfalia, prima di essere consacrato vescovo da Pio XI aveva passato ventitré anni del suo sacerdozio in una parrocchia di Berlino. Ma quando il 5 settembre del ’33 Pio XI lo nomina successore alla cattedra di san Ludgero, gli elmetti d’acciaio con le croci uncinate del Terzo Reich presenti alla solenne cerimonia del suo insediamento non immaginavano ancora quanto filo da torcere questo presule di nobili origini e di radicati sentimenti patriottici avrebbe dato loro. Von Galen fu il primo vescovo eletto dopo il Concordato del Reich, siglato con la Santa Sede il 20 luglio del ’33, e fu uno dei primi vescovi tedeschi non solo ad intuire e a smascherare con estrema lucidità e fermezza il pericolo dell’ideologia neopagana del nazismo, ma anche a denunciare con forza e pubblicamente le violenze e la barbarie del terrore nazista. 

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24/08/2018 15:25
 
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La condanna del “catechismo del sangue”

Nec laudibus nec timore. Questo il motto episcopale scelto dall’imponente presule tedesco. E l’intrepidezza di quel nec timore si dimostrò subito. 
Già due mesi dopo la sua consacrazione, nel novembre del ’33, prende atto che i patti appena firmati col governo non vengono rispettati e protesta energicamente contro le violazioni del Concordato. E quando all’inizio del ’34 Alfred Rosenberg, il principale teorico del nazionalsocialismo, nominato sostituto del Führer per la direzione spirituale e ideologica del partito, fa diffondere massicciamente il suo Mito del XX secolo, von Galen, nella sua prima lettera pastorale diocesana della Pasqua del ’34, condanna senza riserve la Weltanschauung neopagana del nazismo evidenziando nettamente il carattere religioso di questa ideologia: «Una nuova nefasta dottrina totalitaria che pone la razza al di sopra della moralità, pone il sangue al di sopra della legge [...] ripudia la rivelazione, mira a distruggere le fondamenta del cristianesimo [...]. È un inganno religioso. A volte accade che questo nuovo paganesimo si nasconda perfino sotto nomi cristiani [...]. Questo attacco anticristiano che stiamo sperimentando ai nostri giorni supera, in quanto a violenza distruttrice, tutti gli altri di cui abbiamo conoscenza dai tempi più lontani»5. La lettera conclude con un’ammonizione ai fedeli a non lasciarsi sedurre da un simile «veleno delle coscienze» e invita i genitori cristiani a vigilare sui figli. Il messaggio pasquale colpì come una bomba ed ebbe un effetto liberatorio sul clero e sul popolo, originando un’eco non solo in Germania, ma anche all’estero. 
Nella Pasqua del ’35 un altro contraccolpo. Ed è ancora la teoria razziale e il «catechismo del sangue» di Rosenberg nel mirino del vescovo. Von Galen, non potendo tacere contro aberrazioni tanto pericolose per i fedeli, fa allegare al bollettino diocesano uno studio contro Il mito del XX secolo e si adopera per sfavorirne la diffusione. La risposta del regime non si fa attendere. Il capo della Gestapo Hermann Göring invia una circolare in cui chiede l’esclusione del clero dall’insegnamento nelle scuole. Rosenberg piomba a Münster e pronuncia parole di fuoco contro il vescovo, nel tentativo di aizzare il popolo contro di lui e liquidarlo. Ma il popolo della Westfalia, in maggioranza cattolico, fa cerchio intorno al suo vescovo; l’8 luglio le manifestazioni di solidarietà culminano in una processione massiccia dei fedeli. Le vicende di Münster varcano di nuovo i confini nazionali e la stampa estera registra la battaglia lodando il comportamento coraggioso del vescovo tedesco: «Se i cattolici vengono accusati di occuparsi di politica, in realtà è il nazionalsocialismo a occuparsi della religione» commenta laconicamente da Parigi Le Figaro6. 
Von Galen in processione durante la cerimonia della sua ordinazione episcopale il 5 settembre1933

Von Galen in processione durante la cerimonia della sua ordinazione episcopale il 5 settembre1933

Von Galen non era certo l’unico presule tedesco a reagire chiaramente contro la dottrina del nazismo, e già a partire dal ’32 i vescovi si erano espressi anche nella loro collegialità. Celebri restarono le predicazioni del ’33 del cardinale Michael von Faulhaber, arcivescovo di Monaco. Ma con l’ascesa al potere di Hitler la Chiesa tedesca si trovò a fronteggiare un regime che sempre più insidiosamente e sfacciatamente si attribuiva il totale predominio nel campo religioso ed ecclesiastico, annientando i diritti civili ed umani. Così nel giro di pochi anni la Chiesa dovette pagare lo scotto di una violenta persecuzione. Persecuzione che s’incrudelì dopo la pubblicazione, sollecitata dagli stessi vescovi tedeschi, dell’enciclica pontificia Mit Brennender Sorge, nel 1937. L’enciclica di Pio XI, «una delle più severe condanne di un regime nazionale che il Vaticano avesse pronunciato»7, venne dichiarata dalle autorità naziste «un atto di alto tradimento contro lo Stato». Arresti e sequestri seguirono la sua diffusione. Von Galen, nella sua diocesi, ne aveva fatte stampare 120mila copie. Gli atti intimidatori diretti contro la sua persona aumentarono, crebbe al contempo il suo prestigio e la grande autorità morale che ne faceva un punto di riferimento riconosciuto da tutti, anche dagli ebrei. E alla vigilia della guerra, il vescovo di Münster, per aver «attaccato fortemente le basi e gli effetti del nazionalsocialismo», veniva registrato dalla Cancelleria del Reich come uno dei più pericolosi avversari del regime. 
Ma è con le prediche dell’estate del ’41 che il vescovo divenne famoso in tutto il mondo. Guadagnandosi sul campo l’appellativo di “Leone di Münster”. 

«Io grido: esigiamo giustizia!»
Sabato 12 luglio 1941 il vescovo riceve la comunicazione dell’occupazione delle case dei gesuiti che si trovano nella Königstrasse e a Haus Sentmaring. Con l’avanzare della guerra i capi supremi del partito intensificarono il sequestro dei beni delle confessioni cristiane, e proprio nei giorni in cui Münster aveva subito gravi danni a causa dei bombardamenti, la Gestapo cominciò sistematicamente a deportare religiosi e ad occupare e confiscare i conventi. Anche i conventi delle suore di clausura furono sequestrati. I religiosi e le religiose insultati e cacciati. Il vescovo si mosse immediatamente. Affrontò personalmente gli uomini della Gestapo, dicendo loro che stavano compiendo «un incarico infame e vergognoso», e li chiamò con molta chiarezza e franchezza «ladri e briganti». Ritenne allora giunto il momento di intervenire pubblicamente. Era pronto a prendere tutto sopra di sé per Dio e per la Chiesa, anche se questo avrebbe potuto costargli la vita. Il giorno seguente, preparata con cura la predica, salì sul pulpito deciso a chiamare le cose con il loro nome. «Nessuno di noi è al sicuro, nemmeno se in coscienza fosse il cittadino più onesto, sicuro di non venire un giorno prelevato dalla propria abitazione, spogliato della propria libertà, rinchiuso nei campi di concentramento della polizia segreta di Stato. Sono cosciente che questo oggi può accadere anche a me...»8. E non esita a smascherare davanti a tutti le vili intenzioni della Gestapo, ritenendola responsabile di tutte le violazioni della più elementare giustizia sociale: «Il comportamento della Gestapo danneggia gravemente larghissimi strati della popolazione tedesca... In nome del popolo germanico onesto, in nome della maestà della giustizia, nell’interesse della pace... io alzo la mia voce nella qualità di uomo tedesco, di cittadino onorato, di ministro della religione cattolica, di vescovo cattolico, io grido: esigiamo giustizia!»9. Con forza e sicurezza le frasi uscivano come tuoni dalla sua bocca. Con indomito ardore denunciò uno per uno gli «atti infami» e i soprusi dei quali era venuto a conoscenza. «Gli uomini e le donne», ricorda un testimone, «si alzarono in piedi, si sentirono voci di consenso e anche di terrore e di indignazione, cosa che generalmente è impensabile qui da noi, in chiesa. Ho visto persone scoppiare in lacrime»10. 
Von Galen con i cresimandi durante una visita pastorale a Münster nel 1934

Von Galen con i cresimandi durante una visita pastorale a Münster nel 1934

L’effetto di questa prima predica fu dirompente. E alla seconda predica del 20 luglio la chiesa era stracolma. La gente veniva da lontano per ascoltarlo. Von Galen aprì ancora gli occhi sulla follia del progetto perseguito dal potere che avrebbe portato il Paese alla miseria e alla rovina, e tuonò ancora «contro l’iniqua, intollerabile azione che imprigiona i sacerdoti, caccia come selvaggina i nostri religiosi e le nostre care sorelle... che perseguita uomini e donne innocenti...»11. Dichiara vani tutti i tentativi e le suppliche inoltrate in favore di tanti cittadini ingiustamente offesi: «Ora noi vediamo e sperimentiamo chiaramente che cosa c’è dietro la nuova dottrina che da anni ci viene imposta: Odio! Odio profondo, come un abisso, nei confronti del cristianesimo, nei confronti del genere umano...»12. Ma è la terza predica del 3 agosto, quella sul V comandamento, che, per la virulenza delle parole, fu giudicata dal Ministero della Propaganda «l’attacco frontale più forte sferrato contro il nazismo in tutti gli anni della sua esistenza». Il vescovo era venuto a diretta conoscenza del piano di sterminio dei disabili, dei vecchi, dei malati di mente e dei bambini handicappati nelle case di cura della Westfalia. Il piano era tenuto nascosto dai nazisti. Commenta un testimone: «Solo chi ha sperimentato il tempo della dittatura nazista può misurare il significato delle seguenti parole che un vescovo ha osato pronunciare: “Vengono adesso uccisi, barbaramente uccisi degli innocenti indifesi; anche persone di altra razza, di diversa provenienza vengono soppresse... Siamo di fronte a una follia omicida senza eguali... Con gente come questa, con questi assassini che calpestano orgogliosi le nostre vite, non posso più avere comunanza di popolo!”. E applicava alle autorità del nazismo le parole dell’apostolo Paolo: “Il Dio dei quali è il ventre”»13. 
Le prediche ebbero una diffusione enorme, fecero in breve il giro del mondo. Vennero stampate e lette ovunque. Giunsero anche tra i soldati al fronte. Basta dire che la gente ambiva a tal punto di possederle che si ponevano come condizione per lo scambio di merci. Il popolo tedesco, cristiano e non, le aveva accolte con enorme riconoscenza. Risulta dalla documentazione ritrovata tra le macerie di Berlino che nell’inverno del ’41-42 parecchi ebrei vennero arrestati dalla Gestapo per la diffusione delle «prediche sobillatrici» del vescovo di Münster14. Per questi interventi tutti pensavano, compreso il vescovo, che di lì a poco egli sarebbe stato giustiziato. Il capo delle organizzazioni giovanili delle SS pubblicò questa dichiarazione: «Io lo chiamo il porco C. A., cioè Clemens August. Questo alto traditore e traditore del Paese, questo porco è libero e si prende la libertà di parlare contro il Führer. Deve essere impiccato»15. Invece questo non accadde. 
Il “caso von Galen” venne minuziosamente discusso dal Ministero della Propaganda e nella Cancelleria del partito. Anche il “delfino” di Hitler, Martin Bormann, voleva impiccarlo. Il ministro della Propaganda Joseph Goebbels consigliò invece il Führer di rimandare la sua esecuzione, per calcoli di opportunità politica. La tattica del regime era quella di non farne un martire, e ucciderlo avrebbe significato alienarsi il consenso di parte della popolazione, in particolare dei soldati al fronte. I nazionalisti avevano rimandato così «la resa dei conti» con von Galen dopo la “vittoria finale”. Allora, dichiarò Hitler il 4 luglio 1942, si sarebbero fatti i conti con lui «fino all’ultimo centesimo». 
Così testimonia il fratello di von Galen, il conte Franz: «Anche se non fu imprigionato, mio fratello continuava ad essere esposto agli attacchi, ai soprusi e alle ingiurie dei nemici della Chiesa. Conservò ciononostante il suo atteggiamento eretto e continuò ad annunciare intrepidamente la verità. Un giorno gli chiesi che cosa dovessimo fare nel caso fosse stato arrestato. “Niente” fu la sua risposta. “Anche san Paolo è stato rinchiuso per molti anni e il Signore non aveva timore che i pagani non fossero convertiti per tempo”. Condivideva con me che le forze diaboliche si fossero messe all’opera, ma accennò anche alle parole confortatrici del Signore: “Le porte dell’inferno non prevarranno sulla Chiesa”»16. 
Hermann Göring con Joseph Goebbels nel 1936

Hermann Göring con Joseph Goebbels nel 1936

Per Clemens August von Galen è stato aperto nell’ottobre del ’56 il processo di canonizzazione. Il 20 dicembre dello scorso anno è stato proclamato il decreto sulla eroicità delle virtù e la causa procede a grandi passi verso la beatificazione. 
«La lotta che il vescovo von Galen ha condotto contro quelli che considerava veri nemici della Chiesa», afferma il domenicano tedesco Ambrogio Eszer, relatore della causa di canonizzazione di von Galen, «dimostra univocamente che il servo di Dio considerava la difesa della fede come il suo più alto scopo e dovere. E nei confronti dello spirito del regime totalitario di allora, il vescovo von Galen ha mostrato una fortezza eroica ma anche una prudenza eroica». 

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24/08/2018 15:27
 
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Pacelli-von Galen: uno stretto legame

Ma Pio XII conobbe personalmente von Galen? Eugenio Pacelli era stato nunzio in Germania per dodici anni. Prima a Monaco, dal 1917 al 1925, e poi a Berlino fino al ’29. 
«È durante la sua permanenza a Berlino che Pacelli ebbe occasione di conoscere von Galen» ci spiega il gesuita tedesco Peter Gumpel, uno dei massimi esperti di Pio XII e relatore della sua causa di canonizzazione, «e già allora si era formato un’ottima idea di questo zelante e audace pastore d’anime, aperto alle necessità sociali del tempo». 
«Von Galen» spiega Gumpel «era cugino di Konrad von Preysing, l’uomo di fiducia di Pio XII in Germania. Von Preysing rappresentava certamente l’orientamento più fermo di opposizione al regime all’interno dell’episcopato tedesco. Von Preysing e von Galen, non solo erano parenti, erano legati da una stretta amicizia». «La considerazione e la fiducia di Pacelli verso von Galen, unitamente a quella verso lo stimatissimo von Preysing» continua Gumpel, «è tra l’altro testimoniata anche dalla loro presenza a Roma, nel gennaio del ’37, per la preparazione dell’enciclica Mit Brennender Sorge. Pacelli, che contribuì notevolmente alla stesura dell’enciclica di Pio XI, volendo essere ampiamente informato della situazione tedesca, chiese infatti di ascoltare il loro parere, oltre a quello dei cardinali tedeschi». 
Ma la sintonia con l’operato di von Galen da parte di Pacelli è provata già nel ’35. Durante la lotta contro Rosenberg. In quell’occasione, il segretario di Stato Pacelli inviò una severa nota al Ministero degli Esteri tedesco appellandosi alla base giuridica del Concordato, e il Vaticano sostenne massicciamente von Galen, tanto che L’Osservatore Romano, assecondando il volere del segretario di Stato, prese apertamente le difese del vescovo di Münster, attaccando Rosenberg come «il più rabbioso e sacrilego distruttore del cristianesimo»17. 
Riguardo invece alle famose tre prediche, non risulta che von Galen abbia ricevuto anticipatamente delle indicazioni da parte di Pio XII. Von Galen, come attestano le testimonianze processuali, agì di propria iniziativa, «ma sapeva» afferma Gumpel «d’incontrare il consenso del Papa. Pio XII ebbe a spiegare molto chiaramente, in una lettera del 30 aprile del ’43 a von Preysing, la sua posizione. Un intervento del Papa, in tempo di guerra, avrebbe potuto essere interpretato come una presa di posizione contro la Germania, con conseguenze negative per la Chiesa, già duramente perseguitata, e per il popolo tedesco. Lasciava quindi ai pastori sul posto di valutare, nelle circostanze, la scelta e la responsabilità delle decisioni. Incoraggiava così i vescovi nella linea seguita dalla Santa Sede dal tempo dell’enciclica di Pio XI, senza tuttavia imposizioni. Anche perché non è possibile ordinare il martirio». 
E quanto l’intrepida azione del “Leone di Münster” e «la forza della sua protesta» fossero state di consolazione al cuore di papa Pacelli lo dice il fatto che quelle famose prediche Pio XII volle leggerle personalmente persino ai suoi stessi familiari. Questo risulta dagli atti della causa di canonizzazione di von Galen. Nella sua deposizione, il sacerdote Heinrich Portmann, una delle migliori fonti del processo, dichiara di essere venuto a conoscenza di questo particolare da uno scritto del vescovo di Innsbruck indirizzato a von Galen il 18 settembre del ’41. In quello scritto il vescovo di Innsbruck riferisce che, durante un’udienza in Vaticano, il Papa, manifestando la sua profonda venerazione per il vescovo di Münster, gli confidò di aver letto le sue omelie ai propri cari. 
Von Galen alla finestra del Palazzo vescovile saluta un gruppo di giovani con le bandiere delle loro associazioni

Von Galen alla finestra del Palazzo vescovile saluta un gruppo di giovani con le bandiere delle loro associazioni

Sì, Pio XII lo riteneva un eroe. Lo disse esplicitamente ricevendo alcuni sacerdoti della Westfalia nel dicembre del ’45. Anche questa testimonianza, fornita dal sacerdote Eberhard Brand, è agli atti: «Il Santo Padre ci disse: “Il vescovo von Galen verrà presto a Roma. Poi aggiunse a voce alta: è un eroe”»18. 
Del resto il segno più eloquente dell’alta stima per «i meriti incalcolabili» acquisiti nella strenua difesa della Chiesa e dei diritti umani dalla violenza del nazismo è la porpora cardinalizia, che proprio papa Pacelli gli conferì il 18 febbraio del ’46. Von Galen fu «il vero eroe di quel concistoro», ebbe a commentare l’arcivescovo di Colonia.
La Radio Vaticana aveva reso nota la nomina del vescovo di Münster a principe della Chiesa alla vigilia del Natale del ’45, insieme a 32 nuovi porporati. Tra questi anche altri due presuli tedeschi che si erano distinti nel fronteggiare il terrore nazista: l’arcivescovo di Colonia Joseph Frings e il vescovo di Berlino Konrad von Preysing. Per l’episcopato e il popolo tedesco quelle nomine erano «la dimostrazione che il Papa non era disposto a partecipare alle voci di odio che in quei tempi sorgevano ovunque contro i tedeschi», e al tempo stesso erano «il segno di un giusto premio per la resistenza coraggiosa che proprio uomini come questi avevano fatto, e tra di essi, il primo posto spettava certamente al vescovo di Münster»19. In una dettagliata relazione della solenne cerimonia per la consegna della berretta cardinalizia, il sacerdote che era stato designato caudatario di von Galen attesta: «Quando, all’entrata dei cardinali in San Pietro, Clemens August comparve sulla porta, un mormorio passò tra la folla dei presenti: “Eccolo, è lui”. Dato che, come caudatario, camminavo immediatamente dietro al cardinale, potevo sentire cosa la gente diceva, e mentre la sua gigantesca figura attraversava la navata centrale si alzò un uragano di entusiasmo. L’applauso giunse al culmine nel momento in cui il cardinale salì verso il trono del Santo Padre. “La benedico. Benedico la sua patria” gli disse Pio XII. Un noto giornale romano scrisse il giorno seguente: “Particolarmente lungo e forte l’applauso per il cardinale von Galen, l’eroico vescovo di Münster, propugnatore dell’antinazismo, che il Papa tenne presso di sé chiaramente più a lungo rispetto agli altri”»20. 
La stampa, dunque, riportava ciò che in quel momento era a tutti evidente: von Galen era il simbolo di quell’altra Germania che non si era fatta uniformare, e riconosceva nel conferimento della dignità cardinalizia «un’onorificenza di quel virile difensore della verità cristiana e dei diritti inalienabili dell’uomo che nello Stato totalitario dovevano essere estirpati»21. Così scriveva il settimale tedesco Die Zeit il giorno della sua morte, avvenuta appena un mese dopo il ricevimento della porpora, definendo von Galen «un combattente per la giustizia, un grande benefattore dell’umanità». Al suo funerale a Münster partecipò una folla di oltre cinquantamila persone.
Quando l’ultimo ambasciatore del Reich in Vaticano, Ernst von Weizsäcker, che nel ’46, ritiratosi dalla vita politica, viveva ancora a Roma, inviò alla Santa Sede le condoglianze per la morte di von Galen, l’allora sostituto alla Segreteria di Stato, Giovanni Battista Montini, il 28 marzo 1946 lo ringraziò a nome di Pio XII con queste parole: «Con la morte di questo prelato, il suo Paese ha perso una delle più grandi personalità del nostro tempo». 

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24/08/2018 15:29
 
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E Pio XII scrisse: 
«Hai tutto il mio appoggio»
Ma non è tutto. Ci sono anche altri documenti che mostrano e siglano con chiarezza il rapporto di stima e di sintonia tra papa Pacelli e il “Leone di Münster”: la loro corrispondenza. Risulta dai documenti dell’Archivio segreto vaticano che Pio XII indirizzò direttamente a von Galen delle lettere. 
Quattro di queste missive scritte dal Papa in lingua tedesca sono contenute nel secondo volume degli Actes et documents du Saint Siège relatifs à la Seconde guerre mondiale, la monumentale opera in 11 volumi e 12 tomi curata da studiosi gesuiti che raccoglie la documentazione della Segreteria di Stato e dell’Archivio segreto vaticano attinente a quegli anni. Opera che, come è noto, fu voluta da Paolo VI, quando, sul principio degli anni Sessanta, fece aprire anticipatamente la consultazione degli Archivi vaticani in seguito al crescere della leggenda nera costruitasi attorno alla figura del suo predecessore. Le lettere inviate al vescovo di Münster recano queste date: 12 giugno 1940; 16 febbraio 1941; 24 febbraio 1943; 26 marzo 1944. 
In questa corrispondenza Pio XII sottolinea più volte la sua gratitudine, la convergenza di vedute e l’apprezzamento verso l’operato del presule tedesco. Nella lettera del 24 febbraio ’43, ad esempio, nel­l’esprimergli la sua viva «consolazione» ogniqualvolta viene «a conoscenza di una parola chiara e coraggiosa da parte di un vescovo», tiene anche a rassicurarlo del fatto che quei vescovi, che agiscono con «interventi risoluti e coraggiosi a favore della verità e del diritto e contro l’ingiustizia, non arrecano danno alla reputazione del loro popolo all’estero», anzi, «gli sono di giovamento», seppure qualcuno dovesse accusarli del contrario. Pio XII ringrazia inoltre espressamente von Galen per aver «preparato», con le sue lettere pastorali, il terreno al suo Messaggio natalizio del 24 dicembre 1942. Messaggio che il New York Times apprezzò per «le parole chiare in difesa degli ebrei» e per aver «denunciato al mondo la strage di tanti innocenti»; e la cui divulgazione, in Germania, fu considerata dalle alte uniformi del Reich «un crimine contro la sicurezza dello Stato, passibile di pena di morte»22. 
I testi di queste importanti missive (due delle quali, insieme alla lettera a von Preysing, vengono ora presentate all’attenzione dei lettori) non erano mai stati tradotti e pubblicati integralmente in italiano. 
La lunga processione durante i funerali nelle strade di Münster distrutta dai bombardamenti

La lunga processione durante i funerali nelle strade di Münster distrutta dai bombardamenti

E l’importanza di queste lettere è tanto più incisiva quanto più si considera il contesto in cui sono comprese. Le lettere a von Galen, infatti, fanno parte di un corpus di 124 missive indirizzate da Pio XII ai presuli tedeschi nel corso degli anni 1939-1944. Il motivo di questa corrispondenza fu espresso dallo stesso Pio XII ai quattro cardinali di lingua tedesca giunti a Roma nel marzo del ’39 in occasione del conclave che lo elesse Papa. Dopo il conclave, i cardinali prolungarono il loro soggiorno nella Città eterna per esaminare con il nuovo Pontefice la situazione della Chiesa in Germania, situazione che il Papa aveva seguito da vicino, prima come nunzio e poi come segretario di Stato. A loro pertanto così disse: «La questione tedesca è per me la più importante. Mi riservo di trattarla io stesso»23. Pacelli, in via eccezionale, aveva quindi invitato i cardinali, e, attraverso loro, l’episcopato, a scrivergli direttamente. Nella sua prima lettera all’episcopato tedesco del 20 luglio 1939 Pio XII, con animo commosso, rievocò i suoi anni trascorsi in Germania e le relazioni che ancora vi conservava: «... perché questo ci ha permesso di avere oggi, della situazione, delle sofferenze, dei compiti, delle necessità dei cattolici della Germania, quella conoscenza approfondita che sola può nascere dall’esperienza personale diretta e prolungata nel corso di molti anni»24. Con l’inizio della guerra queste relazioni dirette sarebbero divenute ancor più preziose. Invitandoli a scrivergli, il Papa aveva loro mostrato che la nunziatura di Berlino possedeva una via sicura di corrispondenza con Roma. La corrispondenza, che venne mantenuta fino all’ultimo anno di guerra, mostra come i vescovi si servirono ampiamente di questa possibilità che veniva loro straordinariamente offerta di comunicare con il capo della Chiesa, e a lui indirizzarono regolarmente tutte le possibili informazioni, allegando a queste anche le copie dei documenti più importanti. 
Le Lettres de Pie XII aux évêques allemands, documenti noti agli studiosi, restano tuttavia ancora sconosciute ai più. Eppure le dichiarazioni contenute in queste missive sono d’importanza capitale per comprendere non solo la resistenza cattolica in Germania, lo stato di persecuzione sotto il nazismo e la posizione dell’episcopato tedesco troppo spesso a torto considerato filonazista, ma, come spiega il gesuita padre Pierre Blet nel suo Pio XII e la Seconda guerra mondiale negli Archivi vaticani, «costituiscono un documento eccezionale del pensiero di Pio XII, delle sue intenzioni e del suo operato»25. Quell’intento e quel pensiero comuni a chi, senza timore, aveva osato gridare in faccia ai nazisti: «Non posso più avere comunanza di popolo con degli assassini che giustificano l’uccisione di innocenti... Il vostro Dio è il ventre.


NOTE

1 Lettera di Pio XII al vescovo di Berlino, vedi p. 50.
2 Ibidem.
3 Lettres de Pie XII aux évêques allemands, in Actes et documents du Saint Siège relatifs à la Seconde guerre mondiale, Città del Vaticano 1967, vol. II, nota a p. 229.
4 Positio super virtutibus beatificationis et canonizationis servi Dei Clementis Augustini von Galen, vol. I, Summarium, p. 427.
5 C. A. Graf von Galen, Un vescovo indesiderabile. Le grandi prediche di sfida al nazismo, a cura di R. F. Esposito, Padova 1985, p. 47.
6 Le Figaro , 28 luglio 1935.
7 A. Rhodes, Il Vaticano e le dittature .1922-1945, Milano 1973, p. 211.
8 C. A. Graf von Galen, Un vescovo indesiderabile, op. cit., p. 122.
9 Ibidem, p. 122.
10 Positio, op.cit., vol. I, Summarium, p. 418.
11 C. A. Graf von Galen, Un vescovo indesiderabile, op. cit., p. 128.
12 Ibidem, p. 129.
13 Positio, op. cit., vol. I, Summarium, p. 422.
14 Riguardo al rapporto del vescovo di Münster con gli ebrei si veda nelle biografie su von Galen: Max Bierbaum, Nicht Lob nicht Furcht, Münster 1974; Joachim Kuropka, Clemens August Graf von Galen. Neue Forschungen zum Leben und Wirken des Bischofs von Münster, Münster 1992.
15 R. A. Graham, Il “Diritto di uccidere” nel Terzo Reich – Preludio al genocidio, in La Civiltà Cattolica, 15 marzo 1975, vol. I, p. 154.
16 Positio, op. cit., vol. I, Summarium, p. 65.
17 L’Osservatore Romano, 10 luglio 1935.
18 Positio, op. cit., vol. II, Documenta, p. 505.
19 Neue Westfälische Zeitung, 28 dicembre 1945.
20 Positio, op. cit., vol. II, Documenta, p. 507.
21 Die Zeit, 28 m
22 G. Sale, Hitler, la Santa Sede e gli ebrei. Con i documenti dell’Archivio segreto vaticano, Milano 2004, p. 221.
23 Pierre Blet, Pio XII e la Seconda guerra mondiale negli Archivi vaticani, Cinisello Balsamo 1999, p. 81.
24 Ibidem, p. 79.
25 Ibidem, p. 83. 

fonte: http://www.30giorni.it/articoli_id_4169_l1.htmarzo 1946.

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23/11/2018 14:39
 
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«Quel che i nazisti chiamano dio,
non è il Dio cristiano!»

 

Abbiamo già  mostrato quanto il pensiero di Hitler verso il cristianesimo fosse profondamente negativo e che tra la Chiesa Cattolica e il regime nazista vi fosse stata una reciproca ostilità.

Vi è tuttavia ancora chi, contro l’evidenza storica, dipinge il nazismo come un movimento cristiano quando, in realtà, il Führer e altri gerarchi nazisti ribadirono più volte che la loro ideologia non era legata ad alcuna confessione religiosa, ma era invece basata sulla scienza (ovviamente intesa secondo le loro prospettive): «Nazionalsocialismo e cristianesimo sono incompatibili. Le Chiese Cristiane si reggono sull’ignoranza degli individui (…) Al contrario, il nazionalsocialismo poggia su basi scientifiche» affermava la circolare inviata da Martin Bormann ai Gauletier tedeschi il 6 giugno del 1941.

Come è noto, la concezione scientifica nazista presupponeva l’esistenza di una razza superiore che avrebbe dovuto dominare a discapito delle altre, anche se a dire il vero, la convinzione dell’esistenza di razze inferiori da sottomettere o eliminare non fu una prerogativa del solo nazismo (anche se solo questi giunse ad ideare la “Soluzione Finale”): quando gli europei diedero il via nel XIX secolo alle conquiste coloniali, elaborarono teorie scientifiche nella quale consideravano loro stessi una razza superiore alle altre, e ciò fu possibile grazie alla banalizzazione del darwinismo socialenella quale si definiva che la scomparsa delle razze inferiori era dovuta alla “concorrenza spietata” che si verificava anche nel mondo naturale (cfr. B. Bruneteau, Il secolo dei genocidi, Bologna 2005 pp. 45-53).

Una volta al governo, i dirigenti nazisti applicarono perciò i principi dell’igiene razziale e questo significava adottare una nuova morale, in radicale antitesi con quella cristiana, in quanto basata esclusivamente sui presunti interessi collettivi della razza tedesca. Questo presupposto è osservabile anche nelle questioni riguardanti il divorzio e l’aborto. Nei confronti di quest’ultimo il Terzo Reich non si mostrò pregiudizialmente contrario e difatti, pur inasprendo e applicando con maggiore severità le leggi già esistenti contro l’interruzione di gravidanza, depenalizzò tuttavia gli interventi abortivi se effettuati per motivi terapeutici, eugenetici o da donne ebree. Allo stesso modo, per incentivare la natalità, i nazisti rifiutarono il concetto cristiano di indissolubilità del matrimonio ed emaneranno una legge matrimoniale che prevedeva la possibilità che un coniuge fertile potesse presentare istanza di divorzio per presunta infertilità o per rifiuto a procreare da parte dell’altro partner. Tre anni di separazione o irrimediabile dissesto dell’unione coniugale furono inoltre riconosciute come legittime ragioni di annullamento del matrimonio. Il Vaticano protestò per la questione del divorzio, ma le sue proteste non ottennero alcun esito (cfr. Richad J. Evans, Il Terzo Reich al potere, Milano 2005 pp. 479-480 e 484-485).

Un altro punto di scontro tra la Chiesa Cattolica e il Terzo Reich riguardò la questione della sterilizzazione forzata. Volendo eliminare tutti quelli elementi considerati una degenerazione razziale, i nazisti adottarono già nel ’33 una legge sulla “Prevenzione delle malattie ereditarie” che imponeva l’obbligo della sterilizzazione per gli individui affetti da determinate patologie (epilessia ereditaria, psicosi maniaco-depressiva, sordità congenita, gravi forme di alcolismo…) e questo provvedimento portò alla sterilizzazione forzata di oltre 360.000 persone durante i dodici anni di vita del regime. Quando la Chiesa Cattolica si oppose alla sterilizzazione forzata, ideologi nazisti come Gerhard Wagner, capo della Camera dei medici, vi indicarono l’ennesimo capitolo della lunga lotta tra l’oscurantismo religioso e i lumi della scienza, ineluttabilmente destinati a trionfare (cfr. Richard J. Evans, Il Terzo Reich al potere, p.480).

In quel periodo non fu solo la Germania ad applicare politiche sulla sterilizzazione in quanto provvedimenti simili furono attuati anche in molti stati americani ed europei, ma solo i nazisti giunsero ad effettuare l’omicidio di malati psichici. Negli anni del conflitto, la Germania Nazista avviò difatti lo sterminio dei disabili e malati mentali attraverso il programma di eutanasia “T4” che comportò la morte di oltre 70.000 persone. Nonostante i tentavi nazisti per tenere questo piano segreto, presto le voci degli omicidi si espansero tra la popolazione. Frequenti furono le proteste dei prelati contro l’uccisione dei malati psichici, e la più importante di esse fu la predica del vescovo di Münster, Clement August Von Galen, tenuta nella sua cattedrale il 3 agosto 1941 che denunciava l’uccisione di quelle che i nazisti definivano “vite improduttive”: «Vengono adesso uccisi, barbaramente uccisi, degli innocenti indifesi (…) Siamo di fronte ad una follia omicida senza eguali… Con coloro che consegnano persone innocenti, nostri fratelli e nostre sorelle, alla morte, con essi noi vogliamo evitare ogni rapporto, noi vogliamo sfuggire la loro influenza per non essere infettati». La predica ebbe un’enorme risonanza al punto da essere distribuita in Germania non solo dagli oppositori del regime (comprese persone protestanti ed ebree), ma anche dalla Royal Air Force britannica. È noto che Martin Bormann giunse a proporre l’impiccagione del vescovo, ma Goebbels si oppose per motivi politici («Tutta la Westfalia andrebbe persa per l’impegno bellico se ora si procedesse contro il vescovo» fece notare), suggerendo quindi di rimandare la vendetta al termine della guerra.

Per evitare risvolti negativi sul morale della popolazione tedesca nel momento in cui aveva iniziato da poco tempo la sua campagna più difficile ovvero l’invasione dell’Unione Sovietica, il dittatore tedesco decise perciò di ascoltare il consiglio del suo ministro, promettendo che dopo la vittoria avrebberegolato i conti col vescovo «fino all’ultimo centesimo». Per lo stesso motivo Hitler deciderà di sospendere l’operazione Aktion T-4, anche se in realtà, le uccisioni di malati psichici continueranno sotto banco fino alla fine del conflitto, seppur non più su larga scala. Sebbene il regime non osò colpire personalmente Galen, questi venne tuttavia sottoposto a pressioni per impedirgli di parlare in pubblico, e inoltre i nazisti colpirono al suo posto sacerdoti e laici (per esempio, ad Amburgo, il 10 novembre 1941, furono decapitati tre sacerdoti cattolici e un pastore protestante per aver diffuso le prediche del vescovo). Nella sola diocesi di Münster si contarono 566 sacerdoti diocesani e 96 religiosi che furono trascinati davanti ai tribunali, e trentasette internati nei campi di concentramento (cfr. S. Falasca, Un vescovo contro Hitler, Milano 2006 pp. 42-49).

Non si può dunque fare a meno di notare la radicale contrapposizione tra la visione del mondo nazionalsocialista e quella cristiano-cattolica: «Noi abbiamo a che fare con un avversario che non conosce verità e fedeltà. Ciò che essi chiamano Dio non è il nostro Dio: è qualcosa di diabolico» dichiarò Galen a Pio XI. Un pensiero condiviso sia dal papa che dal suo successore, Pacelli.

Mattia Ferrari

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onte:
https://www.uccronline.it/2015/11/07/quel-che-i-nazisti-chiamano-dio-non-e-il-dio-cristiano/?fbclid=IwAR1wzOiImfdWMxBgjBuSys3jxZvuel2hOEW6oJ1Q1Kcq88KfU4WFm2YwRyc


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13/12/2018 23:22
 
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Warthegau,
il “campo” nazista destinato ai cattolici

La persecuzione di Hitler contro la Chiesa Cattolica in Germania, pur non essendo esente da atti di violenza, ebbe un carattere più lieve rispetto a quella dell’Unione Sovietica di Stalin, dove migliaia di sacerdoti furono uccisi o deportati in campi di concentramento. La ragione è dovuta al fatto che il capo del nazismo riteneva controproducente fare una guerra aperta alle confessioni cristiane, preferendo attuare un’offensiva di tipo amministrativo volta a ridurne lo loro spazio pubblico unita ad una fitta propaganda di discredito del clero.

Come sappiamo dalle confidenze fatte ai gerarchi più vicini, il dittatore tedesco era intenzionato ad attuare una politica più decisa nella lotta contro la Chiesa una volta terminata la guerra: «Il Führer è inesorabilmente determinato ad annientare le chiese cristiane dopo la vittoria» annotava Joseph Goebbels nel suo diario il 24 maggio 1942 (cit. in P.L. Guiducci, Il Terzo Reich contro Pio XII, Edizioni San Paolo 2013).

Vi fu tuttavia una regione in cui i nazisti attuarono una feroce persecuzione contro il clero, assimilabile a quella compiuta in URSS, e questa fu nel territorio del Warthegau in Polonia. Secondo la logica nazista, mentre gli ebrei dovevano essere fisicamente eliminati, i polacchi erano invece considerati dei sottouomini da schiavizzare e attuarono in alcune regioni una vera e propria politica di apartheid. Dopo la conquista del paese, i nazisti colpirono duramente il clero polacco poiché considerato un simbolo dell’identità nazionale polacca e si stima che, durante la guerra, a causa della repressione tedesca, vennero uccisi in quella nazione 6 vescovi, 1932 preti, 580 religiosi, 113 chierici e 289 religiose; mentre la stima delle persone inviate in un campo di concentramento ammonta a 3642 sacerdoti, 389 chierici, 341 fratelli conversi e 1117 suore (R. Moro, La Chiesa e lo sterminio degli ebrei, Il Mulino, Bologna 2002 p. 17).

Tuttavia, molti storici specialisti del Terzo Reich come Michael Burleigh e Ian Kershaw, ritengono che la repressione antireligiosa effettuata nel Warthegau non fu dettata solamente da scopi puramente politici, ma serviva anche come una sorta di banco di prova nella futura politica dei nazisti riguardante la religione. A capo di quella regione, Hitler nominò il Gauleterier Arthur Greiser, fanatico nazista che fu direttamente responsabile della morte di centinaia di migliaia di ebrei e polacchi, e che per questo motivo sarà processato e impiccato nel dopoguerra a Poznan nel 1946. Greiser, pur essendo stato educato nella religione evangelica, aveva abiurato il cristianesimo a causa, a suo dire, della «separazione tra Stato e Chiesa». Nel Warthegau il gerarca nazista, oltre a provocare l’uccisione e l’imprigionamento di centinaia di sacerdoti, monaci e funzionari diocesani, emanò infatti un editto, datato 14 marzo 1940, contenente «13 punti» che rendevano di fatto impossibile il libero esercizio del culto.

Questo documento proibiva l’esistenza di Chiese di diritto pubblico, ammettendo soltanto associazioni di carattere privato che non potevano avere contatti con gruppi esterni alla regione; e i cui componenti potevano essere solamente adulti che avessero fatto richiesta di iscrizione scritta. Queste nuove associazioni non potevano inoltre avere proprietà, raccogliere fondi e neppure svolgere opere di beneficenza. I sacerdoti ammessi dovevano provenire unicamente dal Warthegau ed erano obbligati a svolgere una mansione per provvedere al loro sostentamento. In aggiunta, Greiser fece sciogliere tutte le forme di associazionismo come i gruppi giovanili, proibì di tenere lezioni di catechismo nelle scuole, fece divieto ai tedeschi e ai polacchi di frequentare la stessa Chiesa, e stabilì la chiusura di conventi e monasteri. (A. Duce, Pio XII e la Polonia, Edizioni Studium 2007 p. 154).

La politica antireligiosa di Greiser era guardata con ammirazione dai nazisti, come esempio da seguire in futuro nei rapporti con la Chiesa: «Non c’è posto per le Chiese cristiane – evangelica o cattolica – nel nuovo assetto della Germania. (…) Che questi siano i desideri del Führer lo dimostra il fatto che egli ha incaricato il Gauleiter del Warthegau di seguire tale strada», affermò il responsabile per l’educazione a Francoforte in un discorso tenuto ai funzionari nazisti nel novembre 1940. Frequenti furono le proteste da parte della Santa Sede per la situazione in Polonia, ma queste non ebbero alcun esito. Le rimostranze del nunzio apostolico Cesare Orsenigo ricevevano infatti solo risposte evasive, anche perché formalmente ilgauletier Greiser (che sosteneva di avere una missione speciale) non prendeva ordini dal Ministero ma riceveva direttive direttamente da Hitler (si veda R.A. Graham, Il piano straordinario di Hitler per distruggere la Chiesa, da «La Civiltà Cattolica» a. 146, vol. I, pp. 544-552).

L’accusa rivolta a papa Pio XII è quella di non aver fermato l’Olocausto denunciando pubblicamente le atrocità del nazismo; tuttavia, come hanno notato già in passato alcuni studiosi, se il Papa non aveva il potere di salvare i suoi stessi sacerdoti dalla ferocia nazista, che possibilità poteva avere di fermare il genocidio degli ebrei?

Mattia Ferrari

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13/12/2018 23:27
 
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I cattolici tedeschi frenarono l’ascesa del partito nazista



HitlerDue ricercatori hanno analizzato come il cattolicesimo frenò l’ascesa elettorale del partito nazista durante la Repubblica di Weimar.


«Chi vota Hitler dovrà giustificarlo il giorno del giudizio finale. Non c’è peccato peggiore che votarlo!», dichiarò in un’occasione il parroco di Waldsee, in Renania (Germania). Tra il 1928 e il 1933, anno della nomina di Hitler alla cancelleria, l’NSDAP passò dal 2,6% al 43,9% dei voti nelle elezioni legislative tedesche, ma rimase comparativamente più debole nelle regioni a maggioranza cattolica.


È la conclusione dell’ampio studio pubblicato a febbraio da due ricercatori di economia politica, Jörg L. Spenkuch(Northwestern University) e Philipp Tillmann (Università di Chicago). I due ricercatori hanno voluto verificare se questo rifiuto sia dovuto al cattolicesimo in sé o al fatto che i cattolici tedeschi avessero un profilo economico e geografico diverso da quello di altre confessioni: c’erano più agricoltori ed erano più presenti a sud e lontano dalle grandi città.


Secondo il loro studio, intitolato “Religione, economia e ascesa del nazismo”, «la religione è il fattore di predizione più importante del voto nazista. Più concretamente, la composizione religiosa delle circoscrizioni spiega la variazione di poco più del 40% del risultato dell’NSDAP nell’ambito di una contea». A parità di condizioni, altre confessioni erano all’epoca almeno due volte e mezza più propense a votare per i nazisti, rispetto ai cattolici.


I ricercatori si sono concentrati, tra le altre cose, sull’atteggiamento della gerarchia cattolica, allora molto legata allo Zentrum, il partito di centro-destra cattolico. Quel partito assunse atteggiamenti chiaramente ostili ai nazisti, proibendo anche ai suoi membri di aderire al partito.

fonte UCCR


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11/01/2021 11:48
 
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Crolla la leggenda del Vaticano “disimpegnato” per salvare gli ebrei dai massacri dei nazisti. Un nuovo libro svela come sono andate le cose


Due Papi e un cardinale hanno contribuito a salvare gli ebrei dall’Olocausto. Cade definitivamente la “leggenda nera” del Vaticano che avrebbe coperto i crimini nazisti contro gli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale.


Nell’ultimo libro di Johan Icks Le Bureau. Le Juifs de Pie XII” (Il Bureau. I giudei di Pio XII), pubblicato in francese, e basato su documenti ufficiali, si evidenziano le 2800 richieste di intervento e aiuto al Vaticano che vanno dal 1938 al 1944. Coinvolti migliaia di ebrei.



Perché Ickx è così informato?

Ickx è da trenta anni a Roma, e da dieci a capo dell’Archivio della Seconda Sezione della Segreteria di Stato vaticana. È stato responsabile dell’enorme lavoro di digitalizzare e mettere a disposizione degli studiosi gli archivi del periodo del pontificato di Pio XII, aperti lo scorso marzo.



FR HUGH O'FLAHERTY

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Gli sforzi di Papa Pio XII

Spiega Ickx, che «gli sforzi e le intenzioni» del Vaticano erano «volti a salvare ogni singolo essere umano», durante l’Olocausto, «a prescindere dal colore e dal credo». Non solo cattolici, ma anche ebrei e persone appartenenti ad altre minoranze religiose.

A leggere le carte dipanate da Ickx, scrive Aci Stampa (7 gennaio), si scopre che in quegli anni Papa Pio XII era perfettamente informato nei territori ad Est, proprio come lo erano gli inglesi e gli americani. Anzi, fu proprio Myron Tylor, rappresentante del presidente Roosevelt presso la Santa Sede, a portare all’attenzione della Segreteria di Stato una informativa su quello che stava accadendo.

Public Domain

Una “condotta diplomatica”

Allo stesso tempo, la Santa Sede doveva prestare attenzione a non essere usata da nessuna delle forze in guerra, a mantenere una sua imparzialità. Era una condotta diplomatica prudente, non un silenzio, tanto che nel suo messaggio di Natale del 1942, Pio XII denunciò la situazione in termini certamente cauti, ma sufficientemente chiari da non lasciare spazio ad ambiguità.

Pio XII decise di non intervenire direttamente per non compromettere né vite umane ne azioni umanitarie portate avanti dalla Santa Sede.




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L’unico al mondo

Scrive Ickx: «Per quanto ne so, sempre molto limitatamente, la segreteria di Stato del Vaticano era l’unico ministero degli Esteri al mondo con un ufficio apposito e una completa rete internazionale destinata al soccorso delle persone perseguitate durante la Seconda guerra mondiale. Oggi, la serie Ebrei ne è la dimostrazione».

ILE GETT STWORZYLI NIEMCY
Wikipedia | Domena publiczna

 

Transport zwłok w getcie warszawskim.

Le cifre degli ebrei protetti

Ne sono la dimostrazione, prosegue Aci Stampa, anche le cifre già a disposizione. Secondo cui dei supposti 9.975 ebrei presenti a Roma nel giorno della Liberazione al termine della Seconda Guerra Mondiale, 6.381 erano stati aiutati e protetti da Pio XII, le istituzioni vaticane e il Vicariato. E così sono scampati all’Olocausto.

Come lo dimostra anche il lavoro della Rome Escape Line, la via di fuga guidata da padre Hugh O’Flaherty, religioso irlandese che sempre sfuggì alla Gestapo.

FR HUGH O'FLAHERTY
Courtesy of Hugh O'Flaherty Memorial Society

 

Non vi sfuggì, invece, Anselmus Muster, agostiniano, che fu prelevato dai nazisti in spregio ad ogni extraterritorialità vaticana nella Basilica di Santa Maria Maggiore, dove si era rifugiato, e fu torturato, ma mai tradì i compagni. La sua storia, il modo in cui la Santa Sede dovette affrontare la situazione dal punto di vista diplomatico, sono una delle parti più interessanti del libro di Ickx.




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Un altro Papa e un cardinale

Anche altri importanti personaggi del Vaticano hanno aiutato ebrei a scampare al massacro durante l’Olocausto. Angelo Giuseppe Roncalli, allora amministratore del Vicariato Apostolico di Istanbul e futuro Papa Giovanni XXIII, fu coinvolto in alcune operazioni di salvataggio di ebrei. Il Cardinale Aloizije Stepinac, beato, anche lui come Pio XII vittima di una leggenda nera, si spende a Roma per evitare che gli ebrei siano discriminati, e riesce solo ad evitare che gli ebrei convertiti non siano costretti a portare la stella gialla.

© Patriarcado de Venecia

Storie da contestualizzare

Tutte le storie del libro di Ickx vanno contestualizzate, come la prudenza del Vaticano alle prime segnalazioni dei campi di concentramento ad Est, che una polemica recente ha voluto spacciare per pregiudizio antisemita. Vanno contestualizzate le scelte di Pio XII, che voleva prima di tutto salvare vite umane ed era consapevole del ruolo delicato che aveva la Santa Sede. Solo così si può dare una lettura nitida al libro di Ickx e agli interventi del Vaticano.


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27/01/2021 15:21
 
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Qualcuno sostiene che la Chiesa fosse stata responsabile degli orrori perpetrati dagli ustascia .

Ecco alcuni elementi importanti nell'inquadrare la questione:

L'arcivescovo di Zagabria Alojzije Viktor Stepinac, dello Stato Indipendente di Croazia (1941-1945) prese progressivamente le distanze dall'operato della dittatura fascista, condannandone in particolare l'intrinseco razzismo e violenza e le persecuzioni e conversioni forzate dei serbi al cattolicesimo. Nel Sinodo che Stepinac convocò dal 17 al 20 novembre 1941 i vescovi espressero la propria disapprovazione ad Ante Pavelić nella quale, pur dissociando la sua responsabilità dai suoi sottoposti “irresponsabili”, condannarono le conversioni forzate dei serbi e le atrocità degli ustascia chiedendo inoltre che i diritti della Chiesa Ortodossa andassero rispettati e che gli ebrei fossero trattati nel modo “più umanamente possibile, considerata la presenza delle truppe tedesche”. Pio XII informato sulle decisioni del Sinodo lodò il “coraggio e la decisione” dei vescovi nell'opporsi agli ustascia per il trattamento contro i serbi. Lo storico Michael Phayer in base ai propri studi è arrivato a questa conclusione "Nessun capo di una chiesa nazionale parlò del genocidio in modo così evidente come fece Stepinac. Le sue parole furono coraggiose e di principio".


La nascita del regime
La Chiesa cattolica, con a capo monsignor Alojzije Stepinac, arcivescovo di Zagabria, inizialmente si pronunciò a favore del nuovo Stato, il che contribuì a formare un favore popolare generalizzato. Stepinac si rallegrò con il maresciallo Slavko Kvaternik per la proclamazione dello Stato e quando, il 13 aprile 1941, Ante Pavelić entrò a Zagabria in camicia nera, scortato da mezzi corazzati italiani, l'arcivescovo si recò da lui il giorno successivo per porgergli felicitazioni e partecipare a un brindisi in suo onore. Il 15 aprile Stepinac comunicò nella cattedrale di Zagabria la fondazione dello Stato Indipendente di Croazia, formulando i migliori auguri per il suo avvenire. Però sarebbe sbagliato leggere in questi gesti un ingenuo entusiasmo. Il 16 aprile nel suo Diario è annotato: «[...] l'arcivescovo ha ricavato l'impressione che il Poglavnik sia un cattolico sincero e che la Chiesa avrà la libertà nelle sue azioni, anche se l'arcivescovo non si illude che tutto ciò possa avvenire senza difficoltà».[3]

Altro esempio del sostegno cattolico al nascente regime è un articolo, pubblicato il 10 aprile 1942 dal giornale Vrhbosna, firmato dal reverendo Dragutin Kramber, segretario dell'arcivescovo di Sarajevo Ivan Šarić: “[Possiamo] affermare, senza tema di essere smentiti, che noi sacerdoti cattolici croati ci siamo trovati, nella stragrande maggioranza, fin dall'inizio, dalla parte di quegli uomini che hanno preparato l'avvento della Croazia indipendente. Questo Stato è una nostra creatura”.

Questi fatti risultano dai giornali del tempo, così come dal diario di Stepinac emerge il suo interessamento perché lo Stato Indipendente di Croazia fosse riconosciuta dal Vaticano e venissero stabiliti regolari rapporti diplomatici. Alla richiesta di Stepinac, seguita da quella di Pavelić, la Santa Sede rispose in modo interlocutorio, ma riconobbe di fatto Stato e governo croati, sia assicurando la presenza di un proprio delegato a Zagabria, monsignor Ramiro Marcone, con il compito di rappresentarla e, secondo Gino Bambara, di assicurare conversioni forzate dei serbi alla religione cattolica[Si afferma che la Santa Sede fu a favore di conversioni forzate?], sia, soprattutto, nello stabilire buoni rapporti negli affari correnti, utili per una presenza politica concreta, in attesa del riconoscimento ufficiale qualora le forze dell'Asse avessero vinto la guerra.[4] Il giornale “Katolički List” – che fa capo all'arcivescovo di Zagabria monsignor Stepinac – nel n° 41 del 7 giugno 1941 pubblica un articolo intitolato “Lo Stato Indipendente Croato”, firmato dal canonico Janko Penić (redattore del periodico), nel quale si inneggia al dittatore ustascia Pavelić: “Il Poglavnik ha restituito alla Chiesa cattolica la sua antica, tradizionale autorità divina, che nella vecchia Jugoslavia aveva gravemente sofferto. Il Poglavnik dedica grande attenzione alla fede e ai miracoli”.

Il 28 aprile 1941, il giorno stesso in cui 250 serbi vennero massacrati a Bjelovar (episodio che si conobbe ovviamente solo in seguito e che non aveva nessuna relazione con quanto espresso quel giorno nelle chiese croate) fu letta da tutti i pulpiti cattolici una lettera pastorale di Stepinac che richiamava il clero e i fedeli a collaborare all'opera del Poglavnik. Stepinac raccomandava ai preti di pregare “affinché sul Poglavnik dello Stato della Croazia scenda lo spirito della saggezza in modo da permettergli di adempiere un così alto dovere per l'onore di Dio e la salvezza del popolo; e affinché la nazione croata divenga la nazione divina, fedele a Cristo e alla sua Chiesa costruita sulla tomba di Pietro”. Stepinac sarebbe rimasto fedele allo Stato croato indipendente, anche se col tempo diventò sempre più critico nei confronti delle azioni attribuite ai suoi feroci sostenitori.[5] Un esempio dell'atteggiamento reale di Stepinac verso episodi simili lo si può comprendere con un fatto che avvenne pochi mesi dopo. Il 14 maggio 1941, dopo aver avuto notizia del massacro effettuato dagli ustascia a Glina che provocò la morte di 260 serbi, inviò immediatamente una lettera di protesta a Pavelić, in cui scrisse: «Io so bene che i serbi hanno commesso gravi misfatti in questi venti anni di governo. Credo però mio dovere di Vescovo di alzare la mia voce e dichiarare che questo non è lecito secondo la morale cattolica; quindi, Vi prego di prendere le misure più urgenti in tutto il territorio dello Stato Indipendente di Croazia, affinché non venga ucciso nemmeno un serbo se non sia dimostrato il delitto per il quale merita la morte. Altrimenti non possiamo attendere la benedizione del Cielo, senza la quale dobbiamo soccombere»[6]. Innumerevoli furono gli interventi a favore dei serbi. Uno dei primi fu quello per il vescovo ortodosso Dositej Vasich, che era stato arrestato dagli ustascia e venne liberato a seguito dell'intervento di Stepinac. Il 16 maggio protestò contro la deportazione della popolazione serba di Kordun e si interessò della sorte dei deportati del distretto di Sisak. Il 21 luglio protestò contro il trattamento disumano riservato agli internati dei campi di concentramento e nello stesso mese riuscì a salvare 300 donne serbe catturate dagli ustascia e destinate a morte sicura. Un dato può essere significativo della grande opera di carità che svolse Stepinac durante la guerra: tra il 1942 e il 1944, l'arcivescovo riuscì a salvare, facendoli ospitare in istituti religiosi o presso famiglie di Zagabria, 6.717 bambini, di cui circa 6.000 di famiglie ortodosse e partigiane, rimasti abbandonati dopo la battaglia di Kozara del 1942. I bambini arrivarono a essere circa 14.000 quando, nel 1943, se ne aggiunsero 3.000 e altri 5.000 dai campi di concentramento in Dalmazia.[7]

Dal 17 al 20 novembre 1941 i vescovi croati vennero convocati in Sinodo dall'arcivescovo Stepinac ed emanarono un duro documento ufficiale, approvato da Roma, che richiamava Pavelić, condannando le conversioni forzate dei serbi e le atrocità degli ustascia. Si chiedeva inoltre il rispetto della Chiesa ortodossa e degli ebrei, affinché fossero trattati il “più umanamente possibile”.[8]

Il Ministro dell'istruzione del governo ustascia Julije Makanec, testimonia nel suo articolo “Chiamati e non chiamati” in Hrvatski Narod del 7 novembre, l'ambiguità del rapporto fra il regime e la Chiesa e la crescente ostilità di quest'ultima verso gli ustascia. Nell'omelia dell'ottobre 1943, l'arcivescovo Stepinac aveva condannato la crudeltà dei metodi usati e la dottrina razziale del regime. Per Makanec quelle parole rappresentavano una pugnalata nella schiena e invitava l'arcivescovo ad occuparsi di cose ecclesiali.[9] A causa dei ripetuti interventi dell'arcivescovo a favore dei perseguitati dal regime, i dirigenti ustascia giunsero a richiedere più volte al Vaticano l'allontanamento di Stepinac.[10]

Le omelie contro il razzismo
Il 25 novembre 1942 il cardinale Stepinac pronunciava un'omelia in cui condannava senz'appello il razzismo, dottrina fondamentale del governo ustascia.[11]

«La seconda cosa che affermiamo è che tutti i popoli e le razze vengono da Dio. In realtà esiste una sola razza, e questa è la razza di Dio.»

E ancora giunge ad un'aperta critica delle violenze e dei soprusi in questo significativo passaggio della stessa omelia:

«Ogni popolo ed ogni razza, quale oggi si sviluppa sulla terra, ha il diritto ad una vita degna di uomo, ed è necessario avere verso di loro un modo di fare da uomo degno. Tutti sono senza differenza, appartenenti alla razza zingara o a qualsiasi altra, neri o europei affamati, ebrei dalla pelle olivastra o nobili ariani, tutti hanno diritto a dire: “Padre Nostro che sei nei cieli“. E dal momento che Dio ha dato a tutti tale diritto, quale potenza umana può negarla loro? [...] Per questo motivo la Chiesa cattolica ha sempre condannato, e anche oggi condanna, ogni ingiustizia e violenza che si compie in nome delle teorie di classe, di razza e di appartenenza ad un popolo, perché è una cosa simile alla lotta di classe che ha compiuto il bolscevismo. Non si possono cancellare dalla faccia della terra ebrei e zingari, e ciò per il fatto perché li si considera una razza inferiore.»

Il 31 ottobre 1943, a conclusione della grande processione penitenziale, l'arcivescovo Stepinac torna a gran voce a prendere le distanze in modo molto netto dal regime.

«Noi non desideriamo essere le tromba politica che con la propria voce favorisce i desideri del momento e i bisogni di singoli partiti o singoli. Abbiamo sempre sottolineato anche nella vita pubblica i principi dell'eterna legge di Dio, che vale senza differenze per croati, serbi, ebrei, zingari, cattolici, musulmani, ortodossi o per qualsiasi altro. Ma non possiamo chiamare alla ribellione né obbligare fisicamente qualcuno ad attuare queste leggi di Dio [...]»

Quindi critica apertamente il razzismo:

«Risponderemo anche a coloro che ci accusano di essere stati d’accordo con il razzismo, perché, come vedete, nelle teste di qualcuno la Chiesa cattolica è colpevole di tutto. Abbiamo preso posizione sul razzismo fin da quando il razzismo esiste, e non certo solo oggi.»

E condanna
«tutte le ingiustizie, tutte le uccisioni di innocenti, tutte le distruzioni di tranquilli villaggi»

giungendo a minacciare il castigo divino:
«E si ingannerebbe gravemente chi pensasse che non vi sono sanzioni per i trasgressori. Tutto questo terribile caos che il mondo sta vivendo, non è altro che una punizione di Dio per l’infrazione dei comandamenti di Dio, per il disprezzo del Vangelo di Cristo. E se l’umanità non vorrà riconoscere l’autorità di Dio su di essa, è del tutto certo che la destra di Dio colpirà ancora più pesantemente.»

Alla fine del mese di aprile del 1942 Stepinac si recò a Roma dove ebbe un'udienza di un'ora con Pio XII per discutere degli eventi in Croazia. [...] Subito dopo l'udienza papale, Stepinac attaccò pubblicamente gli ustascia per le loro violenze:[12]
«Tutte le razze e tutte le nazioni sono state create a immagine di Dio... di conseguenza, come ha sempre fatto in passato e come continua ancora a fare, La Chiesa critica qualsiasi atto di violenza commesso in nome della classe, della razza o della nazionalità. Non è lecito sterminare zingari ed ebrei perché apparterrebbero a una razza inferiore.»

L'editore ebreo jugoslavo Slavko Goldstein calcola che Stepinac sia riuscito a salvare poco più di cinquecento persone tra israeliti e serbi e spiega il suo atteggiamento di fronte al regime con una lucida analisi: "Si impegnava, e proclamava dal pulpito il suo no al razzismo, ma senza mai condannare direttamente il regime fascista e il suo Duce. Perché gli ustascia restavano parte integrante del suo gregge, e il loro Stato cattolico era giunto come evento provvidenziale. Al contrario, i partigiani comunisti e scismatici incarnavano l'Anticristo".[senza fonte]

Vennero inviate dalla curia, guidata da Stepinac, contro le leggi e le disposizioni antiebraiche istituite dal regime tra la primavera e l'estate del 1941, diverse lettere di protesta sia al ministro degli interni Andrija Artuković sia allo stesso Pavelić, ottenendo l'abrogazione della norma che imponeva agli ebrei, convertiti o meno, di indossare sul braccio una fascia gialla con la stella di Davide e il divieto di entrare nei luoghi pubblici. Di fronte a ulteriori rastrellamenti che furono effettuati nel 1943, e sapendo che erano soprattutto le autorità tedesche a spingere in questa direzione, scrisse nuovamente al capo del governo croato: «Se c'è di mezzo qualche autorità estera che si immischia nei nostri affari interni, io non ho paura che questa parola di protesta sia portata a sua conoscenza. La Chiesa cattolica non teme davanti a nessun potere terreno, quando si tratta di difendere i più elementari diritti dell'uomo...». Tantissimi furono anche gli aiuti concreti che prestò alle persone appartenenti alla comunità ebraica, attestate dagli stessi ebrei. Ad esempio il delegato in Turchia della commissione per l'aiuto agli ebrei europei, Weltmann, scrisse nel giugno del 1943 al delegato apostolico a Istanbul Angelo Roncalli: «Noi sappiamo che mons. Stepinac ha fatto tutto il possibile per alleviare la sorte infelice degli ebrei in Croazia».[13]

Alcuni autori accusano Stepinac di antisemitismo per un rapporto inviato dal primate alla segreteria di Stato vaticana nel maggio 1943, in cui attribuisce a ebrei e ortodossi le maggiori responsabilità della pratica dell'aborto e delle pubblicazioni pornografiche.

«Il governo croato lotta energicamente contro l'aborto che è principalmente suggerito da medici ebrei e ortodossi; ha proibito severamente tutte le pubblicazioni pornografiche, che erano anch'esse dirette da ebrei e serbi. Ha abolito la massoneria e fatto una guerra accanita al comunismo. Eminenza, se la reazione dei croati è a volte crudele, noi la condanniamo e deploriamo, ma è fuor di dubbio che questa reazione è stata provocata dai serbi"»

([14])
Cattolici che collaborarono ai massacri
Il “Glasnik sv. Ante”, (Messaggero di sant'Antonio) di Sarajevo, nel numero 5-6 del giugno 1941 fa un'aperta dichiarazione di antisemitismo: “In Croazia vi sono oltre 30.000 ebrei. Nella zona di Zagabria ve ne sono 12.000... nelle nostre regioni più povere (Lika, Erzegovina, Gorski Kotar, Morlacca e le altre isole dalmate) non vi è nessun ebreo, poiché là essi non hanno occasioni di rubare. Il Poglavnik ha dichiarato che la questione ebraica sarà radicalmente risolta”.[senza fonte]

Non pochi preti, ma soprattutto frati francescani furono protagonisti diretti dei massacri, come ampiamente dimostrato da documenti e testimonianze. Il più tremendo dei campi di sterminio, quello di Jasenovac (definito dal vescovo Stepinac “una vergognosa macchia per lo Stato Indipendente di Croazia”[15]), fu diretto per quattro mesi, nell'autunno-inverno 1942-1943, dal francescano Miroslav Filipović Majstorović che, in precedenza, assieme ad altri monaci e a un prete, aveva organizzato massacri della popolazione ortodossa in alcuni villaggi serbi. È storicamente dimostrato che questo frate non soltanto diresse la liquidazione di oltre 40.000 persone, ma in non pochi casi provvide addirittura personalmente alle uccisioni.[16] Si noti però che Filipović era già stato sospeso a divinis ed escluso dall'ordine francescano.

Molti sacerdoti e persino alcuni vescovi scelsero di collaborare con Pavelić. Vi erano addirittura preti che prestavano servizio come guardie del corpo del dittatore. Ivan Guberina, capo dell'Azione Cattolica, era fra questi. Un altro prete, Mate Mugos, scrisse su un giornale che in precedenza lo strumento di lavoro del clero era stato il libro delle preghiere, ma ora era giunto il momento di usare il revolver.[senza fonte]

Dyonisy Juricev, sacerdote antisemita, scrisse nel giornale Novi List che non era più peccato uccidere un bambino che avesse compiuto sette anni.[17]

Fra i vescovi sostenitori di Pavelić spicca Ivan Šarić. Nel pieno del terrore iniziale contro gli ebrei, il giornale della sua diocesi riportò il messaggio: "C'è un limite all'amore. Il movimento mondiale di liberazione dagli ebrei è un movimento per il rinnovamento della dignità umana. Dietro il movimento c'è Dio onnisciente e onnipotente". Šarić fu anche accusato dell'appropriazione di beni di ebrei a scopo personale.[18]

Cattolici che si opposero al regime
Il parroco della chiesa di san Pietro a Zagabria fu condannato a morte da Pavelić ed ebbe poi salva la vita per l'intervento di Stepinac di cui era stato "padre spirituale".[19]

Il vescovo di Mostar Alojzije Mišić denunciò al cardinal Stepinac le violenze degli ustascia, in quanto rendevano difficile una spontanea conversione degli ortodossi al cattolicesimo.[19]

Cattolici che contribuirono alla salvezza degli ebrei
Il reverendo Dragutin Jesih, da Scitarjevo vicino a Zagabria, fu ucciso durante la Seconda guerra mondiale. Gli ebrei salvati da lui gli erano stati mandati per lo più dall'arcivescovo Alojzije Stepinac. Riuscì a salvarli anche grazie all'aiuto dei contadini locali. Gli è stato riconosciuto il titolo di giusto fra le nazioni.[20] Il rabbino Freiberger, il 4 agosto 1942 inviò al Papa una lettera nella quale esprimeva la sua più profonda gratitudine per l'opera di soccorso e aiuto attuata da tanti cattolici verso gli ebrei e in particolare da parte dell'arcivescovo Stepinac e dalla Chiesa croata. «Pieno di rispetto — scriveva — oso comparire dinanzi al trono di Vostra Santità per esprimervi come Gran Rabbino di Zagabria e capo spirituale degli ebrei di Croazia la mia gratitudine più profonda e quella della mia congregazione per la bontà senza limiti che hanno mostrato i rappresentanti della Santa Sede e i capi della chiesa verso i nostri poveri fratelli».[21]

Note
^ M. Phayer, Il papa e il diavolo, Roma, 2008, pp. 51-57
^ Sabrina P. Ramet, The three Yugoslavias: state-building and legitimation, 1918-2005, 2006, p. 127.
^ Il Card. Stepinac eroe e martire dimenticato Archiviato il 27 settembre 2007 in Internet Archive. da "Studi Cattolici", n. 531, Maggio 2005
^ Gino Bambara, La guerra di liberazione nazionale in Jugoslavia (1941-1943), Mursia, Milano, 1988, pp. 41-42.
^ Michael Burleigh, In nome di Dio. Religione, politica e totalitarismo da Hitler ad Al Qaeda, Rizzoli, Milano, 2007, p. 304; John Cornwell, Il papa di Hitler, Garzanti, Milano, 2000, p. 368.
^ Archivio della Postulazione per la canonizzazione del cardinale Luigi Stepinac, arcivescovo di Zagabria, Positio, vol. III, p.556
^ "Studi Cattolici", n. 531, Maggio 2005, pp. 365-368
^ "Studi Cattolici", n. 531, Maggio 2005, pp 364-369
^ Aleksa Benigar, "Stepinac", p. 416
^ Andrea Riccardi, Il secolo del martirio, Milano, 2000, p. 141.
^ Le citazioni delle omelie sono tratte da "Stepinac" di Aleksa Benigar, traduzione di Guido Villa, pp. 409-416
^ Michael Burleigh, In nome di Dio. Religione, politica e totalitarismo da Hitler ad Al Qaeda, Rizzoli, Milano, 2007, p. 309.
^ In Actes et doents du Saint Siege relatifs à la seconde guerre mondiale, 8, n. 441, p. 611 e 9, n. 226, p. 337.
^ Daniel Jonah Goldhagen, Una questione morale. La Chiesa cattolica e l'Olocausto, Mondadori, Milano, 2003, p. 104; Menachem Shelah in Remembering for the future. Working papers and Addenda, Pergamon Press, Oxford, 1989, pp. 270-276
^ In croato: sramotna ljaga za Nezavisnu Državu Hrvatsku. Cfr. Aleksa Benigar, "Stepinac" , p. 386
^ Gino Bambara, La guerra di liberazione nazionale in Jugoslavia (1941-1943), Mursia, Milano, 1988, p. 42.
^ Michael Phayer, La Chiesa Cattolica e l'Olocausto, Roma, Newton & Compton, 2001, p. 52; Stella Alexander, The tryple myth: a life of archbishop Alojzije Stepinac, East European Monographs, Boulder, 1987, pp. 76-79
^ Michael Phayer, La Chiesa Cattolica e l'Olocausto, Roma, Newton & Compton, 2001, pp. 51-52
Intervista a Marco Aurelio Rivelli
^ Stepinac e come furono messi in salvo gli ebrei in Croazia durante la seconda guerra mondiale lungo articolo di Darko Zubrinic con relativa documentazione del suo contributo alla messa in salvo degli ebrei di Croazia
^ Giovanni Preziosi, Missione in Croazia per conto di Pio XII, Osservatore Romano, 10 agosto 20
[Modificato da Credente 27/01/2021 15:31]
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03/02/2021 15:27
 
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Com’era la vita religiosa dei cattolici ad Auschwitz?


AUSCHWITZ


@AuschwitzMuseum






Esteban Pittaro - pubblicato il 28/01/21





Il sacrificio dei cattolici di Auschwitz dalle reti sociali: il ricordo di centinaia di migliaia di vittime e sopravvissuti al suo orrore


Le reti sociali del Museo di Auschwitz riescono a offrire un ricordo permanente pieno di senso e di vita anche da quello che è stato l’epicentro di una delle più grandi tragedie dell’umanità.


Non si tratta di canali di un Museo dedicati solo all’itinerario attuale con cui si vuole perpetuare la memoria del campo di concentramento, ma del ricordo di centinaia di migliaia di vittime e sopravvissuti al suo orrore. Il tutto attraverso un archivio fotografico e documentale eccezionale, liberamente condiviso. Le reti sociali del Museo de Auschwitz sono in sé un museo gratuito permanente e aperto h 24.


COMMUNION
@AuschwitzMuseum

Ogni volto ha un nome e un cognome


Ogni volto presentato su Twitter o Facebook dal Museo ha un nome, un cognome e una biografia, nonché un registro che va ben al di là della fotografia protocollare scattata dai nazisti all’ingresso nel campo.



 


Marion Elrich, ad esempio, avrebbe compiuto gli anni il 27 gennaio. Nata a Berlino nel 1928, venne trasferita nel novembre 1942 ad Auschwitz. Appartiene al milione di ebrei assassinati nel campo, e il Museo la ricorda con una fotografia della sua allegra giovinezza.



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11/03/2021 22:25
 
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Il comunismo uccise 20 milioni di cristiani,



ateismo di stato Secondo uno studio del matematico russo Nikolay Yemelyanov, docente alla Università Ortodossa San Tichon, nei sette anni di potere leninista -dalla rivoluzione russa del 1917 fino alla morte di Lenin nel 1924-, circa 25mila sacerdoti ortodossi furono imprigionati e 16mila vennero uccisi, in quanto cristiani.


Lo stesso è accaduto ai preti cattolici, molto meno numerosi e il cui caso è meno studiato. Lo ha citato nel suo libro lo scrittore laico britannico Martin Louis Amis, che ha anche raccolto alcune frasi significative del dittatore Vladimir Lenin: «Ogni idea religiosa, ogni idea di Dio è un’abiezione indescrivibile delle specie più pericolose, un’epidemia delle specie più abominevoli. Ci sono milioni di peccati, atti di violenza e contagi fisici che sono meno pericolosi della sottile e spirituale idea di Dio» (citato in M. Amis, Koba il terribile, Einaudi 2003).


Proprio in questi giorni si ricorda la Rivoluzione russa, l’evento che portò i bolscevici al potere nell’Unione Sovietica (23-27 febbraio 1917, Lenin prenderà il potere nell’ottobre dello stesso anno). Lo sterminio dei credenti proseguì anche dopo la morte di Lenin: secondo il prof. Todd M. Johnson, docente di Global Christianity e direttore del Center for the Study of Global Christianity presso il Gordon-Conwell Theological Seminary, il numero delle vittime cristiane che trovarono la morte sotto al regime ateo-marxista furono 20 milioni (15 milioni tra il 1921 e il 1950 e 5 milioni tra il 1950 e il 1980). Dati che trovano conferma anche in altri studi. Senza contare, ovviamente, i numeri dei torturati e degli incarcerati per il solo fatto di professare la fede in Dio ed essere, dunque, automaticamente nemici dello Stato.


Anche per questo lo storico Fulvio De Giorgi, docente all’Università di Modena e Reggio Emilia, ha dichiarato: «Il comunismo era una religione secolare, senza senza Dio: una tragica religione atea. Ha avuto una “fede religiosa” (rovesciata), politica e intra- umana, con un’escatologia profana: un millenarismo storico. Purtroppo questa fede nella possibile perfezione terrena era in realtà disumana e, mancando della vera speranza escatologica trascendente, doveva vedere come nemici e odiare tutti coloro che non si adeguavano ai suoi schemi para-teologici. Così, quello che doveva essere il paradiso in terra fu, nella realtà, un inferno orribile, una dittatura fatta di gulag, deportazioni, soppressioni di massa, inquadramento da caserma». Giorgio La Pira, ha continuato lo storico italiano, «diceva ai sovietici: tagliate dal grande albero del socialismo il ramo secco dell’ateismo (marxista). Non fu ascoltato e parve un ingenuo utopista. Ma poi il comunismo sovietico è crollato, con infamia. Mentre di La Pira si parla ancora, con rispetto e positivo interesse».


Purtroppo anche Antonio Gramsci continua ad essere guardato con assoluto rispetto, seppur si sappia che -come è stato scritto giustamente pochi giorni fa- «fu a lungo fan dei bolscevichi, della violenza rivoluzionaria, dei campi di lavoro e del repulisti sociale. Lenin era un Grand’Uomo, il Padre dei Popoli e il Grande Timoniere che aveva forzato gli eventi storici con un colpo di mano».


Davanti a tutto questo stupisce che lo scrittore belga Pieter Aspe abbia recentemente paragonato il terrorismo islamico a «quanto accadeva nel Medioevo, quando erano i cristiani con l’Inquisizione ad uccidere donne e infedeli, imporre la loro fede. Oggi sono gli estremisti musulmani a farlo». A parte l’ignoranza storica, dato che l’Inquisizione fu prettamente rinascimentale e promossa particolarmente dalla confessione protestante e non cattolica -come spiegato dalla storica Marina Montesano e dallo storico Franco Cardini-, la prof.ssa Anne J. Schutte, docente all’University of Virginia ha inoltre spiegato con validi argomenti che il sistema inquisitoriale «ha offerto la migliore giustizia criminale possibile nell’Europa dell’età Moderna» (A.J. Schutte, Aspiring Saints, Johns Hopkins University Press 2001), il tutto confermato dallo studio di Christopher Black dell’Università di Glasgow, autore di Storia dell’Inquisizione in Italia. Tribunali, eretici, censura (Carocci 2013). Rispetto ai numeri dei condannati dall’Inquisizione, tutti gli storici parlano di poche migliaia di casi, tra essi stupratori, pedofili e rei di omicidio.


Il paragone tra terrorismo moderno (e antico) islamico e l’Inquisizione è dunque storicamente insostenibile e folle, seppur questo non significhi negare che spesso nella storia della Chiesa vi siano stati tragici errori che, seppur contestualizzati e ridimensionati per correttezza storica, rimangono grosse colpe umane. Ma, come ha spiegato Benedetto XVI, «è assolutamente chiaro che questo è stato un utilizzo abusivo della fede cristiana, in evidente contrasto con la sua vera natura».


Michael R. Licona, teologo dell’Houston Baptist University, ha scritto«Vale la pena notare che c’è una grande differenza tra Stalin e un criminale cristiano. Quest’ultimo ha agito in contrasto con gli insegnamenti di Gesù, mentre non si può dire che Stalin abbia agito in contrasto con gli insegnamenti dell’ateismo dal momento che l’ateismo non ha intrinseci insegnamenti morali. Stalin non ha agito in modo incompatibile con le credenze atee, mentre un criminale cristiano agisce sempre in contrasto con gli insegnamenti di Gesù»L’imbarazzo con cui il mondo ateista e anticlericale dimentica puntualmente l’inquisizione atea sovietica -che ha causato morti e sofferenze immensamente superiori a quelli attribuiti all’Inquisizione-, sembra forse suggerire che il prof. Licona non abbia tutti i torti.

fonte UCCR


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21/05/2021 08:51
 
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Il martirio dei cattolici nei lager nazisti

Nella sua lucida e diabolica follia Adolf Hitler non voleva solo lo sterminio degli ebrei, degli omosessuali, degli zingari, dei malati di mente. Voleva la distruzione di quanti si opponevano e combattevano il nazifascismo. Voleva distruggerela Chiesa cattolica, invadere il Vaticano, sequestrare e deportare Pio XII, uccidere cardinali,  vescovi e preti. Nei campi di sterminio, ai ministri di culto, specie cattolici, si riservano le più raffinate umiliazioni con sadismo tutto nazista. A Dachau a un prete cattolico tedesco un aguzzino delle SS mette la corona del rosario sulla testa, con la croce pendente sulla fronte e, a pugni e calci, gli fa girare il campo urlando: «È arrivato final­mente il primo maiale di prete. Poi arriverà anche il gran prete di Roma e allora la truffa cattolica finirà una volta per tutte».

Il «giorno della memoria» viene celebrato il 27 gennaio di ogni anno per commemorare le vittime dell’Olocausto degli ebrei: è il giorno della liberazione del campo di concentramento di Auschwitz, avvenuta 70 anni fa, il 27 gennaio 1945, a opera delle truppe sovietiche dell’Armata Rossa.

Centinaia i sacerdoti cattolici uccisi dai nazisti, dai fascisti o dai loro alleati in Europa: in Germania 164 preti diocesani e 60 religiosi tedeschi; nella Francia del   regime-fantoccio di Vichy del maresciallo Philippe Pétain. In Polonia una vera «mattanza» di preti: 3 mila, di cui 1.992 nei campi di concentramento e 787 a Dachau. In Germania il giovane gesuita Alfred Delp è ucciso perché accusato di complicità nel fallito attentato contro Hitler. Padre Tito Brandsma, carmelitano olandese, beato dal 1985, è deportato e ucciso a Dachau per la sua opposizione al nazismo e per la sua strenua difesa della libertà religiosa. Il francescano polacco Massimilano Kolbe, santo dal 1982, è martire della fede e della carità

Secondo il «Martirologio del clero italiano 1940-1946», pubblicato dall’Azione Cattolica nel 1953, ben 729 ecclesiastici sono uccisi «in odium fidei» dai fascisti e poi comunisti, da don Giovanni Minzioni massacrato dai fascisti a Ravenna nel 1923 a don Umberto Pessina assassinato dai comunisti nel giugno 1946, al 33enne don Giuseppe Rossi assassinato dai fascisti sulle montagne del Novarese.

Prima dell’8 settembre 1943 muoiono 422 preti, cappellani militari e periti sotto i bombardamenti alleati; 191 morti nella Resistenza: 158 trucidati dai tedeschi e 33 dai repubblichini. Ben 108 vittime dei partigiani comunisti, specie nell’Emilia rossa: 53 durantela Resistenza, 14 prima della Liberazione; 41 dopo. Stare al fronte è meno pericoloso che rimanere all’ombra del campanile. Dei 408 preti morti violentemente, 238 sono parroci, 41 viceparroci, 129 seminaristi, novizi e religiosi laici..

In Italia molti preti sono uccisi perché si oppongono all’infame regime fascista, cercano di proteggere il popolo, nascondono e salvano ebrei, avversari politici, aviatori inglesi e americani. Il toscano don Aldo Mei è arrestato e fucilato per aver dato rifugio a un giovane ebreo: «Muoio per un motivo di carità, per aver protetto e nascosto un carissimo giovane. Raccomando a tutti la carità».

Don Pietro Pappagallo di Roma è ucciso alle Fosse Ardeatine per aver dato rifugio a ebrei e ad altri perseguitati: riesce a liberare le mani e a benedire i compagni di sventura. A Monte Sole, sull’Appennino emiliano-­romagnolo, cinque sacerdoti immolati, tra cui don Ubaldo Marchioni, 25 anni, morto ai piedi dell’altare dopo aver distribuito l’Eucaristia. Il parroco don Giuseppe Bernardi e il vice don Mario Ghibaudo sono assassinati nella strage di Boves (Cuneo) perché cercano di proteggere i parrocchiani. Don Antonio Musumeci, parroco di Messina, chiede di risparmiare due anziani coniugi. Don Gino Cruschelli di Napoli è ucciso per aver preso le difese dei giovani rastrellati.

Il socialista Sandro Pertini, futuro presidente della Repubblica, testimonia su don Giuseppe Morosini: «Detenuto a Regina Coeli sotto i tedeschi, lo incontrai un mattino: usciva da un interrogatorio delle SS, il volto tumefatto grondava sangue, come Cristo dopo la flagellazione. Con le lacrime agli occhi gli espressi la mia solidarietà: egli si sforzò di sorridermi e le labbra gli sanguinarono. Nei suoi occhi brillava una luce viva. La luce della sua fede. Benedisse il plotone di esecuzione dicendo ad alta voce: “Dio, perdona loro: non sanno quello che fanno”, come Cristo sul Golgota”».

Quello di Dachau, a 16 km a nord-ovest di Monaco di Baviera, è il primo campo di concentramento, aperto appena un mese dopo la presa del potere di Hitler il 30 gennaio 1933. È un modello per tutti i lager, scuola di omicidio delle SS, «terrore senza pietà». Vi transitano attraverso la «porta dell'inferno» - sormontata da una grata in ferro battuto con la scritta «Arbeit mach frei. Il lavoro rende liberi» - 200 mila prigionieri: 41.500 vi muoiono e di loro non rimane neppure un mucchietto di cenere.

Nel «Blocco dei sacerdoti, il 26» dei 2.720 ministri di culto – di cui 2.579 sacerdoti cattolici – 1.034 muoiono, tra cui 868 polacchi. Il beato Michal Kozal, vescovo polacco, malato di tifo ucciso il 26 gennaio 1943 con un'iniezione letale: il suo corpo è incenerito nel forno crematorio; il beato Stefan Wincenty Frelichowski; il beato Stefan Grelewski, morto di fame; il beato Alojs Andritzki, ucciso con un’iniezione il 3 febbraio 1943; il beato Georg Häfner, morto di stenti; il beato Gerhard Hirschfelder, morto di fame e malattia; il beato Marian Konopinski. Il gesuita polacco Adam Kozlowiecki, poi missionario e cardinale, resiste dal gennaio 1940 alla liberazione il 29 aprile 1945. Singolare la storia del beato Karl Leisner: liberato il 4 maggio 1945, muore il 12 agosto di tubercolosi. Diacono, è ordinato sacerdote in gran segreto da Gabriel Piguet, vescovo  di Clermont-Ferrand.

Il libro «Religiosi nei lager. Dachau e l’esperienza italiana», a cura di Federico Cereja, raccoglie gli atti del convegno internazionale celebrato a Torino il 14 febbraio 1997. Da Dachau passano 2.796 preti: 1.808 polacchi, 333 tedeschi, 169 francesi, 159 cecoslovacchi, 101 austriaci, 64 olandesi, 46 belgi, 43 lituani, 29 italiani, 17 jugoslavi, e poi Lussemburgo, Romania, Grecia, Inghilterra, Norvegia, Albania, Svizzera, Spagna, Ungheria, Danimarca. In tutto i sacerdoti e i religiosi italiani nei lager sono stati 212.

A Dachau muore il domenicano albese appartenente alla diocesi di Torino Giuseppe Girotti, nato ad Alba il 19 luglio 1905, annoverato tra i giusti tra le nazioni per il suo aiuto agli ebrei nell’Olocausto, per i quali sacrifica la vita: deportato a Dachau muore  il giorno di Pasqua, 1º aprile 1945: beato dal 26 aprile 2014. Vi muoiono il trentino don Alessandro Mettigli (Trento) ucciso il 18 febbraio 1944 «per aiuto ai partigiani»; il genovese don Luigi Pinamonti «Azione Cattolica».

A Dachau finiscono: don Giovanni Fortin (Padova) «aiuto ai prigionieri di guerra»; padre Carlo Manziana, oratoriano di Brescia e futuro vescovo, «convince gli studenti a non combattere insieme ai tedeschi»; don Pietro Paternò (Enna) «contatti con i partigiani»; don Rodolfo Posch (Trento) «perché direttore del settimanale cattolico “Dolomiten”»; don Giacomo Bellotto (Udine) «collegamento con i partigiani»; don Ludovico Aldrighetti (Verona) «aiuto ai partigiani»; don Mauro Bonzi (Milano) «rifornisce armi ai partigiani»; don Costante Berselli (Mantova) «spionaggio, avviato contatti segreti con VIII Armata, membro del CLN»; don Angelo Dalmasso (Cuneo) «aiuto ai partigiani»; don Roberto Angeli (Livorno) «sospetto spionaggio»; don Andrea Campi (Genova) «attività antitedesca»; don Mario Crovetti (Modena) «aiuto ai partigiani»; don Giuseppe Elli (Bologna) «favorisce la fuga in Svizzera di prigionieri di guerra alleati»; don Francesco Foglia (Susa) «appartenente a organizzazione partigiana e attività antitedesca»; don Mario Grazioli (Reggio Emilia) «nasconde ebrei e li aiuta a fuggire»; don Paolo Liggeri (Milano)  «aiuto ai partigiani»; don Enzo Neviani (Reggio Emilia) «contatti con i partigiani»; don Guido Pedrotti (Bolzano) «aiuto ai partigiani»; don Luigi Pinamonti (Genova) «membro Azione Cattolica»; don Giovanni Tavasci (Como) «rifiuto del servizio militare»; don Camillo Valota (Sondrio), non indicato; don Agostino Vismara (Bergamo) «aiuto ai detenuti politici»; padre Gianantonio Agosti (cappuccino di Milano) «contatti con i partigiani»; don Enrico D’Agostini (Udine), «arrestato come ostaggio»; don Albino Fabbro (Udine), «aiuto ai detenuti ebrei e politici»; don Eugenio Marin (Udine) «attività illegale, aiuto e rifugio ai detenuti politici e partigiani feriti»; don Antonio Seghezzi (Bergamo), «aiuto agli ebrei nel lager di Bolzano»; padre Franz Breitenberger (cappuccino di Merano), «aiuto a prigionieri inglesi e americani»; don Mireslav Vekjet (Trieste) «favorisce la fuga a giovani di 24-25 anni versola Svizzera, aiuta prigionieri di guerra inglesi e americani».

 

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23/07/2021 17:08
 
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Il vescovo che gridò contro Hitler


La postulatrice della causa di canonizzazione traccia su L'Osservatore Romano un profilo di Clemens August von Galen, il "Leone di Münster" che con le tre prediche dell’estate del 1941 si dimostrò l’oppositore più ostinato del programma nazista

 


Il vescovo tedesco di Münster Clemens August von Galen


Il New York Times nel 1942, in piena guerra, pubblicava una serie di articoli su uomini di Chiesa che si opponevano a Hitler. L’8 giugno di quell’anno, il quotidiano statunitense apriva la rassegna dal titolo "Churchmen Who Defy Hitler" con un articolo sul vescovo tedesco di Münster Clemens August von Galen, definendolo così: «L’oppositore più ostinato del programma nazionalsocialista anticristiano».


Il primo biografo di von Galen, il sacerdote Heinrich Portmann, aveva fatto notare una coincidenza: «Galen ha governato come vescovo per un lasso di tempo uguale a quello di Adolf Hitler. Fu consacrato vescovo nove mesi dopo che Hitler era salito al potere ed è morto all’incirca nove mesi dopo la morte del Führer». Certo è che quando il 5 settembre del 1933 Pio XI nomina Clemens August successore alla cattedra di San Ludgero a Münster, gli elmetti d’acciaio con le croci uncinate del Terzo Reich presenti alla solenne cerimonia del suo insediamento non immaginavano ancora quanto filo da torcere questo presule della Westfalia di aristocratiche origini e radicati sentimenti patriottici avrebbe dato loro. Von Galen fu il primo vescovo eletto nel Terzo Reich. Il primo dopo il Reichskonkordat siglato con la Santa Sede il 20 luglio del 1933, e fu uno dei primi vescovi tedeschi non solo ad intuire e a smascherare con estrema lucidità e fermezza le menzogne della propaganda del regime e il pericolo dell’ideologia del nazismo, ma anche a denunciare con forza e pubblicamente i crimini e la barbarie nazista.


Nelle sue tre famose prediche dell’estate di ottant’anni fa denunciò pubblicamente anche il folle progetto nazista T4 per l’eliminazione delle «vite senza valore». «Non ci spinga né la lode né il timore degli uomini» aveva detto nel 1933 spiegando il motto episcopale da lui scelto: Nec laudibus nec timore. E già nel 1934, quando Alfred Rosenberg – il principale teorico del nazionalsocialismo nominato sostituto del Führer per la direzione spirituale e ideologica del partito – fa diffondere massicciamente il suo Mito del XX secolo, von Galen, nella sua prima lettera pastorale diocesana della Pasqua del 1934, condanna senza riserve la Weltanschauung neopagana del nazismo, evidenziando il carattere religioso di questa ideologia: «Una nuova nefasta dottrina totalitaria che pone la razza al di sopra della moralità, pone il sangue al di sopra della legge, ripudia la rivelazione, mira a distruggere le fondamenta del cristianesimo. È un inganno religioso. A volte accade che questo nuovo paganesimo si nasconda perfino sotto nomi cristiani».


Ma è con le prediche dell’estate del 1941 che il vescovo divenne famoso in tutto il mondo, guadagnandosi sul campo l’appellativo di Leone di Münster. La prima predica è del 12 luglio quando, venuto a sapere dell’occupazione delle case dei gesuiti nella Konigstrasse, il vescovo decise di intervenire pubblicamente e smascherare davanti a tutti le vili intenzioni della Gestapo. E dal pulpito della chiesa di San Lamberto la indica responsabile di tutte le violazioni della più elementare giustizia sociale: «Il comportamento della Gestapo danneggia gravemente larghissimi strati della popolazione tedesca. In nome del popolo germanico onesto, in nome della maestà della giustizia, nell’interesse della pace, io alzo la mia voce nella qualità di uomo tedesco, di cittadino, di ministro della religione cattolica, di vescovo cattolico, io grido: esigiamo giustizia!».
L’effetto di questa prima predica fu dirompente. E alla seconda predica del 20 luglio la chiesa era stracolma. La gente era venuta da lontano per ascoltarlo. Von Galen aprì ancora gli occhi sulla follia del progetto perseguito dal potere che avrebbe portato il Paese alla miseria e alla rovina, e tuonò ancora «contro l’iniqua, intollerabile azione che caccia come selvaggina i nostri religiosi e le nostre care sorelle... che perseguita uomini e donne innocenti».

Ma è la terza predica del 3 agosto, quella sul quinto comandamento, che, per la virulenza delle parole, fu giudicata dal ministero della Propaganda nazionalsocialista «l’attacco frontale più forte sferrato contro il nazismo in tutti gli anni della sua esistenza». Il vescovo era venuto a diretta conoscenza del piano di sterminio dei bambini e dei vecchi disabili e dei malati di mente nelle case di cura della Westfalia. Il piano era stato tenuto nascosto e solo chi ha sperimentato il tempo della dittatura nazista può misurare il significato di queste parole che un vescovo osò allora pronunciare: «Vengono adesso uccisi, barbaramente uccisi degli innocenti indifesi; anche persone di altra razza, di diversa provenienza vengono soppresse. Siamo di fronte a una follia omicida senza eguali... Con gente come questa, con questi assassini che calpestano orgogliosi le nostre vite, non posso più avere comunanza di popolo!». E applicava alle autorità del nazismo le parole dell’apostolo Paolo: «Il Dio dei quali è il ventre».

Le prediche ebbero una diffusione enorme, vennero persino lanciate nel cielo sopra Berlino dalla Royal Air Force inglese. Furente d’odio, Hitler giurò che avrebbe fatto «i conti con lui fino all’ultimo centesimo». Il capo delle organizzazioni giovanili delle SS scrisse: «Io lo chiamo il porco C. A., cioè Clemens August». Hitler sapeva però che eliminarlo avrebbe anche significato farne un martire e rinunciare a gran parte della popolazione; decise pertanto di rimandare i conti alla fine della guerra. Della modalità di azione condotta dal Leone di Münster era direttamente interessato anche PIO XII: «Le tre prediche del vescovo von Galen procurano anche a noi, sulla via del dolore che percorriamo insieme con i cattolici tedeschi, un conforto e una soddisfazione che da molto tempo non provavamo. Il vescovo ha scelto bene il momento per farsi avanti con tanto coraggio».

Con queste parole che suonano come attestato di gratitudine, di pieno riscontro e approvazione negli intenti e nelle proteste, Pio XII, scrivendo il 30 settembre 1941 al vescovo di Berlino, Konrad von Preysing, così commentava l’attacco frontale sferrato al regime di Hitler dal pulpito del duomo di Münster in quell’estate del 1941 e concludeva la lettera a manifestando tutto il suo sostegno: «Non occorre pertanto che assicuriamo espressamente te e i tuoi confratelli che vescovi i quali, come il vescovo von Galen, intervengono con un tale coraggio e con una tale irreprensibilità, troveranno sempre in noi appoggio».

Le lettere che Pio XII invia al vescovo di Münster dal 1940 al 1946 sottolineano più volte la convergenza di vedute e l’apprezzamento verso l’operato del presule tedesco. Del resto il segno di una mutua intesa è proprio la porpora cardinalizia che Papa Pacelli volle conferirgli il 21 febbraio 1946 come scelta ad personam.

Lo scambio epistolare che ho potuto ricostruire per la prima volta in forma integrale e tradotto in italiano nel 2006 per le edizioni San Paolo, viene quindi a sigillare un costante legame tra Papa Pacelli e colui che agli occhi del suo contemporanei era considerato un simbolo della resistenza al nazismo di quella Germania che non si era fatta uniformare. Galen è emerso in un tempo disumano come avvocato dei diritti divini e della dignità umana divenendo il riferimento per gli uomini di ogni confessione e razza nella lotta contro l’ingiustizia e l’oppressione. Il giorno della sua morte il presidente nazionale della comunità ebraica aveva immediatamente espresso il suo desiderio di recitare sulla sua tomba il Kaddish. Per tutti quelle lettere sono divenute «le pietre miliari di una nuova Germania». Galen è stato beatificato da Benedetto XVI in piazza San Pietro il 9 ottobre 2003. Attendiamo ora che un altro miracolo per sua intercessione lo porti agli onori della Chiesa universale.


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08/05/2022 10:54
 
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Hitler cattolico? La tattica nazista per scristianizzare la società



Il pensiero religioso di Hitler. Profondamente anticristiano, evitò di attaccare frontalmente le confessioni religiose per opportunismo politico ma avviò un piano per scristianizzare lentamente la società. Ecco cosa fecero i nazisti.


 Nonostante fosse stato battezzato, Adolf Hitler abbandonò presto la sua fede d’infanzia per manifestare una profonda ostilità verso la Chiesa.



Come riportato dal celebre storico Emilio Gentile, già nel 1908 il futuro dittatore tedesco manifestò la sua avversione per il cattolicesimo, come confermato anche dal suo più intimo amico August Kubizek.


Hitler sostenne infatti che le Chiese mondiali «sono estranee all’anima del popolo, anche le pratiche del culto della Chiesa sono estranee, il popolo non capisce neppure il linguaggio ecclesiastico, tutto colmo di mistica straniera»1.


Inoltre, fin dalla gioventù, Hitler si era prefissato l’obiettivo di combattere la Chiesa: «Liberare il popolo tedesco da questo giogo è uno dei compiti culturali del futuro»2.


 


 


Hitler e la religione: opportunismo politico di facciata.


 


Una volta che iniziò la sua carriera politica, tuttavia, il leader del nazismo non manifestò questi pensieri e, anzi, nelle sue dichiarazioni pubbliche, dichiarò più volte il suo rispetto nei confronti della religione cristiana.


Questi pronunciamenti non rispecchiavano, però, le opinioni private di Hitler ed erano solamente dettate da opportunismo politico.


Era un politico troppo astuto per non comprendere che non sarebbe stato politicamente saggio fare una guerra aperta alla religione, intuiva che non sarebbe riuscito a conquistare la maggioranza dei voti se avesse attaccato frontalmente le confessioni cristiane.


Anzi, se si può prestare fede ad alcuni suoi ex collaboratori che diverranno in seguito avversari del nazionalsocialismo, come Kurt Ludecke o Hermann Rauschining, il capo del partito nazista privatamente si era dichiarato profondamente ostile al cristianesimo, convinto che con il tempo sarebbe stato sostituito o trasformato radicalmente in Germania dal nazionalsocialismo3.


 


 


La campagna anticristiana di Hitler.


 


E’ accertato, del resto, che dopo la conquista del potere, i nazisti avviarono una campagna avente l’obiettivo di scristianizzare la società. Per raggiungere questo scopo, gli uomini del Terzo Reich adottarono diverse tattiche.


Per prima cosa vennero propagandate e promosse dottrine in aperto contrasto con quelle cristiane: grande diffusione ebbe Il mito del XX secolo di Alfred Rosenberg, la cui opera venne messa nell’indice dei libri proibiti dal Vaticano.


In secondo luogo, vennero intraprese misure per limitare il più possibile la presenza della Chiesa nella vita pubblica come la chiusura delle scuole confessionali o la confisca di monasteri e conventi; e nel contempo, si tentò di gettare discredito verso  gli uomini del clero orchestrando processi contro preti e monaci accusati di abusi sessuali o contrabbando di denaro.


La tattica nazista non prevedeva uno scontro diretto contro la Chiesa, il regime cercò infatti di presentare gli attacchi contro quest’ultima effettuati non per motivazioni religiose, ma a causa di attività politiche illegali o criminali.


 


 


Migliaia di preti internati dei campi di concentramento.


 


Nonostante questo, durante il Terzo Reich vi furono migliaia di preti e religiosi uccisi o deportati in campi di concentramento per essersi opposti in un modo o nell’altro al Nazismo, e tra questi vi furono anche casi di religiosi uccisi In odium fidei.


II beato Otto Neururer, deportato nel campo di Buchenwald, venne appeso a testa in giù, morendo dopo quasi due giorni, per aver battezzato un prigioniero; il beato Wladyslaw Demski venne ucciso a Sachsenhausen per aver rifiutato di ubbidire all’ordine delle guardie di profanare il rosario.


Per lo stesso motivo fu assassinato ad Auschwitz il beato Jósef Kowalski; mentre il beato Dominik Jerzejewski morirà a Dachau rifiutando la proposta di una sua liberazione a patto che abbandonasse il sacerdozio.


Don Paolo Liggeri, internato a Gusen, raccontò di un terribile episodio avvenuto durante il giorno del Venerdì Santo:




«Un prete di Linz fu chiamato alle tre del pomeriggio dal comandante del campo: “Sai tu che giorno è oggi?”. “Il Venerdi Santo”. “Che cosa è accaduto quel giorno?”. “Hanno crocifisso Gesù Cristo”. “Ed è morto?”. “Morto”. “A che ora?”. “Alle tre”. “Sono appunto le tre e tu raggiungerai il tuo Cristo”. Il comandante estrasse la rivoltella e colpì al cuore il sacerdote»4




Un altro prete, don Roberto Angeli, ricorderà che durante la sua prigionia a Mauthausen «era proibito qualsiasi atto di culto, qualsiasi manifestazione di preghiera. Farsi sorprendere a pregare o, peggio ancora, farsi riconoscere per preti, poteva equivalere ad essere mandati a morire nella cava»5.


 


Questi e altri episodi sono una prova eloquente dell’anticristianesimo dei nazisti.


Un fatto questo che le gerarchie vaticane avevano già ben compreso ancora prima dello scoppio del secondo conflitto mondiale.


Infatti nel ‘38, in occasione della visita di Hitler a Roma, il nunzio in Italia Borgongini Duca – a nome del papa – si lamentò con il Governo italiano per il fatto che «l’uomo al quale si preparano tanti festeggiamenti è oggi il più grande persecutore della Chiesa».


Fonte UCCR


[Modificato da Credente 08/05/2022 10:55]
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